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autore: Autore: Valeria Alpi

La storia di Redattore Sociale

Prende il via con questo numero di HP-Accaparlante una rubrica dedicata all’informazione sociale. Con tale espressione si intendono tutte quelle notizie che nei vari mass media (quotidiani, televisioni, radio, siti internet) trattano “eventi sociali” legati alle varie forme del disagio e della marginalità (ad esempio immigrazione, handicap, minori, anziani, senza fissa dimora, tossicodipendenza…). Ma in che quantità e in che modo viene prodotta l’informazione sociale? Cercheremo, nel corso dei mesi, di analizzarne i vari aspetti, quantitativi e qualitativi, prestando un’attenzione particolare alle tematiche dell’handicap. Questa volta iniziamo parlando di “Redattore Sociale”, il primo e tuttora unico seminario di formazione sociale per giornalisti che ogni anno, dal 1994 ad oggi, viene organizzato dal C.N.C.A. – Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza in collaborazione con l’Agenzia di stampa Redattore Sociale (www.redattoresociale.it). Da nove anni i maggiori professionisti del giornalismo, gli addetti al lavoro della comunicazione sociale, i protagonisti del no-profit e chiunque sia interessato, si riuniscono per tre giorni alla Comunità Capodarco di Fermo (AP) per fare il punto sullo stato dell’informazione sociale in Italia. Gli aspetti che emergono sempre ad ogni incontro sono essenzialmente due: la scarsità di questo tipo di informazione, vale a dire che le notizie sociali compaiono di rado sui mass media, e se lo fanno hanno comunque uno spazio ridotto e marginale; oppure, le notizie sociali compaiono e hanno anche ampio risalto, ma solo per fare sensazionalismo e scalpore. Pensate ad esempio a come viene reso giornalisticamente un fatto di cronaca con un genitore che uccide un figlio, e a come la stessa notizia assume invece toni diversi se il figlio è disabile. La parola “disabile” o “handicappato” compare già nei titoli e diventa il punto chiave della vicenda, spostando l’attenzione non sul fatto in sé già grave (un genitore che uccide un figlio) ma sull’handicap e il disagio sociale. Disagio però raccontato in maniera rischiosa, cioè col pericolo di alimentare o addirittura generare stereotipi e pregiudizi. E’ proprio sulla prevenzione di questi rischi che si concentra, allora, il lavoro di Redattore Sociale, cercando di avvicinare il giornalismo a un modo di fare informazione diverso ma fondamentale, e ad approfondire al tempo stesso il contatto e il rapporto tra gli operatori della comunicazione e gli operatori del no-profit (spesso è necessario che anch’essi siano formati ad informare). Al recente seminario svoltosi nel dicembre 2002 e intitolato “Maschere” è emerso un punto chiave dell’informazione sociale: i nudi fatti non si danno mai. Nel costruire e raccontare una notizia sociale influiscono troppi fattori: il contesto, la disponibilità delle fonti informative, la cultura di chi scrive o filma, la necessità di descrivere i sentimenti dei protagonisti, le sensazioni e i pensieri stessi del giornalista, il linguaggio, i filtri applicati, gli strumenti… Insomma, l’informazione sociale rischia di diventare una maschera sul volto dei fatti. Anziché assumere, invece, quella che dovrebbe essere una vera e propria funzione pedagogica: una corretta e neutra informazione sociale servirebbe, infatti, a produrre probabilmente maggiore sensibilità e una “sana” cultura della diversità. Redattore Sociale cerca di fornire gli strumenti necessari ad un’informazione il più possibile divulgativa, documentativa e educativa, partendo da quello che forse è il punto più difficile: cambiare la forma mentis di chi fa informazione e uscire dalla logica del mercato, delle vendite e dell’audience. Troppo difficile? Forse. Però dal 1994 ad oggi le edizioni dei seminari si sono svolte con sempre maggiore successo di pubblico e di visibilità, segno evidente che di informazione sociale se ne sente il bisogno.

Il sociale attraverso le canzoni

Il sociale attraverso le canzoni “Racconti di vita”, in onda su Rai Tre, suggerisce nuovi approcci all’informazione sociale.
"Dalle canzoni si possono ricavare stimoli importanti e momenti

 

di riflessione, soprattutto perché una canzone evoca in pochi minuti quello che avrebbe bisogno di essere comunicato in ore di dibattito”. Giovanni Anversa, conduttore e ideatore di “Racconti di vita”, la trasmissione di Rai Tre dedicata alle tematiche sociali, in onda tutte le domeniche alle ore 12.30, esordisce così nell’intervista che gli abbiamo rivolto. Protagonisti della nuova edizione settimanale del programma, partita a novembre 2002, sono infatti una canzone, il suo cantautore italiano e alcune storie di vita reale che si confrontano e si intrecciano con le suggestioni offerte dal testo. Ecco allora, ad esempio, che si può parlare di condizioni di vita in carcere partendo da Aria di Daniele Silvestri, o dei problemi dell’essere giovani oggi con Bene bene male male di Piero Pelù. "E’ un modo di procedere che ha trovato molti consensi – prosegue Anversa – sia nel pubblico, sia nei cantanti stessi, che hanno così la possibilità di uscire dal cliché dell’ospite musicale e mostrarsi sotto una luce diversa, farsi vedere come persone con proprie emozioni, sentimenti, rabbia". Un modo di procedere che permette di trattare l’informazione sociale sotto forma di racconto (il racconto delle canzoni e il racconto delle persone), e mantenersi un po’ più estranei ai rischi di stereotipizzazione e strumentalizzazione che questo tipo di informazione spesso comporta. "L’informazione sociale – spiega Anversa – è ormai fondamentale e a mio parere non è più un tipo di informazione marginale, che non trova spazio nei mass media tradizionali. Ormai è ‘uscita dal ghetto’ e, anzi, deve diventare l’asse portante del servizio pubblico. Bisogna capire però come farla. Io credo nella capacità e nell’utilità di raccontare esperienze che possono poi diventare esemplari. Si tratta, inoltre, di un tipo di informazione che non può e non deve provenire solo dagli operatori della comunicazione. Occorre un terreno condiviso coi protagonisti del vario associazionismo e una sinergia tra tutte le forze in causa che operano nel sociale”.

 

Raccontare la disabilità

Anche la disabilità viene portata sullo schermo televisivo attraverso le canzoni e i racconti di vita. Ma ciò che permette alla trasmissione di Giovanni Anversa di non cadere in stereotipi, o in fenomeni di pietismo e spettacolarizzazione, è il suo essere una trasmissione “normale” e non “dedicata a”. Non ci sono puntate sulle persone disabili, puntate apposta per loro. Le canzoni suggeriscono di volta in volta tematiche di vita quotidiana come il lavoro, l’amore, la famiglia, la guerra, ecc. E all’interno di queste tematiche possono essere inserite o meno anche le persone disabili, che raccontano le difficoltà o i successi negli stessi ambiti. Si tratta di un cambio di prospettiva molto importante, perché permette di uscire dalla logica dell’assistenzialismo. Per fare un esempio, non si tratta di porre il problema del lavoro solo come obbligo di inserire anche le persone disabili, di trovare ausili e contesti per permettere anche a loro di lavorare, ma si può dedicare una puntata al problema dei posti di lavoro o della sicurezza dei posti di lavoro in genere, come tema che attraversa la vita di tutti e quindi, perché no, anche quella delle persone disabili. La disabilità viene in questo modo inserita nella vita normale e non confinata in discorsi a parte. Inoltre "Quando si parla di disabilità – puntualizza il conduttore – non ci sono solo scale, carrozzine, assistenza. C’è anche la parte ludica e la voglia di divertirsi. Certo, questo non significa che è tutto normale, la disabilità c’è e ce ne sono tante diverse, e va spiegata, va raccontata. Credo che sia molto importante ascoltare e stare accanto a persone che la disabilità la vivono, e che sono riuscite a metabolizzarla non solo a livello personale ma anche culturale. Così come è importante avere sempre contatti con gli opinion leaders dell’associazionismo". Proprio con uno di essi, Franco Bomprezzi, e in collaborazione col Segretariato Sociale Rai, Giovanni Anversa ha scritto un codice etico su come fare informazione sulla disabilità senza cadere in stereotipi (il testo è consultabile sul sito internet del Segretariato Sociale www.segretariatosociale.rai.it, nella sezione codici). Tra le varie norme indicate, c’è la necessità culturale di rendere normale l’accesso: ciò significa che le persone disabili hanno diritto ad essere inserite in televisione, o come protagonisti, o come pubblico, non perché esiste una certa percentuale di quote riservate, ma semplicemente perché è del tutto normale che anche una persona disabile partecipi a quiz, show, spettacoli e a dibattiti in cui la disabilità può anche non essere il punto chiave. Non mostrare una persona disabile “in vetrina”, solo vittima o solo eroe, ma raccontare la disabilità attraverso percorsi del tutto normali, può essere molto utile per passare da una logica di tutela a una logica di vera integrazione, perché anche se è vero – come sostiene Anversa – «che un cittadino oggi, grazie alle tante fonti di informazione e alle nuove tecnologie, ha modo di costruirsi una propria cultura della diversità senza necessariamente passare dal servizio pubblico televisivo", è pur vero che la tv resta il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza. E anche se esistono varie realtà impegnate quotidianamente nel processo di produzione di un cambiamento culturale, la televisione rimane per molti il mezzo principale per vedere l’altro da sé.

Quando della disabilità si può anche sorridere

Siamo abituati ad associare le vignette satiriche e umoristiche di noti disegnatori come Altan, Staino, Bozzetto, Silver…, alle situazioni della politica o del costume. Dalle pagine dei quotidiani e dei periodici, le vignette deridono i nostri politici e fanno battute sarcastiche sui nuovi fenomeni culturali e societari: sono lì, a descrivere l’attualità, sempre a passo coi tempi. Non sempre fanno ridere, non sempre vogliono fare ridere. Di solito ci soffermiamo a guardarle perché attraverso pochi tocchi di matita riusciamo comunque a farci un’idea delle novità del mondo, e spesso sappiamo, guardandole, che sotto all’invenzione umoristica c’è una realtà fin troppo vera. Di solito disegnano anche il livello dei nostri successi o insuccessi culturali, i nostri stereotipi e pregiudizi. E’ un modo di fare informazione, se ci pensiamo bene. Cosa succede allora se le vignette incontrano la disabilità? Succede che si crea un tipo di informazione sociale del tutto originale, dimostrando come sia possibile coniugare temi seri con il sorriso. E’ quanto ha fatto “DM”, la rivista edita dalla UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nel corso di questi ultimi nove anni. Dal 1995 ad oggi, infatti, molti numeri della rivista hanno dedicato la quarta di copertina a vignette realizzate appositamente per DM dai maggiori disegnatori umoristici, affrontando di volta in volta, con l’arma dell’ironia, i pregiudizi, la disinformazione e l’indifferenza nei confronti della disabilità. Non solo: in alcune vignette è il personaggio disabile che autoironizza su se stesso. Nata quasi per caso da un’intervista con Bruno Bozzetto, la rubrica delle “Grandi vignette di DM” è diventata via via un fenomeno sempre più interessante. E l’attenzione verso questa iniziativa è stata sempre più calorosa da parte delle persone disabili, dei loro parenti e amici, di chi lavora con e per la disabilità, ma anche dei tanti “non addetti ai lavori”. Circa una trentina le vignette realizzate fino ad oggi (ma l’iniziativa continua e ci aspettiamo ancora tante occasioni per sorridere): ad esempio c’è il Bobo di Sergio Staino, nei panni di un pirata, senza una gamba e senza una mano, con un occhio bendato, e sulla spalla un pappagallo, che dice a una bambina “Io portatore di handicap?!? Ma che cavolo dici?!? Non vedi che è un pappagallo?”; c’è il personaggio tipico di Altan, seduto questa volta su una carrozzina elettrica equipaggiata della più moderna tecnologia, che dice “Maledetta tecnologia: adesso mi tocca di andare da qualche parte”; c’è un vigile di Zap&Ida che multa un signore in carrozzina perché si trova a transitare in una zona pedonale; c’è il mitico Signor Linea, il personaggio che ha animato tanti “caroselli” televisivi in passato, che grazie alla penna di Osvaldo Cavandoli mostra un uomo in carrozzina che comincia a spingere le ruote sempre più velocemente distanziando e costringendo alla corsa il suo accompagnatore. Nessuno dei disegnatori contattati da DM, salvo rarissime eccezioni, si era mai confrontato con il tema della disabilità: “Abbiamo visto l’imbarazzo di personaggi navigati – racconta Stefano Borgato, responsabile dell’ufficio stampa della UILDM – nell’affrontare temi mai trattati prima, timorosi, come degli scolari, di offendere la sensibilità di qualcuno. Ma poi abbiamo anche raccolto la soddisfazione di avere sperimentato e di esserci riusciti. Quello che ci ha stupito è stato vedere come la maggior parte di questi disegnatori andasse a toccare temi centrali del nostro lavoro quotidiano, veri ‘tic’ e luoghi comuni del mondo della disabilità, senza alcuna ‘imbeccata’ da parte nostra”. Le vignette oggi sono tutte disponibili in Internet, nel sito della UILDM, al seguente indirizzo: www.uildm.org/dossier/vignette/index.htm. Ma sono anche “in tour” per l’Italia. Dopo essere state, infatti, protagoniste anche di magliette di successo e di calendari, a settembre le vignette sono apparse per la prima volta in mostra a Sovizzo, in provincia di Vicenza, all’interno di “Diversamente arte”, una galleria di pittori disabili. La sezione dedicata a DM era intitolata “Handic-Up: sorriderne si può”, con un evidente gioco di parola dove la “a” di handicap è stata sostituita con una “u” affinché si formasse il termine “up” che in inglese significa “su, sopra”, per indicare la positività al posto dello svantaggio intrinseco nella parola handicap. Stefano Andreoli, redattore di DM e curatore dello spazio espositivo, ha così spiegato il significato dell’iniziativa: “Si tratta di vignette che con ironia e satira affrontano il tema della disabilità in tutte le sue sfumature, dalle barriere architettoniche ai pregiudizi culturali, dallo sport alla vita indipendente, agli eccessi di zelo della burocrazia. Disegni umoristici che, con la loro immediatezza, ricreano e deformano la realtà, contenendo molta più forza comunicativa di decine di editoriali e sono in grado, nello spazio di un istante, di restituire alle persone disabili un’immagine di dignità, proprio grazie all’ironia. Sorriderne si può, dunque, anzi si deve, anche per smantellare il vecchio pregiudizio di chi pensa che dietro l’ironia si nasconda la derisione; al contrario, invece, l’intelligenza del sorriso, proprio grazie alla levità e al fatto di passare prima per il cervello che per il cuore, riesce a comunicare l’idea della disabilità in modo più incisivo, soprattutto in chi non è direttamente coinvolto su questioni così delicate e a volte drammatiche”. Erano già stati in molti, negli anni, a chiedere alla redazione di DM di poter utilizzare le vignette, e dopo il successo della mostra di Sovizzo, si è scatenata una vera e propria “bufera di richieste”, come dice Stefano Borgato. Perciò le vignette saranno ospiti anche a Quarto d’Altino (Venezia), a Parma, a Torino, a Prato e in altri comuni dell’Emilia Romagna, per promuovere manifestazioni ancora tutte da costruire. Un’informazione sociale veicolata con la satira va fatta però con particolare attenzione: potrebbe rischiare, infatti, di diventare “pericolosa” e di far riaffiorare quella “cattiveria” che di solito è il sottofondo alle vignette umoristiche tradizionali. E’ successo questa estate – in maniera decisamente involontaria e inconsapevole – proprio a Bruno Bozzetto, uno dei più “antichi” amici di DM, e uno dei disegnatori e cartoonist italiani più noti. Nel libretto “Vacanze coi fiocchi 2003”, un opuscolo realizzato per la campagna di comunicazione sulla sicurezza nelle strade, e distribuito ai caselli autostradali, è comparsa una sua vignetta con il signor Rossi al volante mentre dice “Chi corre in auto non lo fa perché è in ritardo, ma perché è un ritardato”. Subito l’Anffas (Associazione nazionale famiglie di disabili intellettivi e relazionali) ha mandato agli organi di informazione un acceso comunicato stampa di protesta e di censura. Seguita a ruota dalla Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap), nel cui comunicato si auspica che i criteri di valutazione e controllo dei testi e delle immagini attinenti a campagne di comunicazione sociale vengano stabiliti in consultazione con le associazioni di categoria. La situazione, ovviamente, è molto diversa rispetto alla storia delle vignette di DM: nel caso di “Vacanze coi fiocchi” non si voleva far sorridere, né sdrammatizzare; l’obiettivo era far riflettere seriamente sulla guida pericolosa, non sulla disabilità, e il fatto che si sia usata una parola della disabilità è un caso. Anche se “ritardato” ormai non si usa quasi più come denigratorio verso persone con deficit mentali, ma è diventata una parola per definire qualsiasi normodotato che si comporti in maniera sciocca. “Certo la battuta è sicuramente infelice – ha commentato la redazione di DM – ma non siamo d’accordo con gli atteggiamenti censori”. Neppure noi siamo d’accordo, ad ogni modo, censura o no, il punto è che è stato dimostrato quanto sia facile per chi fa informazione sociale oltrepassare, anche senza volere, una sorta di confine etico non scritto. Per fortuna alle vignette di DM non è mai successo di oltrepassare il limite, permettendoci di continuare a sorridere con “leggerezza” su situazioni molto serie, senza sentirci in colpa!

