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autore: Autore: Daniele Barbieri

04-Se ci sveglia Sturgeon

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Senza dubbio vi è qualche timido o inconscio dissociarsi dal modello Wasp contro Bem. Inezie di cui ben pochi s’accorgono. Poi lentamente alcuni introducono il dubbio: se sotto quella pelle verde o azzurra battesse un nobile cuore? O addirittura – dirà poi Thedore Sturgeon a proposito del suo Nascita del superuomo(5)- se gli stranieri, fossero migliori di noi, se la nuova super-razza non fosse venuta dalla galassia (o sorta fra noi) per dominarci, per minacciarci con super-armi ma piuttosto per offrirci una super-filosofia, per stupirci con la loro super-gentilezza, per raccontarci una super-solitudine, per insegnarci una maniera diversa d’amare? Desiderio e paura, possibilità e rischio; se lo scopo della fantascienza è (ancora Sturgeon) "svegliare il mondo sull’orlo del possibile" allora può darsi che alcune delle sue storie semplicemente c’insegnino a diversamente guardare anche l’esistente: la realtà contiene più di quanto si scorge a una prima occhiata. È spesso il cervello a essere socchiuso (o arrugginito) anche quando gli occhi sono bene aperti. Come nel celebre disegno di Hill dove di solito c’è chi scorge solo la fanciulla e chi unicamente l’anziana ma bisogna faticare per scoprire che vi sono entrambe, l’una mescolata nell’altra.
Che l’alieno o il mostro risultino tali solo perché guardati troppo in fretta e non capiti, che abbiano qualcosa da insegnarci, è il filo sotterraneo che scorre a esempio dentro le 3 storie che portano Sturgeon a scrivere il citato Nascita del superuomo. Un brevissimo accenno alla trama basterà a capire quanti luoghi comuni siano rovesciati, quanti sguardi diventino obliqui per poter scoprire altre possibilità. Contrariamente a tutta la fantascienza che immagina un super-uomo che da solo si fa dio, in Sturgeon la faticosa, sofferta nascita-evoluzione di "qualcosa più che umano", d’un Homo Gestalt, può avvenire solo grazie alla fusione di individui diversi, uno dei quali è considerato un "idiota".

È necessario compiere altri passi. All’inizio di questa presa di coscienza che rende la fantascienza matura (e finalmente inquietante in profondità) vengono riconosciuti come interlocutori solo alcuni cosiddetti Hilf (cioè Humanoid Intelligent Life Forms), talmente simili a noi da farci malignare che forse lo sforzo d’accettazione sia misurabile in millimetri. Poi, negli anni ’50 e dunque contemporaneamente a Sturgeon, arriva quel Sentinella con cui abbiamo aperto il nostro viaggio.

Lo choc di Sentinella è salutare. Nel relativamente ristretto mondo degli scrittori di fantascienza (e in quello più vasto di lettori e più avanti anche di lettrici) è come se fosse stato scoperto un micro-scopio. O un macro-scopio. La strada indicata da Brown viene dunque esplorata. Dalla fine degli anni ’50 in poi, un drappello – relativamente folto – di autori e successivamente di autrici affronta in modo straordinariamente sovversivo il tema dell’incontro con l’alienità, scoprendo ciò che gli altri scrittori avevano tenuto celato o che non potevano vedere nella loro cecità ideologica. Se in Italia (contrariamente ad esempio alla vicina Francia) questo serbatoio di sguardi e di inquietudini è poco conosciuto, osteggiato da critici e intellettuali, dipende da antichi e radicati, quanto ingiustificati, pregiudizi verso la sfi non meno che verso la scienza e comunque verso ogni forma di letteratura popolare (spiegarne le ragioni comporterebbe un lungo viaggio, con soste fra il lontano Gramsci e il recentissimo Luther Blissett, che ovviamente qui non può essere intrapreso).
La data dunque del cambiamento, lo sguardo copernicano sulla diversità è nel cuore degli anni ’50.

E considerato che parliamo di una letteratura a dominanza statunitense va notato che è un fenomeno in totale contro-tendenza rispetto alle diffuse paranoie da fine del mondo. Ci sono confini da spostare, dentro e fuori di noi; cominciano finalmente ad apparire ridicoli coloro che vorrebbero difenderli con le armi come quei pupazzi con laser della prima, ingenua fantascienza. Le angosce delle maggioranze sono reali o indotte, giustificate o fasulle? "Dimmi, se al mondo tutti fossero ciechi meno un
sol uomo, non ci sarebbe la tentazione a dire che la vista di quell’uomo è un’allucinazione?" per rubare la frase a Isaac Asimov. Non a caso l’ultimo citato è uno scienziato prima che un letterato. E non per caso molti scienziati useranno la sfi per dire l’indicibile (almeno negli Stati Uniti dell’ossessione imperiale, dell’egocentrismo totale) e insieme per raggiungere un pubblico più vasto. Come accadde a Leo Szilard, uno dei "padri pentiti" della bomba atomica che spiegò(6) "il quesito è: gli americani sono liberi di dire tutto quello che pensano, visto che non pensano quel che non sono liberi di dire?".
Prima di entrare nel vivo dello scontro-incontro tra sfi e ciò che definiamo handicap, è bene rispondere a una possibile obiezione: questo elogio della fantascienza significa sminuire le altre forme di narrazioni-confronti sulle diversità? Certamente no. Ma esistono almeno due eccellenti ragioni (anzi ad avviso di chi scrive, due clamorose evidenze) per credere che abbiamo anche bisogno di nuove utopie, d’un più ricco immaginario. La prima è che sul "controllo dei sogni" si gioca una partita
quasi epocale(7). La seconda è che "per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo"(8). Nel nostro caso se alcuni guai del diffuso razzismo verso chi abbia un handicap trovano una loro rappresentazione nell’immaginario collettivo, beh sarà il caso che anche su questo terreno ci attrezziamo. Per superare quella "sorta di mutilazione antropologica che uccide la possibilità di pensare a un mondo altro da questo"(9).

06-Tutti i nostri alieni nel cuscino

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

C’è uno scrittore di fantascienza, Orson Scott Card, che ha fatto dello "xenocidio", dello sterminio degli alieni, il cuore di alcuni straordinari romanzi a partire da Il gioco di Ender(16). Ed è ancora lui che, senza falsi pudori, ci trascina in quest’incubo, nell’ordinario delirio di chi sa che il suo handicap potrebbe essere un comodo capro espiatorio… e infatti lo diventa(17). "Non ci resta che buttarlo lì, che si rompa quel suo piccolo collo spastico". Così i cattivi ragazzi, i normali, che seviziano e
poi decidono di uccidere Carpenter, il loro insegnante, in apparenza "colpevole" di essere severo ma in realtà odiato perché su una sedia a rotelle. La vicenda è ambientata nel dopo-bomba, dunque in un classico scenario della sfi, ma in fondo potremmo essere in una qualunque Rimini (o fate voi) del mondo reale. Ciò che Orson Scott Card evidenzia tacitamente è proprio quanti collegamenti vi siano fra quelle desolazioni materiali post-guerra e queste nostre che sono "solo" morali. Per 20 spietate pagine, Carpenter cerca prima di comunicare con i ragazzi attraverso la tastiera d’un computer (unico modo per lui di parlare; o meglio l’unica maniera
comprensibile all’altrui arroganza), poi di difendersi sia dall’aggressione che dal suo corpo che s’attorciglia nel dolore, e infine semplicemente di sopravvivere. Sempre chiedendosi se anche lui sia colpevole (di cosa? perché?) verso quei suoi piccoli, crudeli, ordinari, banali nemici. Ce la farà a salvarsi. E la sua vendetta – o è il suo perdono? – sarà terribile. Non denuncerà gli aggressori. Così loro "si sarebbero ricordati per sempre che un giorno avevano lasciato che uno storpio morisse, non sapeva che significato avesse per loro, ma avrebbero ricordato". Se per i ragazzi vi sarà espiazione e/o redenzione non ci è dato sapere, perché questa parte del romanzo (solo uno dei fili di una più complessa trama del vivere appunto sull’"orlo" dell’abisso etico) termina nel modo più imprevedibile e aperto a varie interpretazioni. Non appena Carpenter intuisce che Pope, uno dei suoi studenti-aguzzini, vorrebbe parlargli lo aspetta… ma il ragazzo non ce la fa. Esce. Non sappiamo cosa c’è nella sua testa ma Scott Card ci dice che agli occhi di Carpenter sembra essere il vento a portarlo via, come fosse un aquilone. Non è vero – pensa poi – si tratta solo di una corrente forte che trascina tutti. La frase finale infatti suona così: "Tutti i corpi del mondo vengono afferrati dalla stessa corrente, dallo stesso vento, si gettano nello stesso fiume, nelle stesse strade. Per finire impigliati in qualche ostacolo, in qualche cimitero, sa Dio dove o perché". Forse questo immaginario Carpenter rovescia sugli altri il suo tormento di "capro espiatorio" o forse la sua non-vendetta è la suprema (e per tanti difficile da capire) forma di perdono. A ben guardare anche questa così anormale scelta evidenzia che la presunta superiorità dei normali poggia sulla sabbia.

Facciamo un piccolo salto indietro nel tempo, come conviene a chi si muove nella fantascienza. È difficile fino agli anni ’70 (se si esclude il già citato Sturgeon) che autori famosi affrontino l’handicap direttamente. Molto spesso però possiamo intravedere nei mutanti l’ombra lunga dei diversi perseguitati, degli alieni. Se "i negri verdi"(18) sono chiaramente la metafora del razzismo negli Usa, in altri fra coloro che vengono discriminati – telepati, longevi o semplicemente la bimba che nasce con 6 dita su un piede – quali altri roghi, oltraggi, apartheid possiamo decifrare? C’è un racconto(19) che mostra, quasi come in un catalogo degli incubi, le 100 facce di questa intolleranza. In The Wheels of God di Paul Darcy Boles si parte dal paradossale spunto di rendere tutti handicappati. Un giorno, senza un perché negli Stati Uniti ogni persona si sveglia senza piedi e con rotelle sotto le gambe. È comprensibile lo sconcerto generale ma poi tutto sembra andare per il meglio: non solo l’umanità si riorganizza ma i più magnificano questa splendida evoluzione. Quando però un tal Ronald Starr nasce con i piedi e dunque si accorge di come sia difficile campare da diverso. Un paradosso per certi versi simile viene proposto in epoca di "samizdat" dal cecoslovacco Egon Bondy (cfr box a p. 41) e da un allucinato, sconcertante, provocatorio romanzo di Bernard Wolfe (cfr box a p. 45).

Dal 1974 cecoslovacco-brezneviano facciamo un doppio salto: indietro nel tempo al 1955 e avanti nello spazio fino a un pianetino che ora non c’è ma che – la fantascienza può dirlo, al contrario delle favole – forse "ci sarà una volta". Non è, almeno in Italia, uno scrittore particolarmente famoso F. L Wallace tant’è che pubblicando Destinazione Centauro(20) sia la copertina che la nota introduttiva omettono di specificarci il nome di battesimo. Di lui, che non va confuso con un altro paio di Wallace attivi ai margini della sfi, a quanto pare pochissimo è stato tradotto(21). Eppure dobbiamo a quest’autore minore la visione forse più completa, certo inquietante, sulla possibilità/impossibilità di convivere fra normodotati e disabili.

