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autore: Autore: Massimiliano Rubbi

Reinventare il mondo a cavallo: Don Chisciotte tra l’identità spagnola e gli squarci di modernità

È uno dei personaggi immortali della letteratura mondiale, e l’opera che lo ritrae è stata definita dai critici il primo romanzo moderno. Don Chisciotte è una figura la cui comprensione piena ancor oggi sfida i lettori, e una delle ragioni è che il “nobile fantasioso” si trova a cavallo di due dimensioni apparentemente inconciliabili. Da un lato, il personaggio di Miguel de Cervantes raffigura l’essenza della Spagna, o a voler essere precisi della Castiglia, in un’identità tra letteratura e natura (di un popolo) che forse nessuna altra nazione può vantare – chi di voi si sente rappresentato da Renzo Tramaglino? D’altro canto, però, la follia di Don Chisciotte esprime qualcosa di universale, che però sfugge continuamente alla descrizione, in un libro che, come ha scritto Harold Bloom, “è uno specchio che riflette i propri lettori”.

Un eroe spagnolo
Una polemica ricorrente nel dibattito culturale spagnolo è riassumibile nell’opposizione “Spagna eterna” – “Spagna composita”. Uno Stato composto di 17 regioni autonome e fiere della propria diversità, ma anche l’unico Paese europeo in cui, almeno fino a qualche anno fa, si insegnava a scuola ai bambini come le popolazioni preromane della penisola fossero già “spagnoli”. La soluzione più spesso prospettata a questo dilemma è che l’identità spagnola si costruisca nella Reconquista, la fase storica che si estende dall’VIII al XV secolo in cui la penisola iberica è segnata dalla coesistenza, tutt’altro che pacifica, di regni cristiani e musulmani, fino alla cacciata dei mori da Granada nel 1492.
La Spagna, in questa prospettiva, si identifica con una sorte che per otto secoli la vede difendere in armi l’Europa dall’avanzata islamica. Il simbolo dell’essere spagnoli diventa così il cavaliere cristiano, senza paura e animato da una fede sconfinata – un’identità in cui l’ascesi religiosa, che pure troverà le sue vette sempre in Spagna nei secoli a venire, è più che temperata da una grande fiducia nelle capacità dell’uomo. Un’icona della cultura spagnola è del resto il Cid Campeador, un mercenario realmente vissuto nel XI secolo che nella leggenda, mosso dalla fede nel re e in Dio (e molto meno dai denari, rispetto alla ricostruzione storica) diviene l’eroe capace di sopportare ogni umiliazione e di riconquistare alla cristianità Valencia.
Partendo da questo contesto culturale, Cervantes costruisce un cavaliere che può rinverdire i fasti della sua tradizione solo in un mondo da lui stesso immaginato, ma che in esso fa sfoggio degli stessi valori di quella tradizione, dall’abnegazione al senso della giustizia – valori che Don Chisciotte tenta ripetutamente di instillare nel suo scudiero Sancio Panza, attraverso ragionamenti il cui buon senso delinea un netto contrasto, a volte espressamente marcato, rispetto all’illusione in cui vive. Al tempo stesso, la follia di Don Chisciotte è filtrata dai secoli di letteratura cavalleresca che lui stesso ha divorato, e anche per questo il suo movimento non è guidato da uno scopo finale preciso come poteva essere, nella storia, la difesa e la cacciata dei Saraceni, quanto piuttosto dalla necessità di trovare nuove avventure in cui misurare se stesso. Ariosto non è passato invano, anche se in Cervantes il cavaliere non cerca qualcosa che ha perso e desidera ritrovare (come Orlando Angelica, o Ferraù il suo elmo), ma trova nel vasto orizzonte di Castiglia e nei suoi astuti e curiosi abitanti gli elementi cui, sia pure nella trasfigurazione immaginaria, è indissolubilmente legato.
Per questi motivi Don Chisciotte riesce a rappresentare quant’altri (reali o fittizi) mai la storia e l’identità del proprio popolo, filtrandone la tradizione in una rielaborazione a molti livelli che tuttavia si compone fluida nell’ironia bonaria del suo narratore.

La rivincita della grotta
Fosse tutto qui, il Don Chisciotte sarebbe la riuscitissima espressione di uno spirito nazionale: un risultato certo eccezionale, ma senza l’attitudine a essere un classico e ancor meno a segnare uno spartiacque nella storia del romanzo mondiale. Per capirne l’universalità dobbiamo quindi guardare alla follia di Don Chisciotte, alla sua diversità che solo la fine può eliminare (solo sul letto di morte, e a prezzo di un rinnegamento di identità, riconoscerà: “Poc’anzi fui pazzo, ed ora sono savio, fui don Chisciotte della Mancia, ed ora non sono altro che Alfonso Chisciano il Buono”).
Nelle due parti del libro, separate da dieci anni di distanza, la relazione dei personaggi con Don Chisciotte varia sensibilmente. Nella prima parte si alternano lo stupore di chi ne incrocia casualmente la via e il tentativo di ricondurlo al senno dei suoi amici, il curato e il barbiere (il medico e l’infermiere?), che arrivano a bruciarne i libri di cavalleria per tentare, invano, di eliminare la causa della sua mania.
Nella seconda parte del libro, invece, la follia di Chisciotte è un dato accettato, anche perché nota a tutti coloro che hanno letto il primo volume delle sue vicende (anche in questo surreale sfoggio di meta-letteratura sta la modernità del testo). Di qui le burle che molti ordiscono ai danni del cavaliere, mettendolo volutamente in situazioni in cui il contrasto tra realtà e fissazione illusoria genera la comicità, che trovano il culmine nelle complesse messe in scena allestite dal Duca e dalla Duchessa, che ospitano Don Chisciotte a questo solo scopo. Anche il curato e il barbiere scendono sul piano della follia, e per riportare a casa l’amico fanno sì che il baccelliere Sansone Carrasco lo sfidi a duello, fingendosi “Cavaliere degli Specchi” e facendogli promettere che se perderà rinuncerà alla cavalleria errante (ma solo il secondo duello riuscirà nell’intento). La pazzia di Chisciotte, oggetto di derisione, di fatto domina il mondo, e come tutte le signorie finisce per generare incongruenze con il reale – tutta questa parte del libro è infatti segnata dalla percezione di Don Chisciotte di essere “incantato”, dopo che Sancio gli ha spacciato per Dulcinea una contadina trovata per caso fuori dal Toboso.
Insomma, proprio quando il mondo pare divenuto il palcoscenico per le imprese del cavaliere, lui inizia a notare le sfrangiature dei fondali. Anche per questo l’episodio chiave risulta quello della grotta di Montesinos, quando Don Chisciotte decide di calarsi in un antro in cui nessuno ha mai osato scendere. Al suo ritorno, il suo mirabolante racconto del palazzo incantato e del compito, che gli compete, di liberarlo dalla magia, non può essere contestato da Sancio, e nemmeno da Cervantes, il quale, pur marcando le distanze dall’esposizione del cavaliere (“stupefacenti cose che per la loro assurdità e enormità fanno sì che quest’avventura sia ritenuta apocrifa”), si guarda bene dal rivelare cosa sia realmente avvenuto nella grotta. Ritorna perciò il contrasto apparentemente insanabile che Sancio così esprime: “Come mai può egli darsi che un uomo che sa dire tante e sì buone cose come quelle che ha ora dette il mio padrone, vada poi raccontando di aver veduti quegl’impossibili spropositi della grotta di Montesinos?”
La monomania di Don Chisciotte emerge qui come quello che è sempre stata: il tentativo di dare un ordine al mondo – appunto, un ordine e uno solo, che quando si allinea alla sapienza del mondo appare buon senso, mentre quando se ne distacca risulta pazzia. Quando, nell’incontro con la falsa Dulcinea, si aprono crepe nell’ordine della “cavalleria errante”, la grotta offre l’occasione per instaurare il nuovo ordine dell’“incantamento”, perfettamente coerente nella letteratura cavalleresca con il primo, e che segnerà tutte le avventure seguenti (e le successive canzonature). Ma l’ambientazione dell’episodio non può che richiamare alla mente, seppure con una ambigua inversione, uno dei testi fondativi della civiltà occidentale: il mito della caverna di Platone, e in particolare l’esito secondo cui l’uomo che guarda fuori dalla caverna sarà deriso e minacciato dai compagni quando tenterà di convincerli a uscirne per vedere “lo splendore del vero”, e tuttavia non potrà più limitarsi alla comprensione delle ombre. Il rischio che il cavaliere della Mancia corre più volte di essere pestato a morte da coloro con cui viene a contatto sembrerebbe la versione picaresca di questo eterno contrasto tra chi guarda lontano e chi riesce a guardarsi solo le punte di piedi troppo piantati sulla terra.

Romance e romanticismo
La lettura romantica del Don Chisciotte lo interpretò come un eroe in grado di riscattare la mediocrità del mondo in cui vive, fatto di locandieri avidi e contadine volgari, tramite la propria immaginazione che rimanda ad alti ideali (mentre Sancio, in contrapposizione, rappresentava il simbolo della bassezza). La pazzia, nella mentalità romantica, è del resto il grimaldello con cui superare l’esistente e dunque il sale del vero artista, che attraverso la propria irrazionalità marca la distanza dal mondo borghese in cui è condannato a vivere.
La critica più recente, a partire da Miguel de Unamuno, ha ampiamente rivisto questa lettura schematica del capolavoro di Cervantes, ma qualche elemento ne va forse conservato. In senso più moderno, il fascino di Don Chisciotte sta nella sua capacità, di fronte al senso di insoddisfazione per una vita inerte da piccolo nobile di campagna, di costruire una terza via tra il cambiare il mondo e l’accettarlo così com’è: ricostruire il mondo con la propria fantasia, accettando di giocare fino in fondo il proprio ruolo in quel mondo. In un senso ancor più moderno, d’altronde, il testo di Cervantes segna la rottura del rapporto della letteratura con la realtà e la frantumazione dei punti di vista (così Michel Foucault): se è così, ha ancora senso parlare di “mondo”, e di “saper stare al mondo” come discrimine tra la normalità e la follia? A 400 anni dalla sua stesura, il discorso sulla diversità, la follia e la realtà di Don Chisciotte della Mancia è non solo attualissimo, ma ancora in larga parte da scrivere.
 

Reinventare il mondo a cavallo: Don Chisciotte tra l’identità spagnola e gli squarci di modernità

È uno dei personaggi immortali della letteratura mondiale, e l’opera che lo ritrae è stata definita dai critici il primo romanzo moderno. Don Chisciotte è una figura la cui comprensione piena ancor oggi sfida i lettori, e una delle ragioni è che il “nobile fantasioso” si trova a cavallo di due dimensioni apparentemente inconciliabili. Da un lato, il personaggio di Miguel de Cervantes raffigura l’essenza della Spagna, o a voler essere precisi della Castiglia, in un’identità tra letteratura e natura (di un popolo) che forse nessuna altra nazione può vantare – chi di voi si sente rappresentato da Renzo Tramaglino? D’altro canto, però, la follia di Don Chisciotte esprime qualcosa di universale, che però sfugge continuamente alla descrizione, in un libro che, come ha scritto Harold Bloom, “è uno specchio che riflette i propri lettori”.

Un eroe spagnolo
Una polemica ricorrente nel dibattito culturale spagnolo è riassumibile nell’opposizione “Spagna eterna” – “Spagna composita”. Uno Stato composto di 17 regioni autonome e fiere della propria diversità, ma anche l’unico Paese europeo in cui, almeno fino a qualche anno fa, si insegnava a scuola ai bambini come le popolazioni preromane della penisola fossero già “spagnoli”. La soluzione più spesso prospettata a questo dilemma è che l’identità spagnola si costruisca nella Reconquista, la fase storica che si estende dall’VIII al XV secolo in cui la penisola iberica è segnata dalla coesistenza, tutt’altro che pacifica, di regni cristiani e musulmani, fino alla cacciata dei mori da Granada nel 1492.
La Spagna, in questa prospettiva, si identifica con una sorte che per otto secoli la vede difendere in armi l’Europa dall’avanzata islamica. Il simbolo dell’essere spagnoli diventa così il cavaliere cristiano, senza paura e animato da una fede sconfinata – un’identità in cui l’ascesi religiosa, che pure troverà le sue vette sempre in Spagna nei secoli a venire, è più che temperata da una grande fiducia nelle capacità dell’uomo. Un’icona della cultura spagnola è del resto il Cid Campeador, un mercenario realmente vissuto nel XI secolo che nella leggenda, mosso dalla fede nel re e in Dio (e molto meno dai denari, rispetto alla ricostruzione storica) diviene l’eroe capace di sopportare ogni umiliazione e di riconquistare alla cristianità Valencia.
Partendo da questo contesto culturale, Cervantes costruisce un cavaliere che può rinverdire i fasti della sua tradizione solo in un mondo da lui stesso immaginato, ma che in esso fa sfoggio degli stessi valori di quella tradizione, dall’abnegazione al senso della giustizia – valori che Don Chisciotte tenta ripetutamente di instillare nel suo scudiero Sancio Panza, attraverso ragionamenti il cui buon senso delinea un netto contrasto, a volte espressamente marcato, rispetto all’illusione in cui vive. Al tempo stesso, la follia di Don Chisciotte è filtrata dai secoli di letteratura cavalleresca che lui stesso ha divorato, e anche per questo il suo movimento non è guidato da uno scopo finale preciso come poteva essere, nella storia, la difesa e la cacciata dei Saraceni, quanto piuttosto dalla necessità di trovare nuove avventure in cui misurare se stesso. Ariosto non è passato invano, anche se in Cervantes il cavaliere non cerca qualcosa che ha perso e desidera ritrovare (come Orlando Angelica, o Ferraù il suo elmo), ma trova nel vasto orizzonte di Castiglia e nei suoi astuti e curiosi abitanti gli elementi cui, sia pure nella trasfigurazione immaginaria, è indissolubilmente legato.
Per questi motivi Don Chisciotte riesce a rappresentare quant’altri (reali o fittizi) mai la storia e l’identità del proprio popolo, filtrandone la tradizione in una rielaborazione a molti livelli che tuttavia si compone fluida nell’ironia bonaria del suo narratore.