Per informazioni: Redazione di DM Via Vergerio, 19/3 35126 Padova Tel. 049/802.10.02 – Fax 049/802.25.09 Sito: www.uildm.org E-mail: redazionedm@uildm.it

I disabili devono “Vincere” e avere “No limits”?

Sul finire del 2003, l’Anno Europeo delle persone disabili, sono uscite nelle edicole, quasi in contemporanea, due nuove riviste che trattano tematiche riguardanti la disabilità. Una si intitola “No Limits”, e viene venduta come supplemento al quotidiano “l’Unità”, ogni terzo sabato del mese, al costo di 2,20 euro (cui si aggiunge un euro per il quotidiano). L’altra si intitola “Vincere”, viene stampata grazie ai contributi della Fondazione di Marcello Dell’Utri, noto esponente del Partito “Forza Italia”, e venduta in edicola ogni mese al costo di 3 euro. Se si tratta di una manovra politica, o di una specie di comportamento politically correct per dimostrare che durante l’Anno Europeo delle persone disabili si è fatto qualcosa da entrambe le parti, cioè dalla Destra e dalla Sinistra, non possiamo saperlo. La redazione di “No Limits”, ad esempio, durante la conferenza stampa di presentazione della rivista, ha dichiarato che si tratta di un’operazione editoriale pensata quando ancora non si parlava di Anno Europeo delle persone disabili. Ad ogni modo, le due riviste sono uscite proprio nel 2003. Entrambe mensili, con un prezzo di copertina simile, e con un titolo che richiama in entrambi i casi all’agonismo, esse destano curiosità e qualche considerazione. “No Limits” si presenta con 64 pagine a colori e 40.000 copie di tiratura a diffusione parziale sul territorio (nel senso che non tutte le edicole ne sono in possesso). Il direttore è Ileana Argentin, delegato del sindaco di Roma per i problemi riguardanti la disabilità, nonché, ella stessa, donna disabile. “Vincere” (che ha anche un sito Internet: www.vinceremese.it) si assesta sulle 130-140 pagine a numero, a colori, con una tiratura di 150.000 copie. Il direttore è Massimo Balletti, giornalista di lunga data che è stato per anni alla guida di diverse testate, tra cui anche “Playboy Italia”, nonché papà di un figlio disabile. In entrambi i casi, quindi, i direttori delle due testate hanno esperienze di vita personale a stretto contatto con il mondo della disabilità. Si tratta, allora, di riviste esclusivamente sulla disabilità e destinate a un pubblico solo disabile (o eventualmente a famigliari di disabili)? Per chi sono state pensate, cosa vogliono trasmettere? E soprattutto: che tipo di informazione sociale veicolano? Sfogliandole e leggendole emergono alcuni dubbi. Partiamo da “Vincere”: a prima vista non è tanto diversa da qualsiasi altro periodico in commercio. Anche la disposizione dei testi e delle immagini è accattivante e intrigante, al contrario di molte riviste di “settore handicap” che di solito sono più spente, opache, e forse troppo specifiche su una sola patologia o su un solo argomento (ad esempio la legislazione, o l’integrazione scolastica di alunni con deficit). Di solito, tra l’altro, le riviste in questo settore sono tutte su abbonamento e, dunque, bisogna avere quel determinato interesse per acquistarle; mentre “Vincere” è in edicola come qualunque altro giornale, e quindi è potenzialmente acquistabile da chiunque. Anche le copertine di entrambi i numeri per ora usciti di “Vincere” si inseriscono perfettamente nella logica delle copertine dei settimanali e dei mensili più noti: “metti una bella donna in prima pagina e venderai più copie”. Nel primo numero c’è Emanuela Folliero, la bella di Retequattro, ritratta seminuda in braccio a un suo caro amico in carrozzina, anch’egli seminudo e fisicamente prestante. Nel secondo numero c’è Sharon Stone in piena forma e bellezza, dopo essersi ripresa da un ictus. All’interno, neanche una (l’abbiamo cercata e non c’era!) pubblicità dedicata alle persone disabili. Di solito le riviste che trattano di disabilità hanno pubblicità di carrozzine, di ausili per la vita indipendente, di adattamenti per auto… Qua nulla di tutto ciò, solo le classiche pagine patinate di qualsiasi altra rivista “normale”. E proprio questo aspetto di normalità gioca a favore di “Vincere”: anche se è una rivista con argomenti “diversi”, vuole essere del tutto “normale” e cerca di non essere ghettizzante. Eppure, come si diceva, gli argomenti sono “diversi” e viene naturale domandarsi se un cittadino normodotato, che non è interessato al mondo della disabilità, comprerà mai questa rivista. E una persona disabile cosa può ricavarne? All’interno di “Vincere” sono predominanti le storie di vita, le storie di persone disabili ritratte sorridenti e vincenti, integrate nel lavoro, negli affetti, nella scuola, nella politica… E anche storie di ospedali che funzionano, di aziende che hanno assunto persone disabili, di centri di riabilitazione efficienti, di case-famiglia per il “dopo di noi”… Certo, alcune informazioni, come sapere che esiste il tal centro di riabilitazione, sono sicuramente utili per un pubblico disabile, ma molte delle informazioni di “Vincere” restano superficiali, poco approfondite, e per trovare davvero le informazioni, se si è disabili, sono più utili le altre riviste di settore. Le storie di vita personale, invece, a parte il tono retorico con cui sono raccontate, possono forse servire a non lasciarsi andare, perché “Vincere” racconta la disabilità in positivo, cioè quello che appunto funziona e quello che si può fare “nonostante il deficit”. Ma anche queste storie, come le informazioni di servizio, sono poco approfondite, restano nella superficialità e nella banalità, e allora ci si chiede cosa resta dopo avere letto “Vincere”, su cosa si è più informati o che cosa ha permesso di riflette su una più giusta cultura della disabilità. “No Limits” si presenta con meno pretese di essere una rivista “per tutti”. Lo sa in partenza, e lo dichiara nel sottotitolo, che è una rivista per chi è disabile. Alcune rubriche, come “L’avvocato risponde” o “L’architetto risponde” trattano di accessibilità o di pensioni di invalidità civile, argomenti sicuramente di categoria. Ma anche in questo caso le notizie sono poco precise. E anche “No Limits” si concentra su storie di vita reale, di persone che sono riuscite a fare mestieri magari insoliti per una persona disabile (o meglio: mestieri che i normodotati giudicano insoliti!) o di persone che sono emerse in una qualche attività sportiva paraolimpica “nonostante il deficit”. Vengono anche descritti casi pratici di vita quotidiana, come il fare la spesa se si è in carrozzina, o come si può rendere una cucina adattata anche a chi ha difficoltà motorie. Una rivista per chi è disabile, insomma, e d’altra parte, essendo venduta come supplemento non obbligatorio, sicuramente verrà richiesta solo da chi è davvero interessato all’argomento della disabilità per qualche motivo personale. Anche “No Limits”, rispetto a altre riviste già esistenti su queste tematiche, non è particolarmente esaustiva, o forse è solo troppo simile a qualcosa che esiste già e ci aspettavamo invece delle novità capaci di farci maggiormente riflettere. Come mai, però, la cultura sulla disabilità deve per forza passare attraverso riviste che probabilmente verranno sfogliate solo da chi disabile lo è già? Se si vuole cambiare questa “famigerata” cultura sulla disabilità non sarebbe meglio parlarne attraverso giornali letti veramente da tutti? Perché, ad esempio, la storia di un uomo tetraplegico che è riuscito a diventare uno stilista di alta moda deve comparire solo su un giornale che tratta di disabilità? Perché non potrebbe parlarne una rivista di moda? Immaginiamo che una rivista di moda, se anche ne parlasse, userebbe toni da eroe. La persona disabile – ormai è una stigmatizzazione di uno scorretto modo di fare informazione sociale – o è solo vittima o è solo eroe. Non dovrebbe, invece, essere così eccezionale il fatto che si parli di uno stilista di moda (anche se disabile) su una rivista di moda. Dovrebbe essere naturale, anzi normale, anzi: la norma. Sarebbe l’occasione per veicolare la diversità attraverso la normalità, senza il bisogno di riviste ad hoc sulla diversità. Leggendo “Vincere” e “No Limits” si ha, invece, l’impressione di rimanere nel “ghetto”, anche se siamo solo all’inizio della loro avventura editoriale, e non sappiamo ancora se un giorno verremo smentiti dai risultati ottenuti da queste due nuove riviste, o se un giorno si riveleranno un flop. Un’ultima considerazione, però, va fatta sui loro titoli: titoli agonistici, come si è detto all’inizio. Perché la persona disabile, per accettarsi e per essere accettata, deve per forza dimostrare di essere vincente, di non avere limiti “nonostante il deficit”? Il problema – è sempre quello da anni e anni di tradizioni culturali – è che la disabilità viene associata allo svantaggio, a una situazione negativa che richiede assistenza più che vera integrazione. Quindi, per cambiare questo atteggiamento mentale, appare indispensabile puntare su ciò che può essere positivo, sulle diverse capacità e abilità che comunque una persona disabile possiede e può esprimere. Il concetto di “diverse abilità”, di disabile come “diversabile”, ha il vantaggio di mettere tutti, normodotati e non, sullo stesso livello: nel senso che qualunque persona umana ha delle abilità in cui eccelle e altre in cui ha bisogno di aiuto, e ognuno di noi ha capacità diverse da quelle degli altri. Non si pensa quasi mai, però, che anche il concetto di “limite” ha la proprietà di unire tutti nello stesso livello: perché ognuno di noi ha dei limiti e siamo tutti imperfetti. Soprattutto, non si pensa quasi mai che dietro al termine diversabile, che ormai piace a molti, c’è inevitabilmente quello di limite: sono le due parti della stessa medaglia, il Giano bifronte della disabilità. E anche se si punta solo su uno dei due aspetti, l’altro è potenzialmente lì, anzi: l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Il vero successo culturale sarebbe veicolare il concetto che si è tutti diversamente abili senza per forza essere o dover dimostrare di essere dei supereroi, e si è tutti pieni di limiti senza per questo essere delle persone solo sfortunate. Quando si racconta, invece, la storia di una persona disabile, se si spiegano i suoi limiti si rischia di diventare patetici e in cerca di compassione, se si raccontano i suoi successi si rischia di mostrare solo la scena esteriore, le luci della ribalta, i sorrisi della vittoria. Bisognerebbe partire dai limiti, accettarli e farli accettare, come una cosa normale, perché è assolutamente normale avere dei propri limiti coi quali fare i conti, scontrarsi, magari anche arrabbiarsi e correre pure il rischio di non riuscire a superarli. E poi, solo poi, passare a lavorare sulle abilità diverse, mostrando che anche in situazioni non facili e drammatiche si può vivere bene, con degli affetti, un lavoro, degli amici, una vita sociale… Se si riuscisse a concepire l’idea che i limiti di una persona disabile sono una cosa del tutto normale e non molto diversa dal fatto che ciascuno di noi ha dei limiti, non ci sarebbe questo bisogno sfrenato di mostrare una vita di vittorie e di successi “nonostante il deficit”. Anche queste vittorie e successi sarebbero normali come nella vita di qualunque altra persona che, anche se non disabile, deve comunque affrontare piccoli problemi quotidiani. E allora saremmo tutti in pareggio, senza vincitori né sconfitti. Ma siamo nell’epoca in cui gli esseri umani vogliono mettersi continuamente alla prova e superare i limiti della propria fisicità (si pensi ad esempio agli sport estremi). Perciò risulta vincente solo l’informazione di chi ha, a sua volta, vinto sui limiti. Accettare un pareggio? Mai! Che tipo di cultura ne emergerà? Paradossalmente, una cultura di lotta, anziché di solidarietà e di piena integrazione e accettazione delle persone disabili. “Vincere” e “No Limits”, allora, sembrano interpretare pienamente lo spirito del tempo, la necessità culturale di mostrarsi superiori ai propri limiti. E pensare che sono due riviste nate con grossi limiti strutturali. La famosa ironia della sorte…

La diversità è glamour…o no?