07-Belli, senza eccezioni

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Ed ecco, in sintesi, la storia. Nostra madre Terra ha confinato sul pianetino artificiale Handicap Haven un migliaio di "accidentali" ovvero – secondo il crudo, cinico, offensivo linguaggio di Cameron, un medico – "umani patetici e rappezzati, uomini e donne per metà o un quarto, organismi frazionari camuffati da persone". Coloro che vi stanno confinati, spiega Wallace, "erano disposti a riconoscersi handicappati ma non chiamavano haven l’asteroide. Usavano altri termini, e nessuno di quei termini aveva a che fare con l’idea del rifugio". Il vero problema non sarebbe curarli o assicurare loro mobilità e lavoro, perché il contesto immaginato da Wallace gode di tecnologie (mediche e non) in grado di risolvere quasi ogni problema. Ma esiste una questione di fondo, che molti da entrambe (Handicap Haven e la Terra) le parti rimuovono. Ovvero il totale rifiuto dei "normali" cittadini di accettare quei corpi portatori di "bruttezza" all’interno d’una società ormai maniacalmente edonista e che non riconosce bellezza al di fuori dei suoi ristretti canoni. Su questa Terra del futuro infatti "quasi tutte le malattie erano state eliminate. Erano tutti sani… eccettuati coloro che avevano avuto incidenti e non potevano venire riplasmati con la chirurgia e la rigenerazione secondo i bei modelli caratteristici dell’intera popolazione. Quei pochi venivano mandati all’asteroide". Più volte Wallace torna a battere questo tasto: "Erano tutti belli. Senza eccezione. O almeno delle eccezioni non si parlava in pubblico. Naturalmente gli accidentali non avevano posto in
quella società. In altri tempi sarebbero finiti a lavorare nei circhi… se fossero riusciti a non finire in formalina"
.
Gli esclusi si organizzano: iniziano la ribellione, dirottando il loro pianeta-razzo. Cercano solidarietà sulla Terra, saltando il filtro del Medi-consiglio (una sorta di governo sui supremi affari, cioè salute e bellezza) e non la trovano. Decidono allora di lasciare tutto e partire, da soli, verso il fino ad allora irraggiungibile sistema di Alpha e Proxima Centauri. Vogliono dimostrare che proprio loro, che forse solo loro (forti d’intelligenza, sensibilità e delle "mutazioni" scoperte dentro/oltre
l’handicap) possono affrontare il lungo viaggio verso le stelle, l’antico sogno di tutta la razza umana. Sfuggono all’arrivo dei militari e nonostante le mille difficoltà tecniche e psicologiche arrivano a destinazione. Ed è strada facendo che conquistano molte libertà. "La vita sull’asteroide aveva subìto una trasformazione non troppo sottile, adesso che non c’erano più umani normali a offrire disastrosi termini di paragone. Potevano cominciare a comportarsi in modo sano e sensato" scrive Wallace.
I bei terrestri sarebbero disposti a ingoiare tutto pur di liberarsi degli "accidentali". Ma c’è qualcosa che gli arroganti "normali" non potranno tollerare: che il primo contatto con gli "et", gli alieni stellari, sia stabilito proprio dai "peggiori" rappresentanti della specie umana. Il colpo di scena finale apparirà oggi quasi ovvio al lettore ma all’epoca (il 1955 appunto) anch’esso era contro-corrente, come tutto l’impianto narrativo. Proprio perché quegli stranieri spaziali risultano veramente diversi, alieni – altro che hilf o umanoidi, si tratta di grandi farfalle pensanti – la cosa migliore per la Terra, chiusa nel suo delirio di forme, sarà che a rappresentarla siano proprio coloro che la condizione di alienità la conoscono bene, fin sulla loro pelle. Forse nel lettore (come nell’autore?) rimane un dubbio: questa delega agli affari "speciali" sarà per gli "accidentali" un vero successo o piuttosto l’ennesima, infame strumentalizzazione? Del resto interrogativi e ambivalenze simili accompagnano, da sempre, ogni tappa dello scontro fra dominanti ed esclusi, fra poteri e contro-poteri; sarebbe ben strano se non li trovassimo quando "le persone con bisogni speciali" fanno i conti con chi si crede involucro d’ogni bellezza e salute.
È interessante notare che questo messaggio (del 1955) chiarissimo viene abbastanza frainteso nella prefazione italiana (del 1981)(22). Non solo la nota introduttiva parla di una "conclusione ironica, quasi beffarda", ma più volte si torna sul concetto buonista di "tolleranza"; dobbiamo accettare questi mostri – è il senso – per "coronare le nostre ambizioni, essere in pace con noi stessi". Il che conferma quanto meno l’ambiguità, la sciatteria, l’ipocrisia, gli strumenti culturali inadeguati di molti
editori o sedicenti intellettuali nostrani ma soprattutto la diffusa paura (inconscia?) di accettare un messaggio positivo, un insegnamento non sui "diversi" ma da loro.

L’idea che ammalarsi possa diventare un crimine (sociale o addirittura a norma di legge) non è nuova. Più o meno consapevolmente, Wallace riprende una lontana intuizione di Samuel Butler (il suo Erewhon è addirittura del 1872). Come faranno Clifford Simak(23) e altri. Per ciò che più specificamente riguarda il nostro percorso, in questo "sotto-filone" (della doppia ossessione verso la bellezza e contro ogni diversità) vale la pena di accennare a Follia per 7 clan(24) perché in qualche modo ci consente di ragionare anche sull’handicap psichico. Un romanzo dove c’è forse un solo Norm ("normale" appunto) all’interno di una guerra fra 7 diversi sistemi sociali che, come s’intuisce dai nomi, sono in realtà gruppi dominati da diverse malattie mentali: Para, Mani, Schizo, Eb, Poli, Dep e Os-Com. Su
queste sigle s’impone qualche spiegazione. La città dei Mani è nientemeno che Leonardo Da Vinci; così da evidenziare qual sia il loro problema. I para abitano ad Adolf-ville. Chi soffre di ebefrenia alloggia a Gandhi-town (un collegamento crudele e diffamatorio?). I "poli" ovvero gli affetti da schizofrenia polimorfica soggiornano ad Hamlet-Hamlet. Un po’ meno espliciti i riferimenti storici-urbanistici dei Dep (depressi), degli Schizo (cioè mistici e catatonici) e degli Os-Com (ossessivi compulsivi). Per la cronaca l’unico normale andrà a sistemarsi a "Thomas Jefferson-burg". E c’è chi teorizza che "i diversi tipi e sotto-tipi di malattie mentali dovrebbero essere divisi in classi, qualcosa come nell’antica India. Queste persone, gli ebefrenici, dovrebbero essere equivalenti agli intoccabili. I maniaci dovrebbero formare la classe guerriera (…) I paranoici, o meglio i paranoici-schizofrenici, dovrebbero costituire la classe di governo (…) mentre i semplici schizofrenici dovrebbero corrispondere alla classe dei poeti (…) Quelli affetti da schizofrenia polimorfica semplice dovrebbero essere i membri creativi di questa società, quelli che forniscono le nuove idee di base". Ma siamo capitati all’interno di un gigantesco paravento o di un mondo reale? La insanità mentale è di massa o malato è il sistema con cui i terrestri affrontano ogni handicap psichico? Domande che tornano con insistenza in molte altre opere dello stesso autore, Philip Dick: il più visionario forse all’interno di un genere dove tutti devono esserlo almeno un po’. Negli anni ’60, Dick pubblicò anche uno splendido quanto difficile romanzo(25) dove il protagonista è un ragazzo autistico: qui la percezione della realtà, i pensieri dei personaggi, lo stesso linguaggio sembrano in preda
all’autismo. "È uno spaccarsi dei due mondi, quello interno e quello esterno, cosicché nessuno dei due registra l’altro". A suo modo, nella sua particolarissima visione mistica del mondo, Dick mette in discussione le fondamenta del pensiero "normale" con la stessa forza di Wallace nel minare la presunzione di bellezza. "Chi può dire se gli schizofrenici non sono nel giusto? Essi intraprendono un viaggio coraggioso. Rifiutano le mere cose, che uno può maneggiare e volgere a uso pratico; guardano dentro al significato". Provocatorio fino all’estremo, Dick. Ma è per fare – anche lui – un viaggio importante. Di Philip Dick riparleremo più avanti ma ora siamo pronti a fare un altro salto nel tempo, cioè al 1978.

Si possono riscrivere i "classici"? Come no, accade di continuo. Talora è plagio, altre volte un creativo riciclaggio o un ampliamento. Oppure un rovesciamento di prospettiva, come nel caso dell’allora trentenne John Varley che riprende il celebre Il paese dei ciechi dove H. G. Wells aveva immaginato (tanto per cambiare!) un fosco finale dal quale si evidenziava la perfidia di chi non ha la vista. Il romanzo breve (un genere da noi poco apprezzato) di Varley s’intitola La persistenza della visione(26) ed è scritto in prima persona.

08-Vedere oltre gli occhi

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Siamo nell’epoca della "quarta non-depressione": il protagonista-Varley nei suoi vagabondaggi incontra un muro nel deserto. Lì sorge Keller, la città utopica fondata da un gruppo di sordo-ciechi, da quella fetta di "geni, artisti, sognatori, agitatori… magnifici pazzi", presenti fra le 5mila persone prive di vista e di udito che erano nate 30 anni prima, tutte nel giro di pochi mesi, per le conseguenze di alcune epidemie. Incuriosito, l’uomo decide di entrare. Incontra una ragazza, Pink e si affanna a parlarle in Braille per scoprire poi che lei non è sorda e cieca. "Qui lo sono solo i genitori, io sono una dei figli". Sarà proprio Pink a condurre il protagonista in quella città aliena, a raccontarne la storia. "Non era mai esistita una comunità auto-sufficiente di ciechi-sordi (…) Partivano da una lavagna vergine, senza modelli da seguire".
Gli abitanti di Keller girano e lavorano nudi. Parlano il linguaggio – anzi, i linguaggi – del corpo. E hanno sviluppato idee nuove in quasi ogni campo del sapere. Sempre più affascinato, l’uomo decide di restare per capire, per collaborare. Ci sono ovviamente regole da seguire; per esempio, lasciare qualcosa che blocchi il passaggio è vietato perché può danneggiare chi non vede. Il tempo passa e il protagonista si sente "in comunione" con queste persone da lui così diverse. Ma un giorno dimentica un innaffiatoio sul sentiero e una donna si ferisce. Errore grave, perché "il loro sistema poteva funzionare solo sulla fiducia". Così si riunisce "una specie di commissione, chiamiamola una giuria (…) Tutti avevano l’aria molto triste nel dover decidere di punirlo". Il processo si svolge perlopiù nel
linguaggio delle mani, salvo qualche frase detta da Pink. È riconosciuto colpevole e alla fine gli viene formalmente chiesto se accetta la condanna (che la giuria deciderà poi) o se preferisce lasciare la città. Sceglie di essere punito, secondo regole che ancora non conosce. E allora, con grande solennità, la donna ferita… lo sculaccia. "Più tardi ci pensai sopra parecchio. Sculacciare gli adulti è una cosa inaudita, sapete, anche se non mi venne in mente che dopo molto tempo (…) Avevano una punizione più severa, riservata alle colpe ripetute o intenzionali. Non dovevano usarla spesso. Consisteva nell’emarginarti. Nessuno ti toccava per un dato periodo di tempo". Un estremo ostracismo.
Varley descrive questa immaginaria città con grandissima partecipazione, ma senza abbandonarsi all’illusione che tutto sia facile-felice anche per quelli che l’hanno fondata o che vi sono nati. Però, "ciò che avevano creato s’avvicinava, per quanto era possibile in questo mondo imperfetto, a un modo sano e razionale di esistere senza guerre e con la politica ridotta al minimo (…) Non la sto proponendo come soluzione ai problemi del mondo. È possibile che possa funzionare solo per un gruppo con un interesse comune vincolante e raro come la sordità e la cecità. Non mi viene in mente nessun altro gruppo con necessità tanto inter-dipendenti". Il protagonista lì è felice; "l’unico visitatore in 7 anni che si fosse fermato più di qualche giorno". Eppure sente forte la spinta di andarsene ogni volta che sorge un problema di incomunicabilità (o di affettività-gelosia verso Pink). Non si sente come loro; sa di non esserlo fino in fondo. E anche se "quelli erano i migliori amici mai avuti", un giorno decide che deve andarsene. Passano 6 anni e là fuori tutto va bene per lui. In apparenza. Ma un giorno d’improvviso sente che deve-vuole tornare a Keller. "Mi trovai a correre nel deserto del Nevada, sudando, aggrappato al volante. Piangevo, ma in silenzio, come avevo imparato a fare a Keller. Si può tornare indietro?". Forse no e infatti trova quasi tutto cambiato e ha paura di aver perso la sua occasione, "il suo incantesimo". Pink però lo ha aspettato e dice che gli farà un dono. E con poche frasi anche Varley sa donare ai lettori uno straordinario finale. "Alzò le mani e mi toccò leggermente gli orecchi con le dita fredde. Il suono del vento cessò e quando le sue mani si staccarono non tornò più. Mi toccò gli occhi, escluse la luce, e non vidi più. Ora viviamo nell’incanto del silenzio e della tenebra".

09-Un cyborg per nemico, un cyborg per amico

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicap

Su una qualsiasi spiaggia in un qualunque agosto. Con la coda dell’occhio vedo (e con la coda dell’orecchio sento) giocare lo sconosciuto vicino d’ombrellone. È un ragazzo, anzi un giovane uomo, che ha corso e saltato sino a pochi minuti fa e ora dice agli amici: "Vado a fare un bagno". Con comprensibile sorpresa – e perché non dirlo? con un pur passeggero attacco di panico – lo vedo svitarsi una gamba prima di immergersi in acqua.

Le parole scritte qui sopra non aprono la via a un viaggio nell’immaginario ma sono uno dei punti di partenza (nel mondo reale o almeno in ciò che la maggior parte di noi considera tale) che hanno portato chi scrive a conoscere Budrio. L’altro punto di partenza è un amico, Ignazio e questa qui accanto è la sua armatura. Non è un guerriero o forse sì. La battaglia di Ignazio è contro gli esiti della poliomielite, il suo castello da conquistare è tutta la mobilità possibile.

Fra tanti santi, madonne, fachiri fasulli, Vigorso di Budrio è uno dei luoghi (pochi, ignoti, non raccontati dai mass-media) che più somiglia a una fabbrica di miracoli(27). E se quest’affermazione vi pare uno spot, peggio per voi che non sapete più distinguere le informazioni utili da marchette e sponsor occulti.

Accade a Vigorso di Budrio e in altri luoghi che si fabbrichino cyborg, o ciò che la fantascienza (e non solo ormai) chiama cyborg.