La rivincita della grotta
Fosse tutto qui, il Chisciotte sarebbe la riuscitissima espressione di uno spirito nazionale: un risultato certo eccezionale, ma senza l’attitudine a essere un classico e ancor meno a segnare uno spartiacque nella storia del romanzo mondiale. Per capirne l’universalità dobbiamo quindi guardare alla follia di Don Chisciotte, alla sua diversità che solo la fine può eliminare (solo sul letto di morte, e a prezzo di un rinnegamento di identità, riconoscerà: “Poc’anzi fui pazzo, ed ora sono savio, fui don Chisciotte della Mancia, ed ora non sono altro che Alfonso Chisciano il Buono”).
Nelle due parti del libro, separate da dieci anni di distanza, la relazione dei personaggi con Don Chisciotte varia sensibilmente. Nella prima parte si alternano lo stupore di chi ne incrocia casualmente la via e il tentativo di ricondurlo al senno dei suoi amici, il curato e il barbiere (il medico e l’infermiere?), che arrivano a bruciarne i libri di cavalleria per tentare, invano, di eliminare la causa della sua mania.
Nella seconda parte del libro, invece, la follia di Chisciotte è un dato accettato, anche perché nota a tutti coloro che hanno letto il primo volume delle sue vicende (anche in questo surreale sfoggio di meta-letteratura sta la modernità del testo). Di qui le burle che molti ordiscono ai danni del cavaliere, mettendolo volutamente in situazioni in cui il contrasto tra realtà e fissazione illusoria genera la comicità, che trovano il culmine nelle complesse messe in scena allestite dal Duca e dalla Duchessa, che ospitano Don Chisciotte a questo solo scopo. Anche il curato e il barbiere scendono sul piano della follia, e per riportare a casa l’amico fanno sì che il baccelliere Sansone Carrasco lo sfidi a duello, fingendosi “Cavaliere degli Specchi” e facendogli promettere che se perderà rinuncerà alla cavalleria errante (ma solo il secondo duello riuscirà nell’intento). La pazzia di Chisciotte, oggetto di derisione, di fatto domina il mondo, e come tutte le signorie finisce per generare incongruenze con il reale – tutta questa parte del libro è infatti segnata dalla percezione di Don Chisciotte di essere “incantato”, dopo che Sancio gli ha spacciato per Dulcinea una contadina trovata per caso fuori dal Toboso.
Insomma, proprio quando il mondo pare divenuto il palcoscenico per le imprese del cavaliere, lui inizia a notare le sfrangiature dei fondali. Anche per questo l’episodio chiave risulta quello della grotta di Montesinos, quando Don Chisciotte decide di calarsi in un antro in cui nessuno ha mai osato scendere. Al suo ritorno, il suo mirabolante racconto del palazzo incantato e del compito, che gli compete, di liberarlo dalla magia, non può essere contestato da Sancio, e nemmeno da Cervantes, il quale, pur marcando le distanze dall’esposizione del cavaliere (“stupefacenti cose che per la loro assurdità e enormità fanno sì che quest’avventura sia ritenuta apocrifa”), si guarda bene dal rivelare cosa sia realmente avvenuto nella grotta. Ritorna perciò il contrasto apparentemente insanabile che Sancio così esprime: “Come mai può egli darsi che un uomo che sa dire tante e sì buone cose come quelle che ha ora dette il mio padrone, vada poi raccontando di aver veduti quegl’impossibili spropositi della grotta di Montesinos?”
La monomania di Don Chisciotte emerge qui come quello che è sempre stata: il tentativo di dare un ordine al mondo – appunto, un ordine e uno solo, che quando si allinea alla sapienza del mondo appare buon senso, mentre quando se ne distacca risulta pazzia. Quando, nell’incontro con la falsa Dulcinea, si aprono crepe nell’ordine della “cavalleria errante”, la grotta offre l’occasione per instaurare il nuovo ordine dell’“incantamento”, perfettamente coerente nella letteratura cavalleresca con il primo, e che segnerà tutte le avventure seguenti (e le successive canzonature). Ma l’ambientazione dell’episodio non può che richiamare alla mente, seppure con una ambigua inversione, uno dei testi fondativi della civiltà occidentale: il mito della caverna di Platone, e in particolare l’esito secondo cui l’uomo che guarda fuori dalla caverna sarà deriso e minacciato dai compagni quando tenterà di convincerli a uscirne per vedere “lo splendore del vero”, e tuttavia non potrà più limitarsi alla comprensione delle ombre. Il rischio che il cavaliere della Mancia corre più volte di essere pestato a morte da coloro con cui viene a contatto sembrerebbe la versione picaresca di questo eterno contrasto tra chi guarda lontano e chi riesce a guardarsi solo le punte di piedi troppo piantati sulla terra.

Romance e romanticismo
La lettura romantica del Don Chisciotte lo interpretò come un eroe in grado di riscattare la mediocrità del mondo in cui vive, fatto di locandieri avidi e contadine volgari, tramite la propria immaginazione che rimanda ad alti ideali (mentre Sancio, in contrapposizione, rappresentava il simbolo della bassezza). La pazzia, nella mentalità romantica, è del resto il grimaldello con cui superare l’esistente e dunque il sale del vero artista, che attraverso la propria irrazionalità marca la distanza dal mondo borghese in cui è condannato a vivere.
La critica più recente, a partire da Miguel de Unamuno, ha ampiamente rivisto questa lettura schematica del capolavoro di Cervantes, ma qualche elemento ne va forse conservato. In senso più moderno, il fascino di Don Chisciotte sta nella sua capacità, di fronte al senso di insoddisfazione per una vita inerte da piccolo nobile di campagna, di costruire una terza via tra il cambiare il mondo e l’accettarlo così com’è: ricostruire il mondo con la propria fantasia, accettando di giocare fino in fondo il proprio ruolo in quel mondo. In un senso ancor più moderno, d’altronde, il testo di Cervantes segna la rottura del rapporto della letteratura con la realtà e la frantumazione dei punti di vista (così Michel Foucault): se è così, ha ancora senso parlare di “mondo”, e di “saper stare al mondo” come discrimine tra la normalità e la follia? A 400 anni dalla sua stesura, il discorso sulla diversità, la follia e la realtà di Don Chisciotte della Mancia è non solo attualissimo, ma ancora in larga parte da scrivere.

Presentazione Banca Dati dei Centri

La banca dati dei Centri di documentazione in ambito sociale attivi in Italia è nata nel 1996 su iniziativa del CDH in collaborazione con la Fondazione della Cassa di Risparmio in Bologna. La banca dati intende fornire un elenco il più completo possibile dei centri attivi per consentire a tutti i potenziali utenti di rintracciare la struttura geograficamente più vicina a loro, garantendo una visibilità che per varie ragioni rischia di essere bassa e legata più al passaparola tra addetti ai lavori che ad informazioni strutturate e reperibili diffusamente. L’archivio è nato in forma cartacea, ma con l’aggiornamento compiuto a cavallo tra 2000 e 2001 si è ritenuto opportuno costruire un database informatico per costruire statistiche sul tema e soprattutto per rendere accessibili le informazioni in modo organico tramite il nostro sito web www.accaparlante.it. Questa decisione ha avuto un certo riscontro, in quanto dalla messa in rete dell’archivio (gennaio 2001) ci sono stati oltre 2.500 contatti, che hanno reso questa sezione una delle più “cliccate” dell’intero sito. La banca dati è soggetta ad aggiornamenti ed implementazioni all’incirca ogni 6 mesi.

Alcuni dati di sintesi sui 157 centri (aggiornati ad ottobre 2001):
Distribuzione geografica:
Il 56% di centri sono al nord, il 32% al centro (con una forte incidenza della realtà romana), il 12% al sud che conta 19 centri.
Le regioni più ricche, oltre al Lazio (20), sono l’Emilia (30), il Piemonte (18), la Toscana (17), la Lombardia (16) e il Veneto (13). L’unica regione che risulta priva di centri è la Basilicata. Nelle regioni meridionali un notevole impulso lo si riscontra in Sicilia, dove sono stati attivati ben 7 centri.
Ente gestore:
Il 58% dei centri nasce nell’ambito del terzo settore, con un interesse uguale tra volontariato ed associazionismo, e un dato limitato della cooperazione sociale.
Il 23% dei centri nasce per iniziativa degli enti locali, in special modo i comuni, con particolare riferimento ai settori dell’handicap (anni 216;80/’90) e dell’immigrazione e temi correlati (anni ‘90/’00). Gli altri centri (19%) sono attivati da Università, ONG, provveditorati agli studi ed altri enti.
Tematiche trattate:
L’immigrazione (intercultura, rapporto nord-sud, commercio equo) con 47 centri supera sul filo di lana l’handicap (46 strutture), capoclassifica per molti anni. Molti sono i centri che trattano tutti gli aspetti dell’emarginazione e del terzo settore, in genere senza particolari specializzazioni (39). La parte alta della classifica si completa con il settore tossicodipendenza/AIDS (19), pace/obiezione di coscienza (22), minori (25) e politiche sociali (29).
Gli argomenti meno trattati sono la prostituzione, l’alcolismo, gli anziani, gli zingari e il carcere.

Informahandicap: l’ integrazione invertita?

I servizi Informahandicap sono una istituzione relativamente recente in Italia, ed anche per questo, a quanto risulta, non è mai stato colto ed esplicitato un paradosso che sembra poter minare dalle basi la loro stessa legittimità. Da un lato, infatti, gli Informahandicap si pongono al servizio delle esigenze dei disabili, al fine di agevolarne l’accesso a tutte le informazioni di possibile interesse. D’altro canto, però, l’Informahandicap stabilisce con la sua sola esistenza un canale informativo riservato ad una ben precisa categoria di utenti, nel quale facilmente verranno incanalate tutte le richieste dei cittadini disabili, con un evidente effetto di ghettizzazione. La risposta più ovvia a questa contraddizione risiede nella considerazione che un servizio informativo dedicato ai disabili risponde proprio all’obiettivo più generale di combattere l’esclusione sociale che deriverebbe dalle difficoltà con cui il disabile potrebbe procurarsi da sé informazioni per lui spesso vitali, in analogia con quanto avviene per altri servizi pubblici di informazione dedicata (si pensi agli Informagiovani, di tradizione ancor più radicata). Tuttavia, ciò non risolve appieno la questione, insita per certi versi nella nozione stessa di “integrazione sociale”, giacché di fatto si appiattisce la dimensione di cittadinanza della persona con deficit sulla sua situazione di handicap, sia pure con l’intento di combatterla. L’operatore di un URP comunale, ad esempio, difficilmente resisterà alla tentazione di indirizzare qualunque richiesta di un cittadino con evidenti difficoltà motorie verso il servizio Informahandicap “creato appositamente per lui” dallo stesso Comune.

Le caratteristiche dei servizi Informahandicap
Per affrontare in modo più fruttuoso questo paradosso, occorre riflettere sulle caratteristiche e sugli intenti con cui i servizi informativi di settore sono sorti nell’handicap. Innanzitutto, va notato che gli Informahandicap esistenti hanno generalmente un’attenzione per le modalità comunicative maggiore rispetto ad altre realtà della comunicazione pubblica, in particolare tramite una forte diversificazione dei canali comunicativi. Quasi sempre, infatti, lo sportello di informazione per disabili include uno sportello fisico, uno telefonico, un indirizzo e-mail, un sito web spesso aggiornato, e soprattutto tutti questi canali attraverso cui il cittadino può interpellare il servizio sono considerati allo stesso modo, a differenza di quanto accade per alcuni URP, laddove, ad esempio, una richiesta via mail riceve di fatto un trattamento più farraginoso di una sottoposta personalmente presso lo sportello. Probabilmente ciò è dovuto alla percezione, da parte degli operatori, del fatto che il disabile ha più difficoltà del cittadino normodotato ad adeguarsi ai vincoli posti alla fruizione del servizio; una persona in carrozzina può trovare seri ostacoli nel recarsi personalmente alla sede dello sportello, per quanto essa sia in sé accessibile, così come un non udente può trovare nella mail la modalità più comoda di richiedere notizie di suo interesse. Risulta comunque, anche se il discorso è talmente generale da prestarsi a molte smentite in casi specifici, che gli Informahandicap hanno sinora dimostrato di essere più “orientati all’utente” di altri servizi informativi per quanto attiene ai mezzi di comunicazione.
Un aspetto ancor più importante riguarda le strutture delle cui informazioni “si nutrono” i servizi Informahandicap, e più in genere i servizi informativi di settore. Come ben sanno disabili ed operatori, competenze in materia di handicap appartengono ad una marea di enti pubblici e privati: Regioni, Province, Comuni, enti previdenziali (presi singolarmente: le differenze tra INPS e INPDAP in materie come i congedi sono una vera crux operatorum), Aziende USL e associazioni rappresentative. La prova lampante di questa frammentazione sta nel fatto che esponenti di tutte queste strutture, nelle diverse realtà territoriali, hanno assunto la gestione di Informahandicap. In questo contesto, qualunque servizio di informazione ai disabili deve stabilire una rete di relazioni per garantire una qualità sufficiente. Mentre l’URP di un ente pubblico deve rispondere solo per quanto riguarda le proprie attività, e di fronte allo sconfinamento in ambiti altrui può sempre invocare un’eccezione di incompetenza, un simile atteggiamento da parte di un servizio Informahandicap ne limiterebbe fortemente l’utilità pratica. Come è ovvio, però, la frammentazione di competenze vige per ogni settore di interesse di qualunque cittadino, tanto che le leggi che hanno reso più trasparenti ai cittadini le pubbliche amministrazioni negli anni ’90 ponevano già il dovere di rendere “fruibile”, e non semplicemente “disponibile”, l’informazione.
Anche da questa capacità di superare le divisioni di competenza, che è uno dei tratti indispensabili di un Informahandicap, deriva una terza caratteristica, che si potrebbe definire “la necessaria aggressività”. In effetti il termine non è un granché, e sarebbe meglio sostituirlo con “attività”, se a quest’ultimo non fossero associate connotazioni di tran tran più che di impulso. In sostanza, si tratta di un atteggiamento energico che gli Informahandicap hanno, o dovrebbero avere: da un lato verso gli utenti, cercando di raggiungerli con informazioni utili senza attendere per forza che siano loro a rivolgersi al servizio; dall’altro verso le amministrazioni, stimolando la soluzione di casi specifici e l’adozione di politiche generali più efficaci. Se è vero che il rapporto operatore/utente in un Informahandicap si rifà al modello della “presa in carico”, non può che discenderne un servizio dinamico, capace ad esempio di non accontentarsi delle risposte interlocutorie (il famoso “le faremo sapere…”) che l’ufficio competente per la soddisfazione di una richiesta può fornire. Si tratta di un servizio, va sottolineato, strutturalmente più dinamico di quello degli URP, i quali a norma di legge nascono per informare il cittadino su sua richiesta riguardo a pratiche presso quella amministrazione e per raccogliere reclami, dunque con un atteggiamento decisamente passivo (sebbene nel tempo anch’essi abbiano saputo uscire dallo schema della mera risposta allo stimolo dell’utente).

Informazioni all’avanguardia
Attenzione ai canali comunicativi, superamento della frammentazione di competenze, necessaria aggressività: gli Informahandicap (e, in gradi diversi, tutti i servizi informativi di settore) definiscono così la propria differenza, e dunque il proprio senso, rispetto ad URP ed altre strutture di informazione e comunicazione pubblica. Eppure, questi elementi non rispondono ad esigenze caratteristiche dei disabili in quanto tali, ma sarebbero auspicabili da tutti i cittadini, tra cui i disabili stessi. Ecco pertanto che il paradosso tratteggiato all’inizio può venire superato solo in quanto venga ribaltato: gli Informahandicap non sono un servizio pleonastico nel quadro della comunicazione istituzionale, ma ne sono un’avanguardia, lungo le linee appena descritte, e dunque è il resto dell’informazione al cittadino che deve essere integrato alle capacità da questi dimostrate. Tra l’altro, il modello dell’esito di questa integrazione non è frutto di pura immaginazione, dal momento che nei paesi anglosassoni sin dal secondo dopoguerra esistono i Citizens’ Advice Bureaux (CAB), servizi di informazione ai cittadini che rispondono largamente a questa logica multicanale, multisettoriale e dinamica. Naturalmente, però, questo “essere avanti” non è un buon motivo per l’autocompiacimento di chi gestisce o progetta un Informahandicap, quanto piuttosto un quadro concettuale ed uno stimolo pratico continuo (è così facile scivolare nel call-center burocratico e farraginoso…) per fornire servizi di informazione veramente utili alle persone con disabilità. Trovando, al contempo, la propria legittimazione nel rapporto con tutto il mondo dell’informazione al cittadino.

2003: anno europeo delle persone con disabilità

Come molti di voi già sapranno, il 2003 è stato proclamato dall’Unione Europea “Anno Europeo delle Persone con Disabilità”. Questa rubrica, che intende occuparsi di esperienze e problemi relativi alla disabilità in una prospettiva continentale, o per lo meno cercando di allungare il naso oltre i confini nazionali, non poteva trovare miglior battesimo che in una tale iniziativa. Cerchiamo pertanto di capire su quali basi ci si predispone a sottolineare il ruolo dei disabili nella società europea di inizio millennio.