“Sii quello che vuoi sembrare che sei. Oppure, per dirlo più semplicemente: non immaginare mai né d’essere diversa da quello che può sembrare agli altri che tu sia o possa essere stata o potresti diventare; né diversa da quella che avresti dovuto essere per apparire agli altri diversa”, dice la Duchessa, uno dei personaggi che popolano il Paese delle Meraviglie, ad Alice, nel famoso libro di Lewis Carroll. Alice fatica a trovare una morale in questa frase, perché essa ha qualcosa di simile al paradosso, intendendo per paradosso una situazione davanti alla quale il cervello si “smarrisce” all’interno dei giochi linguistici e figurativi. La stessa sensazione di smarrimento, di situazione paradossale, che tra l’altro si inserisce perfettamente nei concetti di essere, apparire, voler essere e dover apparire, l’hanno provata i lettori di “Panorama” il 26 giugno 2003, quando il noto settimanale italiano ha dedicato la copertina e un lungo servizio giornalistico e fotografico all’elogio della diversità, in occasione dell’Anno Europeo delle persone disabili. Nei giorni seguenti alla pubblicazione, cori di protesta hanno fatto il giro di Internet, inserendosi in quasi tutti i newsgroup e forum che trattano di disabilità. In luglio, poi, le stesse lettere che sono circolate nella Rete sono state riprese in toto da alcuni settimanali cartacei, ad esempio da “Vita”, uno dei magazines del non profit più famosi e attendibili, aggiungendo titoli “ad effetto” per rimarcare addirittura lo “scandalo” di un reportage come quello di “Panorama”. Ma uno degli elementi paradossali risiede nel fatto che le proteste non sono giunte dai lettori diciamo normodotati, bensì dai lettori disabili e dalle associazioni che si occupano di disabilità. Che cosa non ha funzionato, allora, nel tipo di informazione sociale proposto da “Panorama”? Innanzitutto, probabilmente, esiste un errore temporale. Il pezzo giornalistico è stato scritto da una giornalista italiana, Stella Pende, ma le foto che accompagnano il servizio e che sono la parte determinante, non le ha scattate Stella Pende, né qualche altro collaboratore di “Panorama”, né sono state pensate e realizzate per il servizio del settimanale.
Le foto sono frutto di due anni di lavoro di un celebre fotografo francese, Gérard Rancinan, che, insieme alla giornalista Virginie Luc, ha girato il mondo alla ricerca di “handicap” curiosi, strani, di uomini e donne che nonostante i gravi problemi e deformità dei loro corpi sono riusciti ad affermarsi come persone vincenti. Tutte le fotografie e i testi di questi due anni di esperienze verranno pubblicati in un libro che uscirà nel 2004 col titolo “In praise of difference” (in Italia: “Elogio della differenza”).
Quindi, anche se nel servizio di “Panorama” viene specificato che le foto sono di Rancinan e Luc, esse comunque appaiono decontestualizzate dalla funzione originale per la quale sono state scattate. Funzione che si capirà sicuramente meglio quando il libro sarà pronto. Ma si sa che i giornali tendono all’esclusiva, allo scoop, e queste immagini hanno ormai fatto il giro d’Europa. In luglio, servizi analoghi a quello di “Panorama” sono stati pubblicati nel supplemento spagnolo del quotidiano “El-Mundo” (“Magazine” n° 199 del 20 luglio 2003, col titolo discutibile di “Gli irrepetibili”) e in alcune riviste dei Paesi dell’Est. Ma procediamo. Un altro errore probabilmente commesso è di tipo estetico, e anche di conseguenza morale: se ci si pensa, ????? ???? ???? ??????? ??????? ?? ?????? ?????
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???????? ?? ??????? ??????..immagini non parlano da sole. L’immagine fotografica è di solito un’immagine senza codice, o comunque con un codice molto debole. Di conseguenza è un’immagine polisemica, cioè può avere più significati a seconda della soggettività di chi la osserva e la interpreta. L’immagine ha bisogno del contesto affinché la sua interpretazione vada nel senso voluto dall’autore. Una fotografia contiene in sé una vera e propria affermazione visuale di una scelta, di una cultura, di uno stato d’animo… ma da sola non può connotare un messaggio. Eppure in questo caso le immagini hanno parlato, ancora di più delle parole della Pende. Si pensi anche alla campagna pubblicitaria del 1998 intitolata “I girasoli” e realizzata dal fotografo Oliviero Toscani per l’azienda di vestiti Benetton: bambini down e ragazzi con deficit psichici furono ritratti con i loro operatori normodotati in un’esplosione di colori, sorrisi e allegria, griffati ovviamente Benetton. Scattarono subito le polemiche delle associazioni di categoria: lo scandalo era l’aver abusato della disabilità per vendere più magliette. Non si pose mai la questione di come furono realizzate le foto, se questi bambini e ragazzi si divertirono, se si instaurarono belle relazioni sociali. Le immagini (senza contesto) bastarono per scardinare certi stereotipi e per preoccuparsene. Personalmente, la campagna “I girasoli” mi piacque molto, così come mi piace – a questo punto posso anche ammetterlo – il servizio di “Panorama”. Con tutti i difetti e le imperfezioni giornalistiche che ha, mi piace nella misura in cui mi pare rispecchi ciò che questi soggetti fotografati da Rancinan vogliono: cioè essere guardati. Si tratta di persone così lontane da quella che comunemente è chiamata normalità, che sono comunque guardate sempre e da tutti, appena escono di casa. Anziché nascondersi, hanno scelto di mettersi in mostra in tutte le manifestazioni della loro vita, scegliendo mestieri che li portano a contatto col pubblico e con la visibilità. Pascal Kleiman, nato senza braccia, è uno dei dj più famosi di Francia e viene chiamato in parecchi locali e discoteche. Anne Cécile Lequien, che ha subito amputazioni alle braccia e a una gamba, nuota e vince davanti a tutti e in costume da bagno alle Paraolimpiadi. Deb Teighlor fa la modella nonostante i suoi 250 chili. Una delle due gemelle siamesi fa la cantante country. Jennifer Miller, la donna con la barba, oltre a insegnare all’Università, si è già mostrata nuda in diversi giornali. Alison Lapper, nata senza braccia e con le gambe più corte, è oggi un’artista di talento e basta una semplice ricerca in Internet per scovare il suo sito personale (www.alisonlapper.com) dove si trovano molte foto artistiche di lei nuda, alcune anche in compagnia di suo figlio. Sono persone abituate quindi a mostrarsi e che hanno fatto della visibilità la loro vittoria sui deficit. Guardiamo, allora, non c’è niente di male (almeno in questo caso). E intanto auguriamoci che l’Anno Europeo delle persone disabili non produca solo servizi poco esaustivi e polemiche circolari.

Madri disabili: facilitare i gesti quotidiani

Quando la madre disabile viene dimessa dall’ospedale, e torna a casa col proprio bambino, è in quel momento che diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio.

Quando la madre disabile viene dimessa dall’ospedale, e torna a casa col proprio bambino, è in quel momento che diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio. Ricordiamo che non esistono persone handicappate in sé! L’handicap è sempre situazionale, dato dall’esterno.
Dopo il parto la madre deve anche prendersi cura di sé, il suo corpo è affaticato e si è indebolito.
Deve organizzare il proprio tempo per occuparsi sia di sé che del bambino. Identificare i gesti di vita quotidiana che potrebbero risultare più difficili, e trovare le soluzioni più adatte, diventa uno stato di necessità per migliorare le condizioni sia della madre che del figlio.
Molto spesso si tratta di “trucchi” semplici, o di “adattamenti” realizzati con mobili comunemente in commercio (e non adattamenti “dedicati alla disabilità”). Altre volte occorre invece un consiglio di un esperto e una soluzione tecnica studiata ad hoc per quella persona, per quel tipo di deficit, per quel tipo di abitazione, ecc.
È importante studiare un percorso di autonomia, perché l’essere (o anche il sentirsi) più autonomi infonde fiducia e aiuta a superare i limiti fisici, psicologici e anche sociali (l’immagine della persona disabile come “non abile” a prendersi cura di un figlio) di cui si è detto.
Dato che in Italia si parla ancora molto poco di genitori disabili, mi sono rivolta a due professioniste straniere che da anni seguono le soluzioni personalizzate a genitori disabili: Marie Ladret, ergoterapeuta dell’“Espace conseil pour l’autonomie en milieu ordinaire de vie (ESCAVIE), e Susan Vincelli, ergoterapeuta del Centro di rieducazione funzionale “Lucie Bruneau”, del Québec (Canada). Dopo qualche scambio di e-mail, ecco un piccolo vademecum con alcuni suggerimenti molto semplici ma utili.

La cameretta del bambino

Innanzitutto bisogna che la camera del bambino sia perfettamente accessibile, senza alcun ostacolo che potrebbe mettere in pericolo la madre e il figlio: diminuire quindi i rischi di cadute eliminando ad esempio i tappeti, e rispettare gli spazi di circolazione.
Il letto del bambino deve essere facile da manipolare e a un’altezza adeguata alle proprie esigenze. Una scelta del lettino adattata a se stesse è importante, perché mettere il bambino nel letto è un gesto ripetuto più volte nell’arco di una giornata. La rete del lettino dovrebbe potersi fissare a differenti altezze. Meglio scegliere un letto che abbia delle sponde di facile apertura (ad esempio sponde in tela con chiusura lampo) o comunque preferire dei sistemi di apertura delle sponde che non prevedano la necessità di utilizzare le due mani nello stesso momento.
Se una madre è in carrozzina, si deve posizionare parallela al lettino e l’altezza adattabile della rete non è sufficiente per afferrare il bambino, occorre anche una torsione del busto. Il fatto è che la schiena della madre è fragile al ritorno dal parto, e per evitare queste torsioni sarebbe ideale che la parte sotto il lettino fosse completamente libera in modo da permettere il passaggio della carrozzina: per questo è preferibile un lettino con l’apertura delle sponde laterale.
Esistono anche lettini che hanno l’altezza della rete regolabile elettronicamente attraverso un telecomando, ma si tratta purtroppo di sistemi molto costosi.
Per sollevare il bambino dal letto e trasportarlo, ci sono alcuni trucchi che possono aiutare i genitori disabili. “Acchiappare” il bambino per la tutina può rivelarsi molto pratico; esistono comunque delle amache porta-bambini che permettono di prendere il bambino in tutta sicurezza.
Spesso la mamma in carrozzina afferra il bambino con una sola mano, perché ha bisogno dell’altra mano libera per assicurare il suo equilibrio sulla carrozzina (soprattutto nel periodo post parto quando gli addominali sono deboli). Anche la mamma con difficoltà a deambulare può ugualmente avere bisogno di avere una mano libera per trovare un punto d’appoggio con cui poi farsi forza per sollevare il bambino con l’altra mano.

Il fasciatoio

Il fasciatoio, elemento importante per la cura del bambino, deve avere un’altezza giusta in rapporto alla statura della persona disabile e del suo deficit. Se la persona è in carrozzina, il fasciatoio deve essere sgombro nella parte inferiore in modo da consentire il passaggio delle ginocchia. Anche in questo caso esistono dei fasciatoi regolabili in altezza elettronicamente, ma si tratta sempre di un problema di costi economici.
Un materassino da usare come un fasciatoio posizionato su una scrivania o una tavola qualsiasi, con dei cassetti su un lato in modo da avere vicino tutto l’occorrente, è spesso l’opzione scelta dai genitori in carrozzina, ed è in effetti la più semplice. I fasciatoi tradizionali non permettono il passaggio della carrozzina nella parte inferiore.

Il bagnetto

Il bagno è un momento privilegiato tra la madre e il bambino, ma è ugualmente uno dei momenti più temuti dalle mamme disabili. Infatti esse sono spesso in apprensione, apprensione di solito più legata alla paura che non al deficit!
Esse possono sicuramente utilizzare le vasche da bagno per bebé che si adattano alla vasca da bagno grande. Delle piccole sedie a sdraio da posizionare sul fondo della vasca o della doccia sono una sicurezza supplementare. Esistono anche delle piccole vasche da bagno da posizionare sulla tavola, o su dei cavalletti che facilitano l’accesso in carrozzina.
Quando il bambino diventa grande, alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la doccia perché il bordo è meno alto e la madre non ha bisogno di sollevare il bambino per farlo uscire.
Il termometro nell’acqua per verificare la temperatura è raccomandato soprattutto se la madre ha delle disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle.

Nutrire il bambino

L’allattamento

Le madri che hanno una debolezza muscolare a livello delle membra superiori, possono utilizzare dei cuscini di mantenimento o dei cuscini d’allattamento che permettono di mantenere il bambino in una posizione confortevole in tutta sicurezza e di evitare contratture o torsioni.

Dare il biberon

Le persone che hanno una mancanza di forza possono utilizzare dei biberon in plastica, più leggeri e che non si rompono. Per le mamme che hanno delle difficoltà ad afferrare gli oggetti, sono sempre possibili degli adattamenti sul biberon, tipo impugnature speciali, magari con sistemi a strappo. La sterilizzazione dei biberon è più facile a freddo o nel micro-onde. Anche gli scalda biberon elettrici sono più pratici e più sicuri perché evitano di manipolare oggetti bollenti (soprattutto per le persone che hanno delle disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle).

Lo svezzamento e ilpassaggio al cucchiaino

Le mamme che hanno delle difficoltà ad afferrare gli oggetti possono utilizzare delle posate adattate (ad esempio coi manici grossi, o anche qui con sistemi a strappo), o anche degli anti-scivolo, dei piatti con dei punti d’appoggio, tutti gli ausili di cui la madre magari già si serve abitualmente.

Il seggiolone

La scelta del seggiolone può essere importante soprattutto per le madri in carrozzina. Alcuni modelli di seggiolone hanno i piedi sufficientemente divaricati senza barre trasversali per permettere il passaggio della carrozzina. Esistono dei seggioloni regolabili: la parte in cui far sedere il bambino può essere installata più o meno in alto a seconda dell’altezza della madre e del suo deficit.

Trasportare il bambino

Portare il bambino tra le proprie braccia potrebbe sembrare una cosa del tutto naturale, ma quando la mamma ha già delle difficoltà a spostarsi, questo diventa più complicato e soprattutto più angosciante perché c’è la paura di cadere insieme al bambino.
I porte-enfant, quelli che si attaccano al ventre, possono essere una soluzione per sostenere il bambino, sia che la madre sia in carrozzina oppure no. È più pratico che il sistema di aggancio sia sul davanti e facile da manipolare, magari con sistemi a strappo. Per sollevare il bambino, molti genitori lo afferrano per i vestiti; delle amache porta bambini disponibili sul mercato possono facilitare, come già detto, il trasporto del bambino, soprattutto per sollevarlo dal letto o dal fasciatoio. Il porte-enfant laterale è più pratico quando il bambino cresce: evita la torsione della colonna vertebrale quando si porta il bambino su un lato.

I primi passi

Il momento in cui il bambino comincia a camminare è un momento molto delicato, perché egli tocca tutto e bisogna seguirlo dappertutto, e una mamma con difficoltà a deambulare o in carrozzina non potrà sorvegliarlo così facilmente. Per rimediare a questa difficoltà, alcune mamme utilizzano dei veri e propri “trottatori” in modo che il bambino non cada (i genitori disabili non possono rialzarlo o frenarlo facilmente) e non abbia accesso a tutti gli angoli della casa (dove i bambini amano generalmente andare!).
Per insegnare loro a camminare, esistono delle vere e proprie “bardature” primi passi (che si possono procurare in qualsiasi ipermercato) per mantenere il bambino in equilibrio senza doversi abbassare.

Le uscite

Per il trasporto all’esterno

Le mamme in carrozzina utilizzano spesso il porte-enfant ventrale, così possono tenere il bambino contro di esse e nello stesso tempo spingersi con la carrozzina. Alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la carrozzina per bambini o il passeggino (mezzi che procurano anche un punto d’appoggio per loro stesse). Esisterebbero anche delle motorizzazioni per le carrozzine e i passeggini in modo da facilitare la spinta nelle salite o il frenaggio nelle discese, ma purtroppo questo tipo di aiuto è molto costoso e non commercializzato in tutti i Paesi.
Una specie di “guinzaglio” è utilizzato quando il bambino cammina: questo gli permette di andare e venire e spostarsi in un perimetro di sicurezza che la mamma può controllare. Questa soluzione è la più prudente quando si è sulla strada, ma può essere utilizzata anche ad esempio in prossimità dell’acqua.

La macchina

Mettere il bambino nel seggiolino dell’auto non è affatto semplice quando un genitore ha un deficit. D’altra parte il seggiolino va utilizzato per questioni di sicurezza. Probabilmente si avrà bisogno di aiuto nel collocare il bambino sull’auto, oppure quando il bambino diventa più grande può salire da solo. Esistono dei seggiolini girevoli che possono facilitare questa operazione, ma questo materiale ha un costo importante e resta un lusso per la maggioranza delle madri.

Serve una “pubblicità sociale” per parlare di sociale?