Tanti i cyborg, pur se non sempre li vediamo. È in continua crescita intorno a noi il numero di coloro che si avvalgono di corpi bio-meccanici, che si muovono (o vivono) grazie a supporti artificiali, che usano protesi e ortesi pressoché perfette in sostituzione degli arti mancanti. Aspettando che un più giusto sistema sociale metta queste meraviglie della tecnologia a disposizione di tutti coloro che ne necessitano (anziché di pochi e comunque solo nel ricco Occidente, come ora accade) possiamo riprendere da qui, da ciò che chiameremo cyborg, il nostro discorso sull’immaginario e sull’handicap. Infatti questi corpi supportati da alte tecnologie, da
conoscenze e materiali sino a poco tempo fa indisponibili (anche leghe ultra-leggere, testate nella ricerca spaziale) sono considerati da qualcuno creature inquietanti, alieni forse. È solo questione di novità e poi ci si abituerà, come accadde secoli fa per gli occhiali? Ma le lenti sono un prolungamento tecnologico della vista, di una funzione del corpo che è abbastanza banale (fu così anche all’inizio?); siamo tutti concordi nel dire altrettanto d’un cuore artificiale oppure di uno xeno-trapianto che
consenta a un essere umano di vivere con le vene di un maiale? Per chi sa di fantascienza, le prossime generazioni potrebbero essere quelle dei "metalli urlanti" e degli "umanoidi associati"(28). Può darsi che non a tutti piaccia.
Di cosa stiamo parlando? Cos’è già o può essere un cyborg?
La parola entra nell’uso comune da (di solito pessimi) telefilm e film (un paio dei quali interpretati dal pessimo Schwarzenegger) più che attraverso la scrittura sfi o le riviste mediche. Il termine nasce dal mix delle prime tre lettere di "cybernetic" con quelle di "organism": dunque designa un organismo cibernetico, o – per estensione – qualsiasi ibrido fra esseri viventi (uomo o animale) e macchina. Se volete, una macedonia di parti naturali e artificiali(29). Ed è in questo senso appunto che forse tanti di noi hanno già qualche cyborg per amico. Infatti c’è relativamente molta gente in giro con protesi e ortesi, con lo sterno tenuto insieme da punti metallici, con sostituti artificiali dell’articolazione coxo-femorale… o ancor più banalmente con un pacemaker, con ponti dentari fissi che rientrano a pieno titolo in questa categoria.
È curioso che l’immaginario collettivo (che non vuol dire però quello di ogni singolo) oggi "accetti" facilmente chi dispone di congegni metallici al posto o in aiuto del cuore, mentre per secoli un diffuso ostracismo sociale ha accompagnato chi usava la più povera delle "protesi", la stampella; oppure che ancora 60 anni fa si ritenesse che ci fossero tipi di sangue umani e altri bestiali(30); oppure che 100 anni fa venisse celebrato come grande scienziato (e sicuro progressista) chi pensava di individuare il delinquente dalla forma del cranio e la prostituta dalla presenza di un dito "prensile"(31), oppure – purtroppo è così – che i razzismi biologici, lo spettro dell’eugenetica continuino ad annidarsi anche oggi in culture e Paesi fieri di definirsi democratici. Ma le contraddizioni dell’immaginario lastricano quasi ogni strada che percorriamo.
A essere corretti, la definizione cyborg non nasce nell’ambito della sfi ma, nel 1960, a opera di due medici statunitensi, che riprendono alcune intuizioni di Norbert Wiener, "papà" della cibernetica. Ma quando ancora non usava questo nome la letteratura fantastica ne aveva già raccontato, con quasi infinite sfaccettature. Il cyborg potrebbe essere di tre generi: medico, funzionale, adattato. Per ora solo quello del primo tipo esiste nella realtà. Il tipo "funzionale" è, sulla carta, un essere umano modificato in modo da essere adatto a lavori-funzioni particolari o anche "per pensare più velocemente"(32). Il cyborg "adattato" è invece, in teoria, un essere umano interamente modificato (ri-fabbricato) per consentirgli di vivere in ambienti non-terrestri oppure -e siamo pericolosamente vicini alla cronaca – nel suo super-inquinato pianeta natio: questo.

Come osservano due studiosi statunitensi(33) "i cyborg hanno sempre la funzione di porre, in termini narrativi, il problema dell’essenza umana e di ciò che la costituisce".

10-La carne e i circuiti

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Ne derivano queste assai impegnative domande: c’è e, se sì, qual è questa essenza? Chi e come stabilisce il limite oltre cui un cyborg non è più un essere umano? Ovvero, per estremizzare il discorso: è possibile o presto lo diverrà sostituire/modificare mani, gambe, denti, fegato, cuore, occhi, parte dello scheletro, le vene, grandi quantità di pelle… cosa rimane? Qual è il limite estremo? La sfi ha già immaginato (almeno dall’inizio del ‘900) un cervello umano che "vive" all’interno d’una scatola metallica-tecnologica oppure che viene trapiantato in un corpo interamente nuovo, che potrebbe anche non essere organico. Par di capire, a noi profani, che ingegneria genetica e robotica – insieme oppure ognuna per conto suo – non siano vicine a rendere ciò fattibile a breve ma ben pochi fra gli scienziati escludono che alla lunga ci si arriverà. Quel giorno proveremo paura o ammirazione? Ne segue un altro interrogativo, dopo aver preso atto che già abbiamo visto coniugare tecnologie e barbarie; ci sarà, quel giorno, chi (in nome di un’ideologia o d’una religione?) si metterà a misurare – con la bilancia d’un allegorico macellaio – la quantità di carne e di circuiti nei nostri corpi per poi rilasciare – o meno – una patente di "umanità"?
Quanti circuiti ci vogliono per "fulminare" l’anima o l’essenza umana? O, se preferite riformulare le domande avanzate sopra in termini seri e in una frase secca: cosa fa di noi esseri umani? Dato che qui il nostro argomento-principe è la fantascienza, seguiremo il ragionamento-racconto di un suo "guru", Isaac Asimov, nel bellissimo L’uomo bi-centenario da cui è stato tratto un mediocre film(34).

Andrew Martin si appresta a un’operazione chirurgica "indubbiamente pericolosa". Esita il medico-robot che lo deve operare: oltretutto, nei suoi circuiti è stata inserita una "legge" che gli impedisce di arrecare danno a un essere umano(35). "Ma io sono un robot" gli dice Martin. Dopo questo veloce colpo di scena, Asimov ci racconta – in un lunghissimo flasback – la vicenda di questo insolito robot sotto i ferri. Preso per fare il maggiordomo e giocare con la bambina della famiglia Martin, per caso Andrew rivela insolite doti artistiche. "Un difetto di fabbricazione" spiegano i costruttori (della Us Robot) quando viene loro sottoposto il caso. Gli oggetti scolpiti da Andrew piacciono, vengono venduti e il suo "padrone" gli apre un conto in banca: servirà per le "riparazioni". Dopo molti anni, Andrew si presenta al suo "padrone" con i 600mila dollari guadagnati vendendo le sue opere d’arte e gli chiede di accettarli "in cambio di qualcosa che solo voi potete darmi… la mia libertà". Si apre una complessa questione giuridica e simbolica, anche perché fra gli umani è forte l’ostilità verso i robot ("ci rubano il lavoro" è una frase che forse avete sentito anche in altri contesti). In tribunale, il giudice chiede ad Andrew che differenza farebbe per lui essere libero, se già ora il suo "padrone" gli lascia totale autonomia. "Forse niente, vostro onore, ma farei tutto con maggiore gioia. In quest’aula ho sentito dire che solo un umano può essere libero. A me pare invece che chiunque lo desideri dovrebbe poter essere libero". E fu questo – spiega Asimov – a convincere il giudice che nella sentenza scrive: "Non abbiamo il diritto di negare la libertà a un "oggetto" dotato di una mentalità così progredita da comprendere il concetto e desiderarne la condizione". Forse oggi, nel nostro mondo cosiddetto reale, parleremmo del diritto universale di cittadinanza.
Esiste però ancora una palese contraddizione fra quella definizione ("oggetto") e la condizione di libertà. La vicenda si snoda attraverso molti interessanti sentieri, narrativi e filosofici. Ma l’essenza – e quel che più appunto c’interessa – è che Andrew riesce a far sostituire il suo corpo di metallo con quello di un androide sperimentale, ovvero "di apparenza umana anche nella composizione della pelle". Passano molti anni e intanto Andrew studia da robo-biologo e disegna "un sistema che consenta agli androidi (cioè a me) di trarre energia dai carbo-idrati invece che da una batteria atomica… in parole povere di mangiare per alimentarsi. Se lo fa impiantare e l’esperimento riesce. È sempre più umano ma continua a escogitare "congegni capaci di trattare cibo indigesto e di espellerlo" e perfino organi genitali. La domanda che gli viene posta è sempre la stessa: perché desidera "peggiorare" il suo corpo così efficiente? Immutabile la risposta: voglio diventare un essere umano. E infine Andrew chiede di essere riconosciuto come tale. Questa nuova battaglia giuridica è molto più difficile della precedente… Il lungo flashback è concluso. Andrew è sul tavolo del chirurgo e gli ordina di eseguire l’intervento. L’ operazione riesce e rende mortali le sue cellule cerebrali, l’unica parte del corpo che non può essere sostituita. Ora Andrew è umano. "Quella sua ultima azione accese la fantasia dell’opinione pubblica. Tutto quello che aveva fatto prima non aveva commosso nessuno ma quando decise di morire, pur di essere dichiarato umano, il suo sacrificio fu troppo sublime per essere ignorato".
Sorvolando sulla (pericolosa? ambigua?) parola "sacrificio", notiamo che qui Asimov ha inventato una cyborg-izzazione al contrario: una creatura artificiale (e potenzialmente immortale) che sostituisce man mano i suoi circuiti pressoché indistruttibili con "carne" destinata a marcire. "Possiamo avere due classi di cyborg completi: un cervello robotico in un corpo umano oppure un cervello umano in corpo robotico" si commentò Asimov in un articolo. Secondo lui, un cyborg del primo tipo verrà accettato dalla maggior parte della gente come umano, mentre il secondo sarà classificato dai più come robot. Perché questo paradosso? "Dopotutto noi siamo, per la maggior parte della gente, quello che sembriamo" suggerisce lo scrittore-scienziato. Poi vista la non piacevole caratteristica (o è una generalizzata abitudine?) della razza umana di temere e perseguitare i diversi, Asimov conclude: "Guardiamo in faccia la realtà. I cyborg avranno i loro guai in ogni caso"(36).
Con questo "vedo nero" di Asimov (insolito in lui, che fu piuttosto ottimista per abito mentale) concordano molti scrittori di sfi. Vediamone un paio illustri. Il lungo racconto Fra tutte le donne nate di Catherine Moore(37) è un antenato del genere cyborg visto che fu pubblicato nel 1944; ci trascina nel dilemma di Deirdre, danzatrice "distrutta" in un incendio e pazientemente ricostruita: "Così questa sono io – disse -. Metallo, ma io. E lo divento sempre più a mano a mano che ci vivo dentro." E poi commenterà: "Una specie di mutazione, a metà strada fra il metallo e la carne (…) Immagino di essere super-umana", ma c’è un limite: "Il mio cervello si consumerà, entro una quarantina d’anni, non mi piace pensarci". Non del tutto assonante è uno dei padri della moderna sfi, Frederik Pohl(38) che scrive: "Non è facile per un essere di carne e sangue rassegnarsi all’idea che una parte del suo corpo sta per essere sostituita da acciaio, rame, argento, plastiche, alluminio e vetro". Più tranquillo Varley prima citato: in Millennium, un bellissimo romanzo(39) che mostra persino l’ambizione di "ricapitolare" la storia della fantascienza, si dice convinto che il futuro sia del cyborg: "Si trapianterà o s’innesterà tutto: arti e organi, gambe, reni, occhi". Al cinema si sono viste più brutture e angosce (soprattutto in senso filmico, ahi-noi) che altro; c’è però anche un tenero cyborg (Johnny Deep) in Edward, mani di forbice di Tim Burton.

Paranoie filosofico-religiose a parte, il vero rischio potrebbe essere che in una società orrendamente classista – come l’attuale – solo i ricchi possano dotarsi di un "magazzino dei corpi", utilizzando non solo le tecniche d’avanguardia ma persino (costerebbero assai meno) gli organi dei poveri fatti appositamente a pezzi. C’è chi nega che ciò sia già accaduto e parla di "leggende metropolitane" ma, pur con le consuete cautele verso chi vede orrori ovunque, esistono dati certi che ciò sia accaduto: fra l’altro le inchieste di alcuni giornalisti su quei villaggi in India dove chiunque può incontrare centinaia di persone che vivono con un solo rene… perché
l’altro è "volato" per pochi soldi in Germania o negli Usa. In questo caso di tratta di uno scenario – forse di massa – che non si colloca nel futuro lontano ma sul confine tra il presente e un domani molto prossimo.