La dichiarazione di Madrid L’Anno Europeo delle Persone con Disabilità nasce da una proposta adottata dal Consiglio dell’Unione il 3 dicembre 2001. In questa scelta molto hanno inciso gli sforzi dell’European Disability Forum (EDF), un’organizzazione-ombrello di promozione dei diritti dei disabili con sede a Bruxelles, nata a metà degli anni ’90 (entro il progetto Helios II) come voce indipendente di supporto all’attività degli organi ufficiali dell’Unione. Per capire lo spirito dell’Anno Europeo, è essenziale analizzare la “Dichiarazione di Madrid”, elaborata con il contributo decisivo dell’EDF. La dichiarazione è stata pubblicata il 26 marzo 2002 a conclusione del 1° Congresso Europeo sulle Persone con Disabilità svoltosi nella capitale spagnola, ed è una sorta di manifesto politico e pratico per il 2003. Il testo integrale, nell’originale inglese/francese e in traduzione italiana, è disponibile presso il sito web www.madriddeclaration.org. Innanzitutto, la Dichiarazione si apre affermando che “la disabilità è una questione di diritti umani”; ciò per sottolineare che l’approccio non deve (più) essere di tipo pietistico e caritativo, o teso a riabilitare l’individuo per adeguarlo alla società esistente, e che al contrario la società deve modificarsi per garantire uguali opportunità ai disabili come a tutti i propri cittadini. Questa precisazione è rilevante perché è ancora diffusa socialmente una mentalità che vede il disabile come persona “in situazione di bisogno”, marcandone così la differenza, e non come “portatore di bisogni” come tutti coloro che vivono in un contesto sociale. L’Anno Europeo deve perciò contribuire a proporre l’immagine del disabile come soggetto cittadino e consumatore, e non più come oggetto di assistenza. Un’altra annotazione importante: le persone disabili sono “cittadini invisibili”. A differenza di quanto accade con altre fasce sociali, discriminate in base ad un pregiudizio di carattere negativo (tossicodipendenti, zingari…), i disabili sono emarginati in quanto vengono ignorati e dimenticati dalla società in senso vasto. Questa assenza di stigma può forse facilitare una campagna per i diritti umani, ma finora ha contribuito al mantenimento di barriere che di fatto escludono il disabile da una piena partecipazione alle proprie comunità. Per di più, con il carattere di “muro di gomma” che può avere questo genere di barriere: mentre per non assumere un sieropositivo devo esplicitare il mio pregiudizio nei suoi confronti, il rifiuto di un disabile può trincerarsi dietro questioni di opportunità pratica apparentemente più condivisibili. Un terzo e importante punto attiene al concetto di “società inclusiva”, che soggiace a questa nuova visione della disabilità. Infatti, se Maometto non va alla montagna, la montagna andrà da Maometto – ovvero, la società non deve portare il disabile al proprio livello ma portarsi al suo. Occorre dunque ridefinire molte pratiche fin banali, dalle modalità di trasporto alla disposizione degli scaffali nei supermercati, per “disegnare un mondo flessibile per tutti” e permettere l’inclusione di tutti gli individui. Nella dichiarazione, per dirla tutta, non mancano punti controversi e un po’ contraddittori. Ad esempio, l’attività da compiere nel 2003 appare concentrata su leggi e norme sociali da promuovere, il che sembra stridere con la (giustissima) constatazione che “le persone disabili formano un gruppo diversificato”, con esigenze spesso peculiari del singolo individuo e non inquadrabili in provvedimenti generici. Ma questo è un problema inevitabile in una dichiarazione di intenti. Più significativo è il fatto che la Dichiarazione di Madrid insista moltissimo su quanto sia cruciale per la piena cittadinanza del disabile l’accesso all’occupazione e la tutela da discriminazioni sul posto di lavoro. Purtroppo, la tendenza generale in Europa sembra essere quella alla precarizzazione dei lavoratori, in qualche caso non senza l’avallo implicito delle politiche comunitarie sulla “occupabilità”, ed è facile ritenere che di questo smantellamento delle tutele i primi a fare le spese saranno proprio i lavoratori di più complesso inserimento. In ogni caso, la Dichiarazione di Madrid è di grande interesse e di portata molto ampia (diversi punti altrettanto importanti devo tralasciarli per ragioni di spazio), e costituisce un punto di riferimento per chiunque intenda proporre iniziative legate all’Anno Europeo in modo non episodico.

La lunga Marcia In queste ultime settimane il calendario delle iniziative sul sito ufficiale dell’Anno Europeo delle Persone con Disabilità, www.eypd2003.org, si sta popolando di segnalazioni relative a diverse nazioni. Gli eventi non sono tutti strettamente legati alla celebrazione, ma l’Anno Europeo serve soprattutto ad accendere i riflettori sui “cittadini invisibili” e sulle iniziative da loro – prima e più che per loro – organizzate, orientandole al contempo verso obiettivi di lunga portata nell’integrazione sociale. Su proposte di questo genere legate al 2003 è possibile reperire informazioni sul web – più che su altri media, la cui carente e distorta rappresentazione della disabilità è questione su cui l’EDF stessa propone diverse campagne di pressione. C’è però un’iniziativa direttamente integrata nell’Anno Europeo, che ne costituirà l’aspetto più evidente: la “Marcia delle Persone”, un autobus coloratissimo che attraverserà l’Unione Europea e concentrerà intorno alla propria vistosa presenza campagne di sensibilizzazione ed eventi. Il bus parte dalla Grecia il 23 gennaio, e concluderà il suo percorso in Italia dal 29 ottobre al 4 dicembre; ci sono dunque quasi 10 mesi di tempo per non farsi trovare impreparati al suo passaggio. Inoltre, se passate le vacanze estive a Londra o Stoccolma e vedete spuntare fuori un pullman che sembra uscito direttamente dalla copertina di Sgt. Pepper, saprete di cosa si tratta… Purtroppo, ad inizio 2003 ancora non c’è traccia di un sito ufficiale sulle campagne in Italia; l’Organismo nazionale di coordinamento è stato recentemente istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ma la sua comunicazione appare finora carente. Questo nonostante il nostro paese abbia un ruolo di primissimo piano nell’Anno Europeo, ospitandone a Roma la manifestazione di chiusura il 3-4 dicembre in concomitanza con la presidenza di turno dell’UE. Mi pare che l’Italia, nel suo complesso, non abbia finora proposto molte iniziative concrete entro questa cornice; ci si può augurare che molto “bolla in pentola”, o che ci sia un bombardamento di manifestazioni nei mesi finali del 2003 all’arrivo della Marcia, ma è legittimo temere che si stia un po’ snobbando l’evento. L’opportunità offerta dall’Anno Europeo delle Persone con Disabilità è molto importante per tutti coloro che vivono o operano in questo mondo; è auspicabile che i riflettori che si accenderanno su di esso si mantengano ben vivi anche nel 2004, 2005…, ma questa attenzione è tutt’altro che certa. Insomma: datevi una mossa, prima del prossimo Capodanno!

Ouch man

Dalla Gran Bretagna, una gomitata agli stereotipi sulla disabilità

“No, non è la BBC”, cantavano sornioni Renzo Arbore e Gianni Boncompagni in Alto Gradimento agli inizi degli anni ’70, riferendosi all’emittente di Stato italiana. E mentre la RAI sta attraversando uno dei periodi più oscuri di tutta la propria storia, la mitica radio-televisione britannica, che pure non se la passa troppo bene, ha avuto l’ottima idea di dedicare, entro il proprio immenso portale BBCi, un intero sito web ad esperienze di vita dal mondo della disabilità. Ma attenzione, perché Ouch! potrebbe turbare molte delle vostre certezze sul tema.

Vita, non risorse

Ouch! è, a partire dal nome, un sito che sfugge deliberatamente a molti degli stereotipi che caratterizzano il discorso sull’handicap. Una testata che significa, letteralmente, “ohi!”, esprime con ciò stesso il rifiuto di ogni pietismo a proposito della disabilità, evidenziando, con ben poca politically correctness, la goffaggine che caratterizza i disabili in molte situazioni sociali, anche perché il paternalismo con cui li si circonda ostacola il raggiungimento di abilità alla loro portata. E proprio parlando del nome, i redattori sottolineano un “odio appassionato” per tutti i termini che eludono il problema della disabilità, sicché da loro probabilmente non ci si può attendere un forte sostegno nella campagna per il termine diversabilità.
Il sito nasce nel giugno 2002, a cura dell’Interactive Factual and Learning Department della BBC (qualcosa di analogo a Rai Educational, per intenderci). Il curatore è Damon Rose, un giovane giornalista non vedente dell’emittente, con un passato di DJ radiofonico ma che ha realizzato anche diversi servizi televisivi, nonché, almeno secondo il “Guardian”, un techie, ovvero un fanatico di tecnologie avanzate – intese non solo come ausili. Gli altri redattori sono quasi tutte persone con qualche disabilità fisica o mentale, che proprio per questo intendono proporre esperienze e riflessioni “dall’interno” su cosa comporta il loro deficit nelle più comuni attività di vita; si tratta di veri e propri giornalisti freelance, ma troviamo tra loro anche un’attrice comica pluri-premiata (Francesca Martinez) e un DJ internet con la passione per il metal (Mik Scarlet).
Ouch! intende parlare della disabilità “così come è”, uscendo dagli eufemismi che caratterizzano altri siti specializzati. Nel panorama web britannico e non solo, infatti, abbondano siti in grado di fornire risorse informative di tipo socio-sanitario o simili; ma come attesta Rose, un disabile ha bisogno solo dell’1% del proprio tempo per raccogliere queste informazioni, mentre nel restante 99% deve vivere la propria vita. Da qui la scelta di parlare piuttosto di “vita, creatività, comunanze e una visione più ampia”, anche per contrastare alcune percezioni del mondo della disabilità che, magari affermandone la “preziosità”, ne tacciono il confronto quotidiano con la banale realtà.

Un rotocalco della disabilità

Colori sgargianti, titoloni, foto, disegni: Ouch! anche a un primo approccio non rientra nello stile grafico spartano, tipico dei siti di servizio, che si ritiene doveroso fornire al disabile – e tuttavia, come intuibile dalle caratteristiche del curatore e confermato dalla candidatura al premio specifico del BAFTA (British Academy of Film and Television Arts), il sito è nella sostanza pienamente accessibile, il che rappresenta già una sfida vinta su molti webmaster pigri. Inoltre, pur con alcune difficoltà a muoversi nella struttura un po’ caotica, è possibile trovare articoli su argomenti di ogni genere, dalla cultura ai problemi sociali e alla satira. Come in una vendetta della RAI sui cugini d’Albione, “di tutto, di più”.Il modello cui il sito sembra ispirarsi, a ben vedere, è quello del rotocalco, inteso non nella connotazione deteriore di giornaletto dedito a gossip e frivolezze varie, bensì nell’accezione originaria e più nobile di testata capace di dare a temi popolari una veste spettacolare ed iconica (se non letteralmente, nello stile graffiante ed aforistico di scrittura). Questo può spiazzare alcuni, perché un articolo regolarmente dedicato a una “Disability Bitch”, un personaggio famoso con disabilità di cui si evidenzia in modo semiserio perché sia “stronzo/a”, risulta decisamente inconsueto; tuttavia, proprio in questo stile sta la grandezza di Ouch!, perché in molti alberga la convinzione che dalla “vita vera”, trivialità e mediocrità incluse, occorra preservare chi ha un deficit (un po’ come si trattano i bambini?).Altri contenuti sono più tranquilli, ma non meno creativi: spicca ad esempio “The Vegetables”, cartone animato sulle vicende di una patata in un mondo di non-patate. Più tradizionale la rassegna stampa specializzata, con i link ai principali giornali on-line. Navigando qua e là, è comunque possibile trovare molti contributi di un certo interesse: esperienze di sci di una disabile motoria, usi terapeutici (e non solo) della marijuana, confronti tra i sistemi di salute mentale britannico e australiano. Il tutto con uno stile giornalistico e al contempo ricco di ironia, che non rende noiosa la lettura – al massimo la complica, se non siete di madrelingua inglese. Anche i servizi tecnicamente più vicini a quelli di altri siti se ne distaccano nella sostanza: “Access to go” è un database di segnalazioni sull’accessibilità di pub, ristoranti e nightclubs – il che ci ricorda come con una ragazza in carrozzina non dobbiamo per forza andare al museo, ma possiamo pure scegliere di ubriacarci di Guinness.Gli aggiornamenti irregolari e la struttura poco chiara rendono fortemente consigliata l’iscrizione alla newsletter, per non lasciarsi sfuggire proprio l’articolo che interessa (anche perché recuperarlo con il motore di ricerca, come potete verificare, non è così semplice). L’interattività non finisce qui: sul sito sono presenti anche sondaggi, test (molto gettonato “quanto sei disabile”, con risultato in percentuale), bacheche elettroniche, ed in ossequio all’ultima moda Internet un weblog (“Crippled Monkey”, né più né meno che “Scimmia Invalida”) cui è possibile segnalare ciò che si muove nell’ambito della disabilità e dei media.
Spirito libero, humour nero
L’impressione che ci si fa della disabilità in Inghilterra, tramite la lente limitata ma illuminante di Ouch!, è soprattutto quella di una realtà vissuta come individuale. Per citare solo il segnale più evidente, è veramente difficile trovare negli articoli riferimenti ad associazioni di rappresentanza dei disabili, che invece in Italia sono preminenti nello sviluppo del discorso sociale sulla disabilità. Chi scrive sembra sottolineare il proprio sforzo personale di fronte alla società, rimarcando lo status di cittadino con diritti e con problemi quotidiani da affrontare, ed il suo obiettivo primario è raggiungere, più che una compiuta integrazione sociale, una sempre più piena vita indipendente. L’atteggiamento individualista è notoriamente tipico delle società anglosassoni, ma anche senza scomodare Max Weber si possono trovare ragioni più specifiche per una simile condotta dei disabili. La storia dei servizi sociali nel Regno Unito è caratterizzata infatti dalla preponderanza delle charity organizations, associazioni per il sostegno delle categorie sociali più deboli che risalgono al XVIII secolo. Questo tipo di modello è entrato in crisi negli anni ’80, quando da un lato il paternalismo che reggeva gran parte delle charities è apparso sempre più inadeguato ai tempi, dall’altro Margaret Thatcher ha tagliato drasticamente le risorse per le politiche sociali. Oggi, pertanto, i disabili inglesi pongono in particolare rilievo i loro diritti civili prima che le loro necessità assistenziali – anche se, come un articolo di Ouch! a firma di Tom Shakespeare sottolinea, sembra giunto il momento di rivalutare il ruolo delle charities nel sistema sociale britannico. Il self-made-man-style dominante, almeno nel gruppo dei disabili “integrati” di cui fanno parte i redattori di Ouch!, pare essere causa ed effetto di un’attenzione sociale alle esigenze del disabile maggiore che nel nostro Paese: per fare un confronto sommario, Sunil Peck si lamenta dei ritardi e del sovraffollamento del trasporto pubblico londinese, Franco Bomprezzi di non poter utilizzare affatto quello milanese. Non si può però fare a meno di collegare a questa visione, che si traduce non di rado in un “uno contro tutti”, un’affermazione programmatica del curatore Rose, secondo cui lo stile del sito risponde al fatto che “i disabili hanno spesso un forte senso dello humour nero”. In effetti, in molti testi di Ouch! si riscontra come la sfida tra disabile e la società tenda a risolversi in situazioni grottesche nella loro tragicità. Un esempio limpido di questo è l’articolo di Kristina Venning in cui, dietro l’ironica descrizione delle goffaggini di infermieri e oculisti di fronte ad una persona con deficit visivo, emerge, nitida ma mai drammatizzata, la sofferenza personale. L’humour nero è una scelta stilistica spesso vincente, specie raffrontata al pietismo che spesso affiora in molti dibattiti sulla condizione del disabile. È un segno positivo che David Blunkett, Ministro degli Interni cieco dell’attuale governo Blair, non sia un simbolo dell’“orgoglio disabile” come forse sarebbe in Italia, ma finisca dritto nell’irriverente galleria delle “Disability Bitches”. Tuttavia, provenendo tra l’altro da una nazione famosa per un umorismo di senso radicalmente diverso, questo amor del grottesco lascia sospettare che l’atteggiamento “muscolare” prima descritto di fronte alla discriminazione o all’indifferenza non sia necessariamente il più adeguato. In ogni caso, Ouch! costituisce un modello di cui occorrerebbe fare memoria ogni volta che chi parla di disabilità ad ogni livello, magari senza esserne direttamente coinvolto, è tentato di far leva sulle “corde del cuore” dei destinatari. Ancora pochi sono abbastanza coraggiosi, fuori dalle nicchie della pubblicistica sul tema della disabilità, da parlare dei disabili non necessariamente come vittime di una società ingiusta.

CONTATTI www.bbc.co.uk/oucha/a>

Indirizzo postale: Room 2464 – BBC White City – 201 Wood Lane London W12 7TS – ENGLAND Casella vocale: +44–20–87525444 Fax: +44–20–87527306 E-mail: ouch@bbc.co.uk

Ouch, man!

Ouch Man!

OUCH, MAN! Dalla Gran Bretagna, una gomitata agli stereotipi sulla disabilità

“No, non è la BBC”, cantavano sornioni Renzo Arbore e Gianni Boncompagni in Alto Gradimento agli inizi degli anni ’70, riferendosi all’emittente di Stato italiana. E mentre la RAI sta attraversando uno dei periodi più oscuri di tutta la propria storia, la mitica radio-televisione britannica, che pure non se la passa troppo bene, ha avuto l’ottima idea di dedicare, entro il proprio immenso portale BBCi, un intero sito web ad esperienze di vita dal mondo della disabilità. Ma attenzione, perché Ouch! potrebbe turbare molte delle vostre certezze sul tema.