Si sente sempre dire che viviamo nell’era dell’informazione, che siamo circondati dall’informazione, che è impossibile sfuggire a essa. Si dovrebbe però aggiungere che la vera “realtà” cui non possiamo sottrarci è la pubblicità. In televisione, alla radio, al cinema, nei cartelloni per le vie delle città, sugli autobus, sui sacchetti per la spesa, in internet, sui giornali… ogni giorno riceviamo, anche non volendo e non cercandoli, tantissimi messaggi pubblicitari. Sull’importanza o la non importanza della pubblicità, sulle sue logiche, sul suo potere, sulla sua realizzazione (ormai è una vera e propria gara allo spot più spettacolare, meglio “girato”, più attraente), massmediologi, sociologi, psicologi e marketing managers dibattono costantemente. Non è mia pretesa inserirmi in questo dibattito, ma due pubblicità recenti hanno attirato la mia attenzione, e vale la pena provare a ricavarne qualche considerazione. Un po’ di mesi fa ricevetti il comunicato stampa che annunciava l’avvio di una nuova Pubblicità Progresso, questa volta sul tema della disabilità, cosa che non succedeva da anni (l’ultima Pubblicità Progresso su questa tematica risaliva al 1993). La nuova campagna di “pubblicità sociale”, intitolata “E allora?”, si presentava innanzitutto con un sito internet dedicato, www.eallora.org. Incuriosita, visitai subito il sito web: visi di persone disabili, con deficit intellettivi, apparivano sorridenti e ironici sullo schermo del pc, e una scritta a lato annunciava: “Io mi chiamo Alfonso… Io mi chiamo Ciccio… Io mi chiamo Stefania… E allora?”. Visi che guardavano e in qualche modo “sfidavano” lo spettatore, come a dire: “E allora? Non siamo forse uguali a te? Ti credi tanto diverso?”. Questa campagna si presentava come la più complessa e articolata di tutta la storia di Pubblicità Progresso, in quanto aveva coinvolto diversi media e diverse persone. Il cantautore bolognese Lucio Dalla aveva composto appositamente per la campagna  – e senza profitto – una canzone dal titolo “Per sempre presente”; con questa canzone era stato realizzato un videoclip in cui si mostrava la vita quotidiana e il lavoro delle persone disabili della cooperativa “Solidarietà”; si diceva che il videoclip sarebbe andato in onda nelle reti televisive e nei canali musicali; si prometteva che la pubblicità sarebbe stata diffusa anche in radio, con affissioni stradali, e soprattutto su internet per coinvolgere i più giovani; gli allievi del corso di narrativa del Centro Lab di Roma erano stati invitati a comporre racconti sul tema della disabilità; tutti i racconti erano stati pubblicati on line sul sito della campagna, e lì si poteva votare il racconto preferito e partecipare all’estrazione di premi… Il videoclip (scaricabile gratuitamente, così come anche il file della canzone) peccava un po’ di retorica, come succede spesso quando si vuole fare comunicazione sul sociale, e anche le frasi con cui veniva spiegata la campagna sul sito erano un po’ bordeline tra la ricerca di vera integrazione e il pietismo (sempre rischioso nelle Pubblicità Progresso): “La campagna di comunicazione sociale ‘E allora?’ nasce per sollecitare le persone a tutto ciò che è diverso, anche in senso apparentemente negativo. Scoprire la sensibilità dei disabili e le loro inaspettate capacità, ci insegna che le differenze ci sono, ma che sono i nostri pregiudizi a farle sembrare insormontabili. Comprendere il miracolo e il mistero della vita anche in chi è disabile o disagiato significa cancellare i pregiudizi e imparare a guardare alle persone con tutto il loro bagaglio di dignità e di legittimo desiderio di felicità. Quando capiremo che siamo tutti diversi, nessuno sarà più diverso”. Inaspettate capacità dei disabili? Miracolo e mistero della vita anche in chi è disabile? Non saranno le frasi migliori, ma tutto sommato questa campagna non era affatto male. In qualche modo mostrava la disabilità, ed è giusto mostrarla, perché è inutile continuare a costruire teorizzazioni  sull’integrazione delle persone con deficit senza mai mostrare concretamente ciò di cui si sta parlando. La disabilità nel mondo esiste, tanto vale guardarla, così forse un giorno ci avremo fatto l’abitudine e sapremo cosa fare per essa e come relazionarci con essa, come con qualsiasi altra realtà “normale”. La domanda ora è: vi siete tutti accorti che mesi fa è partita questa campagna di pubblicità sociale? Alcuni amici mi hanno riferito di averla vista al cinema, e personalmente ho visto un giorno un cartellone per le vie della città. Ma in televisione non mi è mai capitato di vederla, per radio non ne ho mai sentito parlare, e anche nei canali musicali non ho mai intravisto il videoclip di Lucio Dalla. Solo qualche portale internet che si occupa di disabilità ha parlato della campagna, o ha pubblicato il link al sito di “E allora?”. Senza tv, che resta comunque il medium di massa per eccellenza, e senza aver coinvolto davvero tutta la rete di internet, ma solo i siti già dedicati all’argomento disabilità, ci si domanda quante persone siano state davvero raggiunte dal messaggio di Pubblicità Progresso. 
Un messaggio che invece, sicuramente, ha raggiunto quasi la totalità degli italiani, è il nuovo spot di Telecom Italia. Per un minuto si vede un ragazzo che “parla” con il linguaggio dei segni delle persone sordo-mute: un minuto di silenzio per lo spettatore, solo le immagini di questo protagonista. Poi, all’improvviso, una voce fuori campo annuncia che il ragazzo sta parlando al telefono! È la nuova tecnologia di Telecom, il videotelefono. Lo spot, progettato dalla nota agenzia Leo Burnett (quella della pubblicità della Breil, tanto per fare un nome), è semplice, pulito, di grande impatto emotivo, bello insomma. In pochi istanti ti ricorda che non tutti riusciamo a comunicare nello stesso modo, che esistono altre forme di comunicazione, che queste forme possono essere integrate e aiutate dalle nuove tecnologie. Non c’è retorica e non si stimola pietà: si mostra solo uno dei casi in cui il videotelefono può essere molto utile. La disabilità, il deficit vengono inseriti in una pubblicità “normale”, non “dedicata a”. Certo, si può obiettare che i canali con cui Telecom può veicolare le sue pubblicità sono più potenti di quelli di Pubblicità Progresso, o sono più “legittimati” ad andare sempre in onda rispetto a un tipo di pubblicità più di nicchia. Si può anche obiettare che Telecom potrebbe aver “sfruttato” la disabilità per vendere di più. Però questo nuovo spot fa riflettere: serve necessariamente una “pubblicità sociale” per parlare di sociale?

Un sito web con giochi davvero speciali

Anche se i bambini hanno una creatività innata, e una fantasia tutta loro, quante volte gli adulti (genitori, insegnanti, educatori, animatori, ecc.) devono inventare un gioco, o cercare dei giochi, per coinvolgere i più piccoli? Il sito web “I giochi di Elio” (www.igiochidielio.it) può essere un’ottima base di partenza per trovare tanti spunti interessanti, come i giochi da tutto il mondo, i giochi delle regioni italiane, i giochi per i viaggi, i giochi per i giorni di pioggia, i giochi di espressione, di movimento, di memoria, da tavolo, a squadre, i giochi per una festa…
La sezione che più ha attirato la mia attenzione riguarda, però, i “Giochi per bambini speciali”, sezione presentata con queste parole dallo stesso Elio Giacone, ideatore e curatore del sito: “In queste pagine potrai trovare giochi per bambini speciali (non vedenti, non udenti, con limitazioni motorie…), bambini in grado di giocare con tutti gli altri purché il gioco abbia determinate caratteristiche. Queste pagine non hanno la pretesa di presentare attività specifiche legate alle differenti limitazioni, ma vogliono semplicemente proporre una serie di giochi realizzabili tutti insieme, giochi in cui le differenze tra i bambini non costituiscano uno svantaggio”. Incuriosita, ho fatto una breve chiacchierata con Elio Giacone. Ecco il risultato.
Come è nata l’idea di una sezione di giochi per “bambini speciali”? Avevi o hai esperienza con bambini disabili?
Dopo il diploma ho frequentato la scuola per educatori specializzati e ho iniziato a lavorare nelle scuole con bambini con diverse tipologie di deficit. Già allora il gioco mi interessava moltissimo (la tesi l’ho fatta sulla scoperta della Natura attraverso il gioco…), e così ho usato proprio il gioco per entrare in contatto coi bimbi e per aiutarli a comunicare con me e con gli altri. Poi, a poco a poco, il gioco ha preso il sopravvento e così il mio lavoro mi ha portato a lavorare non più solo con bimbi speciali, ma un po’ dappertutto, nelle situazioni più disparate. L’esperienza fatta in quei primi anni di lavoro mi è servita, ben mescolata con tutto ciò che ho imparato dopo, a gettare le basi della sezione di giochi per bimbi speciali.

Hai provato,  o fatto provare, effettivamente questi giochi con i bambini? Hai visto se “funzionano” davvero, se i bambini – speciali e non – si divertono tutti insieme?
Gran parte dei giochi li ho collaudati direttamente in questi anni: quelli che mi lasciavano qualche dubbio non li ho inseriti nel sito o, in pochi casi, li ho tolti. La buona riuscita di un gioco dipende da tantissimi fattori diversi, legati al gruppo di bimbi, alle dinamiche che ci sono tra loro, al modo di presentare il gioco e così via…. Il discorso vale anche, ovviamente, per i giochi proposti a bimbi disabili inseriti tra gli altri. I giochi sul sito sono scelti tra quelli che “funzionano” meglio, cercando di evitare i giochi molto semplici o molto conosciuti.

Per inventare o adattare i giochi hai consultato qualche associazione di categoria?
Prima di mettere i giochi sul sito ho cercato la collaborazione o la supervisione di associazioni di categoria reperite su Internet, ma finora non ho ricevuto molto aiuto. Tanti complimenti, tanto interesse per ciò che sto facendo, tante recensioni buone… ma niente di più. Lo stesso vale,
ad esempio, per i giochi provenienti da altri Paesi o per i giochi regionali. Forse è proprio il meccanismo di Internet, il modo consueto di usare la Rete che porta a questo poco scambio. Sto cercando di mettere nel sito le esperienze che ho fatto finora, e che sto facendo, proprio in modo da
poterle condividere con gli altri. Sono sempre molto graditi i consigli, i suggerimenti e i commenti.

Per saperne di più:
www.igiochidielio.it
elio@igiochidielio.it

Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto

Madri disabili: percorsi di adeguamento di sé tra difficoltà e soluzioni

Ho pensato molto a come scrivere questa monografia dedicata alle madri disabili.
Sono sociologa di formazione e giornalista di professione, e immaginavo che avrei condotto un lavoro esclusivamente giornalistico, di interviste e raccolta di dati, con qualche spunto per generalizzare le riflessioni in un quadro sociale. Ma questa monografia mi ha coinvolta emotivamente fin dall’inizio, e il lavoro che ne è seguito ha interessato tante altre persone, stimolando tanti dialoghi, tante chiacchiere informali… Alcune considerazioni, che non sarebbero mai emerse dalle interviste tradizionali, sono scaturite invece dal parlare quotidianamente con persone che mi chiedevano come procedeva il lavoro. Perciò ho deciso di raccontare, esattamente, in che modo questa monografia si è sviluppata nel tempo, dicendo da dove sono partita, il perché, che cosa pensava la gente, e così via.
In un certo senso questo è il racconto di una storia.

Perché le madri disabili
Come mai la scelta di questo tema? Per due ordini di fattori, gli uni oggettivi, gli altri soggettivi.
I dati oggettivi. La genitorialità, nel mondo della disabilità, è sempre trattata dal punto di vista di genitori normodotati che hanno figli disabili. Esiste un’ampia letteratura, sia italiana sia straniera, sui genitori con figli disabili, e gli argomenti trattati sono molti: come essere genitori “speciali”, come essere genitori “normali”, come affrontare la delusione sulle aspettative che si nutrono verso i figli, come educare i figli disabili a un percorso di autonomia, come riacquistare e poi saper dare fiducia, come comunicare a un genitore la nascita di un figlio disabile (la prima informazione), e così via.
Quasi niente esiste invece sul tema opposto, su quando cioè a essere disabile è il genitore e non il figlio. Del materiale di approfondimento si trova nella letteratura straniera, ma in Italia – lo ripeto – la produzione è scarsissima. Eppure non si tratta di un tema così insolito, a meno che non lo si creda tale. Le persone disabili che diventano genitori sono davvero tante, più di quante si possa immaginare. Eppure non ci si pensa? Già. Forse l’idea che un genitore disabile possa prendersi cura di un figlio è ancora “strana”, è ancora una “follia”. Per non parlare del fatto che a tutt’oggi, nel 2005!, bisogna continuare a lottare affinché i “normodotati” considerino anche le persone disabili come soggetti di diritto di una propria sessualità. E senza aver compreso questo ragionamento sulla sessualità delle persone disabili (che c’è, esiste e deve esistere, pur nella sua complessità emotiva, psicologica, relazionale, fisica, sociale… ed è inutile che si faccia finta di niente…), è difficile fare quel salto in avanti che permette di pensare anche alla maternità e alla genitorialità di persone con deficit.
Nello stesso tempo, però, non si vogliono negare eventuali difficoltà. Affrontare la condizione di madre per una donna disabile è comunque più complesso che per una donna senza deficit, ed è soprattutto quello che accade dopo il parto a necessitare di un maggior numero di attenzioni. Tornare a casa e trovarsi un neonato fra le braccia, doversi prendere cura di lui, ovvero di qualcuno che è totalmente dipendente da altre persone almeno nei primi anni di vita, non è così semplice. Non è semplice per le donne senza deficit, che comunque vedono sconvolti i loro ritmi di vita (e di sonno!) e si affaticano a seguire costantemente un bambino piccolo. Per le donne disabili è ancora meno semplice.
Si può essere autonome, nella cura del proprio figlio, nonostante i deficit? E in caso contrario, ci si può sentire comunque madri perfettamente adeguate? Quali sono le difficoltà oggettive o le paure che accompagnano l’accudimento del figlio? Come vive la coppia questa situazione? Queste erano le domande principali che mi affollavano la mente quando ho deciso di portare avanti questo lavoro. E a queste cerco di dare una risposta, per avere un po’ di documentazione su un tema così scarsamente trattato.
I dati soggettivi. Sono una donna, e so che anche quando l’idea di un figlio è molto lontana, quando non si hanno le condizioni per mettere in atto il desiderio di un figlio (un compagno, una certa stabilità economica, un posto in cui abitare), quando si è magari deciso che non si vogliono avere bambini o che si vuole aspettare, comunque sia per una donna è difficile eludere il pensiero della maternità. Se per natura o per condizionamenti sociali, non so. Ma è un pensiero che c’è. C’è anche per gli eventuali papà, ovviamente. Ma per una donna è “più” inevitabile. Inoltre, avendo io una disabilità motoria, conosco le ansie che possono accompagnare un percorso di maternità. Volevo, pertanto, parlare con donne disabili che hanno avuto figli, per scoprire quante di queste ansie abbiano un fondamento e quante invece possano essere superate in modo creativo. Tutto questo per fornire modelli ed esempi ad altre donne disabili, e per far capire a chiunque che essere madri disabili non è di per sé una “follia”….

Quello che non troverete (o che troverete in parte)
Non si parlerà dei papà disabili. Non per discriminazione ovviamente, ma solo perché, nei primi anni di vita del bambino, la consuetudine vuole che sia compito della madre occuparsi più strettamente di lui: allattarlo, cambiarlo, vestirlo, dargli da mangiare, lavarlo, portarlo a spasso, ecc. Si tratta di operazioni complicate per le mamme che hanno un deficit. Perciò ci concentreremo su questo, e chissà che in futuro non si possa approfondire il tema dei genitori disabili comprendendo anche i papà.
Non si parlerà di figli divenuti adulti che abbiano avuto uno o entrambi i genitori disabili. Si parlerà, invece, dei figli solo in quanto raccontati dalle madri intervistate. Le interviste fatte a figli ormai grandi, per sapere come abbiano vissuto la situazione di disabilità di un genitore, costituiranno forse un giorno l’argomento di un altro numero monografico di HP-Accaparlante. In bibliografia viene, comunque, indicato materiale di documentazione proprio su questo tema.
Non verranno approfondite le disabilità sensoriali (uditive e visive), se non in bibliografia, e di questo mi dispiace. D’altra parte il presente lavoro vuole essere molto circoscritto. Sono, pertanto, prese in considerazione solo le disabilità motorie (probabilmente perché qui, al Centro Documentazione Handicap di Bologna, ci siamo specializzati sempre di più in questo senso).
Altro tema che resterà escluso è quello della disabilità intellettiva, sebbene vi siano molti casi di maternità tra persone con deficit psichici (derivati purtroppo spessissimo da casi di abusi).
Non si parlerà di sessualità in senso stretto, se non attraverso rimandi bibliografici di documentazione. È evidente che il discorso sulla sessualità dovrebbe precedere quello sulla maternità. Ma con questa monografia si intende indagare il rapporto madre disabile-figlio nel momento in cui il bambino esiste già, lo si è concretamente portato a casa dall’ospedale e lo si deve allevare. Tutto quello che precede è un altro tipo di lavoro, già trattato più volte su “HP-Accaparlante”.
Non si farà una valutazione etica delle scelte. A volte, infatti, la patologia della madre può essere geneticamente trasmessa, con il conseguente aumento delle probabilità di nascita di un figlio disabile. Si tratta di una scelta troppo intima e personale che con intimità va vissuta, senza che sulla coppia incomba la “spada” di giudizi morali.

Bene. Cominciamo.