11-Corpi, sogni, incubi, think tank

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicapUntitled Document11. Corpi, sogni, incubi, think tank

Accanto all’incubo – già qui – dei ricchi che "cannibalizzano" i corpi dei poveri c’è ovviamente il sogno realizzato di un Stephen Hawkins che riscrive l’astro-fisica e la stessa storia del tempo dalla sua sedia a rotelle e che può parlare muovendo gli occhi(40). Come sempre il presente-futuro cela un gran numero di possibilità e di angosce; la migliore sfi prova a costruire intorno a quest’ambivalenza laboratori onirici (think tank, serbatoi di pensiero, dicono negli Usa) e persino a essere progettuale, partendo dall’idea che in un mondo senza utopie non valga la pena di vivere. È noto che i miraggi non sono raggiungibili ma la storia insegna che le carovane e i commerci si sono messi in movimento proprio per inseguirli…
I corpi inquietanti, mutati, cyborgizzati sono tutto ciò: insieme miraggio, carovana, commercio (nel senso buono e cattivo del termine). Chirurgia e bio-genetica, persino il tecno-piercing delle mode annunciano che sarà ridisegnato il rapporto corpo-mente. Perfino gli antichissimi e ambigui sogni di super-umani o di separare l’intelletto (lo spirito?) dalla carne putrescente sembrano ora avvicinarsi. Il problema vero resta – come sempre – la definizione di umanità. Gli esclusi e gli ammessi, i sommersi e i
salvati.
Ecco come Philip Dick pose la questione, nel suo stile provocatorio quanto profetico, in una celebre conferenza-saggio(41). "Il più grande cambiamento al quale assistiamo nel nostro mondo è probabilmente la quantità di moto dal vivente verso la reificazione e allo stesso tempo dal meccanico nell’animazione (…) Un giorno forse vedremo un uomo sparare a un androide (cioè a un robot con perfette fattezze umane) appena uscito dalla fabbrica. L’androide, con grande sorpresa dell’uomo, prenderà a sanguinare. Ma l’androide sparerà di rimando e, con sua grande sorpresa, vedrà una voluta di fumo levarsi dalla pompa elettrica che si trova al posto del cuore dell’uomo. Sarà un grande momento di verità per entrambi". Per dirla con l’ironia di un grande poeta-cantautore: "Tu non sapevi di avere una coscienza al fosforo, piantata fra l’aorta e l’intenzione"(42).
Non c’è conclusione possibile. Definire il confine fra umano e non… può significare solo spostare sempre più avanti (o altrove?) lo scontro fra desideri/possibilità e paure/limiti. Un grande passo avanti è nello sconfiggere ogni definizione di umanità e di valore basata sull’estetica, sull’aspetto, sull’esteriorità ma anche sulle pretese di una indefinibile "normalità". Dove molti impauriti (o spaventati ad arte) scorgono qualcosa di orribile non c’è alcun pericolo ma forse c’è il muro di piombo che nasconde la paura di fare i conti con la parte buia del nostro cuore. E dove i bravi, belli, obbedienti cittadini accettano che il mondo sia diviso in umani e non… ecco i veri "mostri", capaci di uccidere il diverso (vero o presunto che sia) perché gli è stato ordinato da una "autorità" o perché tutti lo fanno: questa è la lezione del secolo che si è appena chiuso e non va riferita al solo nazismo. Un messaggio che la migliore fantascienza ci ha proiettato nel futuro ma che ovviamente torna anche nelle pieghe di altre forme del nostro immaginario. Bisogna qui almeno ricordare il fumetto Dylan Dog, in particolare nelle storie scritte da Tiziano Sclavi, più che in quelle dei suoi banali (e spesso inutilmente splatter) co-autori(43).

Affidiamo la conclusione al tante volte citato Dick (che pure fu un autore pieno di contraddizioni). Perché ha più volte ironizzato sul fatto che "Se dovessi mai incontrare un essere intelligente extra-terrestre, un alieno, mi accorgerei di avere più cose da dire a lui che al mio vicino di casa". Perché ha scritto che "La misura dell’uomo non è la sua intelligenza (…) La misura dell’uomo è questa: con quale rapidità sa reagire ai bisogni di un’altra persona? E quanto può dare di sé?"(44). Perché infine ha chiarito, meglio di chiunque altro, il dilemma scrivendo un breve racconto che, non per caso, si intitola Umano è, così con l’arroganza – ma anche la grande dolcezza come vedremo – di non avere un punto interrogativo, di pretendere che sia possibile trovare una risposta(45).
Quando il marito, Lester Herrick, violento e odioso, torna da una lunga missione spaziale, Jill lo "scopre" dolce e capace di sentimenti veri. Ma arrivano i servizi segreti per dire alla donna che "lì dentro" c’è qualcun altro: un alieno che, per sopravvivere (ma ciò lo sapremo solo alla fine) si è impadronito di quel corpo (morente, ma anche questo lo si conoscerà poi). I servizi segreti chiedono a Jill di aiutarli a cacciare l’invasore. Lei rifiuta e "tradisce la sua razza"; perché quell’alieno è infinitamente migliore dell’arrogante maschio terrestre che sino a poco prima aveva posseduto quel corpo. E così finisce il racconto, con questo dialogo fra i due.
" – Stavo pensando – dice la donna all’essere non terrestre – che forse continuerò a chiamarti Lester. Se non ti dispiace"
E lui risponde.
" – Non mi dispiace". E l’abbracciò. – Tutto quello che vuoi. Purchè possa farti felice".
Ecco come Dick si commentava: "Per me questo racconto simboleggia ciò che è, in conclusione, un essere umano. Non ho cambiato granché il mio punto di vista da quando lo scrissi, negli anni ’50. Non si tratta di avere un certo aspetto, di provenire da un certo pianeta ma di vedere fino a che punto si è gentili. La gentilezza, per me, ci differenzia dai sassi, dai pezzi di legno, dal metallo; e così sarà sempre, qualunque forma assumiamo, dovunque andiamo, qualunque cosa diventiamo. Umano è è il mio credo e mi auguro che possa essere anche il vostro".
Essere gentili dunque dà il senso all’essere umani. Ma anche (come fa Jill) tradire la propria razza, se essa non lo è. Sì tradire. Perché le appartenenze, le patrie, "l’interesse comune" sono concetti vaghi, non trovano tutti d’accordo. Perché spesso "il nemico marcia alla tua testa" come ci disse in una poesia Bertolt Brecht. Perché per qualche nazi-ariano è già "traditore" chi considera umano un handicappato, un nero oppure chi sorride a un curdo, a uno zingaro. Eppure neanche i nazi-ariani sono mostri. O perlomeno… non più "mostruosi" di quelli che ognuno porta con sé, in qualche parte buia del suo cuore, di ciò che avremmo potuto diventare in differenti circostanze. Sono mostri che crescono e si ingigantiscono ogni volta che uccidiamo qualche alieno – le tante diversità – che albergano intorno a noi, dentro di noi e oltre a noi.
Questo è anche il vero significato di yin e yang, ci ricorda – ancora lui – Sturgeon(46)."Oscurità e terra, luce e cielo. (…) Nascita e morte. (…) Insieme formano il cerchio completo, l’universo, il cosmo, tutto. (…) Non c’è nulla sotto il cielo che possa essere interamente l’uno o l’altro". Così non c’è diversità o normalità che, sotto questi nostri infiniti cieli – dei quali anche il nostro sterminato "spazio interno" è parte -, possa essere interamente l’una o l’altra. Non ci sono confini certi per la nostra umanità salvo quelli che possono porci l’arroganza, l’ignoranza, la paura.

Note

Umano è. Come la fantascienza racconta l’universo-handicapUntitled Document(1) Il racconto si trova in numerose antologie, in particolare in Le meraviglie del possibile (Einaudi) di autori vari e in Fredric Brown Cosmolinea B-1 (biblioteca Urania-Mondadori, varie edizioni).
(2) La sigla "sfi" riprende il termine inglese "science fiction" mentre "fs" rimanda alla parola italiana "fantascienza" (sulle differenti visioni che questi vocaboli comportano non è il caso d’entrare in questa sede).
(3) Una millenaria filosofia dell’estetica che ci indica il bello come buono, passando per le teorie supposte scientifiche di Cesare Lombroso, arriva a noi continuando a consegnarci nella produzione seriale i cattivi come brutti. Se nei telefilm in arrivo dagli Usa la politically correct impedisce di connotarli ulteriormente (come neri o handicappati, a esempio) i cartoni giapponesi mostrano, talvolta con disarmante ingenuità, che il balbuziente, il grasso, la ragazza con i capelli punk celano pericoli. È la
stessa logica che spinge un cartone di successo a reinventare come bionda una Sissi d’Austria che invece aveva i capelli neri. Per un primo approccio alle evoluzioni, eccezioni, contraddizioni di questa impostazione rimando a numerosi articoli usciti su Rassegna stampa Handicap e sulla rivista Hp (in particolare il numero 69 del settembre ’90 con i contributi di Annalisa Brunelli, Andrea Canevaro e Claudio Imprudente) e a Letteratura infantile e handicap, a cura di Annalisa Brunelli e Giovanna Di Pasquale (quaderni del Centro Documentazione Handicap di Bologna) e alle indicazioni lì contenute.
(4) Ovviamente la faccenda è un po’ più complicata di come qui sono costretto a riassumerla; esistono anche le appassionate (e talora ambigue) utopie a cavallo fra ‘800 e ‘900 di Bellamy, London e Twain tanto per citarne tre. Per un appassionato elogio della fantascienza rimando al saggio di Valerio Evangelisti "Una narrativa adeguata ai tempi" che ora è in Alla periferia di Alphaville (edizioni L’Ancora del Mediterraneo).
(5) Così fu pubblicato in Italia il suo romanzo del 1953, ma è interessante notare che il titolo originale suonava invece un meno banale Più che umano. Lo si trova in varie edizioni Urania, Nord e poi nell’antologia I massimi della fantascienza. Thedore Sturgeon (Mondadori) con altri 3 suoi romanzi.
(6) In un racconto che venne tradotto in Italia negli anni ’60 da Feltrinelli nell’antologia La voce dei delfini.
(7) Rimando chi fosse interessato a questo discorso a questi testi: La guerra dei sogni di Marc Augè (Elèuthera); "Colonizzare l’immaginario" di Valerio Evangelisti (ora nella sua antologia citata in precedenza); gli scritti di Eduardo Galeano, in particolare alcuni di quelli raccolti in A testa in giù, la scuola del mondo alla rovescia (Sperling & Kupfer); McMarx, critica della socialità come prodotto industriale di Oscar Marchisio (manifesto-libri); e un po’ immodestamente al mio dossier "Sesto potere" uscito sulla rivista Cem-mondialità nel giugno 2000.
(8) Rubo la frase al romanzo, ovviamente di fantascienza, Sul filo del tempo di Margot Piercy (Elèuthera) come spesso hanno fatto sognatori di vario genere dal subcomandante zapatista Marcos al centro sociale Leoncavallo.
(9) Da Il confine inviolabile: nonviolenza e bisogno d’identità di autori vari (La meridiana).
(10) Che è qui nell’insolita veste di saggista anziché in quella consueta di scrittrice (di sfi e di favole); la citazione è ripresa da un saggio contenuto nel suo volume Il linguaggio della notte, Editori riuniti).
(11) È tanta o poca la buona sfi? Secondo una celebre (fra gli appassionati) "legge" del già citato Sturgeon: "Il 90 per cento della fantascienza è spazzatura ma del resto il 90% di ogni cosa esistente è spazzatura".
(12) Anche sulla traccia di un mio precedente saggio uscito sul numero 53 della citata rivista Hp nel luglio del ’95. Ovviamente anche taluni dei molti romanzi fantascientifici che hanno per protagonisti "i mutanti" potrebbero essere indicati come parafrasi di alcuni handicap ma non c’è qui lo spazio sufficiente per approfondire questo copioso "sotto-genere" letterario che dunque sarà esaminato più avanti solo di sfuggita. Ci sarebbe anche da ragionare (ma confesso la mia scarsa competenza al riguardo) su un intero filone della fantascienza statunitense dedicato alle mutazioni dove spiccano personaggi in sedia a rotelle… ma con super-poteri.
(13) "Blue Champagne" si trova nell’antologia Bolle d’infinito, pubblicata sul numero 1102 di Urania.
(14) Jack Haldeman II, I giorni delle chimere su Urania numero 1022.
(15) Una rete fra le stelle su Urania 1101.
(16) Tradotto dall’Editrice Nord.
(17) Orson Scott Card, Il popolo dell’orlo in Urania 1192.
(18) Così s’intitolò un celebre racconto di Leigh Brackett, una delle poche che riuscì a pubblicare, fin dagli anni ’40, con il suo nome nell’allora misogino ambiente della fantascienza; molte altre donne erano costrette a firmarsi con pseudonimi maschili.
(19) Inedito in italiano.
(20) È uscito presso Libra Editrice nel 1981 nella buona traduzione di Roberta Rambelli.
(21) Credo che i 3 racconti pubblicati dall’editrice Gamma come Paria del cosmo nel 1972 facciano parte del ciclo di Centauro; non avendoli trovati in alcuna biblioteca mi rimane il dubbio se possa trattarsi dello stesso libro con altro titolo (come purtroppo ogni tanto accade, generando confusione nei lettori). Quanto al nome di battesimo, da altre pubblicazioni si deduce essere Floyd.
(22) A firma "u.m." dunque Ugo Malaguti, non nuovo a travisare questo tipo di messaggi; lo stesso gli accade con il romanzo Cristalli sognanti (del già citato Sturgeon), altro romanzo che ha molti punti di contatto con i temi qui affrontati.
(23) In La legge delle stelle del 1963 ma tradotto in Italia (Galaxis editore) solo nel 1986.
(24) Più volte ristampato (da Fanucci nel ’91 e su Urania nel ’98).
(25) È Noi marziani, uscito in varie edizioni Nord e ancora Fanucci.
(26) Si trova nell’antologia I mutanti, Editrice nord.
(27) Il centro protesi dell’Inail è in via Rabuina 14 a Vigorso di Budrio, provincia di Bologna.
(28) Definizioni che rimandano al disegnatore noto come Moebius e a una famosa rivista di fumetti perlopiù fantascientifici.
(29) Sugli antenati letterari e scientifici, su varianti e sotto-filoni, si può leggere, fra gli altri, Il cyborg, saggio sull’uomo artificiale di Antonio Caronia (Theoria).
(30) "Chi conosce Charles Drew? Eppure questo scienziato salvò milioni di vite (…) le sue ricerche resero possibile la conservazione e la trasfusione del plasma. Drew era direttore della Croce rossa degli Usa. Nel 1942 la Croce rossa proibì la trasfusione del sangue di negri. Allora Drew si dimise. Drew era negro" ricorda Eduardo Galeano in La conquista che non scoprì l’America (il manifesto libri).
(31) Si sta parlando di Cesare Lombroso e dei suoi molti seguaci. Chi volesse affrontare questo tema con un lettura insieme rigorosa e affascinante cerchi Intelligenza e pregiudizio: le pretese scientifiche del razzismo di Stephen Jay Gould (Editori riuniti e poi Il saggiatore).
(32) Non è solo la fantascienza a parlarne. Fin dal 1983 lo teorizzò come un concreto progetto (attraverso l’innesto di un bio-chip nel cervello) il ricercatore David Richtie; confronta il suo Il doppio cervello (Edizioni di comunità).
(33) Scholes-Rabkin, Fantascienza: storie, scienza, visione (Pratiche editrice).
(34) È un lungo racconto del 1976 (appunto il 200° anniversario della rivoluzione americana); lo si trova in varie antologie Urania-Mondadori. Il film omonimo invece fu diretto nel ’99 da Chris Columbus e, come nota il critico Morando Morandini, "l’insuccesso espressivo ha coinciso con quello di mercato: la sua imbarazzante pedagogia non ha convinto i bambini e non è piaciuta agli adulti".
(35) Le 3 leggi della robotica, inventate da Asimov (che, in tutti i suoi scritti, immagina siano rese obbligatorie) recitano: "I. Un robot non può recare danno a un essere umano né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno. II. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. III. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa auto-difesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge".
(36) Si può trovare questa citazione nella prefazione a un romanzo (di non grande qualità, a dire il vero) intitolato appunto Cyborg, 3° della mini-serie "Robot City" pubblicata da Interno giallo editrice.
(37) È anche nella sua antologia La stagione della vendemmia, ristampata nei Classici Urania.
(38) Frederik Pohl nel suo romanzo Uomo più (Nord).
(39) Anch’esso presso l’editrice Nord.
(40) Nel caso di Hawkins ciò avviene attraverso un complesso sistema di "guarda e scrivi" (Eyegaze response Interface Computer Aid, in sigla Erica) cioè con una video-camera che illumina il volto, grazie a infrarossi scopre quale lettera egli fissa sullo schermo e la scrive.
(41) Il testo (del 1976) è "Uomo, androide e macchina"; si trova in varie antologie dickiane fra cui Mutazioni (Feltrinelli) a cura di Lawrence Sutin.
(42) Fabrizio De Andrè nella canzone "Sogno numero due" contenuta nel disco Storia di un impiegato del 1973.
(43) Esemplare la storia intitolata "Johnny Freak" (pubblicata nel 1993 e più volte ristampata).
(44) Nel romanzo intitolato I nostri amici di Frolix 8 (Fanucci).
(45) Tutti i racconti di Philip Dick sono ristampati (in vari volumi) negli Oscar Mondadori sotto il titolo Le presenze invisibili. Per onestà bisogna ricordare che Dick, personaggio appunto pieno di contraddizioni, ha scritto anche un romanzo (Cronache dal dopobomba, Einaudi) dove il protagonista è un disabile che potremmo definire "cattivo".
(46) Nel racconto "…E la mia paura è grande" che si trova nella già citata antologia I mutanti.