Vita, non risorse
Ouch! è, a partire dal nome, un sito che sfugge deliberatamente a molti degli stereotipi che caratterizzano il discorso sull’handicap. Una testata che significa, letteralmente, “ohi!”, esprime con ciò stesso il rifiuto di ogni pietismo a proposito della disabilità, evidenziando, con ben poca politically correctness, la goffaggine che caratterizza i disabili in molte situazioni sociali, anche perché il paternalismo con cui li si circonda ostacola il raggiungimento di abilità alla loro portata. E proprio parlando del nome, i redattori sottolineano un “odio appassionato” per tutti i termini che eludono il problema della disabilità, sicché da loro probabilmente non ci si può attendere un forte sostegno nella campagna per il termine diversabilità. Il sito nasce nel giugno 2002, a cura dell’Interactive Factual and Learning Department della BBC (qualcosa di analogo a Rai Educational, per intenderci). Il curatore è Damon Rose, un giovane giornalista non vedente dell’emittente, con un passato di DJ radiofonico ma che ha realizzato anche diversi servizi televisivi, nonché, almeno secondo il “Guardian”, un techie, ovvero un fanatico di tecnologie avanzate – intese non solo come ausili. Gli altri redattori sono quasi tutte persone con qualche disabilità fisica o mentale, che proprio per questo intendono proporre esperienze e riflessioni “dall’interno” su cosa comporta il loro deficit nelle più comuni attività di vita; si tratta di veri e propri giornalisti freelance, ma troviamo tra loro anche un’attrice comica pluri-premiata (Francesca Martinez) e un DJ internet con la passione per il metal (Mik Scarlet).
Ouch! intende parlare della disabilità “così come è”, uscendo dagli eufemismi che caratterizzano altri siti specializzati. Nel panorama web britannico e non solo, infatti, abbondano siti in grado di fornire risorse informative di tipo socio-sanitario o simili; ma come attesta Rose, un disabile ha bisogno solo dell’1% del proprio tempo per raccogliere queste informazioni, mentre nel restante 99% deve vivere la propria vita. Da qui la scelta di parlare piuttosto di “vita, creatività, comunanze e una visione più ampia”, anche per contrastare alcune percezioni del mondo della disabilità che, magari affermandone la “preziosità”, ne tacciono il confronto quotidiano con la banale realtà.

Un rotocalco della disabilità
Colori sgargianti, titoloni, foto, disegni: Ouch! anche a un primo approccio non rientra nello stile grafico spartano, tipico dei siti di servizio, che si ritiene doveroso fornire al disabile – e tuttavia, come intuibile dalle caratteristiche del curatore e confermato dalla candidatura al premio specifico del BAFTA (British Academy of Film and Television Arts), il sito è nella sostanza pienamente accessibile, il che rappresenta già una sfida vinta su molti webmaster pigri. Inoltre, pur con alcune difficoltà a muoversi nella struttura un po’ caotica, è possibile trovare articoli su argomenti di ogni genere, dalla cultura ai problemi sociali e alla satira. Come in una vendetta della RAI sui cugini d’Albione, “di tutto, di più”. Il modello cui il sito sembra ispirarsi, a ben vedere, è quello del rotocalco, inteso non nella connotazione deteriore di giornaletto dedito a gossip e frivolezze varie, bensì nell’accezione originaria e più nobile di testata capace di dare a temi popolari una veste spettacolare ed iconica (se non letteralmente, nello stile graffiante ed aforistico di scrittura). Questo può spiazzare alcuni, perché un articolo regolarmente dedicato a una “Disability Bitch”, un personaggio famoso con disabilità di cui si evidenzia in modo semiserio perché sia “stronzo/a”, risulta decisamente inconsueto; tuttavia, proprio in questo stile sta la grandezza di Ouch!, perché in molti alberga la convinzione che dalla “vita vera”, trivialità e mediocrità incluse, occorra preservare chi ha un deficit (un po’ come si trattano i bambini?). Altri contenuti sono più tranquilli, ma non meno creativi: spicca ad esempio “The Vegetables”, cartone animato sulle vicende di una patata in un mondo di non-patate. Più tradizionale la rassegna stampa specializzata, con i link ai principali giornali on-line. Navigando qua e là, è comunque possibile trovare molti contributi di un certo interesse: esperienze di sci di una disabile motoria, usi terapeutici (e non solo) della marijuana, confronti tra i sistemi di salute mentale britannico e australiano. Il tutto con uno stile giornalistico e al contempo ricco di ironia, che non rende noiosa la lettura – al massimo la complica, se non siete di madrelingua inglese. Anche i servizi tecnicamente più vicini a quelli di altri siti se ne distaccano nella sostanza: “Access to go” è un database di segnalazioni sull’accessibilità di pub, ristoranti e nightclubs – il che ci ricorda come con una ragazza in carrozzina non dobbiamo per forza andare al museo, ma possiamo pure scegliere di ubriacarci di Guinness.
Gli aggiornamenti irregolari e la struttura poco chiara rendono fortemente consigliata l’iscrizione alla newsletter, per non lasciarsi sfuggire proprio l’articolo che interessa (anche perché recuperarlo con il motore di ricerca, come potete verificare, non è così semplice). L’interattività non finisce qui: sul sito sono presenti anche sondaggi, test (molto gettonato “quanto sei disabile”, con risultato in percentuale), bacheche elettroniche, ed in ossequio all’ultima moda Internet un weblog (“Crippled Monkey”, né più né meno che “Scimmia Invalida”) cui è possibile segnalare ciò che si muove nell’ambito della disabilità e dei media.

Spirito libero, humour nero
L’impressione che ci si fa della disabilità in Inghilterra, tramite la lente limitata ma illuminante di Ouch!, è soprattutto quella di una realtà vissuta come individuale. Per citare solo il segnale più evidente, è veramente difficile trovare negli articoli riferimenti ad associazioni di rappresentanza dei disabili, che invece in Italia sono preminenti nello sviluppo del discorso sociale sulla disabilità. Chi scrive sembra sottolineare il proprio sforzo personale di fronte alla società, rimarcando lo status di cittadino con diritti e con problemi quotidiani da affrontare, ed il suo obiettivo primario è raggiungere, più che una compiuta integrazione sociale, una sempre più piena vita indipendente.
L’atteggiamento individualista è notoriamente tipico delle società anglosassoni, ma anche senza scomodare Max Weber si possono trovare ragioni più specifiche per una simile condotta dei disabili. La storia dei servizi sociali nel Regno Unito è caratterizzata infatti dalla preponderanza delle charity organizations, associazioni per il sostegno delle categorie sociali più deboli che risalgono al XVIII secolo. Questo tipo di modello è entrato in crisi negli anni ’80, quando da un lato il paternalismo che reggeva gran parte delle charities è apparso sempre più inadeguato ai tempi, dall’altro Margaret Thatcher ha tagliato drasticamente le risorse per le politiche sociali. Oggi, pertanto, i disabili inglesi pongono in particolare rilievo i loro diritti civili prima che le loro necessità assistenziali – anche se, come un articolo di Ouch! a firma di Tom Shakespeare sottolinea, sembra giunto il momento di rivalutare il ruolo delle charities nel sistema sociale britannico. Il self-made-man-style dominante, almeno nel gruppo dei disabili “integrati” di cui fanno parte i redattori di Ouch!, pare essere causa ed effetto di un’attenzione sociale alle esigenze del disabile maggiore che nel nostro Paese: per fare un confronto sommario, Sunil Peck si lamenta dei ritardi e del sovraffollamento del trasporto pubblico londinese, Franco Bomprezzi di non poter utilizzare affatto quello milanese. Non si può però fare a meno di collegare a questa visione, che si traduce non di rado in un “uno contro tutti”, un’affermazione programmatica del curatore Rose, secondo cui lo stile del sito risponde al fatto che “i disabili hanno spesso un forte senso dello humour nero”.
In effetti, in molti testi di Ouch! si riscontra come la sfida tra disabile e la società tenda a risolversi in situazioni grottesche nella loro tragicità. Un esempio limpido di questo è l’articolo di Kristina Venning in cui, dietro l’ironica descrizione delle goffaggini di infermieri e oculisti di fronte ad una persona con deficit visivo, emerge, nitida ma mai drammatizzata, la sofferenza personale. L’humour nero è una scelta stilistica spesso vincente, specie raffrontata al pietismo che spesso affiora in molti dibattiti sulla condizione del disabile. È un segno positivo che David Blunkett, Ministro degli Interni cieco dell’attuale governo Blair, non sia un simbolo dell’“orgoglio disabile” come forse sarebbe in Italia, ma finisca dritto nell’irriverente galleria delle “Disability Bitches”. Tuttavia, provenendo tra l’altro da una nazione famosa per un umorismo di senso radicalmente diverso, questo amor del grottesco lascia sospettare che l’atteggiamento “muscolare” prima descritto di fronte alla discriminazione o all’indifferenza non sia necessariamente il più adeguato. In ogni caso, Ouch! costituisce un modello di cui occorrerebbe fare memoria ogni volta che chi parla di disabilità ad ogni livello, magari senza esserne direttamente coinvolto, è tentato di far leva sulle “corde del cuore” dei destinatari. Ancora pochi sono abbastanza coraggiosi, fuori dalle nicchie della pubblicistica sul tema della disabilità, da parlare dei disabili non necessariamente come vittime di una società ingiusta.

CONTATTI http://www.bbc.co.uk/ouch Indirizzo postale: Room 2464 – BBC White City – 201 Wood Lane London W12 7TS – ENGLAND Casella vocale: +44–20–87525444 Fax: +44–20–87527306 E-mail: ouch@bbc.co.uk

Europa Europa

Devo confessare che ho sempre avuto una forte diffidenza per i “motivatori psicologici”. Forse perché li ho sempre associati inconsciamente (ma non troppo, se lo scrivo) con il contesto sociale delle conventions di venditori multilevel, quelle in cui un capo carismatico cerca di convincere con strepiti e grida una massa di persone che vendere è bellissimo e che loro possono diventare i più bravi a farlo – con ovvi retroscena truffaldini. O forse, a livello più profondo, perché nella società in cui viviamo molti “cercan di insegnarti che a soffrire si migliora”, e tanto è facile interiorizzare questa visione che si tende a guardare ogni forma di “pensiero positivo” o di sforzo di automiglioramento con forte sospetto. Tutto questo per dire che l’intervista a Bengt Elmén, ma meglio ancora la sua esperienza di vita, mi hanno posto un po’ in difficoltà. Elmén è un uomo colpito da paralisi cerebrale infantile, che ha avuto una carriera imprenditoriale fulminante (nella Stockholm Cooperative for Independent Living, che oggi assiste circa 9.000 disabili), e che oggi è un consulente richiestissimo per seminari, per l’appunto, di motivazione psicologica. Lui si definisce piuttosto un “mentore”, che aiuta le persone a raggiungere i propri obiettivi superando le difficoltà psicologiche che spesso si frappongono tra il desiderio e l’azione, come appunto Mentore ricevette in affidamento da Ulisse il figlio Telemaco perché gli facesse da guida per le sue scelte, senza sostituirsi a lui. Le sue parole, come leggerete, sono spesso molto semplici, e lasciano capire che anche da situazioni personali difficili si può uscire con consigli non accademici, ma legati alla saggezza della vita quotidiana. Ora, è vero che il Regno di Dio viene svelato ai piccoli e non ai sapienti, ma, e qui sta il punto (al di là delle mie idiosincrasie personali), forse molti tenderebbero a derubricare questi consigli come troppo ingenui, se non venissero da una persona che da una posizione di debolezza fisica ha saputo costruire una grande solidità e apertura psicologica. Il che chiama poi in causa un legame, che si nasconde tra i nostri occhi “disincantati”, tra disabilità e sofferenza, legame che Elmén non combatte come pregiudizio ma sa estendere e generalizzare a tutte le persone, per invitarle ad “andare oltre”. Sicuramente, Bengt Elmén ha saputo trasformare la propria “sfiga” in “sfida” e vincerla. Benché la mia diffidenza per chi fa dello psychological training la propria professione non sia scomparsa, anche grazie a lui il pregiudizio è divenuto dubbio.