Vita vera, non ragionamenti astratti

“Per avere un bambino, sarebbe meglio avere regolato i conti con il proprio handicap”, ha esordito al telefono la prima mamma disabile che ho contattato.
Non avendo, infatti, trovato materiale scritto su questo argomento, se non in lingua francese o inglese, avevo pensato di partire “all’attacco”, selezionando cioè una serie di donne disabili con figli e andando a intervistarle.
Per scegliere le persone mi ero basata semplicemente sulla rete informale delle mie conoscenze: quindi amiche di amici, mogli di colleghi, mogli di colleghi di amici, ecc. Sapevo che non sarebbe stato un campione di persone significativo ai sensi del rigore metodologico di una ricerca sociale, la quale solitamente richiede numeri molto ampi e somministrazione in massa di questionari. Ma sapevo anche che il poter parlare per ore con alcune mamme disabili, seguendo giusto una traccia di intervista e lasciando, per il resto, scorrere liberamente i pensieri, avrebbe portato una grande ricchezza di contenuti.
All’inizio, però, non è andata come avevo immaginato.
Alcune mamme disabili si sono subito rifiutate di farsi intervistare; altre hanno chiesto qualche giorno di tempo per pensarci, e poi mi hanno ricontattata per dirmi di no.
Non conosco i motivi reali di questi rifiuti, però, occupandomi di comunicazione da parecchi anni, so per certo che hanno un significato. Se è vero che anche il silenzio “parla”, è eloquente, anche queste donne in qualche modo hanno parlato. Forse non volevano raccontare a me, perfetta sconosciuta, aspetti comunque intimi della loro vita. Forse non volevano riaprire cassetti ormai chiusi e questioni archiviate: alcune di loro hanno figli ormai adulti, perciò il percorso di accettazione del fatto che la propria disabilità potesse avere “ostacolato” la cura dei figli si era probabilmente concluso e non vi si voleva più rimuginare sopra. Forse persistevano sensi di colpa (molto spesso derivati non da cause reali, ma da cause percepite comunque come reali dalla persona… si sa che il senso di colpa non sempre si basa sulla razionalità…). Forse non volevano raccontarsi semplicemente perché non vedevano l’esclusività della loro situazione rispetto a quella delle mamme “tradizionali”: perché dovere per forza porre l’accento sulla disabilità?
Altre mamme, invece, si sono subito mostrate entusiaste all’idea di questa monografia, e sono state felici di potervi partecipare con i loro contributi. Non per concentrarsi solo sulla disabilità; non per affermare “Ecco, noi ce l’abbiamo fatta nonostante il deficit”; non per essere “macabre” e raccontare nel dettaglio tutte le azioni che, proprio per via del deficit, non hanno potuto fare; non per essere “vittime” o “eroine”, come di solito vengono descritte le persone disabili dai mass media. Ma per essere se stesse, per raccontare la vita reale di tutti i giorni, con la particolarità che la loro vita reale prevede anche un deficit fisico. Un deficit può diventare un handicap più o meno serio, più o meno leggero, a seconda del contesto di vita individuale, sociale, emotivo, relazionale in cui ci si trova; ma resta comunque un deficit, che fa parte della persona e che viene “imposto” anche ad altri: alla famiglia e agli eventuali figli. Raccontarsi, allora, senza veli, e scoprire che sono molti di più gli aspetti positivi di quelli negativi (senza per questo nascondere i negativi). E scoprire che si è mamme. E basta. Niente aggettivi dopo il punto, come si legge nel titolo di questa monografia.

 

Limiti fisici, psicologici, sociali: aspetti generalizzabili

Prima di partire materialmente con le interviste, ho avuto uno scambio “epistolare” via e-mail con Delphine Siegrist, una giornalista francese, autrice del libro Osez être mère (in italiano: “Osate essere madri”), edito da AP-HP (Assistance Publique Hôpitaux de Paris) nel 2003, nel quale sono raccolte tantissime testimonianze di donne disabili francesi. Sinteticamente, abbiamo preparato una serie di punti chiave emersi dalla sua esperienza e generalizzabili:

  • Bisogna sentirsi bene nella propria testa e col proprio corpo (un po’ come mi ha detto la prima mamma contattata). Aspetti psicologici a parte, la cosa non è tanto semplice. Ci si accorge, anzitutto, che l’incontro amoroso che costituisce il preambolo necessario al progetto di avere un figlio non sempre è così scontato.
  • Vivere una situazione di disabilità ferisce spesso l’ego, lo punge nel vivo. Le persone disabili devono comporre o ricomporre un’immagine positiva di se stesse.
  • Alcune donne, del tutto in grado di essere madri, non lo diventano semplicemente perché non si credono “degne di essere amate”.
  • Altre donne, che vivono in coppia, non hanno fiducia in se stesse e ritardano un progetto di maternità poiché non si sentono in grado di assumere il ruolo di madri. Si appellano alla loro “incapacità” fisica o alla paura di “infliggere” al figlio il proprio deficit.
  • Molto spesso i dubbi sono più che altro ancorati alla tradizione culturale, che vuole la donna in grado di prendersi pienamente cura del proprio piccolo.
  • A questi dubbi si aggiungono a volte quelli dei genitori, dei fratelli o degli amici, che non credono nella reale “capacità” di essere madre della loro figlia, sorella, amica.
  • Può però succedere che le motivazioni delle donne escano rafforzate proprio da questi dubbi. Ciò è particolarmente vero quando la coppia si è presa tutto il tempo necessario per maturare il proprio progetto di avere un figlio, quando ha già riflettuto sugli aspetti pratico-materiali e/o umani della maternità. Per molti tipi di disabilità, infatti, (è inutile nasconderlo) farsi carico di un neonato, che è totalmente dipendente da chi lo accudisce, è cosa da organizzarsi per tempo.
  • Le donne disabili che desiderano avere un figlio sentono spesso la mancanza di modelli di riferimento, di donne simili a loro, divenute anch’esse madri, con cui confrontarsi e scambiarsi esperienze, nonché consigli e soluzioni concrete.
  • La mancanza di modelli fa sì che manchino anche immagini sociali di riferimento.
  • Per stare meglio con il proprio corpo, prima di intraprendere una gravidanza sarebbe bene fare il punto sulla propria salute e conoscere le conseguenze che la maternità potrebbe avere sulla propria patologia, e tutti i rischi correlati.
  • Per certe patologie occorrerebbe una presa in carico multidisciplinare (ginecologo, urologo, cardiologo, neurologo, genetista, ecc.).
  • Laddove la maternità è possibile – e questo accade nella maggioranza dei casi – bisogna prepararla e riunire tutte le condizioni necessarie alla sua riuscita.

 

Limiti fisici
Anche se, sulla base dei punti precedentemente elencati, risulta forse già chiaro quali possano essere i limiti fisici, psicologici e sociali rispetto al desiderio di maternità (il prima), alla realizzazione del progetto di maternità (il durante) e alla cura del figlio (il dopo), vorrei comunque soffermarmi ulteriormente su alcune questioni.
Tra i limiti fisici, potrebbero ovviamente esservi seri deficit legati alla patologia della madre, tali da impedire o rendere rischiosa una gravidanza. Così come vi possono essere evidenti limiti fisici nel periodo post partum, quando si potrebbe non essere in grado di occuparsi del figlio.
Tra i limiti fisici, però, ovvero tra quelli materiali e concreti, sono sicuramente da annoverare anche le barriere architettoniche, l’accessibilità degli ambienti ospedalieri prima, e domestici poi.
Su questo particolare aspetto vorrei riproporre alcune considerazioni di Enrica Nardi, architetto, che lavora al progetto di ricerca dal titolo Linee guida per la progettazione di case di maternità destinate a un’utenza allargata (responsabile scientifico Prof. Paolo Felli, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Architettura), in corso di svolgimento per conto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (COFIN 2003). Nell’articolo “Essere madre disabile: paure, difficoltà, soluzioni”, pubblicato su HP-Accaparlante, n. 1, 2005, Enrica Nardi scrive: “Per le donne con problemi motori diventa fondamentale – allo scopo di prevenire situazioni problematiche – prestare una particolare attenzione ai cambiamenti fisici dovuti alla gravidanza. Ad esempio, un eccessivo aumento di peso può diminuire l’autonomia, mentre la stitichezza e i problemi di circolazione possono essere accentuati dalla posizione sempre seduta. Ancora, dover urinare di frequente può essere un problema in assenza di servizi igienici idonei. Secondo il report del seminario La sessualità tra desideri e incontro, tenutosi a Roma nell’ambito della manifestazione Handylab 2002, la dottoressa Renée Mask dell’Unità spinale di Perugia sottolinea la necessità che la gravidanza di una donna con disabilità motoria sia seguita da più specialisti – ginecologo, urologo, paraplegista, ostetrica – nonché l’importanza del precoce coinvolgimento e della preparazione del personale che l’assisterà.
Una donna con problemi motori che si accinge a diventare madre deve scontrarsi con la difficoltà di fruizione dei luoghi. Ad esempio, recarsi in un ambulatorio per una visita ginecologica può essere un problema per gli spazi e gli arredi non adeguati: basti pensare alla difficoltà di salire da sola su una poltrona ginecologica e di tenere i piedi nelle staffe, o semplicemente di doversi muovere in modo autonomo nelle salette per i colloqui, dalla superficie generalmente così ridotta da rendere non agevoli le manovre di una sedia a ruote azionata elettricamente. Da testimonianze riportate in alcune pubblicazioni a cura della ‘Mission Handicaps’ dell’Assistance Publique Hôpitaux de Paris si apprende che, pur avendo ricevuto un’adeguata assistenza durante la gravidanza, alcune donne disabili motorie hanno sperimentato, al momento del parto, l’inaccessibilità dei reparti di maternità in cui stanze, servizi igienici, spazi per la cura dei bambini generalmente non sono pensati considerando l’ingombro e gli spazi di manovra di una sedia a ruote.
L’accudimento del bambino può invece essere agevolato se si dispone di ausili tecnici. A questo proposito il centro di rieducazione funzionale ‘Lucie Bruneau’, uno dei più grandi del Québec, ha dato l’avvio a un progetto che prevede: un servizio di consulenza in ergoterapia fin dalla gravidanza; l’assistenza di operatori per individuare soluzioni a bisogni specifici; il prestito di attrezzature e mobili adattati (lettini soprelevati con porta laterale, vaschette su piccole ruote regolabili in altezza, sedie alte adattate, ecc.); la consulenza di un esperto in ergoterapia durante i primi anni di crescita del bambino”.

Limiti psicologici
Tra i limiti psicologici, come in parte già detto, vi è sicuramente l’immagine di sé e del proprio corpo come non assunta. Ciò può dipendere da molti fattori, compresa una certa regressione infantile nella dipendenza, un eccesso di protezione “castrante” da parte dell’entourage di familiari e conoscenti, o ancora la paura (da leggere anche come pregiudizi e tabù) di essere “handicappati” perfino nell’intimità sessuale. A tutto questo può aggiungersi l’ansia di non riuscire a far carico di un’altra persona (il figlio).
Gli aspetti psicologici permangono ovviamente anche nel post parto, quando può risultare difficile accettare i propri deficit, convivervi, o scoprirne addirittura di nuovi (in questo caso i deficit diventano nuovi handicap). Supponiamo che una donna disabile sia abituata ad aver acquisito una certa autonomia per se stessa: può trovare difficile accettare di scoprirsi meno autonoma nei confronti di un’altra persona, il figlio appunto. Pur avendo consapevolezza della propria ridotta autonomia, può comunque risultarle difficile convivere con essa, quando vorrebbe essere libera di fare di più per il proprio figlio: in pratica la madre accetta il deficit su di sé, ma non “in relazione a”. Nella relazione con il neonato, che è una persona “nuova”, dipendente in tutto dai genitori o da altri, possono poi emergere nuovi limiti o nuove paure che non si pensava di avere, e questo porta evidentemente a una rielaborazione dell’idea di sé, che non sarebbe stata magari necessaria in assenza di figli.

Limiti sociali
Familiari, vicini di casa, amici, insegnanti, medici… Tutte queste persone sono davvero preparate alla maternità di una donna disabile? O rischiano di creare una “cappa” psicologica ancora più pesante dei dubbi che si vivono già individualmente?
Non sono rari, ancora oggi (ancora – lo ripeto – nel 2005), casi di medici che sconsigliano l’idea di una gravidanza, anche senza reali ostacoli di tipo genetico (la trasmissione della propria patologia al nascituro) o fisico (impedimenti concreti o rischio nel portare a termine una gravidanza). Così come non sono rari i ginecologi che si stupiscono quando entra in studio una paziente disabile, o che si stupiscono ancora di più quando la paziente disabile vuole prendere, ad esempio, la pillola. Ovviamente tutto ciò dipende dalla mancanza di quel famoso salto in avanti di cui parlavo nell’introduzione: l’accettazione della sessualità delle persone disabili.
In generale vivere a contatto con la disabilità appare ancora a molti una situazione difficile, per cui perché imporla a chi non ha scelto di nascere? I genitori di donne disabili che annunciano di volere un figlio, o che annunciano di essere già incinte, non sempre reagiscono bene. Forse perché si trovano davanti al fatto di dover accettare che la propria figlia è diventata davvero adulta (la maturità è sempre un concetto complicato per i genitori di persone disabili che sentono “in eterno” il bisogno di proteggere i propri figli). Forse perché hanno paura di dover sviluppare sensi e strumenti di protezione doppia: per la propria figlia disabile e per i suoi figli. Forse perché pensano di conoscere meglio della propria figlia i suoi stessi limiti fisici, e già si immaginano mille situazioni difficili, senza però riuscire a immaginarsi l’esistenza delle corrispondenti soluzioni.
Capita, a volte, che gli insegnanti giudichino ogni comportamento dei figli di soggetti disabili “in relazione” al deficit del genitore. Un atteggiamento di questo tipo, da parte di persone esterne alla famiglia, in particolare da parte di chi dovrebbe educare i bambini a stare nella società, porta questi ultimi, e chi sta loro intorno, a notare differenze che non solo passerebbero probabilmente inosservate, ma che soprattutto verrebbero percepite in modo esclusivamente oggettivo anziché essere caricate di giudizi morali.
Dopo aver intervistato alcune mamme disabili, mi è capitato di parlare dei risultati delle interviste con varie persone che, per un motivo o per l’altro, sono a contatto con la disabilità: per lavoro, ad esempio, o perché hanno amici disabili, o perché hanno un vicino di casa disabile, ecc. E tutte le  volte in cui io parlavo entusiasta del rapporto madre-figlio che si crea comunque, anche se la madre ha difficoltà oggettive a prendersi cura del bambino, loro rispondevano: “Si vedrà quando il figlio sarà adolescente!”. Tutti, insomma, davano per scontato che durante l’adolescenza i figli di genitori disabili dovessero avere maggiori problemi degli altri. Sinceramente non lo so. Come già detto nell’introduzione, bisognerebbe dedicare una monografia anche ai figli delle persone disabili. So, però, che è pesante il meccanismo del “dare per scontato”. Quando tutta la società dà per scontate determinate situazioni, è una bella lotta dimostrare il contrario. Ma soprattutto: certe idee acquisite finiscono per strutturare la crescita e l’educazione. L’adolescenza è sempre un momento difficile (questo sì che è un dato di fatto, statisticamente provato: non un’opinione) e tanti miei amici, già adulti, figli di genitori perfettamente “normodotati”, si portano ancora dietro strascichi di disagio per tanti problemi, conflitti, diversità e oppressioni messi in atto da genitori che non avevano alcuna disabilità.
Lasciamo, dunque, alla fisica la logica di causa-effetto e diamo, invece, la parola alle mamme.

Volti di donne

Con alcune di queste donne ho parlato solo per telefono; altre le ho incontrate di persona; una di loro l’ho “trovata” frequentando per qualche tempo un forum di discussione sul sito www.superabile.it, uno dei più importanti siti Internet dedicati alla disabilità. Con loro si è parlato un po’ di tutto, anche se non sempre è stato facile, in particolare per telefono. Inoltre, tra intervistatore e intervistato, si crea spesso una sorta di asimmetria, per cui l’intervistato risponde a volte in base alle immagini sociali che pensa l’intervistatore abbia in mente. Dato che in questo caso ogni mamma mi ha raccontato di sé e dei propri figli, spero che il fatto di avere parlato di argomenti così intimi, importanti e personali abbia permesso di eliminare il più possibile il pericolo di asimmetria. Riporto solo alcune frasi dei loro racconti, quelle che vanno a toccare tutti gli aspetti cui si è accennato in precedenza, ma ne riporto comunque tante perché tanti sono i volti di donna che ho conosciuto.