“Fratelli invalidi”

Untitled DocumentTra le mille etichette fallaci (eppur radicate) c’è anche quella che vorrebbe la fantascienza una letteratura solo statunitense. Per quel che qui ci riguarda, ecco una smentita che c’arriva da Praga. E vale la pena (senza entrare in polemica più di tanto) ricordare che dagli stessi luoghi ci era giunto uno dei testi fondanti la moderna sfi, ovvero il Rur scritto nel 1920 da Karel Capek; da quel titolo-sigla (Rossum’s Universal Robot, ovvero i lavoratori universali creati da Rossum) fra l’altro tuttora
deriviamo la stessa parola di robot nel senso d’un uomo artificiale, automa.
Sempre a voler prendere sul serio le etichette, il libro di Egon Bondy (pseudonimo di Zbynek Fiser) potrebbe essere collocato in un territorio di mezzo tra sfi e surrealismo, fra distopia (un’utopia al negativo o in nero) e satira. Due parole sull’autore ci aiutano a capire meglio anche il senso del romanzo che andiamo poi a riassumere. Nato nel 1930, Fiser-Bondy si iscrive giovanissimo al Partito comunista (in epoca di persecuzioni) e ne esce nel ’48, quando cioè esso prende il potere. Un tipino contro-corrente, tant’è che assume lo pseudonimo ebraico di Egon Bondy quando comincia (o meglio: riprende) la persecuzione degli ebrei. Da feroce oppositore del socialismo-formicaio di dipendenza sovietica, non ha vita facile: vive di lavori occasionali e pubblica in clandestinità fino al 1989. Crollato quel tipo di "governo sedicente comunista", Fiser-Bondy diventa dirigente d’un nuovo partito di comunisti libertari. Una vita fuori dai ranghi.
Il suo Fratelli invalidi è scritto fra il 1974 e il ’77 e da allora circola in Cecoslovacchia solo di mano in mano: infatti è tirato al ciclostile, come ogni samizdat (da un termine russo che significa "pubblicazione in proprio") dell’epoca. Sarà pubblicato liberamente nel ’91 e viene tradotto in italiano da Elèuthera due anni dopo. Scrivendo nel pieno dell’oppressione, Bondy immagina che, dopo 5/600 anni di stalin-brezneviano socialismo reale trionfante, la residua umanità sia divisa fra invalidi e "minorati". I primi sono vecchi, pensionati, handicappati ovvero metafora di ogni ribelle, refrattario, non-collaborante e non-produttivo; i secondi sono burocrati, poliziotti e militari che (pur se ben poco è rimasto da reprimere) godono della possibilità di perseguitare gli altri. Solo gli "invalidi" sopravviveranno alla catastrofe finale. Non aspettatevi però da Bondy un "happy end": quel misero spicchio di mondo che si salva appare a sua volta "invalido" o, se preferite, sconvolto mentalmente. Anche dopo il crollo d’un sistema che fa della normalità il suo credo… l’avvenire è assai più melmoso che radioso: un pessimismo mitigato solo da uno scoppiettante humor. Effettivamente le risate sono continue quanto apocalittiche (delresto c’è persino un concreto diluvio di merda) e le metafore della ribellione come opera dei "minorati" del tutto originali. Il punto che in Fratelli invalidi collega l’idea di un handicap a valori positivi, a una possibilità di liberazione, è qui il non essere produttivo e dunque non prender parte alla grande distruzione (del mondo e delle individualità).
La scrittura di Fiser-Bondy è straordinaria. In questo romanzo già dopo 10 righe incontriamo "il cadavere del mondo". Ma in mezzo a tanti paradossi è proprio la scelta degli "invalidi" come soggetto centrale la più fondata, la meno provocatoria. Perché si può scoprire un gran valore nell’essere "irripetibili in un mondo in cui tutto esiste in milioni di copie uniformi"; e dunque – scrive Goffredo Fofi nella sua post-fazione – "il mondo sarà degli Invalidi o non sarà".

Limbo

Untitled DocumentFra gli appassionati italiani di fantascienza era diventato una specie di leggenda. Dal 1952 si sentiva parlare di Limbo come d’un libro-choc, eppure gli editori di casa nostra non lo traducevano. Concordi i critici: se alcuni si sono spinti a parlare di un capolavoro nel genere della "favola nera", del paradosso socio-filosofico, comunque tutti riconoscono trattarsi d’un romanzo importante per contenuti e stile, dentro ma anche oltre i confini del genere. Incuriosisce anche la figura dell’autore, lo statunitense Bernard Wolfe (1915-1985) che alterna le più varie esperienze di scrittura (giornalista, romanziere, sceneggiatore, storico del jazz) a un percorso di vita insolito che lo porta a laurearsi in psicologia per poi fare la guardia del corpo a Lev Trotsky o il marinaio.
Nel ’96 finalmente Editrice Nord pubblica le oltre 400 pagine di Limbo, affidandosi a un ottimo traduttore (anch’egli scrittore di fantascienza), Vittorio Curtoni. In effetti, nonostante siano passati 44 anni, il romanzo è un colpo allo stomaco. Gli si possono riconoscere meriti e difetti d’ogni genere ma è indubbio che scuota. Scritto benissimo ma con troppe parole rispetto ai fatti, a esempio. Ferocemente anti-militarista (e si sa che "diffamare" la guerra è un dovere morale) parla però di Gandhi con una sorprendente superficialità, persino ignoranza forse. E ancora: se Wolfe è geniale nel mescolare piani alti e bassi della cultura (Dostojevskj e Rimbaud ma anche l’antropologa Benedict o lo scienziato Wiener, per citare i debiti più espliciti) più che irritante risulta il suo anti-femminismo dove il ripetuto elogio allo stupro sembra più convinto che ironico.
Si potrebbe continuare con critiche e lodi ma, per quel che qui c’interessa, Wolfe è l’unico romanziere che ha provato a raccontarci un mondo in cui l’handicap fisico sia imposto, persino orgogliosamente rivendicato. Nella seconda parte di Limbo infatti siamo piombati in un Nord-America del dopo-guerra nucleare, dunque semi-devastato. I superstiti hanno scelto di ribellarsi alle guerre per sempre, praticando un’auto-mutilazione di braccia e gambe che vengono sostituite con protesi
computerizzate. Davvero questa ideologia e prassi dell’amputazione, definita "Immob", impedirà ogni forma di violenza? La narrazione scorre su altri piani, intrecciandosi a esempio con il tentativo di eliminare ogni impulso aggressivo ma anche – qui l’umorismo nero di Wolfe raggiunge le sue vette – con la minaccia di nuove guerre… "in nome del pacifismo".
Al di là della fondamentale miscela di masochismo e senso di colpa che sottostà a questa auto-mutilazione di massa, Wolfe dipinge (sia pure con una certa fatica) alcuni squarci – che risultano interessanti all’interno del discorso sin qui fatto e tenendo conto dell’humor nero con cui l’autore condisce la narrazione – su una società in cui tutti siano consapevolmente handicappati e sul modo di costruirla. Vediamo a esempio alcuni stralci di questo dialogo (pag 209 e seguenti) che ci introduce all’ideologia "Immob":

"FACCIADAPUPO: Ehi, è proprio un’idea. Forse si può inventare un nuovo modo di combattere la guerra nel quale non esistano più vittime o rulli compressori. Nel quale tutte le vittime si offrano volontarie per la mutilazione.(…) Ma come convinceresti la gente a offrirsi volontaria? Che tipo di tattica useresti? (ndr: il maiuscolo e il corsivo sono così nel testo; si tenga anche presente che "limb" in inglese significa arti).
IO: facilissimo (…) Bisognerebbe suggerire che i volontari non farebbero del male a se stessi ma anzi farebbero del bene a sé e al mondo intero. Sarebbe semplicissimo riuscirci con qualche slogan ben trovato. Non so, slogan che dicano che non esiste smobilitazione senza immobilizzazione, che pacifismo significa passività, o le braccia o la vita. (…) Quanti uomini sono rimasti mutilati nella seconda guerra mondiale? Trentamila solo da noi? (…) Otterresti gli stessi risultati che oggi si hanno dalla guerra,
solo che tutti sarebbero contenti e si sentirebbero sublimi padroni del proprio fato. In questo modo un termine deprimente come tarpato non sarebbe pensabile. Non quando il soggetto è un amputato volontario. Un amp-vol (…) Sigle secche come queste fanno sempre un grosso effetto. Amp-vol. Immob. Limbo. Potremmo chiamare questo nuovo mondo Limbo.
FACCIADAPUPO: Si potrebbe creare uno slogan per dire che il disarmo è impossibile finché restano braccia umane in circolazione (…). Si libereranno tutte le energie ottimistiche dell’uomo. Anche i peggiori masochisti, quelli che si piangono più addosso, cambieranno pelle. Invece di ricevere un po’ di botte tutti i giorni, si godranno il festival delle botte in un colpo solo. Dopo di che potranno rallegrarsi, tirarsi su il morale (…). Ci sarà una nuova razza di uomini, uomini pienamente umani. Sarà di grande ispirazione vederla nascere (…)".
Per meglio capire l’humor nero di Wolfe, bisogna sapere che l’ispirazione all’Immob di massa nasce da un quaderno di appunti, smarrito e preso per un testo profetico, in cui il neuro-chirurgo Martine esponeva alcuni suoi paradossali pensieri senza immaginare che potessero essere presi sul serio… O che il romanzo si apre su questa citazione di Matteo: "Se la tua mano e il tuo piede ti sono di scandalo, tagliali e gettali via da te: è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo che avere due mani o due piedi ed essere scaraventato nel fuoco eterno". Dove si conferma che anche una frase inequivocabile, come è questa di Gesù, si può piegare alle più folli interpretazioni; in questo caso da una società che è schiava di un pensiero "macchinista" e dunque disprezza il corpo al quale decide di attribuire le colpe dell’ultima, devastante guerra. Il sempre provocatorio Wolfe a metà del libro così spiega come "il ramo di tradizione giudeo-cristiana basato sul porgere l’altra guancia è strettamente intrecciato a un altro ramo per cui un occhio è un pagamento accettabile per un occhio".
Capire in quale dei personaggi contraddittori e tutti paradossali di Limbo si identifichi Wolfe è difficile (e in fondo poco importante). È significativo che qua e là, in molte occasioni, tornino frasi sul corpo come orrore e ridicolo di cui bisogna liberarsi contrapposte a quelle in cui si riconosce piena umanità solo a corpi fallibili, imperfetti, ben lontani da angeli o robot. O che nella nota finale l’autore sottolinei: "non occorre scavare negli archivi militari per scoprire che l’uomo è senza dubbio l’animale che più si mutila da sé". Se fosse – questo Wolfe non lo dice esplicitamente – anche in questo "continuo interminabile martoriare il corpo", tipico della nostra specie, la paura che poi assale molti di fronti a corpi non in regola con gli standard della maggioranza? "A ogni creatura sono dovute molte vite", suggeriscono i versi di Rimbaud citati da Wolfe. Ci occorrono "i coltelli della conoscenza, non quelli dei macellai" per scavare abbastanza a fondo nella comune umanità che è sotto le diverse
apparenze.
Limbo non è un libro centrato sull’handicap, piuttosto sull’angosciosa domanda di come ci si possa salvare dalla violenza (con il ridere, insinua a un certo punto Wolfe). Forse l’aggressività umana è ineliminabile: nessuna tecnica, fede o ideologia può cacciare "i demoni" dalla nostra testa, occorre conviverci e imparare a controllarli volta a volta… così essere fisicamente mutilati – o diversi – non è salvezza e neanche dannazione, ma una delle possibili condizioni umane dove si ritrovano le enormi possibilità e il grandissimo dolore con cui tutti siamo in qualche modo chiamati a confrontarci.