Come si presenterebbe in breve?
Sono uno svedese di 42 anni, che si interessa dell’aiutare altri a scoprire nuovi modi di valutare la vita e se stessi.
Che cos’è un “raggiungitore” (achiever) nella sua concezione? E un “mentore” (mentorer)?
A mio avviso, un raggiungitore è qualcuno che vuole ottenere qualcosa. Lui o lei vogliono lasciare il segno. Vogliono che questo mondo sia in una forma migliore quando se ne andranno di quanto fosse quando sono arrivati. Un mentore è qualcuno che vuole aiutare gli altri a crescere. Il mentoring non dovrebbe mai essere reso più complicato di quanto non sia. In un modo o nell’altro, tutti noi siamo mentori di quando in quando. Come genitori, siamo mentori per i nostri figli. Come nonni e nonne, siamo mentori per i nostri nipoti. Siamo mentori a volte per i figli di altri e per i giovani. Forse avete lavorato con i giovani in un’associazione o in un’altra organizzazione. Forse prendete di tanto in tanto un caffè con un amico d’infanzia e fate una bella chiacchierata sulla vita. Anche se questo tipo di incontro è spontaneo, può essere una forma di mentoring.
Ci può raccontare qualche aneddoto o episodio significativo sulla sua esperienza?
Nel mio “kit per raggiungitori” ho citato un episodio che mi ha insegnato l’importanza della flessibilità, quando ho dovuto passare una notte senza dormire a Seattle. Era la prima volta che facevo un viaggio all’estero con assistenti personali. Il viaggio era fino alla California. Era grandioso poter finalmente fare un viaggio simile senza i miei genitori. Avevo circa 30 anni. Ma feci anche molti errori. E probabilmente il più grande fu che presi con me troppo pochi assistenti. Avevo deciso di stare via sei settimane e avevo diviso il mio tempo in due periodi di tre settimane, con due assistenti per ogni periodo. Per le prime tre settimane avevo due uomini che lavoravano da soli un giorno sì e uno no. Quando loro tornarono a casa, furono sostituiti da due donne. Ci rendemmo velocemente conto che era piuttosto stressante per loro lavorare un giorno sì e uno no. Io ho bisogno di assistenza durante tutte le mie ore di veglia, che sono circa 12-15 al giorno. Così al momento in cui i ragazzi stavano per partire eravamo piuttosto stanchi l’uno degli altri, e quando le ragazze e io stavamo per partire per casa, eravamo, se possibile, ancora più stanchi. Probabilmente tutti noi abbiamo sperimentato viaggi in cui, verso la fine, non pensiamo ad altro che tornare a casa. Questo viaggio fu peggio. La minima differenza di opinione causava irritazione tra di noi. Così stavano le cose quando ci imbarcammo per il volo di ritorno. Dopo uno scalo a Portland, stavamo per dirigerci a Seattle, dove avremmo dovuto prendere il volo per la nostra amata Svezia. Ma qualcosa andò storto dopo l’atterraggio a Portland: il volo fu ritardato e poi annullato per problemi all’aereo, e dovemmo prendere un altro volo. Ce l’avremmo fatta in tempo per la nostra coincidenza a Seattle? Dopo un lungo periodo, gli assistenti di volo ci dissero che non ce l’avremmo fatta, ma che c’era comunque la possibilità di fare in tempo per un altro volo. Quando però atterrammo a Seattle, finimmo a sedere in attesa. Nessuno tra il personale della compagnia sembrava poterci aiutare, e ognuno ci rinviava ad altri. Non eravamo minimamente nello spirito per questo tipo di caos; volevamo andare a casa, e non volevamo continuare a correre qua e là per l’aeroporto con il nostro bagaglio a rimorchio, parlando con un operatore della compagnia aerea dopo l’altro senza venire aiutati. Finalmente, una persona gentile ci informò che non c’erano più voli per l’Europa del Nord quel giorno. Ci avrebbero invece offerto sistemazioni per la notte così che avremmo potuto prendere regolarmente il volo il giorno dopo. Fummo prenotati allo Sheraton e trasportati là. Potemmo fare una doccia, mangiare un pasto eccellente e infine riposarci un po’. Nel mezzo della notte fui però svegliato da un rumore di sgocciolio. Dal momento che non riuscivo a riaddormentarmi, dovetti arrampicarmi nella mia carrozzina per provare a scoprire da dove venisse il rumore. Nel bagno, scoprii che il gabinetto non stava funzionando bene: l’acqua sembrava scorrerci dentro. Provai a tirare l’acqua alcune volte, ma senza esito. Chiusi la porta del bagno, ma presto scoprii che questo non mi impediva di sentire lo sgocciolio. Cosa fare? Non sarebbe stato giusto svegliare una delle mie assistenti solo per questo nel cuore della notte. Decisi allora che per dormire quella notte dovevo prendere cura di me stesso. La cosa più ovvia sarebbe stata chiamare la reception e lasciare che se ne preoccupassero loro. Ma questo non sarebbe stato così facile per me. Dal momento che non posso tenere una cornetta del telefono al mio orecchio, avrei dovuto in qualche modo sganciare la cornetta dalla base del telefono, digitare il numero con il naso e quindi posizionare la cornetta in modo da poter parlare nel microfono. Feci tutto questo sul mio letto. Salii sulle ginocchia al bordo del letto e misi il telefono sul letto in modo da poter digitare il numero con il naso. Ma cosa avrei detto? E mi avrebbero capito? La maggioranza delle persone probabilmente esiterebbe a chiamare una reception di un hotel nel bel mezzo della notte, in un paese straniero, solo per dire che il gabinetto non funziona a dovere. Oltre a questo, ho una difficoltà di linguaggio che rende difficile per persone che non mi conoscono il comprendermi al telefono. Ma non mi diedi il tempo di pensare a questo. Semplicemente chiamai e dissi “il mio gabinetto è fuori servizio”. Come se fosse la cosa più naturale al mondo, l’addetto alla reception disse “manderò su qualcuno”. Quindici minuti dopo, un idraulico stava alla mia porta, cassetta degli attrezzi in mano. Riparò il gabinetto in due minuti e se ne era andato prima che potessi conoscerlo. La mattina dopo, al mio risveglio, mi chiesi se avevo sognato il tutto. Era troppo surreale incontrare un idraulico nel mezzo della notte allo Sheraton solo perché non riuscivo a dormire a Seattle.
Come ha inciso la sua disabilità sulla sua vita e carriera (se ha inciso)?
Io penso che la mia disabilità ha contribuito a una esperienza di vita unica per me. Tra le altre cose, la mia disabilità mi ha insegnato a definire obiettivi per il futuro, cercare sempre opportunità piuttosto che indugiare sulle sofferenze, e cercare di trovare la pace nelle nostre vite. Questo è il tipo di saggezza che tento di comunicare.
La Svezia, e i paesi nordici in generale, sono abitualmente associati con una grande attenzione alle persone con disabilità, dal lato sia del welfare che dell’integrazione nella società. Lei confermerebbe o smentirebbe questo “mito”?
Sì e no. Come ho scritto in una presentazione della STIL, la cooperativa di assistenza che ho diretto per cinque anni, per decenni la Svezia è stata guardata come il numero uno al mondo per il welfare state sociale. Tuttavia, fino a poco tempo fa i servizi sociali sono stati disegnati esclusivamente da professionisti ed esperti. Gli individui che sono stati sostenuti dai sistemi avevano ben poco da dire quanto al disegno dei servizi. Nel caso delle persone disabili questa mancanza di controllo significa anche una mancanza di opportunità di dare forma alla propria vita. La STIL ha trovato il suo obiettivo, a metà degli anni ’80, proprio nel lanciare una nuova maniera di organizzare l’assistenza personale ai disabili a partire dalle loro necessità.
I nostri lettori spesso devono fronteggiare difficoltà collegate alla disabilità. Ha consigli su come possono assumere un approccio psicologico migliore alla loro situazione?
Tutti gli esseri umani incontrano allorquando la sofferenza nelle loro vite. È una parte naturale della vita. Nessuno può evitarla. Il tipo di sofferenza differisce da persona a persona. Alcuni di noi sono disabili. Altri possono perdere un parente stretto, e altri ancora possono subire un incidente d’auto. Quando qualcosa di difficile avviene nelle nostre vite, penso sia importante lasciare uscire tutti i sentimenti. In generale, gli italiani sono più esperti in quest’area di quanto siamo noi svedesi. Potete essere tristi o arrabbiati. Questo è OK. Ma dopo un po’ è tempo di decidere come andare oltre. È tempo di cercare nuove opportunità, perché avete la responsabilità di cercare di tirar fuori il meglio dal resto della vostra vita. Nessun altro ve la riparerà per voi. A quel punto, dovete dare un’occhiata a quanto potete e quanto non potete fare. Quali sono le vostre priorità? Quali sono le attività che vi piacciono e con quali persone vi piace andare in giro? In altri termini, come volete spendere il resto della vostra vita su questo pianeta? Quali sono i vostri doni speciali che volete nutrire? Mario Ruppolo [il personaggio interpretato da Massimo Troisi, ndr], ad esempio, nel meraviglioso film Il Postino, superava le proprie difficoltà imparando a scrivere poesie.
Memore forse del turbolento viaggio sulla West Coast americana (in cui però ha sperimentato l’esperienza paranormale di un idraulico in 15 minuti!!), Bengt Elmén non ha al momento progetti di viaggio in Europa e in Italia. Se comunque volete contattarlo o saperne di più sulla sua attività, eccovi tutti i recapiti:

Bengt Elmén Sothönsgränd 5 12349 Farsta, Sweden Tel. +46-8-949871, Fax +46-8-6040723 mail@bengtelmen.com / www.bengtelmen.com

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la follia nell’età classica – o in Romania, oggi: gli istituti psichiatrici in un Paese prossimo membro UE

La Romania, insieme alla vicina Bulgaria, dovrebbe diventare membro dell’Unione Europea a inizio 2007, dopo la firma del trattato di adesione il 25 aprile 2005. Sul tema della salute mentale, tuttavia, sembra esistere un abisso tra gli standard condivisi e praticati nell’Europa occidentale e quelli di questo Paese candidato. E questo non tanto sul piano dei risultati, il che sarebbe forse comprensibile considerando il divario economico con un Paese che già ai tempi del COMECON era tra i più poveri del blocco orientale, quanto, almeno all’apparenza, a livello di impostazione delle politiche sociali mirate al deficit mentale.

Il caso di Poiana Mare
Una temporanea luce internazionale sulla Romania è stata gettata dopo la tragedia avvenuta nei primi mesi del 2004 in un ospedale di Poiana Mare, nel sud-ovest del Paese. Tra gennaio e febbraio 2004, non meno di 17 pazienti di un istituto psichiatrico sono deceduti per denutrizione e ipotermia, e ispezioni di una ONG locale hanno accertato 83 decessi per gli stessi motivi nel 2003. Va rilevato che un rapporto datato 19 febbraio 1998, a cura del Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa, aveva già collegato alla denutrizione ben 25 decessi avvenuti a Poiana Mare nel 1995, invitando le autorità rumene a prendere adeguate misure per migliorare le condizioni di vita nell’ospedale psichiatrico; un funzionario del Ministero della Sanità si impegnò a chiudere l’ospedale e a trasferire i pazienti in strutture più idonee, ma tale promessa non divenne mai realtà.
Amnesty International è stata negli ultimi anni l’associazione più attiva nel denunciare le gravi mancanze del sistema psichiatrico rumeno. Il “caso Poiana Mare” nacque da una sua segnalazione di azione urgente del 20 febbraio 2004, che riportava la notizia dei decessi sulla base delle informazioni raccolte dal CRJ, una ONG rumena per i diritti umani. Nei giorni seguenti i quotidiani nazionali rumeni fornirono ulteriori dettagli: il personale sanitario curò i molti pazienti affetti da pidocchi solo dopo un’ispezione ministeriale; il riscaldamento non era funzionante, mentre la temperatura esterna era di 7 gradi sotto zero; una paziente schizofrenica partorì nell’ospedale senza assistenza e senza che i dottori sapessero nemmeno che era incinta. Un’associazione rumena di pazienti parlò di “genocidio sanitario”. Un paio di teste (i direttori dell’ospedale e del distretto sanitario locale) saltarono, fu avviata un’inchiesta penale sui decessi – poi archiviata senza incriminazioni, una preannunciata visita del Ministro della Sanità trovò condizioni tutto sommato decenti, furono comminate sanzioni (presto cancellate) al personale medico e infermieristico, e le richieste di chiusura dell’ospedale psichiatrico caddero nel vuoto.
Il 19 maggio 2004 Amnesty sospese l’appello urgente, impegnandosi a una campagna con altri mezzi, in particolare la pubblicazione di un memorandum al governo rumeno (4 maggio 2004) sul sistema psichiatrico, cui le autorità governative risposero senza smentire le violazioni dei diritti umani citate ma impegnandosi a migliorare la situazione. Una serie di misure fu adottata dal governo in maggio, ma solo per i 6 ospedali psichiatrici ad alta sicurezza gestiti direttamente dal Ministero della Sanità. Secondo il rapporto annuale 2004 di Amnesty sulla Romania, l’impegno governativo a migliorare le norme sulla salute mentale, previsto per novembre 2004, non era stato mantenuto alla fine dello stesso anno, e in ogni caso le visite di osservatori locali non avevano riscontrato miglioramenti in molti ospedali psichiatrici. Nel marzo 2005 una delegazione di Amnesty in visita al governo rumeno, cambiato dopo le elezioni di fine 2004, ha raccolto segnali più incoraggianti per una riforma dell’assistenza psichiatrica nazionale, ma restano molti dubbi sui miglioramenti concreti da attendersi, anche per la scarsità di risorse apertamente confessata dallo stesso governo.

L’internamento secondo Foucault
Fin qui, tuttavia, il caso di Poiana Mare potrebbe essere inquadrato come il riflesso di una società con un diffuso stato di povertà, dove di conseguenza anche strutture pubbliche risentono delle difficoltà economiche al punto da non riuscire a garantire la salute dei propri pazienti. Del resto, un elemento mai smentito è che le risorse garantite all’ospedale per cibo, riscaldamento e medicinali fossero regolarmente inferiori a quelle necessarie per quel numero di pazienti. Il caso della Romania risulterebbe anche meno scandaloso di quelli che periodicamente la cronaca italiana porta alla ribalta, con case di riposo in cui gli anziani sono tenuti in condizioni inumane, in quanto il contesto sociale in cui queste ultime si collocano è quello di un relativo benessere diffuso.
Tuttavia, come spesso avviene, il diavolo si nasconde nei dettagli. Nel citato rapporto di Amnesty si può anche leggere che “molte persone internate in reparti e ospedali psichiatrici non avevano apparentemente bisogno di alcun trattamento psichiatrico. Molti giovani sono stati inseriti negli istituti solo perché privi di una famiglia e in assenza di programmi specifici per il loro reinserimento nelle comunità di appartenenza”. Lo stesso ospedale di Poiana Mare nasce non come istituzione medica, bensì come centro di internamento per dissidenti del regime di Ceausescu, sia pure etichettati ad arte come “folli”; e proprio a Poiana Mare coesistevano un reparto per malati mentali e uno per persone affette da tubercolosi, ed è attestato un caso di decesso per AIDS non trattato medicalmente.
Queste informazioni richiamano alla memoria le analisi di Michel Foucault su come si è costituita storicamente l’esperienza della malattia mentale, in particolare in Storia della follia nell’età classica. Foucault, in quella che era la sua tesi di dottorato del 1961, descrive come verso la metà del ’600 la follia, in precedenza vissuta entro la società in virtù del suo ambiguo legame al sacro ed elogiata nel più famoso testo di Erasmo da Rotterdam, diventa oggetto di internamento e netta separazione dal corpo sociale. Ma soprattutto, Foucault rileva che la “sragione”, per come viene costituendosi in quel momento storico, non include solo quelli che oggi potremmo individuare come “malati mentali”, ma anche paralitici, mendicanti, indigenti, criminali e libertini – una folla che oggi ci appare del tutto eterogenea, ma che proprio il “grande internamento” istituisce come aliena alla società nel momento in cui la rinchiude in strutture impenetrabili di lavoro forzato. La specificità della follia e il dominio del suo trattamento medico emerge solo verso la fine del ’700, anche se Foucault si impegna a smontare il mito che vede il passaggio cruciale nella “liberazione dei folli dalle catene”, che la leggenda attribuisce al medico Pinel nell’ospedale di Bicêtre nel 1793 (e in realtà opera probabile, in termini più limitati, di un suo successore).
Certo, tre secoli non sono passati invano. Nel ’600 l’associazione tra follia e altre “assenze di ragione” più etiche che cliniche veniva creata quasi dal nulla dall’internamento; ciò che pare avvenire in Romania oggi (e sicuramente è avvenuto con Ceausescu) pare, all’opposto, lo sfruttamento del carattere totalizzante del manicomio per tentare una rieducazione forzata di individui “pericolosi”, qualunque cosa ciò significhi per chi prende tale decisione. L’istituzionalizzazione di persone senza alcun deficit mentale potrebbe però rispondere anche alla necessità di non rendere visibile il loro disagio alla cittadinanza, tramite un’esclusione non per la, ma dalla società. In questo caso, Poiana Mare risponderebbe a una logica sociale non diversa da quella che le autorità di polizia del XVII secolo seguivano internando chi mendicava o praticava costumi non in linea con la morale dominante (segregazione che in alcuni periodi ha riguardato l’1% della popolazione).
Per queste ragioni, ciò che è avvenuto in un’oscura località della Romania ci tocca più di quanto parrebbe. Perché frutto, oltre che di povertà, di una cultura che richiederà molto tempo per modificarsi, anche dopo i miglioramenti economici che auspicabilmente porterà l’adesione all’UE; e perché segno di un’esclusione che in passato ha toccato tutte le categorie di handicap, e il cui superamento è frutto di una decisione di politica socio-culturale che, come sempre, non è mai definitiva.

XXI secolo: fine delle scuole differenziali? Le tendenze in Europa

Al di là di una certa vulgata secondo cui l’Europa sarebbe l’identità nascosta cui italiani, portoghesi e lituani in fondo non possono non aderire allo stesso modo, il processo di integrazione europea presuppone che i diversi Stati partano da posizioni nettamente diverse – nessun cittadino dell’Unione accetterebbe di finanziare un meccanismo burocratico così imponente per uno sforzo così limitato. Questa premessa si applica anche alla disabilità, ed è indispensabile per comprendere il punto su cui le politiche per le persone disabili dei diversi Paesi membri rispecchiano la massima eterogeneità: l’educazione scolastica.
L’Agenzia Europea per lo Sviluppo nell’Educazione per Bisogni Speciali è un organismo indipendente, seppure finanziato dai Ministeri dell’Istruzione dei paesi membri; il suo sito Internet www.european-agency.org è una vera e propria miniera d’informazioni sull’istruzione comparata delle persone con disabilità. Nel gennaio 2003, in collaborazione con Eurydice (la rete informativa della Commissione Europea che dal 1980 elabora dati comparativi sull’educazione), l’Agenzia ha prodotto una sintetica e chiara pubblicazione sull’educazione per bisogni speciali, in cui la situazione europea viene ridotta a tre modelli fondamentali:

  • Unidirezionale: integrazione di tutti gli alunni nel sistema scolastico ordinario;
  • Bidirezionale: sistema educativo differenziato (con proprie scuole e classi) per alunni disabili;
  • Multidirezionale: presenza di più approcci (scuole speciali, ma anche integrazione scolastica in classi comuni).

L’approccio bidirezionale, che è poi quello da cui si è partiti in negativo per proporre l’integrazione scolastica in Italia negli anni ‘70, viene oggi adottato solo da Svizzera e Belgio. Tuttavia, all’estremo opposto della totale integrazione, l’Italia si ritrova nella ristretta e alquanto eterogenea compagnia di Spagna, Portogallo, Grecia, Svezia, Norvegia, Islanda e Cipro (certo, non siamo più soli come scriveva nel 1998 Lucia De Anna in Pedagogia speciale, né affiancati esclusivamente da Spagna e Portogallo come notato da Salvatore Nocera in “L’integrazione italiana e gli orientamenti UE”, articolo pubblicato nell’aprile 2001 su Le leggi dell’integrazione scolastica e sociale). La maggior parte degli Stati europei sembra dunque orientata a un sistema misto, in cui alcuni bambini con disabilità vengono instradati verso un’educazione differenziale, mentre altri frequentano le stesse classi dei compagni normodotati, sulla base di valutazioni da parte degli operatori socio-sanitari ma anche (non sempre) della scelta dei genitori.
Vale la pena di chiedersi da cosa derivi questo orientamento mediano dominante in Europa. Semplicemente un momento di passaggio verso una tendenza all’integrazione totale in tutta Europa, come forse da una prospettiva italiana si sarebbe propensi a credere? Oppure un orientamento ben preciso, secondo cui non per tutti i bambini con disabilità l’inserimento in classi ordinarie è la scelta educativa migliore? O ancora, l’espressione di un dibattito pedagogico tutt’altro che chiuso tra “integrazionisti” e sostenitori degli istituti o delle classi speciali?