Sandra, 33 anni, incinta di 4 mesi e mezzo. Soffre di atassia cerebrale, diagnosticata a 24 anni
Io e il mio compagno abbiamo voluto avere un bambino. La nostra scelta è stata presa molto male dalla famiglia di lui e dalle persone che ci conoscevano. Tutti pensavano soprattutto alle questioni di ordine pratico: innanzitutto all’ereditarietà genetica, e poi al come prendersi cura di un neonato.
Al terzo mese di gravidanza mi sono sottoposta a un test genetico: avevamo già stabilito che avremmo interrotto la gravidanza se il test avesse dato esito positivo; non potevamo immaginare di allevare un bambino con la mia stessa malattia. Il test era positivo e ho interrotto la gravidanza. Psicologicamente è stato molto doloroso, ma ancora oggi siamo persuasi di avere fatto la scelta giusta. Poi una nuova gravidanza si è annunciata. Abbiamo ripetuto il test e fortunatamente era negativo. Ora sono seguita da un ginecologo e da un neurogenetista, e questa presa in carico è molto importante perché noi sappiamo poche cose sull’incidenza della gravidanza sulla mia malattia. All’inizio ho avuto forti dolori alle gambe, ora mi sento bene, ma ho paura di cadere, perciò credo che utilizzerò una sedia a rotelle durante i prossimi mesi. Col mio compagno riflettiamo molto su tutti i metodi che dovremo utilizzare per il ménage quotidiano, e abbiamo anche chiesto consigli a un ergoterapeuta. Prospettiamo che per prendermi cura del bambino non potrò essere sola. Inoltre so che la mia malattia è evolutiva e quindi sarà sempre più difficile per me occuparmi da sola di mio figlio. Questo è l’unico bambino che noi avremo, e faremo di tutto perché sia felice e non senta il peso della disabilità.

Anna, 38 anni, tetraplegica
Verso i 30 anni, l’unica volta che sono stata con un uomo, sono rimasta incinta, ma lui non si è preso le sue responsabilità e ora sono sola. Per fortuna ho sempre saputo di poter contare sulla mia famiglia, sia come appoggio psicologico che economico.
All’ospedale sono riuscita a ottenere di farmi affiancare da una persona specializzata, perché le infermiere non avevano nessuna formazione sulla disabilità e non sapevano come aiutarmi. Una volta a casa, ho assunto una vera e propria balia che dormiva da me. Davo sempre il biberon, anche la notte. La balia mi portava il bambino, me lo appoggiava su un cuscino e io lo nutrivo. Ero presente in tutte le azioni, anche se alcune di esse non potevo materialmente farle.

Mirella, 42 anni, con la sclerosi a placche
Quando la sclerosi si è “dichiarata” avevo 26 anni ed ero sposata da 2. Sono rimasta incinta a 28 anni, e nello stesso tempo ho avuto un’evoluzione in peggio della mia sclerosi. Il medico mi aveva detto che la gravidanza protegge le donne, ma non era il mio caso. Avevo un po’ il panico, peggioravo e non mi sentivo stabile. Ho chiesto consiglio al neurologo e mi ha detto di provare. È stato difficile, soprattutto quando negli ultimi due mesi ho dovuto utilizzare sempre più spesso la carrozzina per spostarmi. È una cosa che ho avuto difficoltà ad accettare. Una volta a casa, mia madre e mio marito sono stati molto presenti. Riuscivo a dare da mangiare alla bambina, ma non per esempio a cambiarla. I primi mesi, nella mia testa, non sono stati facili. Il contatto con mia figlia non era quello che avevo immaginato, e dovevo anche far fronte al mio nuovo stato in carrozzina. Ma non mi sono mai pentita. Mia figlia è la cosa più bella che mi sia mai capitata, ed è anche un grande fattore di equilibrio.

Antonella, 37 anni, spastica
Dopo la nascita di Guido, mio marito aveva sette settimane di ferie e il suo aiuto è stato preziosissimo. Durante la prima settima non potevo tenere in braccio Guido. Durante la notte ci eravamo organizzati con delle sedie vicino alla culla e la culla sistemata accanto al nostro letto, per facilitare tutte le operazioni per dargli da mangiare o cambiarlo. La seconda settimana potevo tenere in braccio Guido con una fascia porte-enfant e intanto io utilizzavo un girello per camminare. Se andavo fuori avevo bisogno di una carrozzella o di una motoretta. La terza settimana ero più forte e potevo trasportare Guido dalla culla al fasciatoio senza problemi. È stato allora che ho sentito che potevo gestire la cosa direttamente nella cameretta del bambino e non nella nostra stanza. Così io e mio marito abbiamo potuto dormire meglio e, poiché lui faceva i turni, era importante che nessuno dei due fosse disturbato.
Ho dovuto ingegnarmi per gestire Guido. Perdevo l’equilibrio se dovevo abbassarmi, perciò lo cambiavo su un fasciatoio attaccato al lettino da viaggio che stava al piano di sotto, oppure su un tappetino steso sul comò al piano di sopra. Quando gli davo da mangiare gli mettevo un cuscino dietro la schiena, piuttosto che tenerlo su io. Lo lavavo nel lavandino o, quando è cresciuto, in un seggiolone attaccato alla base della vasca. Gli facevo la doccia quando la facevo anch’io. Quando è diventato troppo grande per il seggiolone non potevo più lavarlo da sola e sono stati i parenti ad aiutarmi.  
Ho usato la fascia porte-enfant per portarlo su e giù dalle scale e dalla casa fino al seggiolino nell’auto (che era fisso perché non potevo trasportare quelli rimovibili). Mettevo la sua carrozzina il più vicino possibile alla macchina e lo prendevo su dal seggiolino per metterlo nella carrozzina. In alternativa, qualcuno lo portava in braccio al posto mio. Ho una carrozzina che è piuttosto ingombrante, ma può essere convertita in un seggiolone. L’ho scelta perché è resistente, alta e stabile quando la spingo, anche se è difficile da mettere in macchina e tirarla fuori. Una ditta ha fatto un lettino su misura per me. Una gran fortuna. Mi arrivava ai fianchi e aveva una porta, così ci potevo vestire e cambiare Guido. Quando è diventato troppo grande per il fasciatoio, lo cambiavo su una poltrona mentre stavo di fronte a lui seduta su una sedia. Per fare le scale ho insegnato a Guido, incoraggiandolo fin dall’inizio, a farle assieme a me, tenendolo su da dietro, oppure facendolo sedere in grembo mentre le scendevo da seduta.

(Dal forum di discussione di www.superabile.it)
Quando io e mio marito pensammo che fosse il momento giusto per avere un figlio, ne parlai al mio ginecologo. Lui si disse favorevole, anche se forse mi sarei dovuta riposare un pochino di più di altre donne, forse avrei dovuto fare analisi più frequenti, e c’era qualche possibilità in più di avere un figlio con la mia stessa malattia che, pur non essendo genetica, ha una sorta di familiarità. Quando mi accorsi di essere incinta, andai subito a dare la lieta novella ai miei genitori, ma mai mi sarei aspettata una reazione del genere. Mia madre mi urlò che ero una folle, che avrei dovuto rinunciare a quella gravidanza e che se avessi proseguito nella mia “follia” non mi avrebbe mai aiutata con la bimba. I pianti che mi sono fatta! Trascorsi i miei primi tre mesi di gravidanza senza di lei: non mi parlava. In quel periodo parlavo spesso con una mia collega, anche lei disabile, che aveva una bimba di 4 anni. Cercavo spiegazioni, forse conforto, perché anche se fuori dimostravo un coraggio e una sicurezza invidiabili, dentro di me avevo molta paura. Non per me o per la gravidanza, bensì per come avrei potuto gestire la mia piccola dal suo primo giorno di vita fuori dal mio grembo. Iniziai prima di tutto a cercare di capire come avrei potuto fare dal giorno della sua nascita, senza l’aiuto di mia madre. Andai per la prima volta in vita mia al servizio sociale di zona e spiegai la mia situazione. Al sesto mese di gravidanza mi diedero l’assistenza domiciliare, mattina e pomeriggio. Nel frattempo comunque mia madre era tornata sui suoi passi e mi parlava… almeno un pochino di più!
Dopo il parto, la mia salute per alcuni giorni non fu delle migliori. Dopo dieci giorni dalla nascita, portai a casa mia figlia. Ripresi a stare seduta sulla carrozzina, a fare fisioterapia e tentai di riprendere una vita regolare. Ma non ci riuscii. Piangevo spesso, mi sentivo persa. Sola, con lei che si affidava a me, sarei mai stata capace di essere una buona mamma? Fu lei stessa, con il tempo, a farmi capire che la carrozzina non era un limite tra noi due. La nostra prima passeggiata fu un’esperienza unica, eravamo io, lei e una mia amica. Formavamo un trenino: la mia amica spingeva me e io la carrozzina. Ci fermò una signora, che rivolgendosi alla mia amica disse: “Che bella la sua bambina”. Io risposi: “È mia!”. Sbigottita, la signora, d’istinto, sempre rivolgendosi alla mia amica disse: “Ma come ha fatto?”. E la mia amica, ironica: “Signora! Ma come vuole che l’abbia fatta! Dal basso come tutte le donne…”.
A sette mesi la mia piccola si mise in piedi per la prima volta, ma non volle sapere di camminare prima dei quindici! Ero preoccupatissima. Ogni tanto chiedevo alla pediatra se per caso la colpa non fosse mia, perché credevo che la piccola, cercando di imitare me che non camminavo, si rifiutasse di farlo anche lei, ma la pediatra mi rassicurava. Quando aveva quasi un anno, tornai al lavoro part-time e la iscrissi al nido comunale. Non volli affidarla ai miei genitori, forse anche un po’ per rancore, lo ammetto. Ma soprattutto perché volevo che la piccola si abituasse presto a stare con altri bambini, che vedesse e vivesse anche altre situazioni diverse da quelle familiari. Dentro di me avevo paura che la mia condizione la portasse a soffrire, e spesso, senza darlo a vedere, ci sono stata male.
La nostra prima uscita da sole risale a quando aveva tre o quattro anni, la portai in giro per la città. Prima di uscire di casa le dissi: “Mi raccomando! Stammi sempre vicina, non ti allontanare mai!”. Pur piccolissima, non fece un solo passo senza di me, cosa che invece era puntualmente pronta a fare se usciva con il papà o altre persone che comunque le sarebbero potute correre dietro. È stato fantastico vedere come una bimba così piccola fosse tanto recettiva rispetto alle situazioni, senza una sola parola.

“La madre resti tu. E tuo figlio lo sa benissimo”

Quando ho realizzato le interviste, mi sono resa conto che neppure per me era facile fare tutte le domande che avevo in mente. Alcune di esse potevano risultare fastidiose e spinose per le mie interlocutrici, soprattutto al telefono, dove sia il tempo materiale sia il mezzo comunicativo giocavano a mio sfavore. Mara Monti, invece, mi ha accolta in casa sua e, in una lunga chiacchierata di quasi due ore, ha risposto a tutte le domande, anche a quelle più “scomode”. Mara Monti è educatrice presso il centro di accoglienza per persone con problemi di tossicodipendenza “La Rupe”, alle porte di Bologna; ha una paralisi spastica; è mamma di Dario.

Per una coppia la decisione di avere un bambino dipende da tanti fattori. Immagino che per una donna disabile ci sia da considerare un maggior numero di fattori, per esempio la propria patologia e la valutazione di quanto poi si sarà autonomi nella cura del figlio. Tu avevi pensato a queste cose?
Io ho 42 anni, il bambino l’ho avuto tre anni fa, quindi già di per sé era un’età tardiva, in ospedale ero la più vecchia tra le donne, quanto meno ad avere il primo figlio. Non è stata una scelta, non era programmato, anzi forse pensavamo quasi di non farlo, non c’è stata la decisione di fare un figlio. Noi viviamo insieme da quindici anni, non c’era la ricerca di un figlio. Quando abbiamo saputo che ero incinta, non ci abbiamo pensato tanto, non ci sembrava ci fossero difficoltà. È stata una sorpresa, ma andava bene.

Durante la gravidanza, pensavi alle difficoltà che ci sarebbero potute essere in futuro?
Dal mio punto di vista non ho avuto né il tempo né la voglia di mettermi lì a pensare a quali sarebbero state le conseguenze dopo il parto. Io ho sempre vissuto in una rete abbastanza protetta, con una famiglia con cui ho sempre condotto una vita normale per quanto riguarda la scuola o il lavoro. Quindi il fatto di avere un figlio non era visto come un problema, forse proprio per la normalità di vita che ho sempre fatto. È una cosa che è successa. Certo, la mattina dopo aver saputo che ero incinta avevo parecchia nausea, forse non solo per la gravidanza, forse perché in qualche modo il mio inconscio stava lavorando e riflettendo… Se fossi stata da sola, senza una rete familiare intorno su cui poter contare, forse non avrei portato avanti la gravidanza, anche se è difficile scegliere, così come è difficile pensare alle difficoltà, perché non ti rendi conto di cosa significa avere un bambino finché non ce l’hai in braccio…
Le difficoltà sono venute dopo, ma non subito dopo, dopo un bel po’ di tempo, perché secondo me il punto chiave è proprio il fatto che avere un figlio significa prendersi carico di un’altra persona.

Qualcuno ti ha sconsigliato di portare avanti la gravidanza? Un medico, o un familiare?
No, nessuno in famiglia ci ha ostacolati. E neppure i medici.
La mia preoccupazione era fisica. Per via della mia malattia ho una scoliosi molto grave, operata tanti anni fa, per cui ho dei ferri alla schiena e nessuno sapeva se avrebbero retto col peso di una gravidanza. Invece poi non è successo nulla. L’unica cosa è che mi hanno fatto il cesareo programmato all’ottavo mese, perché non ce la facevo più, non respiravo, il bambino era molto grosso e ho fatto l’ultima settimana che quasi non riuscivo ad alzarmi dal peso.

Secondo te come si comportano in generale i medici davanti a una donna disabile che vuole avere un figlio?
Ecco, questo è un bel punto interrogativo. Da quando sono rimasta incinta ho cercato un ginecologo, solo che questo medico non mi ha mai visitata. Per fortuna non ci sono stati problemi, ma se ce ne fossero stati, lui come se ne sarebbe accorto?

E invece le attenzioni da parte del personale ospedaliero, sia durante il parto sia dopo, sono state soddisfacenti?
Io ho partorito in un reparto maternità già dedicato ai parti difficili, quindi lì c’era un ambiente molto rassicurante con gente preparata. Ho fatto invece molta fatica dopo il parto, quando mi hanno trattata come una persona qualunque, però in senso negativo, perché in quel momento avrei avuto bisogno di qualcuno che mi aiutasse. Anzi, dove si mangiava e si dormiva i parenti non potevano proprio entrare. Ho chiesto più di una volta se qualcuno poteva venire con me, ma non volevano. Quindi è stato molto difficile e sgradevole, soprattutto perché quello è un momento in cui sei molto vulnerabile. Poi mio figlio ha dovuto trascorrere dieci giorni all’ospedale pediatrico, perché aveva una leggera immaturità. Lo shock è stato che io avevo trascorso gli ultimi mesi di gravidanza senza praticamente quasi mai muovermi e il riprendere a camminare dopo il cesareo è stato complicato. Lì in ospedale mi facevano seguire il bimbo da sola. Ti danno un posto letto e puoi stare lì giorno e notte, però sei tu che devi andare dal bimbo da sola. E lì è stata una cosa molto dolorosa, perché ho avuto dei fortissimi mal di schiena e facevo molta fatica a muovermi, mentre una volta a casa ovviamente l’ambiente è stato più confortevole e positivo. Io ho la mamma che è abbastanza anziana e abita lontana e quindi non ha potuto essermi molto d’aiuto; i genitori di mio marito invece sono giovani e abitano vicino, per cui ci sono stati di grande aiuto e continuano tutt’oggi a esserlo.

Parliamo allora del ritorno a casa dopo il parto… Come ti sei organizzata? Quali difficoltà sono emerse?

Un po’ alla volta sono venute fuori le difficoltà. Per me ad esempio è stato sempre un problema cambiare mio figlio: il cambio del pannolino l’avrò fatto dieci volte in tutto. Quello è sempre stato un compito o di mio marito o di mia suocera o di chi veniva. Questo è stato all’inizio un po’ un problema, perché un bambino si sporca parecchie volte al giorno e ciò vuol dire essere capaci di programmarsi in modo da non trovarsi mai da sola in casa per troppo tempo. E questa è sia una difficoltà oggettiva, nel senso che devi avere qualcuno che possa venire, sia psicologica, perché ti rendi conto che non riesci a fare quello che di solito una madre fa.
Io sono una persona che ha basato la sua vita sull’essere indipendente, quindi mi sono ritrovata a fare i conti col fatto che non ero più indipendente, ed è stata dura.
Alcune organizzazioni le ho invece imposte io: ad esempio ho sempre voluto che Dario dormisse in braccio, però fermo, non come quei bimbi che devono sempre essere cullati e portati avanti e indietro in giro per la casa. Non ho voluto che lo cullasse nessuno, perché io non potevo farlo, quindi il bimbo si è abituato così e non abbiamo mai avuto problemi per farlo addormentare anche tenendolo fermo.