Qualcosa che vale

Untitled DocumentAaa – attenzione
Se conoscete: ministri della sanità, dirigenti Usl, assessori alla sanità e simili inviate loro questo racconto ma senza le ultime righe… poi chiedete
loro che avrebbero fatto.

"Il guaio con i visitatori importanti, pensava Gregory guardandosi attorno nel reparto insolitamente in ordine e dando poi un’occhiata all’orologio, è che arrivano immancabilmente in ritardo; anzi, la mancanza di puntualità è direttamente proporzionale al loro grado di importanza. (…)
Dal corridoio, arrivò un rumore di passi affrettati, sicuramente umani, ed entrò la dottoressa Pearson. Senza nemmeno riprender fiato, la pediatra disse: – È qui, caposala, nell’ufficio del Segretario generale. lo stanno presentando ai capi-dipartimento, gli offrono il caffè
– Il caffè? – disse Gregory.
La dottoressa sorrise: – Mi rendo perfettamente conto che il caffè dell’ospedale è imbevibile, sia per gli esseri umani che per gli extra-terrestri. È stato un puro gesto di cortesia (…) Comunque sono corsa a dirvi che verrà sicuramente in questo reparto. Volevano escludere dalla visita certi reparti particolarmente sconvolgenti, ma ha insistito per vedere il vostro. Sarà qui fra una ventina di minuti. E ora devo tornare con gli altri.
– Un momento, – disse Gregory – che aspetto ha?
– Non saprei descriverlo con esattezza. Non è brutto, specialmente se vi piacciono i cavalli, e ha un sacco di mani e di braccia, mi pare 6, in compenso è privo di gambe. Parla perfettamente, ma a volte fa delle domande strane. – la dottoressa sorrise a Gregory. – Comunque lo vedrete fra poco.
Prima che Gregory potesse aprir bocca, da un lettino in fondo alla corsia si levò un trapestio furioso. Michael, uno dei casi di colonna vertebrale bifida, scoppiò a piangere e Mary, nel lettino accanto al suo, cominciò a emettere una successione di ululati striduli. Nel giro di pochi secondi l’intero reparto fu in subbuglio e i primi giocattoli cominciarono a piovere sul pavimento tirato a lucido.
Le cose, pensava Gregory contrariato, stanno rapidamente tornando alla normalità. (…)
Gregory percorse lentamente la corsia, raccattando un giocattolo o riassettando un lenzuolo, e intanto rispondeva ai sorrisi, ai borbottii indistinti o agli sguardi attoniti dei piccoli pazienti, sussurrando parole di incoraggiamento, cercando di creare un’atmosfera calma e distesa. (…)
Jenny pareva che non dovesse mai più smettere di strillare. Oltre ai difetti congeniti che non le avrebbero consentito di raggiungere la pubertà, Jenny era cieca e afflitta da guasti cerebrali. (…)
L’ospite, pensò Gregory dando un’occhiata all’orologio, è in arrivo e con 10 minuti d’anticipo. (…) L’extra-terrestre apparve a un tratto (…) La testa equina, completamente priva di orecchie, aveva in cima un sottile triangolo di pelo azzurro chiaro che partiva dai grandi occhi e si allargava a coprire la parte superiore del cranio, scendendo sul collo. La bocca dalle grosse labbra era una fessura verticale che non lasciava intravedere i denti. Tra gli occhi e la bocca si allineava una serie di orifizi e di protuberanze carnose, probabili sedi degli organi dell’udito e dell’olfatto, mentre il collo massiccio, di forma triangolare, si allargava verso il corpo tozzo a forma di cono. La creatura aveva tre paia di mani sottili, a quattro dita, sistemate sui due lati del corpo in file verticali, a tre a tre, ma le dita scomparivano tra l pieghe di un gran mantello nero e scintillante che pareva fatto con un frammento di cielo notturno. Le gambe dell’ospite erano nascoste dal mantello, lungo quasi fino a terra, però vedendolo muoversi si aveva l’impressione che la parte inferiore del corpo fosse serpenti-forme e fornita di uno o più cuscinetti.
– Gregory, il nostro infermiere capo – disse il professor Cunnigham (…)
– Se posso fare una proposta professore – disse il visitatore – temo che se mi accompagnano in troppi si scatenino in questi pazienti delle turbe emotive, per cui chiederei, se non avete niente in contrario, di avere con me soltanto la dottoressa e il capo infermiere Gregory. (…)
– In questo reparto sono ospitati i bambini afflitti da difetti congeniti – cominciò la Pearson con un certo impaccio. – Disponiamo di attrezzature molto avanzate e, ma forse la cosa non v’interessa, cioè, voglio dire che le nuove cure e le attrezzature neuro-chirurgiche sono d’avanguardia nel…
Il discorso si fermò a metà e la Pearson arrossì violentemente, mentre l’ospite volgeva lo sguardo su di lei. Sapendo di venir meno al protocollo medico, parlando quando non era il suo turno, Gregory decise di toglierla dall’imbarazzo.
– Questo è Thomas – disse, indicando il visetto sottile, dai grandi occhi spalancati, che li fissava dal lettino. – Non ha ancora due anni, ed è uno spastico, operato una decina di giorni fa. (…)
– Lo stato fisico è stato curato? – chiese l’ospite. (…)
La Pearson si schiarì la voce: – Beh, no, perché Thomas soffre di una quadriplegia spastica congenita, che provoca l’atrofia degli arti. (…)
– Se non vi spiace – disse l’ospite – vorrei vedere quel paziente laggiù, quello con il cranio anormalmente grosso.
Sceglie proprio i casi più difficili, pensò Gregory.
– Questo è Richard – disse la Pearson, senza esitare. – È affetto da idroencefalite congenita risalente al periodo fetale. È causata da un accumulo di liquido cerebro-spinale all’interno del cranio. Non si conoscono cure ed è possibile soltanto alleviarne le sofferenze. (…)
– Ecco Mary – disse la Pearson, piano. – Un caso di colonna vertebrale bifida. Ha tre anni. Sarà sottoposta a intervento, e la prognosi è..
– Grazie dottore – interruppe l’ospite, allontanandosi da lettino. Mary stava dormendo – un altro difetto congenito? – chiese piano.
– Sì signore – disse la Pearson sulla difensiva. – In casi come questi c’è ben poco da fare. (…)
John in fondo alla corsia si era alzato in piedi e scuoteva furiosamente le sbarre. L’ospite si diresse verso di lui.
– Sta buono John – disse la Pearson, avvicinandosi al paziente – Una sindrome di Down – disse, rivolgendosi al visitatore – Più comunemente nota come mongolismo. Si tratta di un difetto congenito dovuto a un disordine cromosomico che determina uno sviluppo anormale dei processi mentali. (…)
– Perché lo si è lasciato arrivare a questo punto? – la interruppe il visitatore.
La Pearson staccò con dolcezza la mano di John dalla tasca del camice, prima che riuscisse strapparla. – Non siamo in grado di curare questo stato, né in periodo pre né post natale. Ora che abbiamo ricevuto la visita di numerose razze extra-terrestri, tutte molto più avanzate di noi, speriamo di avere il loro appoggio per risolvere questo e altri problemi.
– Mi avete frainteso dottoressa – disse l’ospite – vi stavo chiedendo perché lasciate che i bambini come questi vengano al mondo.
La Pearson (…) disse – Non è una risposta facile. Noi possiamo avvertire i genitori e anche consigliarli ma sono loro che decidono il concepimento. E
quando questo succede, anche accidentalmente, sono ancora i genitori a stabilire se il feto, che noi sappiamo senza possibilità di dubbio essere anormale, debba vedere la luce. Si tratta di un problema complesso, che coinvolge l’etica e i diritti dei genitori alla nascita del figlio, e dopo lunghe discussioni non siamo ancora arrivati a una conclusione soddisfacente per tutti. Ma vogliate scusarmi, ci sono altri reparti da visitare (…)
– Caposala – disse l’extra-terrestre – Avete qualcosa da dire?
– Ecco io… – cominciò Gregory e, dopo essersi schiarito, la gola ri-attaccò: – È un problema impossibile da risolvere e non ci resta che curare i bambini come meglio sappiamo. La dottoressa Pearson ha proposto di ricorrere al vostro aiuto per curare casi come questi, in modo da evitare il conflitto etico che… È in grado la vostra gente di darci una mano?
Gregory non riusciva a interpretare l’espressione dell’altro (…)
– Non appartengo al popolo più evoluto della Galassia abitata – disse con voce quieta – (…) Noi siamo i Durreneglen e abbiamo soprattutto il compito di visitare, sorvegliare, dirigere e amministrare i popoli. (…) Con giusto orgoglio affermiamo di essere i secondi della Galassia, perché la prima popolazione ci è superiore nella stessa misura in cui noi siamo superiori agli altri abitanti stellari (…) C’è ben poco che noi non saremmo in grado di fare per voi o per un altro popolo, se fosse necessario farlo.
– Ma allora voi potete aiutare questi bambini – disse la Pearson.
– Probabilmente no – disse il visitatore con calma. Perché il problema è squisitamente vostro e sta a voi risolverlo. (…) Condivido i vostri sentimenti ma ripeto che questi bambini non sarebbero mai dovuti venire al mondo.
– Ma sono venuti al mondo – sbottò Gregory – Noi abbiamo il dovere di fare tutto il possibile per loro, compreso chiedere il vostro aiuto. John è…
– Basta caposala – lo interruppe la Pearson (…).
– Scusatemi se intervengo ancora – disse Gregory, più calmo – (…) John è un bambino affettuoso, bisogna dargli la possibilità di vivere pienamente la
sua vita.
– E di mettere al mondo – disse l’ospite – altri come lui, con le sue stesse menomazioni mentali. (…)
– Buttare un bambino come John nella spazzatura – scattò Gregory – non lo farei neanche se fosse un cane. (…)
– Vi sono nella Galassia popoli – disse l’ospite – che sembrano incapaci di realizzarsi pienamente e, sotto certi aspetti, mi ricordano i vostri
pazienti (…) Sto dicendo che bisogna tendere alla perfezione con sforzi costanti, tenaci, a volte dolorosi. La perfezione non ci viene offerta su
un piatto d’argento. (…)
– E in questa ricerca della perfezione – Gregory si sforzava di rimanere calmo – c’è posto per i sentimenti come la simpatia, la pietà…?
– Soltanto – rispose subito l’ospite – se questi sentimenti sono diretti in modo appropriato e usati in modo costruttivo. (…)
– Un momento, prego – disse Gregory con rabbia. Si chinò sul lettino di Jenny, sollevò quel corpicino incredibilmente leggero con le sue grosse mani e se lo appoggiò nell’ansa del gomito, tirando giù l’abitino per cercare di nascondere le gambe devastate. Poi le scostò dal viso i riccioli in disordine. La sollevò adagio con entrambe le braccia e la tese fino a pochi centimetri dalla faccia dell’ospite.
L’extra-terrestre si tirò indietro, ma solo di qualche centimetro.
– Questa paziente – disse Gregory col tono più professionale e distaccato possibile, – non ci vede e soffre di anormalità congenita che la porteranno a morte prima della pubertà. Queste menomazioni dunque non saranno trasmesse ad altri. Una specie tanto progredita come la vostra non ha qualcosa che riesca almeno ad allievare le loro condizioni? (…)
Jenny tese una mano e sfiorò la testa del visitatore. Subito la ritrasse, poi tornò a protenderla. L’extra-terrestre rimase immobile e non distolse lo sguardo dalla bambina.
– Mi spiace caposala – disse il visitatore – La mia razza non è in grado di curare questa bambina perché ha altri obiettivi cui rivolgere i propri talenti (…) Dovrete cercare da soli.
Senza più alcun timore, le mani di Jenny esploravano, centimetro per centimetro, lo strano profilo della testa del visitatore. L’extra-terrestre rimaneva immobile e si limitava a chiudere i grandi occhi, quando le dita in esplorazione li sfioravano.
– Non riesco a descrivere con esattezza – riprese l’ospite – ciò che provo, perché non mi sono mai trovato in una situazione come questa. La logica mi dice di non tenerne conto. So comunque che in questa confusione emotiva di cui soffro momentaneamente non c’è niente che vale.
Piano piano si districò dalle braccia di Jenny. La bambina cercò di stringerlo più forte. A un tratto premette la faccia sul fianco della bocca verticale dell’ospite e scoppiò in una risata gioiosa. Per un attimo, ogni cosa nel reparto sembrò fermarsi. (…)
– Questo non cambia niente – disse il visitatore, staccandosi dalla bambina.
(…) Gregory adagiò la bambina nel lettino. Stava ancora ridendo.
Da abile e solerte funzionario, il durrenegleniano si sentì in obbligo di aggiungere un commento personale alla conclusione del rapporto.
La popolazione della Terra, a mio parere, è arretrata, instabile, illogica e sotto diversi aspetti tarata – disse al suo "superiore"
(ndr: della razza Illoel). – Questi individui non sono in grado di badare a se stessi (…) Mi stupisco che intendiate mantenere la sorveglianza protettiva. Quella gente è in stato confusionale, scoordinata e altamente emotiva. Se mi è lecito dirlo, sono convinto che sprechiamo tempo e risorse. Sulla Terra non c’è niente che vale.
Con lo stile del superiore gerarchico che si rivolge a un funzionario anziano molto apprezzato e quasi amico, il cui comportamento gli ha dato una piccola delusione, lo Illoel rispose con una critica.
– Voi Durreneglen siete un popolo altamente intelligente, di grande cultura e capacità ma a volte anche voi rivelate i vostri limiti. Non vi è forse parso strano che inviassimo un amministratore del vostro grado in un giro di ispezione che era poco più d’un viaggio turistico? La visita alla Terra era appunto intesa a evidenziare questo vostro difetto. Avreste dovuto rendervi conto che, nonostante l’arretratezza della loro cultura attuale, esistono sulla Terra innumerevoli individui dotati di una qualità rarissima. Questa gente sa istintivamente che cosa è giusto e si ostina a fare ciò che ritiene giusto contro ogni logica e a prezzo di sforzi e fatiche immani, a volte senza alcuna ricompensa. La facoltà è ancora latente e gli uomini non sono ancora in grado di apprezzare questa unica loro qualità; ma anche così è abbastanza forte da tener testa all’opposizione e agli argomenti di un funzionario anziano durrenegleniano, che non è stato capace di individuare in quella loro insistenza nel prodigare fatiche e risorse, senza speranza e ricompensa, la dote
essenziale, di oggi e di domani, della loro gente. Hanno soltanto bisogno di tempo. Il controllo protettivo sarà mantenuto. Sulla Terra c’è qualcosa che vale".