Una integrazione (quasi) inesorabile
La prima impressione che si ricava, esaminando i documenti prodotti dalle diverse autorità nazionali sul tema dell’educazione dei bambini con disabilità, è che non vi sia chi non è a favore dell’integrazione. È di fatto impossibile trovare pedagogisti o amministratori che sostengano programmaticamente una formazione con obiettivi limitati a priori e pertanto più facilmente raggiungibili – il che era un po’ il leit-motiv ideologico dell’educazione in scuole speciali per come in Italia le si è conosciute (e combattute). Lo scopo dell’educazione speciale è insomma, per tutti, portare le persone con disabilità a essere cittadini pienamente integrati nella società.
La parola chiave è dunque “integrazione”, ma ciò non esime da un dibattito su come ottenerla. Nei termini in cui la questione è stata posta in Germania, si distinguono sostenitori della “integrazione come mezzo e fine” e della “integrazione come fine”. I primi ritengono che un rapporto paritario tra disabili e normodotati non possa che partire dall’età scolare, e pertanto considerano l’integrazione scolastica come primo passo dell’integrazione sociale tout court. I secondi, al contrario, sostengono che l’obiettivo dell’integrazione professionale e sociale delle persone disabili adulte sia meglio servito da una formazione scolastica separata, che consenta di valorizzare il più possibile le abilità residue e di plasmare competenze tali da permettere un agevole, o comunque meno problematico, successivo inserimento lavorativo e sociale. Non sarebbe però corretto individuare in questi ultimi dei semplici “segregazionisti mascherati”: almeno in teoria, l’inserimento in classi comuni può avvenire in qualunque momento della carriera scolastica, se le capacità nel frattempo maturate vengono ritenute idonee a questo passaggio.
In diversi Stati europei è in atto un processo ben riconoscibile, per cui gli alunni con disabilità vengono sempre più inseriti in classi e scuole ordinarie, mentre le ex-scuole speciali si riconvertono in centri di risorse a favore degli insegnanti di sostegno cui viene demandata l’integrazione. Un esempio precoce e radicale di questo processo è costituito dalla Norvegia, dove nel 1991/92, delle 40 scuole speciali esistenti, metà sono state chiuse e le rimanenti 20 sono divenute centri nazionali di risorse, specializzati per tipologie di deficit; a partire dal 1999, poi, si è avviata una progressiva decentralizzazione delle risorse, togliendo finanziamenti a questi centri nazionali a favore dei 285 servizi educativo-psicologici su base municipale. Un mutamento analogo, ma verso un sistema più articolato, è in corso nei Paesi Bassi: qui le scuole speciali, dopo un periodo di transizione concluso solo nel 2002, sono state ricomprese in “centri di competenza” regionali, che hanno il compito di valutare le singole situazioni e optare, d’accordo con i genitori, per un’educazione differenziale oppure in classi ordinarie. Viene comunque prevista, ed è sempre più frequentemente utilizzata, la figura dell’“insegnante ospite” per agevolare gli alunni che intendessero passare da una scuola speciale a una normale, come supporto tanto per il bambino quanto per l’insegnante “generico” che lo accoglie in classe.
È insomma innegabile che le istituzioni scolastiche di quasi tutta Europa manifestino una forte tendenza verso l’integrazione, rispondendo in ciò a un’esigenza socialmente diffusa. La Dichiarazione di Atene, sottoscritta nel maggio 2003 dall’European Disability Forum e dallo Youth Forum che rappresenta i giovani a livello europeo, è molto esplicita al riguardo: “[richiediamo] che si lavori per l’eliminazione dell’educazione segregata e delle scuole speciali, e per sostenere l’inclusione dell’educazione speciale nei sistemi educativi generali”.

Pari opportunità negate o eluse
Il dibattito sull’integrazione è attivo anche in Belgio, uno dei pochissimi Paesi che pure predilige ancora un sistema separato di educazione dei disabili. Come sottolinea uno dei referenti nazionali per i bisogni educativi speciali nella parte fiamminga, Theo Mardulier, le organizzazioni di genitori spingono con forza verso l’inserimento dei propri figli con disabilità in classi comuni. Il punto è che “i meccanismi di finanziamento per il sostegno sono ancora focalizzati sulle scuole speciali. In altri termini, quando i genitori decidono di inserire il loro figlio in una scuola comune, è disponibile un sostegno nullo o minore rispetto a quello disponibile quando optano per una scuola speciale. La scelta non è alla pari”.
Anche laddove l’opzione a favore di un’educazione inclusiva appare definitivamente accettata, un forte freno alla sua realizzazione concreta è costituito dall’esistenza stessa delle scuole speciali. Infatti, non va dimenticato che in quasi tutti i Paesi l’educazione di tutti i bambini e ragazzi con bisogni speciali si è retta per decenni su strutture separate, le quali oggi si trovano in una situazione quanto meno difficile: venendo convertite da scuole speciali a centri risorse per le scuole ordinarie, si trovano a lavorare per l’obiettivo della piena integrazione, che però, una volta raggiunto, ne segnerebbe la fine come strutture autonome. Non giungono pertanto inattese, negli Stati dove il sistema di scuole speciali era relativamente vasto, le pressioni a favore del mantenimento di sistemi di educazione separata, se non altro per una minoranza di “gravissimi”.
Queste pressioni trovano una sponda meno prevedibile nelle stesse scuole ordinarie, per le quali è spesso un’abitudine radicata, e sicuramente una scelta di comodo, poter scaricare i casi più problematici su altre agenzie educative. Un atteggiamento di esclusione si rivela ancor più probabile in un quadro amministrativo (dominante) di autonomia, che porta ogni scuola a essere valutata in base ai risultati prodotti. Un esempio: in Gran Bretagna il sistema delle valutazioni periodiche degli alunni, introdotto con l’Education Reform Act del 1988, è la base per calcolare gli indicatori di qualità di ogni scuola, che incidono sulla loro attrattività per nuovi alunni e quindi sui finanziamenti a esse destinati (proporzionati agli iscritti). Ciò ha fatto sì che molte scuole britanniche, secondo quanto rilevato negli anni ‘90 dagli studiosi Klaus Wedell e Ingrid Lunt, vivano una forte tensione tra opportunità di essere “inclusive” e necessità di non abbassare la propria competitività – con il concreto rischio di esclusione per alunni con disabilità, non direttamente (una legge del 2002 lo proibisce), ma adducendo problemi e ostacoli per indurre i genitori a rinunciare. Del resto, se la qualità viene misurata solo in termini di risultati e non di processi (benché questo complichi di molto le valutazioni), e se il clima entro e tra le scuole è competitivo e non cooperativo, indubbiamente gli alunni con disabilità non possono che risultare, non a caso, un handicap.
La lentezza nell’adottare un modello educativo totalmente inclusivo va insomma interpretata più alla luce di queste tensioni “pratiche” che non in base a un dibattito pedagogico sostanzialmente inesistente. Basti pensare che il lodevole esempio norvegese di “chiusura delle scuole speciali” prima citato è stato attuato dopo alcuni decenni in cui la politica ufficiale era già di inclusione scolastica – senza che ciò impedisse l’esistenza di decine di ambienti educativi differenziali.

Scelta dei genitori, esigenze di bilancio
Migliori prospettive per l’integrazione scolastica potrebbero essere aperte dal processo di decentramento che riguarda, quasi ovunque, i sistemi scolastici. Si è già fatto cenno alla crescente diffusione dell’autonomia scolastica, e va rilevato che la differenziazione dell’offerta educativa può offrire più opportunità, e migliori possibilità di accesso, per l’inserimento in classi comuni. Questo decentramento non manca peraltro di aspetti problematici, e lo si capisce riflettendo sulle realtà in cui esso ricalca una lunga tradizione di federalismo amministrativo. Anne Marie Besse-Caiazza, del Centro Svizzero di Pedagogia Specializzata di Losanna, la mette così: “La Svizzera è composta di 26 cantoni. Il campo dell’educazione rientra nella competenza dei cantoni, cioè non esiste un sistema educativo svizzero, ma 26”. Di conseguenza, in alcune aree (specialmente quelle di lingua italiana e francese) si è sviluppata fortemente l’integrazione scolastica, mentre in altre, che pure hanno formalmente riconosciuto l’importanza di un’educazione inclusiva, la scuola speciale rimane lo standard. Ne discende il rischio di non potersi più appellare a diritti riconosciuti a livello nazionale o internazionale: il Governatore del Veneto o della Calabria potrebbero in un prossimo futuro imporre il ritorno alle scuole differenziali, aggirando la scelta per l’integrazione fatta dall’Italia negli anni ‘70.
Un problema ancor più vivamente discusso, e intrecciato al precedente, è quello della scelta dei genitori. In Germania, in particolare, chi ha un figlio o una figlia con disabilità pare avere un potere limitato nei confronti delle istituzioni scolastiche (o dei centri di risorse, dove esistono) rispetto alla decisione sull’opportunità di un’educazione, con il necessario supporto, in strutture speciali o in scuole ordinarie. Come ammette candidamente lo stesso portale web del Ministero nazionale sulla disabilità “Einmischen Mitmischen”(qualcosa come “Interferire mescolandosi”), creato per l’Anno Europeo 2003, “in alcune normative scolastiche [dei diversi Länder federali] il diritto di scelta dei genitori è certamente previsto – dappertutto è però sotto riserva finanziaria. Vale a dire che il soddisfacimento delle richieste dei genitori per il loro bambino con disabilità dipende dalla dotazione di personale e fondi della scuola. E anche le leggi di equiparazione esistenti e previste per le persone con disabilità sul piano regionale non portano finora un reale diritto di scelta dei genitori”.
La tendenza generale verso l’integrazione scolastica è storicamente mossa nella gran parte dei casi dalla pressione delle associazioni di genitori con bambini disabili, che reclamano migliori possibilità educative; anche se il cambiamento culturale è in buona parte compiuto, persistono forti difficoltà nella prassi. Va però ricordato che le classi e le scuole speciali sono strutture rigide, il cui finanziamento include una rilevante quota fissa di mantenimento indipendente dal numero di alunni iscritti, mentre il sostegno entro le scuole normali è legato al singolo alunno e può essere agevolmente variato in base alle esigenze di bilancio annuali (sul tema “taglio ai posti di sostegno” i genitori italiani hanno una pluriennale esperienza di battaglie, no?). Anche “Einmischen Mitmischen” riporta che, secondo gli studi svolti in Germania a partire dagli anni ‘70, “è dimostrato che l’insegnamento inclusivo si fa realizzare a costo zero, se si presenta il calcolo complessivo di tutti i costi risultanti”. È pertanto legittimo affacciare un’inquietante ipotesi: la tendenza continentale all’integrazione scolastica potrebbe essere un mero esito della ridefinizione (al ribasso) del welfare in atto in tutta l’Unione Europea, appena mitigato dalla considerazione che la segregazione educativa dominante fino agli anni ‘70 era pedagogicamente peggiore.

Continuare a studiare
Ritornare alle scuole differenziali, dunque? Certo che no. È opinione condivisa, negli ambienti pedagogici del nostro Paese, che “dall’integrazione non si torna indietro”. Tuttavia, questa giusta convinzione è più spesso assiomatica che programmatica: l’importanza dell’integrazione non va invece data per scontata, ma affermata e difesa con scelte costanti nel tempo – senza paraocchi. Ad esempio, non si può nascondere che l’educazione delle persone con bisogni speciali ha talvolta deluso nella pratica i genitori, al punto di far loro ritenere, specie nei casi clinicamente più gravi, che sistemi specializzati avrebbero condotto a esiti migliori. Inoltre, la posizione da “pioniere dell’integrazione” che l’Italia ha assunto alcuni decenni fa sembra aver generato un pericoloso appagamento, riconoscibile forse solo oggi: come rilevato da Renzo Vianello, oggi scontiamo “la carenza di ricerche di pedagogia sperimentale e di psicologia dell’educazione aventi per oggetto l’integrazione”.
La strada verso un’armonizzazione europea della pedagogia per le persone disabili non può che passare per la ripresa degli studi a essa relativi. Si tratta comunque di una strada lunga, nonostante le tendenze individuate: Carlotta Besozzi, funzionaria dell’EDF, afferma a proposito della propria organizzazione che “non abbiamo in realtà molte posizioni comuni sull’educazione. Da una parte non abbiamo investito molto sull’argomento visto che non esiste una competenza europea in materia, dall’altra è stato a volte difficile trovare una posizione comune data la diversità delle posizioni dei movimenti dei vari Paesi e dei gruppi di persone disabili”.
Significativamente, la critica di Vianello sopra citata si trova in un articolo il cui sottotitolo è “Se un europeo chiedesse consigli” (“Trent’anni di integrazione”, in Le leggi dell’integrazione scolastica e sociale, giugno 2001). L’atteggiamento da “professori” ha caratterizzato per molti anni la pedagogia italiana nei confronti di quelle degli altri Paesi continentali – il che è magari comprensibile, visto l’ambito. E tuttavia, proprio mentre sembra (con tutte le ombre che si è cercato di descrivere) che questi ultimi abbiano “capito la lezione”, diviene indispensabile un confronto aperto anche all’autocritica per costruire modelli di educazione speciale condivisi.

Con un peso del 9%: la disabilità in Spagna nell’era di Zapatero

Uno degli eventi politici più importanti del 2004 è stata la vittoria, nelle elezioni nazionali spagnole del 14 marzo, del PSOE di José Luis Zapatero, subito dopo i tragici attentati di Madrid. Al di là del cambio di maggioranza in una importante nazione dell’Unione Europea, si è trattato di un terremoto nella riflessione politica: dopo anni di rincorse alla “terza via”, un programma di recupero della tradizione di sinistra si è rivelato moderno e soprattutto vincente, tanto da far parlare di un “effetto Zapatero” su tutta la sinistra europea. Appare lecito chiedersi, a circa un anno dall’insediamento dell’esecutivo socialista, se anche sulla disabilità siano state attuate politiche di rottura, oppure si sia mantenuta una continuità con i governi (popolari) degli anni precedenti.

Percentuali di inclusione sociale e politiche di genere
Uno dei punti più qualificanti e interessanti del programma elettorale di Zapatero era il “contratto di inclusione al 9%”. Secondo quanto dichiarato in una tribuna elettorale dall’allora referente per le politiche sociali del partito, Consuelo Rumì, esso consiste nella “rappresentazione della collettività delle persone con disabilità in tutti gli ambiti, in funzione del peso demografico che ha nella nostra società”. Obiettivo decisamente ambizioso, perché proietterebbe trasversalmente la questione disabilità, con un peso misurabile, in tutti i settori dell’attività politica. Obiettivo che però partiva già un po’ zoppo: nella stessa occasione la signora Rumì ricordava come l’unica proposta del PSOE approvata dal precedente governo Aznar fosse stata l’aumento al 5% della quota di riserva a persone disabili per nuove assunzioni entro il pubblico impiego – e noterete come 5 non equivalga a 9.
Va detto che al momento, in tutta la pubblica amministrazione spagnola, la quota di persone con disabilità non supera lo 0,7%, e l’obiettivo realistico è di portarla al 2% nei prossimi anni. Nel dicembre 2004, inoltre, un decreto ha rafforzato l’impegno al rispetto della riserva del 5%, rendendola obbligatoria per i concorsi interni e garantendo una prelazione nella scelta della sede di lavoro ai lavoratori con disabilità. Il premier ha adottato in primissima persona questo impegno, attraverso il progetto “Moncloa 5%”, con cui la Presidenza del Consiglio si è impegnata nel luglio 2004 ad avere nell’organico dei propri diretti dipendenti un 5% di persone con disabilità a fine legislatura (90 su 1800). Tuttavia il percorso è ancora lungo: i sindacati denunciano come sia poco rispettata (e controllata) anche la non impressionante quota del 2% di lavoratori disabili imposta alle imprese private con oltre 50 dipendenti.
Altra innovativa misura promessa dal PSOE era un Piano di Azione per la Donna con Disabilità, che coordinasse tutte le azioni a favore di questa categoria soggetta a doppia discriminazione. La condizione femminile in Spagna appare più arretrata che nella media dell’Unione Europea, come dimostrano il forte differenziale con i maschi nel tasso di occupazione e il lavoro di cura lasciato quasi esclusivamente alle donne in presenza di familiari non autosufficienti. Va ricordato che proprio la Spagna, e in particolare Valencia, ha ospitato tra febbraio e marzo 2003 il I° Congresso Internazionale su Donna e Disabilità, di cui si è già parlato su questa rivista. Il piano che dovrebbe aiutare la donna con disabilità nell’inserimento lavorativo e nella conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, però, non è ancora pronto, e nel gennaio 2005 la specifica commissione del CERMI, il comitato che riunisce quasi 3.000 associazioni del settore, ha iniziato un lavoro di redazione, sollecitando al contempo il governo ad attivarsi per reperire le necessarie risorse – rivendicazione confermata con qualche accento di protesta in occasione dello scorso 8 marzo.