È stato faticoso sviluppare un legame con tuo figlio?

Nei primi mesi e forse anche per tutto il primo anno io l’ho sentito di meno, il legame con lui. Nel senso che gli davo le cose fondamentali, il latte e la presenza. L’accudimento, invece, lo svolgeva qualcun altro. Il legame più stretto l’ho sentito dopo.
Il bambino è cresciuto molto in fretta e molto bene, ed è stata una scoperta dietro l’altra molto bella. Io però la serenità nel rapporto con lui ce l’ho da poco, nel senso che crescendo lui diventa più autonomo e il problema dell’accudimento fisico è meno difficoltoso. Ora che ha tre anni va ad esempio in bagno da solo, quindi il mio ruolo è più di accompagnamento, e questo è molto diverso da prima, quando sapevo che avrei dovuto fare delle cose per lui nelle quali, però, non ero autonoma.

Secondo te è un bambino più responsabilizzato?

Non so se sia un caso, o se sia dovuto alla mia situazione, ma il bimbo è cresciuto molto prudente. Sente molto quanto può fare o non fare, e fino a che punto può essere turbolento. Certo, io sono una persona tutto sommato pigra, e forse mio figlio ha preso da me, ma in generale è davvero molto prudente. Se deve salire sul divano adopera la sedia, si prende il tempo necessario, non è di quei bambini che saltano di qua e di là. E con me non fa giochi tipo corrersi dietro, non me li chiede proprio, quindi è una persona che capisce benissimo con chi si sta rapportando. Se sono in piedi non mi chiede mai di prenderlo in braccio, va da un altro se vuole essere preso. Sono piccole cose da cui però si capisce che alla fine i problemi si risolvono, e spesso non si presentano neppure.

E quando siete fuori casa, non hai paura di non essere in grado di sorvegliarlo?

Se siamo fuori io e lui da soli, stiamo in situazioni tranquille, in cui non c’è bisogno di dovergli correre dietro. Se siamo fuori con più persone, è chiaro che ci va qualcun altro, a rincorrere il bambino. Ognuno ricopre il ruolo che può avere. Solo che accettare che qualcun altro sorvegli tuo figlio non è un problema con le persone che hai più vicine, ad esempio il partner, a cui diventa spontaneo chiedere aiuto; può invece diventare un problema in altre situazioni: già ad esempio con mia suocera, con cui comunque ho un buon rapporto, è stato difficile da accettare. Io ho anche due sorelle, che a loro volta hanno dei figli, e quando siamo tutti insieme io mio figlio non lo vedo proprio: sta con gli altri bimbi e so che posso delegare ad altri il compito di tenerlo sotto controllo.

Senti il peso del giudizio esterno? Lo dico perché so di mamme disabili che hanno, ad esempio, delle maestre a scuola che giudicano ogni comportamento dei loro figli come imputabile al fatto di vivere con un genitore disabile…

Mah, direi di non sentire questo peso. Il bimbo è andato all’asilo per la prima volta quest’anno, e per fortuna è un bimbo molto socievole, che parla tanto e con tutti. Il primo giorno quando io e mio marito lo abbiamo accompagnato all’asilo, lui appena ha visto tutti i giochi e l’ambiente ha detto: “Andate pure”. Perciò l’inserimento è stato facilissimo!
Ho iniziato a utilizzare la carrozzina per certi spostamenti da due anni, ed essa è diventata uno dei giochi preferiti di Dario. Secondo me fa bene ai bambini avere vicino queste situazioni, e poi comunque lui è molto tranquillo davanti alla diversità. Non so se, quando il bimbo sarà più grande, ci saranno delle difficoltà perché sarà in grado di notare di più che esiste una situazione di diversità… O gliela faranno notare…

Non hai mai avuto l’ansia di pesare sulle persone a te vicine? Su tuo marito?

No [ride]. Ma magari è una questione di confronti, di rapportarsi. Fra di noi non c’è stato questo problema, nel senso che lui è stato bravo a ritagliarsi degli spazi suoi. Ad esempio, i primi tempi, lo cambiava solo lui. Adesso, che il bimbo porta ancora il pannolino di notte, io alla sera lo lavo ma poi il pannolino e il pigiama glieli mette mio marito. Non l’ho mai considerato un pesare, per fortuna fra di noi la cura del bimbo è ben suddivisa.

Hai avuto bisogno di qualche adattamento particolare per la cura del bimbo?

No, ma in parte dipende anche dal fatto che non ho mai voluto fare le cose diversamente dagli altri.
È chiaro che abbiamo comprato un lettino che avesse due posizioni di altezza diverse, in modo che fosse più facile sollevare il bambino. Ma sono lettini che vendono dappertutto.
Adesso che il bimbo è cresciuto tanto e pesa tantissimo, io lo prendo in braccio solo da seduta: a prenderlo su ci pensa suo padre.

Il fatto di imporre agli altri di tenere in braccio il bambino fermo, senza cullarlo, quando era piccolissimo mi ha colpito molto. È qualcosa che hai preteso anche per altre azioni?
Lo ho preteso dove l’ho voluto. La sera il bimbo lo addormento io, è sempre stato così, quindi volevo che si abituasse al modo in cui posso addormentarlo io, cioè abbracciandolo tenendolo fermo. Non volevo che lo si cullasse, se no poi poteva avere problemi ad addormentarsi con me che non potevo cullarlo. Per altre azioni… Boh, fammi qualche esempio…

Per esempio sollevare in alto il bimbo e farlo ruotare per farlo giocare e ridere. Tu non puoi farlo… Non avevi paura che lasciandolo fare ad altri il bimbo si potesse divertire più con loro che con te?
No, anzi, mi faceva piacere se qualcuno lo sollevava. E poi sai, con la madre il rapporto è talmente esclusivo! Io l’ho capito col tempo che qualunque cosa possa fare un’altra persona, la madre resti tu. Il tuo ruolo non può essere sostituito. Io ho scoperto di non essere gelosa degli altri per queste cose, e proprio col tempo ho visto che non ci sarebbe stato motivo di essere gelosa. La madre sei tu e lui lo sa benissimo. Qualunque altra cosa gli altri possano fare in più di te non conta, è un rapporto esclusivo e lo capisci solo quando hai il bambino. Mio marito è escluso da tante cose. Il bimbo lo estromette dai giochi che facciamo la sera io e lui sul divano o a letto. Nonostante mio marito abbia un suo ruolo ben preciso col bimbo. Ad esempio il ruolo autorevole l’ha preso lui, per sgridarlo. Il bimbo è più geloso di me che del padre, la sera non mi molla un attimo, e mentre il padre può ritagliarsi lo spazio per fare anche le sue cose, io devo stare lì a giocare col bimbo.
Questi sono meccanismi che si creano da soli, e tutto ciò infonde anche la sicurezza per gestire le varie situazioni. Vedendo questo puoi permettere agli altri di intervenire di più.

Ci sono stati, soprattutto all’inizio, momenti di panico in cui ti sei ritrovata sola con tuo figlio?

Mio marito è stato sempre molto bravo, e poi lavora vicinissimo a casa, quindi per lui era più comodo essere presente.
Però mi ricordo un pomeriggio di panico: eravamo io e il bimbo da soli nella sua cameretta ed era un’estate caldissima. Non potevo allontanarmi, ero bloccata lì con lui perché poteva avere bisogno e nello stesso tempo sapevo che se avesse avuto bisogno io non sarei riuscita a sollevarlo e spostarlo. Il panico nasceva dal sapere di non riuscire a fare quello che avrei voluto fare. Da quel momento ho cercato di evitare di ritrovarmi in situazioni simili. Comunque così male non l’ho più vissuta, nel senso che quando può essere ricapitato sono rimasta più tranquilla. Però effettivamente ti rendi conto di non essere autonoma, di non avere la possibilità di fare qualcosa.
Più che altro non pensavo di poter avere queste paure.
Sicuramente ancora oggi, quando mio marito, magari per motivi di lavoro, deve stare via qualche giorno, io mi appoggio ancora molto ai miei suoceri. Il bimbo sta là da loro anche a dormire, e io vado là di giorno.

All’estero esistono organizzazioni sia di genitori disabili sia di personale specializzato, che seguono il percorso della maternità fin dall’inizio e aiutano i genitori disabili durante la gravidanza e dopo il parto, con una rete molto ampia sia di informazioni sia di assistenza. Avresti voluto un’organizzazione del genere?
Sinceramente non lo sapevo e non ci avevo mai pensato. Non so se l’avrei voluta, nel senso che non essendoci in Italia non riesco a immaginarmela. Diciamo che se la mia maternità fosse stata programmata, e se ci avessimo pensato prima, avremmo potuto anche pensare a organizzare una rete più ampia di persone, come fanno quei genitori che non sanno su chi contare. Noi non l’abbiamo fatto perché avevamo i suoceri disponibili e forse si sarebbero offesi se ci fossimo rivolti ad altri. Ma credo che l’avere intorno delle reti più grandi, con più persone, varrebbe la pena organizzarlo per tempo.

Vuoi aggiungere ancora qualcosa?

Avere un figlio è un’esperienza che sicuramente incide molto nella vita di una persona, nel senso che la modifica molto, e ti pone davanti a cose con cui non puoi non confrontarti. Sicuramente gli aspetti positivi e gratificanti sono maggiori delle difficoltà. I bambini sono meno fragili di quello che si può temere, e anche loro ti aiutano perché alla fine capita che ti chiedono le cose che tu gli puoi dare. Spesso vivono anche le situazioni con molta naturalezza e non si pongono problemi. A volte mi trema la mano, e se devo per esempio dargli una medicina su un cucchiaino non ci riesco. Io lo vivevo come un problema, e invece ho visto che per lui non lo è affatto.
Ripeto, però, che io ne sto parlando serenamente adesso, perché l’anno scorso ho avuto un anno un po’ difficile, nel quale ho dovuto fare i conti con tante mie situazioni.

Grazie Mara, davvero. E grazie anche a Dario.

Facilitare i gesti quotidiani

Dopo tanta “vita vissuta”, vorrei tornare su una questione: è quando viene dimessa dall’ospedale e torna a casa col proprio bambino, che la madre disabile diventa una mamma “handicappata”, cioè si ritrova a vivere una situazione di handicap nell’occuparsi del figlio. Ricordiamo che non esiste una persona handicappata in sé: l’handicap è sempre situazionale, dato dall’esterno.
Dopo il parto la madre deve anche prendersi cura di se stessa, il suo corpo è affaticato e si è indebolito. Deve organizzare il proprio tempo per occuparsi sia di sé sia del bambino.
Identificare i gesti di vita quotidiana che potrebbero risultare più difficili, e trovare le soluzioni più adatte, diventa uno stato di necessità per migliorare le condizioni sia della madre sia del figlio.
Molto spesso si tratta di “trucchi” semplici, o di “adattamenti” realizzati con mobili comunemente in commercio (e non di specifici adattamenti “dedicati alla disabilità”). Altre volte occorre invece il parere di un esperto e una soluzione tecnica studiata ad hoc per quella persona, per quel tipo di deficit, per quel tipo di abitazione, ecc.
È importante mettere a punto un percorso di autonomia, perché l’essere (o anche il sentirsi) più autonomi infonde fiducia e aiuta a superare i limiti fisici, psicologici e sociali di cui si è detto (ovvero l’immagine della persona disabile come “non abile” a prendersi cura di un figlio).
Dato che in Italia si parla ancora pochissimo di genitori disabili, mi sono rivolta a due professioniste straniere che da anni seguono le soluzioni personalizzate per genitori disabili: Marie Ladret, ergoterapeuta dell’“Espace conseil pour l’autonomie en milieu ordinaire de vie” (ESCAVIE), e Susan Vincelli, ergoterapeuta del Centro di rieducazione funzionale “Lucie Bruneau”, del Québec (Canada). Dopo qualche scambio di e-mail, ecco un piccolo vademecum contenente alcuni suggerimenti molto semplici ma utilissimi.

La cameretta del bambino
Innanzitutto bisogna che la camera del bambino sia perfettamente accessibile, senza alcun ostacolo che potrebbe mettere in pericolo la madre e il figlio: è bene quindi diminuire i rischi di cadute, eliminando ad esempio i tappeti, e rispettare gli spazi di circolazione.
Il letto del bambino deve essere facile da manipolare e di altezza adeguata alle proprie esigenze. È importante adattare a se stesse la scelta del lettino, perché mettere il bambino nel letto è un gesto che si ripete più volte nell’arco di una giornata. La rete del lettino dovrebbe potersi fissare a differenti altezze. Meglio scegliere un letto che abbia sponde di facile apertura (ad esempio sponde in tela con chiusura lampo) o comunque preferire sistemi di apertura delle sponde che non prevedano la necessità di utilizzare le due mani nello stesso momento.
Se una madre è in carrozzina, si deve posizionare parallela al lettino e, se l’altezza adattabile della rete non è sufficiente per afferrare il bambino, occorre anche una torsione del busto. Il fatto è che, dopo il parto, la schiena della madre è fragile e, per evitare queste torsioni, l’ideale sarebbe che la parte sotto il lettino fosse completamente libera in modo da permettere il passaggio della carrozzina: per questo è preferibile un lettino con l’apertura delle sponde laterale.
Esistono anche lettini che hanno l’altezza della rete regolabile elettronicamente attraverso un telecomando, ma si tratta purtroppo di sistemi molto costosi.

Per sollevare il bambino dal letto e trasportarlo, ci sono alcuni trucchi che possono aiutare i genitori disabili. “Acchiappare” il bambino per la tutina può rivelarsi molto pratico; esistono comunque certe amache porta-bambini che permettono di prendere il bambino in tutta sicurezza.
Spesso la mamma in carrozzina afferra il bambino con una sola mano, perché ha bisogno dell’altra mano libera per tenersi in equilibrio sulla carrozzina (soprattutto nel periodo post partum quando gli addominali sono deboli). Anche la mamma con difficoltà di deambulazione può ugualmente avere bisogno di una mano libera per trovare un punto d’appoggio su cui reggersi per sollevare il bambino con l’altra mano.

Il fasciatoio
Il fasciatoio, elemento importante per la cura del bambino, deve avere un’altezza giusta in rapporto alla statura della persona disabile e al suo deficit. Se la persona è in carrozzina, il fasciatoio deve essere sgombro nella parte inferiore in modo da consentire il passaggio delle ginocchia. Anche in questo caso esistono fasciatoi elettronicamente regolabili in altezza, ma si tratta sempre di un problema di costi economici.
Un materassino da usare come fasciatoio posizionato su una scrivania o una tavola qualsiasi, dotata di cassetti su un lato (in modo da avere vicino tutto l’occorrente), è spesso l’opzione preferita dai genitori in carrozzina, ed è in effetti la più semplice. I fasciatoi tradizionali non permettono il passaggio della carrozzina nella parte inferiore.

Il bagnetto
Il bagno è un momento privilegiato del rapporto tra la madre e il bambino, ma costituisce anche una delle situazioni più temute dalle mamme disabili. Esse infatti sono spesso in apprensione, un’apprensione che solitamente è più legata alla paura che al deficit.
Utilizzabili senza pericolo sono le vasche da bagno per bebè che si adattano alla vasca da bagno grande. Delle piccole sedie a sdraio da collocare sul fondo della vasca o della doccia sono un ulteriore elemento di sicurezza. Esistono anche piccole vasche da bagno posizionabili sulla tavola, o su cavalletti che facilitano l’accesso in carrozzina.
Quando il bambino diventa grande, alcune mamme con difficoltà di deambulazione preferiscono utilizzare la doccia perché il bordo è meno alto e non c’è bisogno di sollevare il bambino per farlo uscire.
Per verificare la temperatura dell’acqua è raccomandato il termometro soprattutto se la madre ha disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle.

Nutrire il bambino
L’allattamento
Le madri che hanno una debolezza muscolare a livello delle membra superiori possono utilizzare cuscini di mantenimento o cuscini d’allattamento, che permettono di tenere il bambino in una posizione confortevole e sicura, evitando allo stesso tempo contratture o torsioni.