Il racconto del quale avete letto ampi stralci è di un noto "sfi-man", James White, e s’intitola Somethin of Value (Qualcosa che vale), come un interessante film di Richard Brooks che negli anni ’60 ebbe il coraggio di non demonizzare i mau-mau del Kenia. In italiano è stato pubblicato sul numero 1012 di Urania; per i pignoli si può aggiungere che un qualche errore di traduzione (o un taglio?) rende difficili un paio di passaggi anche se l’insieme risulta chiarissimo. Per i bibliofili incalliti si può invece aggiungere che era in coda al romanzo Quando scoppiò la pace di Vernor Vinge.
Se vi sfuggisse la ragione per cui vi abbiamo consigliato di inviarlo ai responsabili della nostra sanità… beh, pensate ai tagli della spesa pubblica e magari ai soldi che si spendono per le armi. Vogliamo parlarne o abbiamo bisogno che davvero qualche extra-terrestre ci spieghi che sulla Terra c’è qualcosa che vale?

La gara e il suo “doppio”

Ragionando sulla normalità dello sport con atleti disabili

1. Introduzione: rovesciare l’eccezionalità

Quando i mass media (sportivi e non) trovano lo spazio per occuparsi di persone disabili che praticano sport? In casi eccezionali o che vengono considerati tali: la titolazione gioca sull’evento straordinario anche se talvolta l’articolo è ben fatto e magari rifugge dal sensazionalismo. Quattro esempi, presi a casaccio nell’ultimo decennio, aiutano a capire meglio.

  1. “L’incredibile storia di Alberto” di Corrado Sannucci (su “la Repubblica” del 5 marzo ‘93) con questo occhiello: “Non parla, non legge, non scrive: è un autistico, ha chiuso i rapporti con il mondo. Eppure scrive” e 12 righe nel sommario dove, fra l’altro, si legge: “Viveva come un albero” oppure “Se è vero che non parla, una volta disse «basta», durante un allenamento”.
  2. “Handicappato: i miei record per protesta” di Patrizia Romagnoli (su l’Unità del 18 ottobre ‘94).
  3. “Il mondo sommerso di Matteo” di Aldo Quaglierini (su l’Unità del 21 ottobre 2004): “Milano, brevetto da sub per un ragazzo Down integrato con gli altri”.
  4. “Diversamente abile, bionico e silver medal” di Francesca Longo (su il manifesto, 29 ottobre 2004): “Premiato Stefano Lippi, un ragazzo triestino di 23 anni che corre e salta con una gamba sola (e una protesi) dopo essere stato investito da un’auto. Collabora con studiosi dell’analisi biomeccanica del passo e vuole diventare ingegnere biomedico”.

Ovviamente ci sono eccezioni. E negli ultimi anni i mass media hanno dato un certo rilievo alla cronaca quotidiana delle Paralimpiadi anche se talvolta con logiche “sensazionaliste” (del resto, come osservano gli esperti, si tratta di un difetto ormai comune a ogni argomento, dall’economia alla ricerca storiografica, perciò stupisce sino a un certo punto). Di sicuro molto è cambiato da quando un telecronista sportivo, e neppure fra i peggiori, commentò le immagini di persone diversamente abili con una frase che suonava: “E dopo questa penosa esibizione torniamo allo sport vero”.

Cambiamenti culturali che, anche in Italia, sembrano finalmente arrivati in profondità, ma lasciando comunque molte zone scoperte persino nella scuola, là dove cioè i nuovi cittadini e le nuove cittadine dovrebbero formarsi. Una storia aiuta a capire. Di recente nella civilissima Emilia Romagna alcuni genitori scoprono, parlando con i figli, che un professore della scuola media nel porta-chiavi tiene una grande lettera H e che di continuo la mostra agli studenti più lenti o più discoli minacciando “sei in gara per l’handicap d’oro”. Per la cronaca, questa triste vicenda si è conclusa con la scelta (della preside e dei genitori) di un richiamo interno al professore, il quale ha poi mutato atteggiamento; è necessario ancora “insegnare agli insegnanti” che questi atteggiamenti sono diseducativi e razzisti, e ciò la dice lunga sui ritardi della scuola. Ritardi ovviamente anche della società, se è vero, tanto per restare sull’episodio, che in passato molte famiglie erano venute a sapere della “H d’oro”  ma avevano ritenuto la cosa poco grave o comunque avevano preferito lasciar perdere.

L’idea di questo dossier è rovesciare la logica della eccezionalità per ragionare della quotidianità nel fare sport per le persone disabili. Protagonisti e interlocutori-interlocutrici sono 4 atleti (con storie molto diverse e a livelli molto differenti di pratica agonistica) e un’insegnante – ma anche formatrice, allenatrice, volontaria – che mostrano il rovescio della medaglia… rispetto alla odiosa “H d’oro” di cui sopra.

L’intento era partire dalle storie personali per poi calarsi nel bello e anche nel brutto dello sport: giocare, sudare, competere, ma ovviamente anche fare i conti con un immaginario individuale e collettivo che si alimenta di sport e a sua volta lo alimenta. Sport che fa bene e che forse fa male. Ancora: il piacere del risultato o del solo gareggiare; la fatica; la “vendetta” del vincere; il riscatto; il successo; la sconfitta; il crollo; giovani e vecchi; talenti e polli da allevamento; le regole e lo scarto; il doping; il personale e la privacy; il tifo; l’imbroglio; la lealtà; individualismo o invece sentirsi parte di una squadra; limiti di partenza e di arrivo; maschile e femminile; uso pubblico, strumentalizzazioni, simboli; dai belli e campioni, fisicamente “perfetti”, ai brutti e bloccati con le infinite varianti e combinazioni in mezzo; l’epica e l’economia; la violenza dentro e intorno gli sport; la bellezza del gesto; le Olimpiadi e le Paralimpiadi; il voyerismo di quel giornalismo che ancora parla di sportivi disabili come 150 anni fa della “donna barbuta”; trovarsi mutilati nel corpo o esserlo nel pensiero; cinema e/o letteratura e/o musica che narrano campioni e campionesse o il loro doppio; come nasce (o si smonta) la leggenda sportiva… E tanti eccetera. L’idea, preventivamente discussa con gli/le intervistati/e, era che le loro storie fossero al centro ma che si provasse a scavallare sulla galassia sport – con annessi & connessi – e su tutto quel che “ruota intorno” (canterebbe Battiato) o su quel quotidiano dove, per citare un ironico Dalla, “l’impresa eccezionale, dammi retta, è di essere normale”.

Idea piuttosto ambiziosa. Difficile da realizzare al punto che, alla fine del lavoro, sembrava di aver mosso solo i primi passi in questa direzione. Del resto anche cronache o fiction dello sport classico si riempiono di epica più che di incroci dialettici; ed è piuttosto curioso che le suggestioni più affascinanti vengano dall’esterno del mondo sportivo tradizionale (Edoardo Galeano, tanto per citare un nome).

Silvana Valente: “lo sport incoraggia l’autonomia”

Le coppe vinte si mescolano alle conchiglie nella sua casa a Schio. È campionessa per passione e masso-fisioterapista per lavoro: il computer è appoggiato su un lettino, il telefono squilla per fissare appuntamenti, neanche l’intervista riesce a spezzare il ritmo di Silvana Valente.

Uno strepitoso curriculum sportivo, dal ’93 al 2004, eppure lei chiarisce subito: “Non amo molto parlare dei miei risultati a livello agonistico benché ho vissuto esperienze indimenticabili. Il mio obiettivo più grande è sempre stato dare il meglio di me stessa indipendentemente dai piazzamenti”.

Attualmente – cioè a 41 anni – Silvana Valente “per problemi familiari” ha ridotto notevolmente l’attività agonistica di alto livello; continua però a dedicarsi alla promozione del “Gruppo sportivo non vedenti di Vicenza”.

Dietro, una storia complessa che lei riassume così. “Dalla nascita vedo solo un po’ di luce. Penso che chi perde la vista ha più problemi rispetto a quelli che nascono così. Quando io ero piccola esistevano solo scuole speciali per i non vedenti, non c’era l’integrazione. Abitavo in un paesino e questo mi ha penalizzato: studiavo a Padova, separata dalla famiglia e queste lontananze mi hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza. Le conoscenze e gli strumenti di oggi non erano ipotizzabili. Anche per questo forse le mamme tendono a proteggerti più che a darti l’autonomia. Non era comunque una situazione facile: anche mio fratello, più grande di tre anni, è non vedente. Ricchi non si era. Allora non esistevano neppure i corsi di mobilità come oggi”.

Quindi lo sport arrivò tardi?
“Mio padre era appassionato, ma non c’erano tradizioni sportive in famiglia; comunque fece provare i pattini a mio fratello, persino la moto, con un muro a proteggerlo di lato. Da piccola io invece ero molto concentrata sullo studio. Nella tipica solitudine della fase adolescenziale si cercano stimoli, forze, risorse: scrivevo canzoni, suonavo e cantavo in un gruppo, io alle tastiere e mio fratello alla chitarra. Poi la scelta della libera professione, quasi una scelta obbligata, ma ho capito che ero portata per essere una brava fisioterapista. Amo aggiornarmi e studiare, così come mi piace essere soddisfatta di quello che faccio e dunque lavoro, persino troppo  e a volte devo dire di no. Sì, lo sport è venuto dopo. Con gli amici dicevo: ‘Mi muovo tanto con le braccia, forse dovrei mettere in movimento anche le gambe’. Per scherzo comincio ad andare in bici: ho costruito un tandem, eravamo nel ‘90. Poi con il gruppo giovanile dell’Uic (Unione italiana ciechi) di Vicenza ho frequentato un corso per lo sci di fondo che mi appassionò tantissimo. Sentivo che mi faceva bene ma anche che mi procurava belle emozioni. Con il tempo sono diventata irriducibile, appassionatissima sino a impegnarmi tantissimo con il gruppo sportivo che ora presiedo. Non mi piace esibirmi in quello che faccio, anche nella solidarietà. Per me è ossigeno: una preghiera forse, anche se non vado a Messa credo di pregare con quel che faccio”.

Al di là dei titoli europei, olimpici o mondiali, il fare sport ti ha lasciato una sorta di felicità?
“Sì, dopo le prime esperienze sono arrivate le soddisfazioni, non mi piace la parola successi, soprattutto in bicicletta. Lo sci è più uno sfogo, infatti lì ho avuto pochi impegni agonistici. Non ho uno spirito competitivo a ogni costo ma alcune manifestazioni sportive di non vedenti mi hanno coinvolto; nel momento che dico sì a una gara allora metto tutta me stessa. Qualcuno mi chiese di arrivare alle medaglie. Risposi che non sapevo se sarei riuscita, ma ce l’avrei messa tutta. Devo comunque ringraziare di cuore chi mi ha aiutato. Per noi è essenziale avere qualcuno che vede accanto, altrimenti non potremmo allenarci neanche al livello più amatoriale. Per esempio io mi sono molto impegnata per la formazione delle guide nello sci da fondo: a oggi ci sono 50 persone solo nel vicentino a far da guide, un bel risultato. Più difficile trovare compagni nel tandem: per la responsabilità che molti temono ma forse anche per la paura di dedicare il proprio tempo ad altri. Invece secondo me è un’esperienza impagabile  per entrambi”.