Il Sistema Nazionale della Dipendenza
Tra i numerosi altri punti del programma con cui il PSOE si è presentato alle elezioni, spicca la costituzione di un Sistema Nazionale della Dipendenza, inteso come un quadro preciso di diritti per i circa 2,7 milioni di spagnoli non autosufficienti. Il costo di questo sistema, definito anche “quarto pilastro dello Stato sociale” in aggiunta a politiche del lavoro, educazione e sanità, è stato stimato in 9 miliardi di Euro all’anno, pari all’1,3% del PIL, con una ricaduta occupazionale di circa 330.000 posti di lavoro, prevalentemente femminili (ritorna così la connessione tra donne e lavoro di cura, anche come opportunità e non rinuncia professionale). Finora l’iniziativa politica si è limitata a un confronto con le parti sociali, da cui è scaturito un Libro Bianco a cura della Segreteria del Ministero delle Politiche Sociali, presentato in Parlamento nel gennaio 2005 come base per una “Legge per l’Autonomia delle Persone” in via di definizione.
È evidente che la realizzazione di questo progetto comporterà una rivoluzione del Welfare State, che storicamente presenta in Spagna risorse in calo, in rapporto tanto alla media europea quanto al PIL. Di qui i dubbi che una riforma così ambiziosa possa essere davvero portata a termine in tempi brevi, senza comportare un pesante aggravio fiscale. L’opposizione di centro-destra avanza inoltre il sospetto che una carta elettorale così pesante verrà “surgelata” dal governo con anni di studi e ricerche, per giungere ad approvare il sistema della dipendenza solo in vista delle prossime consultazioni, previste per il 2008 (Zapatero, comunque, ha ricordato esplicitamente questo impegno nel discorso che celebrava il primo anniversario della vittoria elettorale).
Nel frattempo, il Libro Bianco delinea un quadro in cui la famiglia è l’unica istituzione a occuparsi dei non autosufficienti: solo il 6,5% delle persone con necessità di cure di lunga durata dichiara di riceverle dai servizi sociali. Che avvenga entro un “quarto pilastro” organico o con misure più circoscritte, un serio intervento di cura da parte dei servizi pubblici pare dunque ineludibile per migliorare la condizione delle persone con disabilità in Spagna.

Associazionismo in luna di miele
C’è forse solo una promessa elettorale palesemente disattesa da Zapatero: la “Segreteria di Stato per la disabilità”, proposta dal partito socialista alle dipendenze dirette della Presidenza del Governo, è divenuta una più vasta “Segreteria di Stato per Servizi Sociali, Famiglie e Disabili” sottoposta al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, mostrando minore attenzione per lo specifico della disabilità.
Malgrado questo “sgarbo”, non sembra essersi incrinato il buon rapporto tra il governo in carica e le associazioni rappresentative del mondo disabile spagnolo. Già in campagna elettorale il COCEMFE, che raggruppa 900 associazioni di disabili fisici, aveva lodato l’atteggiamento disinvolto con cui Zapatero si era rivolto agli astanti in un dibattito elettorale di fronte a persone con disabilità, in lampante contrasto con l’impaccio dello sfidante del PP, Mariano Rajoy. Il clima tra esecutivo e associazionismo è rimasto complessivamente positivo e collaborativo anche nei primi mesi di attività, come dimostra l’apprezzamento espresso dal presidente del CERMI, Mario Garcìa, per il metodo di redazione del Libro Bianco sulla Dipendenza.
È essenziale rilevare che l’associazionismo handicap spagnolo ha un peso politico sconosciuto agli omologhi italiani: per citare il caso più rilevante, l’associazione dei ciechi ONCE, attraverso la vendita dei biglietti di una lotteria a estrazioni giornaliere, dà stabilmente lavoro a ben 23.000 persone non vedenti e ne assiste oltre 63.000 (oltre a controllare l’omonima squadra ciclistica, nota anche in Italia agli appassionati). Il buon rapporto mantenuto con le associazioni del mondo della disabilità può dunque essere considerato il maggior successo del governo Zapatero nel suo primo anno di vita. Solo il tempo, e il lavoro dei prossimi anni, dirà se il seguito di questa luna di miele assomiglierà più a Mr. & Mrs. Smith o a La guerra dei Roses.

Una Costituzione poco robusta? La disabilità nella Costituzione Europea

Dopo la batosta subita nei referendum ravvicinati in Francia (29 maggio) e Olanda (1° giugno), sulla Costituzione Europea si è accentrata un’attenzione anche superiore a quella dedicata in occasione della firma, avvenuta a Roma il 29 ottobre 2004. Le bocciature popolari hanno fatto rallentare i tempi previsti di ratifica ben oltre il termine iniziale del novembre 2006, sollevando molte perplessità sul futuro dell’integrazione europea. Il voto sulla Costituzione, come ormai acclarato specie per il caso francese, è infatti rimasto schiacciato tra le opposte tenaglie dell’anti-liberismo e del neo-conservatorismo, dell’europeismo “spinto” e del nazionalismo tradizionale, insomma tra il “troppo” e il “troppo poco”. Inevitabilmente, questo esito fa venire i nodi al pettine anche per quanto riguarda le politiche sulla disabilità proposte sinora dall’Unione, con tutta la loro evoluzione nei decenni.

La difficile conquista di visibilità
Nei trattati di Roma, siglati nel 1957, non si parla mai espressamente di disabilità. Comprensibile, nel contesto socio-politico degli anni ’50, ma 35 anni dopo nemmeno il trattato di Maastricht fa menzione del tema. Per quattro decenni la disabilità è rimasta solo una possibile declinazione delle competenze comunitarie in materia di politiche sociali, per di più sussidiarie a quelle economiche. Solo nel 1997, con il trattato di Amsterdam, viene prevista una competenza del Consiglio nella lotta alle “discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Il trattato di Nizza del 2001 conferma questa formulazione, estendendo alle relative azioni di incentivazione la procedura di voto a maggioranza qualificata del Consiglio, senza richiedere più l’unanimità.
Il trattato di Amsterdam contiene anche la dichiarazione finale n. 22, secondo cui si conviene che “nell’elaborazione di misure a norma dell’articolo 95 del trattato che istituisce la Comunità europea [relative all’armonizzazione del mercato interno], le istituzioni della Comunità tengano conto delle esigenze dei portatori di handicap”. Ma una piena considerazione delle esigenze delle persone disabili nei documenti fondativi dell’Unione si ha solo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000. L’articolo 26, esplicitamente intitolato “Inserimento dei disabili”, proclama: “L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”. Tale articolo, insieme al 21 sulla non-discriminazione, viene riportato tale e quale nella parte seconda della nuova Costituzione, che però lo tramuta da mera indicazione politica a norma con valore legale, contro le cui violazioni sarà possibile ricorrere alla Corte Europea di Giustizia.

Verso una promozione diretta dei diritti
L’articolo appena citato ha una formulazione piuttosto debole: l’UE “riconosce e rispetta” un diritto all’integrazione che non promuove direttamente, e che dunque si presume sia da altri garantito. Per vedere le istituzioni europee protagoniste occorre passare alla parte terza della Costituzione, dove l’art. 124 stabilisce che “una legge o una legge quadro europea del Consiglio può stabilire le misure necessarie per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”. Null’altro che l’articolo anti-discriminazione del trattato di Amsterdam, in cui però si parlava vagamente di “provvedimenti opportuni” e non di una normativa organica. Su questi temi, tuttavia, “il Consiglio delibera all’unanimità”, restando al palo rispetto al sistema di maggioranza qualificata che proprio la nuova Costituzione propone ed estende a molti ambiti. Questo pare comunque il primo riferimento esplicito a una politica attiva dell’Unione contro la discriminazione, in un quadro di documenti fondamentali in cui lo specifico della disabilità ha molto stentato a entrare.
La Costituzione non prevede molto di più in materia di disabilità, e un riferimento fondamentale per capire le politiche della nuova Unione rimane la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata nell’ormai lontano 1989 (con la vistosa defezione del Regno Unito). Il punto 26 della cosiddetta Carta Sociale proclama: “Ogni persona handicappata, a prescindere dall’origine e dalla natura dell’handicap, deve poter beneficiare di concrete misure aggiuntive intese a favorire l’inserimento sociale e professionale. Tali misure devono riguardare la formazione professionale, l’ergonomia, l’accessibilità, la mobilità, i mezzi di trasporto e l’alloggio, e devono essere in funzione delle capacità degli interessati”. Anche da qui deriva la connessione strettissima tra condizione di disabilità e orientamento al lavoro che spesso è possibile notare nei documenti europei.

L’ambiguo pensiero del mondo sociale
Come viene valutata la Costituzione del 2004 dalle associazioni che si occupano di disabilità e più in generale di sociale? Una risposta univoca è difficile. L’European Disability Forum ha aperto sul proprio sito web una sezione specificamente dedicata al nuovo trattato, in cui sostiene che “tutte le proposte fatte dall’EDF non sono state integrate nella bozza di trattato costituzionale, ciononostante questo testo contiene una quantità di provvedimenti che possono essere considerati un progresso da una prospettiva legata alla disabilità”. Di conseguenza, viene proposta alle associazioni nazionali una campagna per mettere le persone disabili al centro delle discussioni nazionali e dei referendum laddove previsti, lasciando intravedere un orientamento positivo dietro la richiesta di maggiore consapevolezza popolare.
Una posizione più controversa è invece riscontrabile in Social Platform, piattaforma di ONG del sociale (tra cui la stessa EDF) che si propone di “lavorare insieme per costruire un’Europa per tutti”. Le analisi della Costituzione redatte da alcuni membri sono favorevoli: Autism Europe promuove il testo, per l’inclusione della Carta dei Diritti Fondamentali e i progressi in tema di democrazia partecipativa. Ma di fronte a una commissione del Parlamento Europeo, il 25 novembre 2004, i rappresentanti del coordinamento affermano che “Social Platform non prende posizione sulla totalità della Costituzione. Non farà campagna a favore della ratifica, ma piuttosto promuoverà un dibattito informato tra i suoi membri sulle questioni di interesse per le ONG sociali”.
Il 30 maggio 2005, poi, commentando a caldo il voto francese, la presidente di Social Platform, Anne-Sophie Parent, lo definisce “un No alla direzione della costruzione europea, ai trattati esistenti (che sono stati largamente riprodotti nel nuovo testo) e alle esistenti modalità di decision-making dell’UE”, e invita l’Unione a “reagire a questo voto non minimizzandone l’impatto, ma riconoscendo i fallimenti del processo politico”. Se il voto francese fosse considerato frutto di un “dibattito informato” pienamente efficace, ne emergerebbe un’opinione di Social Platform assai negativa sulla proposta di Costituzione! L’impressione è che le associazioni siano strette tra il riconoscimento delle debolezze del nuovo Trattato e il timore di una pericolosa battuta d’arresto in un processo comunque positivo – ossia, di nuovo, tra il volere “troppo” e il portare a casa “troppo poco”.

L’incerto futuro
Con tutti i suoi difetti, la Costituzione Europea rimane il tentativo finora più avanzato (e più democratico, in quanto proposta da una Convenzione che non rappresentava i soli governi nazionali) di dare basi più solide all’integrazione continentale. Un rallentamento di questa integrazione avrebbe certo un impatto negativo sui numerosi progetti a finanziamento comunitario che, in questi decenni, hanno contribuito a miglioramenti nella condizione dei cittadini con disabilità – spesso ben oltre quanto previsto dalle carte fondamentali dell’Unione. Né va dimenticato che in conclusione, come afferma il documento finale del briefing SOLIDAR tra i membri di Social Platform, “un trattato costituzionale può solo tracciare i principi dei futuri sviluppi politici. Come questi principi siano riempiti con più contenuto liberale o sociale è una questione di volontà politica”.

Goodbye Lenin. Essere bambini disabili nella galassia ex comunista

Nel maggio 2002 le Nazioni Unite dedicarono una sessione speciale all’infanzia, da cui scaturì il documento “Un mondo adatto ai bambini” con obiettivi specifici per migliorare la condizione infantile nel mondo. Nei mesi che precedevano la sessione, fu richiesto agli Stati membri di inviare rapporti nazionali sulla condizione dei bambini. Il precedente piano ONU del 1990, del quale i rapporti dovevano fornire lo stato di attuazione, non aveva particolare specificità nel trattare la disabilità infantile, inclusa nelle “circostanze particolarmente difficili” di vita di un bambino al pari di prostituzione e delinquenza. 159 Stati consegnarono in tempo utile i propri rapporti (incluso quello del Vaticano, purtroppo non disponibile sul sito dell’UNICEF), che furono la base della relazione del Segretario Generale alla sessione e dei successivi lavori. Ora, gli anni ’90 sono stati un periodo di profondo cambiamento soprattutto per un’area del mondo, l’Unione Sovietica e il blocco ex-comunista, e probabilmente i rapporti dei molti Stati sorti dalla disintegrazione di tale blocco furono oggetto di particolare attenzione. In essi venne notato un dato allarmante: il tasso di disabilità tra i bambini era aumentato in modo impressionante, anche di 2-3 volte nel giro di un decennio. Il 5 ottobre 2005 è stata pubblicata un’approfondita analisi su questo fenomeno anomalo, a cura del Centro di Ricerca UNICEF degli Innocenti di Firenze. Il rapporto “Bambini e disabilità nella fase di transizione dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, della Comunità degli Stati Indipendenti e dei Paesi Baltici”, in lingua inglese, è scaricabile gratuitamente dal sito del Centro di Ricerca, www.unicef-icdc.org, e lancia un coraggioso sguardo oltre quella che un tempo era la cortina di ferro, e oggi è una cortina informativa spesso non meno opaca.Un trend in crescita, nonostante le differenzeLa brevità della sigla “CEE-CIS”, ovvero “Paesi dell’Europa centro-orientale e della CSI”, non inganni. Si tratta di un’area che va da Praga a Vladivostok, e che dopo il 1989 (ma anche nei decenni precedenti) ha avuto sviluppi estremamente differenziati: la Slovenia ha oggi un PIL pro capite 58 volte superiore al Tagikistan. Ciò che accomuna le pianure dell’Asia Centrale e le montagne dei Balcani, oltre alla loro storia post-1945, è proprio un aumento impressionante del numero di bambini con disabilità – non senza un collegamento con il socialismo reale.Il tasso di disabilità infantile, inteso come percentuale di bambini (in genere da 0 a 14 anni) con handicap “evidente” ed escludendo i cosiddetti “bisogni speciali” – tra cui i disturbi del linguaggio e quelli meno gravi del comportamento –, è stato l’impulso iniziale alla ricerca degli Innocenti, ma è indicatore di complessa valutazione. Non è infatti molto noto che il tasso di disabilità infantile, anche tra le nazioni più sviluppate socio-economicamente, risulta scendere solo fino a una certa soglia, e lì stabilizzarsi; ciò probabilmente per un “nocciolo” di disabilità congenite su cui la ricerca scientifica non riesce a incidere, tanto da far ritenere che esse siano elemento ineludibile della diversità umana in senso antropologico-genetico. Il tasso “normale” di disabilità infantile è stato fissato al 2,5%, e questa è stata la pietra di paragone per analizzare gli Stati ex-comunisti. A differenza di quanto ci si potrebbe attendere, il tasso rilevato in tutti i Paesi, salvo lievi “sforamenti” in Ungheria, Lettonia e Russia, è sempre più basso del benchmark. Viene peraltro confermato il trend di grande crescita dalla fine del comunismo a oggi: in termini assoluti e per tutta l’area, si è passati all’incirca da 500.000 a 1.500.000 bambini con disabilità. Si tratta inoltre di una stima per difetto, perché data la popolazione infantile di 102 milioni, il tasso “occidentale” del 2,5% porterebbe a non meno di un milione di bambini disabili in più, esclusi dalle statistiche e probabilmente da ogni cura.La crescita in termini assoluti dei bambini con disabilità potrebbe essere associata alle difficoltà della transizione al capitalismo registrate negli anni ’90, ma i fatti non confortano questa spiegazione. Nella Repubblica Ceca, ad esempio, la mortalità infantile nel periodo 1989-2002 si è dimezzata, mentre il numero di malformazioni congenite è aumentato del 50% circa. Anche in Russia, nazione complessivamente meno sviluppata, la copertura della vaccinazione antipolio nei bambini di un anno è cresciuta del 30% negli ultimi 13 anni. Ciò indica che la situazione sanitaria generale è migliorata, ma proprio per questo molti bambini che fino agli anni ’80 non sarebbero sopravvissuti alla gravidanza oggi nascono con malattie perinatali.Le pareti della disabilitàLa causa profonda dell’incremento di bambini disabili nell’area è da individuare nella fortissima sottostima del fenomeno durante il regime comunista. Ciò era dovuto da un lato a definizioni restrittive della disabilità, che solo dopo il 1989 sono state in parte allineate a quelle internazionali, dall’altro a una diffusa pratica di segregazione dei bambini con deficit, in istituzioni o nelle loro stesse famiglie, il che li faceva uscire dai registri della sicurezza sociale e quindi dalle statistiche. Quest’ultimo fattore è ovviamente quello con le più pesanti implicazioni culturali, e di conseguenza con il più importante portato sulla condizione odierna delle persone con disabilità.Il sistema comunista era ideologicamente propenso all’istituzionalizzazione piuttosto che all’odierna community care, e si stima che nel 1990 circa 500.000 bambini nell’area fossero oggetto di cure residenziali (paradossalmente erano le zone più rurali e povere, come il Caucaso, a ricorrere meno alle cure in istituto, contando su legami familiari più forti). Negli anni ’90 il numero di bambini istituzionalizzati è diminuito in linea con la demografia generale, e di fronte all’incremento dei bambini con disabilità riconosciuta ciò indica un moderato ritorno alle cure in famiglia. Gli istituti rimangono tuttavia molto più affollati che in Occidente, a dispetto di condizioni igieniche ed educative spesso carenti, creando un circolo vizioso per cui l’istituzionalizzazione precoce peggiora la situazione clinica, e ciò ostacola ulteriormente l’ipotesi di ritorno alla famiglia o di autonomia nell’età adulta. Sulla scelta dei genitori di delegare a una struttura residenziale la cura del figlio disabile incidono le difficoltà economiche e la carenza di servizi locali, ma anche fattori culturali più profondi, in primis lo stigma sociale legato al familiare con disabilità, e di conseguenza la sfiducia nel fatto che una persona in tale condizione possa mai raggiungere una sufficiente integrazione nella società. “Struttura” e “sovrastruttura” concorrono dunque allo stesso risultato, e ciò emerge in modo anche più netto per quanto riguarda l’educazione. Il numero di bambini in scuole speciali è salito da 837.000 nel 1989 a circa un milione nel 2001, con un aumento più netto in molti Paesi dell’Europa Orientale. Questo, mentre riflette in parte la maggiore attenzione ai bisogni speciali, troppo lievi per essere trattati dalla pedagogia “difettologica” sovietica, segnala altresì che la segregazione educativa rimane prevalente – anche laddove (come nella Repubblica Ceca) l’integrazione viene formalmente riconosciuta come strategia didattica. Non va sottovalutato il fatto che, specie nei Paesi più estesi territorialmente, l’iscrizione a una scuola specializzata implica spesso l’allontanamento dai genitori. Il fatto che in Russia vengano costruite sempre più scuole speciali risponde d’altronde a una domanda crescente per tali istituzioni, e nelle nazioni dove la frequenza a scuole speciali è diminuita il motivo prevalente è l’incapacità di queste ultime a fornire vitto e alloggio ai propri alunni.Interessanti relazioni emergono anche tra disabilità e povertà: le famiglie che includono bambini disabili tendono a essere sensibilmente più povere di quelle con bambini normodotati. La carenza di servizi pubblici, infatti, riduce le possibilità di carriera e aumenta le spese mediche e di assistenza, specie nei Paesi in cui l’evoluzione liberista è stata più marcata; inoltre, per le disabilità congenite le famiglie più ricche hanno più facile accesso a diagnosi prenatali e all’aborto. In un quadro di riduzioni nei servizi e nelle agevolazioni all’handicap, e di pensioni di disabilità per minori che non superano in media il 20% del salario medio (come del resto in Europa occidentale, dove però il salario medio garantisce un tenore di vita migliore), handicap spesso significa impoverimento.Ancor più preoccupante è la relazione tra disabilità e appartenenza a gruppi etnici minoritari: perché la minoranza Rom in Ungheria ha un tasso di disabilità superiore del 70% rispetto alla maggioranza magiara, con una quota di deficit mentale 3 volte superiore a quella generale? Perché la diagnosi funzionale è tagliata sui criteri della maggioranza, con gli elementi linguistici e culturali a remare contro i bambini delle minoranze, e perché un accertamento di disabilità (specie intellettiva) è la via maestra per un’educazione speciale, o meglio a etnie separate. Il rapporto cita la sentenza di un tribunale della Croazia che ha respinto il ricorso di una famiglia Rom contro l’assegnazione a una classe speciale del figlio, sulla base del fatto che quest’ultimo, non parlando correntemente croato, non avrebbe potuto seguire le lezioni. Un bello schiaffo all’intercultura, e soprattutto la conferma della stretta relazione tra disabilità e stigma sociale, al punto di invertirne i termini abituali.Che fare?Il rapporto degli Innocenti si conclude con proposte di misure migliorative per la situazione. Tra esse primeggia per posizione e per prospettiva il cambiamento di atteggiamenti pubblici rispetto alla disabilità: un’opzione di politica culturale che punta molto sui bambini stessi per indurre, più che passi, “salti” di sensibilizzazione tra una generazione e quella successiva, e che trova riscontro nel fatto che la popolazione più anziana, già oggi, considera le persone disabili molto peggio di quanto facciano i giovani. A seguire, viene promossa una strategia di deistituzionalizzazione e di creazione di un sistema di servizi a base comunitaria: da alcuni rapporti nazionali già emerge l’intento di creare o consolidare affido familiare e centri diurni, ma le politiche pubbliche sembrano molto meno convinte di questo approccio rispetto alle famiglie. Da qui la necessità di coinvolgere le famiglie nella progettazione dei servizi, di migliorare le disponibilità economiche dei nuclei familiari coinvolti dall’handicap (anche con misure di sostegno al mantenimento del lavoro finora carenti, anche perché part-time ed economia di piano non si conciliavano granché) e limitare la separazione dei bambini disabili dai loro genitori con politiche di counselling e sostegno alle ragazze madri.Si tratta di indirizzi che forse nell’UE “storica” appaiono ovvi, dopo decenni di promozione dell’integrazione sociale, ma certe dinamiche personali e familiari, a dispetto di Marx, trascendono le condizioni materiali e anche quelle culturali di esistenza. Le madri citate nel rapporto sono bulgare o lettoni, ma le loro frasi potrebbero benissimo essere state pronunciate in italiano o in tedesco: “Ho dovuto abbandonare la mia carriera; non avevo la forza per rimetterla insieme”, “Smetti di contattare le persone. I tuoi amici si dimenticano di te”, “A casa sono riabilitatore, pedagogo, fornitore di servizi e tutto il resto […] Sono già al limite. Sento che sono già allo stremo delle forze, sia fisicamente che mentalmente”.

Un palcoscenico con altri mezzi per registi, attori, tecnici e pubblico – utenti o meno

L’integrazione, come dimostra la monografia di questo numero, può essere raggiunta anche (forse, anzi, più facilmente) su un palco teatrale. Dal 1998 il Cambridge Arts Theatre, nella celebre città universitaria inglese, organizza corsi estivi in cui ragazzi udenti e non udenti lavorano insieme, davanti e dietro le quinte, per creare e mettere in scena una rappresentazione teatrale che possa rivolgersi a un pubblico ugualmente misto, senza per questo risultare “d’avanguardia”. Documentazione su questa importante esperienza è disponibile sul sito web del teatro, www.cambridgeartstheatre.com, nella sezione Education & Community Archive. La prossima estate la scuola si trasferirà nel prestigioso Theatre Royal di York, fondato nel 1744.
Su questa forma di teatro integrato, non molto praticata in Italia, abbiamo intervistato Roberta Hamond, curatrice del progetto.

Può descrivere che cos’è la Deaf and Hearing Summer School (“Scuola estiva per sordi e udenti?”)
Gli obiettivi della Deaf and Hearing Summer School sono:

  • offrire una scuola estiva bilingue di dieci giorni all’anno che assicuri teatro professionistico tradizionale a livello nazionale, come risorsa accessibile a giovani sordi e udenti;
  • offrire a giovani sordi e udenti l’opportunità di lavorare con tecnici e registi professionisti, in uno spazio teatrale professionale;
  • creare una stimolante opera teatrale integrata per giovani, basata su una forte interpretazione di gruppo;
  • procurare eventi sociali pienamente integrati per giovani sordi e udenti in un ambiente sicuro ma indipendente;
  • offrire una base di addestramento per attori e registi sordi, interpreti e mediatori di BSL (British Sign Language – Lingua Britannica dei Segni) a livello sia giovanile che adulto;
  • fornire l’opportunità a giovani di esplorare il teatro “accessibile” da prospettive di pubblico ed esibizione.

Qual è il ruolo della Lingua dei Segni nel teatro per sordi e udenti?
La scuola estiva è un progetto bilingue, e quindi la Lingua Britannica dei Segni e l’inglese sono utilizzati alla pari per sviluppare una nuova opera teatrale. La nostra attuale direttrice artistica è sorda, e usa sia la BSL che l’inglese per comunicare. Il suo regista associato è un attore/interprete udente. Impieghiamo anche tre interpreti teatrali pienamente qualificati e fino a dieci facilitatori drammaturgici con livello 2 o più di BSL, per garantire che i nostri 30 esecutori sordi e udenti possano comunicare tra loro in gruppi piccoli come quelli necessari durante il processo di invenzione.
Abbiamo anche dieci giovani che lavorano sul lato tecnico nella gestione di illuminazione, suono, design e palcoscenico. In genere da tre a quattro di questi giovani sono sordi, lavorano in tutti i campi (incluso il suono) e quindi utilizzeremo fino a tre interpreti dietro le quinte durante i laboratori e le prove, a seconda delle scelte fatte dai ragazzi sordi.
L’esibizione completa non utilizza un interprete tradizionale al lato del palco, perché la pièce tende a essere accessibile sia in BSL che in inglese. Ogni segno e discorso nell’esibizione sarà fornito dagli esecutori – sia sordi che udenti – assistiti da proiezioni, sottotitoli, suoni e video.

Quali sono le maggiori difficoltà, se ve ne sono, per le persone udenti che si avvicinano a questa forma di rappresentazione? E per quanto riguarda il pubblico?
Abbiamo scoperto che i giovani hanno ben poche difficoltà nel lavorare insieme. I bambini sordi sono abituati a un mondo che sente, e i bambini udenti trovano la Lingua Britannica dei Segni un linguaggio ricco ed eccitante, quando si dà loro l’opportunità di provarlo. E poiché essi hanno il vantaggio di sentire, mentre osservano il regista esprimersi con i segni, hanno presto fiducia nell’imparare gli elementi di base e comunicare. Noi presentiamo anche un allenamento alla consapevolezza della sordità, attraverso giochi drammaturgici e di riscaldamento ogni giorno, e tutta la BSL presentata in questo modo è collegata allo sviluppo dell’esecuzione, e perciò immediatamente pertinente alla situazione. In genere, sono i membri adulti del progetto che possono portare pregiudizi più antichi e paure personali alla miscela; ma l’esuberanza e l’inventiva di tutti i partecipanti più giovani presto infondono ispirazione anche nei più “logori”.
Ci sono, certo, molti livelli diversi di abilità nel linguaggio per sordi e udenti rappresentati nella scuola estiva, e non tutti i nostri bambini sordi usano la Lingua Britannica dei Segni come prima lingua di comunicazione, per cui esaminiamo anche il Sign Supported English [un tipo di lingua segnata che ricalca il parlato e la grammatica orale], la lettura del labiale e le capacità orali.

Questa forma di rappresentazione integrata è mai stata estesa ad attori professionisti, o ad amatori adulti? Quali sono, o potrebbero essere, le cose da modificare passando a un contesto diverso e non “scolastico”?
La scuola estiva sta specificamente tentando di aprire il teatro tradizionale (e perciò predominantemente di ascolto) a giovani sordi e udenti, sviluppando nuovi mezzi di comunicazione che interessino pubblici sia sordi che udenti. C’è ben poca attività di questo tipo al momento nei teatri di ascolto, ma l’Inghilterra ha una comunità davvero crescente di teatro per sordi, che sta lavorando con attori sordi usando la BSL e il teatro visuale per creare opere che siano adatte alla comunità dei sordi.
Io non ho la pretesa di rappresentare la cultura sorda e gli attori sordi. Il mio interesse personale sta nello spostare i confini del teatro tradizionale e delle aspettative del pubblico tradizionale. Credo che il virtuosismo della cultura sorda espressa attraverso la Lingua Britannica dei Segni in un contesto teatrale sia la ragione chiave del successo della scuola estiva negli ultimi sette anni, e questo progetto è guidato dalla convinzione che la diversità culturale, ben fatta, accresce l’esperienza di teatro per i pubblici tradizionali.

Ci può raccontare qualche aneddoto relativo alla sua esperienza?
Il successo della scuola estiva ha significato che ci sono oggi più giovani sordi che desiderano proseguire nel teatro ed esercitarsi per diventare professionisti nell’industria culturale. C’è una grande lacuna nella formazione professionale in quest’area, ma gli atteggiamenti stanno iniziando a cambiare. La televisione sta utilizzando più attori sordi e sta offrendo più interpretariato nella visione. Più opportunità per attori e tecnici sordi miglioreranno la qualità e la professionalità del loro lavoro, rendendo il lavoro integrato più sostenibile. E i futuri partecipanti udenti che hanno sperimentato questo lavoro, porteranno anche una visione più ampia di quanto si può realizzare all’industria. Riporto alcune citazioni da partecipanti sordi e udenti in questi anni:

Partecipanti sordi
“Le persone non sono ciò che immaginavo. Pensavo che avrei solo ricevuto il copione e provato, ma invece abbiamo creato le idee e l’esibizione. È stato fantastico”.
“Pensavo che ci sarebbe stata una rappresentazione orale, ma è stata visuale”.
“Tutti si sono mescolati e hanno dato il loro contributo verso lo spettacolo. Inoltre c’erano altri con la stessa mia sordità”.
“Mi è piaciuto incontrare persone nuove e esplorare nuove tecniche, capacità e consapevolezze drammaturgiche e teatrali”.
“È stato bello poter lavorare in un ambiente positivo, con persone creative e divertendosi così tanto allo stesso tempo”.

Partecipanti udenti
“Mi è piaciuto lavorare in un teatro professionale e avere la possibilità di esibirmi sul palco”.
“Si perde lo stereotipo su di loro e si vede che sono proprio come te”.
“Ciò che mi è piaciuto nel lavorare con bambini sordi e udenti è stata la massa di idee che è saltata fuori!”
“Mi è piaciuto il modo con cui si doveva essere più espressivi”.
“Un fantastico divertimento!”

Quali sviluppi ha in programma, o spera che qualcuno intraprenda, nel teatro per sordi e udenti?
Dopo otto anni, ora abbiamo ex-partecipanti che stanno tornando per sostenere il progetto come volontari adulti. Abbiamo anche attori sordi professionisti, allievi interpreti udenti, insegnanti e molti tecnici (inclusi alcuni tecnici sordi) che lavorano da professionisti. Per me, personalmente, il prossimo passo è una rappresentazione tradizionale pienamente integrata, che non sia guidata dal “problema”. Sto al momento commissionando una commedia ambientata nella cucina di una pasticceria con un cast di otto attori: quattro udenti e quattro sordi. Spero che procurerà lavoro per attori sordi nell’arena tradizionale, e porterà le superbe capacità teatrali della lingua dei segni a un pubblico più ampio.

Per informazioni sulla Summer School:
Roberta Hamond
Theatre Education & Access
Scaldbeck Cottage
Morston, Holt
Norfolk NR25 7BJ
E-mail: roberta@hamond.co.uk