Da quel che racconti sei una persona che ama essere coinvolta e ancor più forse coinvolgere.
“È vero. Ho sentito il bisogno di coinvolgere ipo-vedenti, non vedenti, volontari, perché ho capito che lo sport non solo può mettere in luce potenzialità spesso inespresse ma anche dare una ricarica psico-fisica, ritemprare la mente. Per me almeno è così: il mio stile di vita è molto salutista nel cibo come nel resto. Di fondo resto una spontanea: anche quando mi chiedono di parlare nelle scuole non mi preparo mai. È nata così anche la scelta di dedicarmi, nell’ultimo anno e mezzo, alla mountain bike: soddisfa  la mia passione verso i boschi e una natura che spero ancora incontaminata. C’è anche il brivido di sperimentarsi, come quando ho provato l’arrampicata. La mountain bike richiede molto affiatamento, con il compagno bisogna essere quasi in simbiosi: anche solo alzarsi e sedersi sui pedali nello stesso istante svela questa intesa quasi telepatica. Vorrei mettermi alla prova anche nelle escursioni però mi resta poco tempo. Alcuni miei amici hanno provato anche la vela, io sperimenterei il canottaggio… se trovassi il tempo”.

Questo tuo stato d’animo è condiviso? Oppure molte persone si tengono, o magari sono tenute, lontane dagli sport?
“Per me l’importante è stimolare i giovani (e non solo) a cercare dentro di sé le tante possibilità sepolte: per una persona diversamente abile raggiungere un alto grado di autonomia è essenziale, paradossalmente dobbiamo essere in grado di cavarcela meglio dei cosiddetti normo-dotati. Per questo vorrei dire ai genitori di incoraggiare i figli a mettersi alla prova, di aiutarli a lavorare sull’autonomia, che poi è anche auto-stima. Siamo giudicati per quello che siamo, e dunque occorre mostrare che non c’è il “poverino” da aiutare ma una persona alla pari pur con diverse qualità o limiti. A me non dà fastidio che talvolta debba chiedere aiuto, mostrando dunque i miei limiti; ma lavoro finché posso per superarli. Cavarsela da soli è importante”.

In altri tempi, ma ancora di recente, nelle famiglie italiane spesso c’era un misto di paura e vergogna se un figlio era disabile; quanto è mutata la situazione?
“Molto è cambiato. Ricordo bene quanti problemi avevo da adolescente; mi imbarazzava persino avere un orologio braille. A pesarmi era anche l’ignoranza, intendo proprio la non conoscenza, sulle persone non vedenti, che ora è diminuita, però scomparsa direi no. Bisogna puntare a creare situazioni pratiche per far capire di cosa abbiamo bisogno: se io sono in un ristorante non mi serve che qualcuno mi aiuti con coltello e forchetta; se però mi serve una descrizione dell’ambiente la chiedo. Ognuno ha la sue difficoltà: a volte chi sta troppo addosso per gentilezza ottiene l’effetto contrario”.

Ti è mai capitato di scontrarti con il “cattivo giornalismo”? Che nel caso delle persone disabili può significare persino razzismo mascherato da pietismo…
“Ho conosciuto vari tipi di strumentalizzazione, anche di uomini politici che parlano di noi ma si capisce bene che non conoscono le situazioni e non sono interessati. Ho incontrato giornalisti che si vogliono calare nei nostri panni e non ci riescono: sono come ‘golosi’ di rapporti umani e vorrebbero un dialogo a ogni costo che magari non è possibile. Una volta mi fecero una domanda sul mio privato e così il giornale poté titolare su una storia d’amore. Non fu un bel modo di comportarsi. Altre volte ho sentito che chi mi intervistava era però davvero interessato, voleva capire. Io parlo sempre volentieri con tutti, anche perché voglio sfatare l’idea che vi sia un solo ‘mondo dei non vedenti’ mentre invece esistono tante e diverse persone”.

Ora che hai interrotto l’attività agonistica a livello internazionale, puoi forse gettare uno sguardo complessivo e indicare un momento nel quale lo sport ti si è mostrato nel suo aspetto più positivo.
“Per me una sorpresa e un bel segnale d’apertura fu nel ’98 quando vinsi una medaglia d’oro a cronometro negli Europei; al ritorno trovai una grande festa del tutto inaspettata. Certo era per la medaglia d’oro ma fu anche il segno di una nuova sensibilità: magari allora molti capirono quanta energia in più (e quanta fatica nel trovare i compagni) ci vuole per noi rispetto ai normo-dotati… in ogni caso per me il piacere maggiore è nel condividere un’emozione più che il successo”.

Sembra che all’estero per le persone diversamente abili le cose vadano un po’ meglio anche nello sport; puoi confermarlo? E in Italia restano atteggiamenti ostili o sono spariti quasi del tutto?
“Certamente è così, in molti Paesi c’è una mentalità più avanzata o forse un’altra storia. Girando ho avuto anche esperienze negative, non servono viaggi per non vedenti. Amo ballare anche se forse è poco compatibile con lo sport. Però in discoteca registravo un limite come in certi ambienti (che evito) dove conta solo l’apparenza, l’effimero. Muovere il corpo al ritmo della musica mi piace però mi crea disagio farlo se avverto che le persone intorno non vogliono condividere con me questo piacere”.

Azzurra Ciani: “La famiglia deve essere un punto d’appoggio”

È stato quasi un triangolo: Azzurra Ciani infatti la incontro sul luogo del suo secondo, grande amore, l’Accademia di Belle Arti a Bologna , ma è per ragionare soprattutto del “rivale” invincibile, ovvero della passione sportiva.

Un viso e un parlare radioso; sembra ovvio che Azzurra Ciani parta riflettendo sulla gioia.
“La mia felicità, giorno per giorno, dipende dal trovare qualcosa che posso fare (e so di avere una gamma molto ampia) o che riesco a conquistare; senza piangere su quel che non mi è concesso. Su questa strada, la mia famiglia è stato un punto di appoggio; lo sottolineo perché non è scontato. Non è facile: fino alle scuole medie ero a Modigliana, 5mila abitanti, conoscevo tutti e viceversa. Ma alle superiori è stato diverso: anche da parte mia all’inizio prevaleva la paura di far vedere i miei punti di forza e quelli deboli, insomma io non parlavo di me e i miei coetanei non chiedevano; poi ho verificato che la franchezza non fa male e che la ricerca di una mediazione è sempre possibile. Da allora, dopo 7 anni cioè, mi restano due amiche grandi, con le quali è scattata la voglia reciproca di approfondire. Ma adesso riscopro anche compagne/i: ci ritroviamo diversi da quello che si era immaginato. Avevo timori arrivando in Accademia, invece è stato semplice, da subito: forse siamo più grandi, o forse questo è un ambiente più aperto, con meno paure”.

Anche se l’Accademia è un micro-cosmo più disponibile al confronto, non credi che forse sia in corso un cambiamento graduale in tutta la società?
“Di sicuro negli ultimi anni le cose vanno meglio un po’ ovunque, si parla più delle persone disabili; anche se resta molto da fare. La elezione di Pancalli a vice-presidente del Coni è importantissima, del resto lui ha aiutato già a cambiare molto. Eppure succedono ancora cose stupide e tristi. Mi domando perché una medaglia d’oro per il Coni vale 130mila euro e quella di un disabile 12mila. Vorrei che qualcuno mi spiegasse se valiamo 90 volte di meno. Ovviamente non mi interessano i 100 mila euro, ma il riconoscere chi dedica la vita a una passione e comunque porta gloria a un Paese come altri campioni dello sport. Sono tante le cose da chiarire”.

Quando hai incontrato lo sport e come sei arrivata a scegliere una disciplina particolare come il tiro a segno?
“All’inizio delle scuole medie avevo praticato il nuoto, poi atletica, barca a vela, un po’ di volo, lo sci sia di fondo che alpino, ma alla fine ho scelto il tiro a segno. Per questo parlo sempre della gamma di possibilità che comunque si ha anche stando in carrozzina. Nel ’99 ho provato il tiro, per gioco: è diventata un’attività agonistica che mi ha portato alle Paralimpiadi di Atene. Bisogna provare, sperimentare molto prima di decidere su cosa impegnarsi. Io ci ho messo due anni per arrivare in nazionale ma poi 4 anni per preparare un’olimpiade. I risultati mi hanno dato una mano, ero contenta anche se avevo raggiunto solo due dei tre obiettivi che mi ero fissata. Pensa che agli Europei ero l’unica donna (a 18 anni, il primo viaggio senza la famiglia) e tuttora mi muovo in uno sport quasi completamente maschile. Ho conquistato la ‘carta olimpica’ eppure speravo di più [lo dice sorridendo]. È accaduto che mi hanno abbassato lo schienale, perché in Italia mi avevano dato una classificazione diversa. Penso che sia bene spiegarlo per chi non è del settore: esiste una categoria con lo schienale e un’altra (per chi ha difficoltà con gli arti superiori) nella quale si può appoggiare l’arma su una molla. Io sono in quella che si chiama sh1 ma esistono poi tre sotto-categorie e mutando l’altezza dello schienale ovviamente anche in pedana cambia tutto. Sono valutazioni tecnico-mediche che fuori d’Italia possono essere diverse; e forse qualcosa va rivisto e migliorato per non trovarsi all’ultimo minuto, magari prima di un europeo come è capitato anche a me, a sentirsi dire che bisogna cambiare. Oltretutto nel tiro a segno la concentrazione è decisiva”.

Divertimento, fatica, vittoria o sconfitta, magari imbrogli: ti va di parlarne?
“Ricordo anni fa la tristezza nel sapere di medaglie olimpiche che furono tolte perché le disabilità risultarono inesistenti o molto esagerate. Non conosco casi del genere ma ogni tanto qualcosa di strano c’è nelle classificazioni. Anche nella sconfitta comunque si può essere sereni. Mi è capitata ad Atene qualcosa del genere: nelle qualificazioni feci 600 centri (record mondiale eguagliato), in vita mia era la prima volta. Ma in finale vuoi per l’emozione e vuoi per questioni tecniche non considerate, arrivo solo sesta. Primo il solito svedese vinci-tutto (4 medaglie d’oro su 4 alla sesta partecipazione olimpica). Alla fine della gara si avvicina e dice che gli dispiace; però io gli ho detto con grande serenità: ‘Hai gareggiato lealmente dunque non devi chiedermi scusa’. Comunque il suo era stato un pensiero gentile, l’ho apprezzato”.

Per alcune persone lo sport è tutto, per altre è importante ma c’è dell’altro. Tu ad esempio vorresti essere una professionista e lasciare perdere tutto il resto?
“È un discorso complesso. Intanto oggi molti atleti normo-dotati sono tesserati nelle società militari, perciò lì hanno stipendio e lavoro. Oggi per noi così non è. Io anche se volessi non me lo potrei permettere. E non so se lo vorrei… Nella mia vita oggi c’è tanto: il tiro a segno è al primo posto, poi viene l’Accademia, ma c’è anche la mia vita privata oltreché l’impegno dirigenziale e promozionale per lo sport. Se dovessi optare fra europei ed esami, penso che sceglierei i primi solo perché i secondi comunque li posso spostare; nel 2002 mi capitò un dilemma del genere con la maturità. Avevo già dato gli scritti e ho chiesto semplicemente di anticipare gli orali: l’ho spuntata a fatica. Ma se non fossero stati elastici, la medaglia di bronzo a squadre chi me la ridava più? E se non sono andata a Sidney è anche per colpa della burocrazia; un professore mi disse: ‘Quattro settimane sono troppe’. Ma quanto vale un’Olimpiade lui lo capisce?”.

Stare sotto i riflettori non è facile, specie quando si incontrano giornalisti interessati solo alle tinte forti. A te è capitato?
“È un campo minato, ho dovuto imparare a gestirmi, a sapere dove mi potevo fermare, a non farmi strumentalizzare. Ci sono giornalisti che non solo fanno domande personali dopo 5 minuti, ma addirittura chiedono di cure e terapie. E con quale presunzione poi… Ma stare sotto i riflettori è importante per gli sportivi, se sanno farne un buon uso. Penso alla manifestazione che abbiamo organizzato il 26 marzo a Faenza per informare sugli sport per disabili: l’oro olimpico Aldo Montano che è venuto per incontrare Andrea Pellegrini, campione alle Paralimpiadi. Ci sono tante persone che ci credono come Sara Simeoni, e ve ne sono invece che si muovono solo per soldi. Forse per questo amo tutti gli sport tranne il calcio: mi sembra che tolga spazio a tutto il resto, per tacere del fanatismo o della violenza”.

Ma quando vai a parlare nelle scuole incontri ogni tipo di mito, di immaginario sportivo: tutto il bene e tutto il male…
“È chiaro che il business pesa o che l’intreccio calcio-pubblicità crea confusione fra i ragazzi. Capisco che se dico ‘l’importante è partecipare’ molti possono non crederci. Per chi è disabile questo è un guaio in più: perché il calcio è forse l’unico sport che non possiamo fare. Invece ci sono tante discipline ma se ne parla poco; se non si ha una famiglia determinata o un ambiente forte intorno si resta fuori. A fatica la tv lascia un po’ di spazio anche alle Paralimpiadi ma in orari da casalinghe non da ragazzini. Sì, ci vorrebbe un’informazione più intelligente”.