Dare il biberon
Le persone che hanno una mancanza di forza possono utilizzare biberon in plastica, più leggeri e infrangibili. Per le mamme che hanno difficoltà ad afferrare gli oggetti, sono sempre possibili degli adattamenti sul biberon, ad esempio impugnature speciali, magari con sistemi a strappo.
La sterilizzazione del biberon è più facile a freddo o nel forno a microonde. Anche gli scalda biberon elettrici sono pratici e più sicuri (soprattutto per chi ha disfunzioni che riguardano la sensibilità superficiale della pelle), perché evitano alla persona di manipolare oggetti bollenti.

Lo svezzamento e il passaggio al cucchiaino
Le mamme che hanno difficoltà ad afferrare gli oggetti possono utilizzare posate adattate (ad esempio con manici grossi o con sistemi a strappo), oppure degli anti-scivolo, dei piatti con punti d’appoggio, tutti gli ausili insomma di cui la madre magari già si serve abitualmente.

Il seggiolone
La scelta del seggiolone può essere importante soprattutto per le madri in carrozzina. Alcuni modelli di seggiolone hanno i piedi sufficientemente divaricati senza barre trasversali per permettere il passaggio della carrozzina.
Esistono seggioloni regolabili: la parte in cui far sedere il bambino può essere installata più o meno in alto a seconda dell’altezza della madre e in base al suo deficit.

Trasportare il bambino
Portare un figlio tra le proprie braccia può sembrare del tutto naturale, ma quando la mamma ha già difficoltà a spostarsi, la cosa diventa più complicata e soprattutto più angosciante, perché vi è la paura di cadere insieme al bambino.
I porte-enfant, quelli che si attaccano al ventre, possono essere una soluzione per sostenere il bambino, che la madre sia in carrozzina oppure no. Un sistema di aggancio collocato sul davanti e facile da manipolare è sicuramente più pratico, meglio ancora se è a strappo. Per sollevare il bambino, molti genitori lo afferrano per i vestiti; certe amache porta bambini disponibili sul mercato possono facilitare, come già detto, il trasporto del bambino, soprattutto per sollevarlo dal letto o dal fasciatoio. Il porte-enfant laterale è più pratico quando il bimbo cresce: evita la torsione della colonna vertebrale quando si porta il bambino su un lato.

I primi passi
Il momento in cui il bambino comincia a camminare è un momento molto delicato, perché egli tocca tutto e bisogna seguirlo ovunque, il che non sempre risulta facile a una mamma in carrozzina o con difficoltà a deambulare. Per rimediare a questo inconveniente, alcune mamme utilizzano veri e propri “trottatori”, in modo che il bimbo non cada (i genitori disabili non possono rialzarlo o frenarlo facilmente) e non abbia accesso a tutti gli angoli della casa.
Per insegnare al bimbo a camminare, esistono vere e proprie “bardature” primi passi (acquistabili in qualsiasi ipermercato) grazie alle quali è possibile mantenere il bambino in equilibrio senza doversi abbassare.

Le uscite
Per il trasporto all’esterno
Le mamme in carrozzina usano spesso il porte-enfant ventrale, in modo da poter tenere il bambino contro di sé, spingendosi nello stesso tempo con la carrozzina. Alcune mamme con difficoltà a deambulare preferiscono utilizzare la carrozzina per bambini o il passeggino (mezzi che procurano anche un punto d’appoggio per loro stesse). Esistono, inoltre, sistemi di motorizzazione per carrozzine e passeggini che facilitano la spinta nelle salite o il frenaggio nelle discese, ma si tratta purtroppo di aiuti molto costosi e non commercializzati in tutti i Paesi.
Una specie di “guinzaglio” è utilizzato quando il bambino cammina: questo gli permette di andare e venire e spostarsi all’interno di un perimetro di sicurezza che la madre può controllare. Questa soluzione è la più prudente quando si è sulla strada, ma può essere sfruttata ad esempio anche in prossimità dell’acqua.

La macchina
Per un genitore disabile, sistemare il proprio figlio nel seggiolino dell’auto non è affatto semplice. D’altra parte il seggiolino va utilizzato per questioni di sicurezza. Probabilmente sarà, dunque, necessario l’aiuto di qualcuno, in attesa che il bambino, divenuto più grande, possa salire da solo. Esistono seggiolini girevoli che faciliterebbero questa operazione, ma si tratta di materiale che ha un costo elevato e che resta, quindi, un lusso per la maggioranza delle madri.

 

BOX
Il concetto di autonomia, soprattutto all’interno della propria abitazione, sta diventando un tema sempre più emergente nell’offerta dei servizi. Recentemente, in Emilia Romagna, sono stati costituiti Centri di Primo livello per l’Adattamento dell’Ambiente Domestico (CAAD) [per saperne di più: Metropoli, n. 3, settembre 2005, www.handybo.it/Metropoli/presentazione.htm], dove équipe multidisciplinari aiutano persone disabili e anziane ad avere una casa “amica”, funzionale ai propri deficit, al proprio percorso di autonomia e all’ambiente familiare. Ma già da diversi anni opera a Bologna il Centro Regionale Ausili (partner del CAAD di Bologna), che offre consulenza sui possibili adattamenti utili a facilitare i gesti quotidiani. Al Centro Regionale Ausili è capitato, inoltre, di occuparsi di adattamenti per la cura dei figli di persone disabili. Per informazioni: tel. 051/31.38.99, e-mail: centroregionaleausili@ausilioteca.org, sito: www.ausilioteca.org/centroregionaleausili/.

Cosa succede fuori dall’Italia?

All’estero esiste un vero e proprio accompagnamento che segue la persona disabile, desiderosa di diventare genitore, in tutte le fasi del ciclo di vita familiare nonché nei percorsi che essa vuole intraprendere. Laddove questo accompagnamento non è ancora possibile in toto, esistono comunque progetti che lavorano da diversi anni in tal senso.
In Canada, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, vi sono gruppi istituzionali e associazioni di volontariato che cercano di rispondere alle varie esigenze dei genitori disabili.
Innanzitutto per quel che riguarda l’informazione: un buon accesso all’informazione sui propri diritti, sulla propria salute e sulle prospettive che si hanno. Poi, sicuramente, per la formazione: dei medici, degli specialisti, degli operatori, del personale di cura, ma anche delle famiglie e delle stesse persone disabili. E anche per l’assistenza: sia durante la gravidanza, sia durante il parto, sia nella fase del ritorno a casa con un figlio da allevare. Inoltre, per l’accessibilità: delle strutture ospedaliere e della propria abitazione.
Ma c’è di più: nei siti Internet di questi gruppi (per ogni riferimento si rimanda alla bibliografia) si trovano tantissime risorse, come ad esempio indicazioni di libri, di altri link utili, di numeri di telefono e indirizzi per ogni esigenza; vi compaiono, inoltre, tante testimonianze di chi è già genitore, con uno scambio di esperienze a livello non solo emotivo, ma soprattutto pratico. Nei forum di discussione frequentati da un numero davvero alto di persone, i genitori disabili, o i loro conoscenti, si ritrovano spesso a chiacchierare di consigli pratici su come hanno risolto il problema di sollevare il bambino, sul tipo di seggiolone che hanno acquistato, su quale sia il modo migliore per cambiare il pannolino, e così via. In questo modo i genitori disabili, o le persone disabili che vogliono essere genitori, si sentono davvero “accolti” e mai soli. E, soprattutto, possono vivere la genitorialità in maniera più “normale”, come a voler dire che non è così strano, insolito, eccezionale o “folle”, che una coppia con disabilità costituisca una famiglia con figli.
Certo, Paesi come quelli citati hanno anche grandi numeri: sui siti web delle associazioni menzionate sopra si parla ad esempio di 9 milioni di genitori disabili negli Stati Uniti (il 15% sul totale dei genitori) e di 2 milioni in Gran Bretagna. Non ho trovato i numeri riguardanti la situazione francese o canadese, ma dai dati forniti è comunque evidente che si tratta di “fenomeni” tutt’altro che rari. I genitori disabili esistono, eccome.
In Italia abbiamo ancora solo qualche stima, e non dati precisi, su quante siano le persone disabili che vivono nel nostro Paese: è quindi impossibile sapere quanti siano i genitori con disabilità. Sappiamo però che esistono. Peccato che siano meno visibili e che nei forum di discussione italiani, presenti ad esempio sui grandi portali per la disabilità come Superabile.it o Disabili.com, non si discuta mai di questi temi…

“Bambino del nostro tempo”
Parlando di maggiore visibilità per i genitori disabili, e analizzando appunto la situazione estera, è difficile non fare riferimento a Alison Lapper, una donna inglese nata senza braccia e con le gambe più corte, che oggi è una famosa artista (si veda il sito www.alisonlapper.com), nonché madre (per la precisione ragazza-madre) di un bambino di cinque anni di nome Parys. Alison ha sempre puntato la sua vita sulla visibilità, e si era già imposta all’attenzione dei mass media internazionali per il fatto che una statua, che la ritraeva incinta di 8 mesi, era stata collocata su uno dei plinti di Trafalgar Square, nel cuore di Londra, accanto ad alcuni personaggi importanti della storia inglese.
Mi ero già occupata di Alison in passato, sia su HP-Accaparlante (cfr. “La diversità è glamour… o no?”, in HP-Accaparlante, n. 3, 2003), sia su Bandiera Gialla (cfr. “Una ‘Venere di Milo’ disabile nel cuore di Londra”, su www.bandieragialla.it/articolo.php?id=1389).
Ora Alison è anche in tv, in un programma della BBC intitolato Child of our Time (in italiano: “Bambino del nostro tempo”), in cui vengono filmate nel corso degli anni una serie di famiglie con figli.
Nel sito web di Ouch!, dedicato a esperienze di vita nel mondo della disabilità, all’interno dell’immenso portale della BBC, si trova un articolo, firmato da Emma Bowler, che racconta appunto questo programma, con un’intervista a Alison Lapper in persona. Ve lo propongo, in versione italiana, perché credo che aggiunga ancora qualcosa a questo percorso tra le madri disabili.

Child of our Time: Alison Lapper

di Emma Bowler (traduzione italiana di Stefano Fait)

Per quelli tra di voi che non conoscono la serie Child of our Time, tutto iniziò quando la BBC seguì la nascita di 25 bambini partoriti nel nuovo millennio.
L’idea di base della serie è quella di seguire le famiglie man mano che i loro figli crescono. La serie impiega una stimolante combinazione di riprese, interviste ed esperimenti per aiutarci a capire meglio lo sviluppo infantile.
Parys Lapper è uno dei bambini che prendono parte a questo progetto, che si svilupperà su un arco di vent’anni. Sua madre, Alison Lapper, un’artista nata senza braccia e con le gambe più corte, sarà protagonista della serie tanto quanto le altre famiglie.
L’impegno per chi partecipa a questa serie sarà grande, perché tutte le famiglie verranno filmate almeno ogni tre settimane. Ma cosa ha spinto Alison a dare la sua disponibilità? “L’ho fatto perché ho sentito che dovevo provare qualcosa, perché c’erano così tante persone che mi dicevano che non avrei dovuto avere un bambino, che sono una ragazza madre, che ho una disabilità. Le solite cose. Se il programma verrà trasmesso per intero nel corso degli anni non potrò nascondere alcunché, tutto il mondo potrà vedere.”
Ma Alison non ha forse paura che quando Parys verrà filmato mentre si comporta male, la gente imputerà il suo comportamento al fatto che sua madre è disabile, piuttosto che al fatto che è un bambino e che questo è quel che i bambini fanno normalmente? “Sì, certo! Se tuo figlio si comporta male quando lo porti all’asilo nido, è una cosa imbarazzante. Lo fa ogni bambino, ma siccome sei una madre disabile, allora pensi che la gente penserà che da sola non ce la puoi fare.” 
Tuttavia, nel corso del programma Alison dimostra di sapersela cavare egregiamente, come quando ad esempio la vediamo affrontare la questione della disciplina. “Ci sono voluti mesi e mesi di duro lavoro! Ho dovuto rivedere e aggiustare il mio tono di voce, e invece di dirgli sempre no, lo distraggo in qualche modo.”
Ma la storia di come Parys è diventato un bambino perbene non è stata sempre lineare e serena, ed è stato proprio nei momenti di difficoltà che Alison ha trovato di grande aiuto la partecipazione al programma televisivo. “A un certo punto ho dovuto affrontare una serie di problemi con il comportamento di Parys e mi sono sentita in colpa perché non c’era molto che potessi fare per lui. La BBC ci ha mandato al centro ‘Anna Freud’ di Londra e loro sono stati fantastici, mi hanno aiutata a superare il senso di colpa, a insegnargli la disciplina e mi hanno mostrato modi diversi di fare le cose.”
Ingegnarsi a inventare nuovi modi di fare le cose è fondamentale per un genitore disabile, e Alison è convinta che il suo modo stia funzionando. “Il mio stile è forse più gentile, perché non gli urlo mai contro e non lo picchio mai; faccio tutto con il tono della voce e lui sa già cosa penso.” Di fatto, Alison ha scoperto che provare a fare le stesse cose che fanno i genitori non disabili certe volte sembra proprio non funzionare con Parys. “Non posso corrergli dietro, e quando altre persone gli correvano dietro lui pensava che si trattasse di un gioco. Allora gli dovevo dire che non giocavano a inseguirlo e lui si fermava subito.”
Ma fare le cose diversamente significa essere determinati. “Quando gioca all’asilo nido, la gente se la prende un po’ e mi manda certe occhiatacce… Ma io penso: che cosa volete che faccia? Non posso andar lì e riprenderlo. Deve imparare che se dico no, è no. Fa tutto parte del mio esercizio di controllo della voce. È stato veramente difficile, ma ho tenuto duro ed è stato uno scontro di personalità. È un bambino davvero testardo, proprio come sua madre!”.
La determinazione di Alison ha pagato, e ora li vediamo in un esperimento in cui lei gli deve impedire di toccare certi giocattoli nella stanza. Alison gestisce la situazione distraendolo. Parte dell’esperimento comprende un telefono che squilla, e la cosa interessante è che Parys risponde, a differenza degli altri bambini coinvolti nell’esperimento. Non teme, Alison, che la gente possa interpretarlo come un suo modo per farsi aiutare dal bambino? “Non me ne curo, perché non glielo ho mica fatto fare io, lui lo fa istintivamente. Si è messo in testa che la mamma ha bisogno di aiuto. Finché non è un peso per lui – e certamente non lo può essere nelle cose che faccio visto che sono così consapevole che lui deve avere la sua vita e che non è certo qui per fare il mio badante.”
Alla fine del programma ci dicono che Alison proverà a fare qualcosa che non ha mai fatto prima –
e subito vengono alla mente immagini di lei che si lancia con il paracadute o pilota un aereo. In realtà, il suo compito è quello di far uscire Parys dalla macchina senza l’aiuto di nessuno. È stato un momento cruciale per lei. “Mi sono sentita come una vera madre perché io, da sola, stavo facendo qualcosa per lui. Avevo sempre dovuto ricorrere ad altre persone in precedenza. Ora lo posso portare fuori da sola, possiamo fare un sacco di cose, andare nei negozi, andare fuori a pranzo, ecc.”
Questi successi hanno dato un grande ottimismo ad Alison. “Man mano che diventerà grande sarò molto più indipendente e potrò fare molto di più per lui, e questo mi fa sentire davvero bene. In quanto madre disabile, sei sempre in debito con tutti, ma quando crescerà lo si noterà sempre meno.” Alison parla spesso delle tappe più importanti negli anni a venire – come quando Parys inizierà ad andare a scuola con una mamma che è alta 1 metro e 20 centimetri, o quando attraverserà la sua tumultuosa adolescenza – ma lei si dice convinta che supereranno tutti gli scogli assieme.
Nei prossimi anni il programma seguirà i vari sviluppi del loro rapporto e i momenti importanti nella vita di Parys, come i progressi nel parlare, l’andare alla scuola materna e la crescente autonomia. Alison prevede che la serie potrebbe anche dedicare maggiore attenzione ai problemi che toccano più da vicino i genitori disabili, come i rapporti con i servizi sociali. “Mi hanno minacciata già tre volte, quando non mi sono presa abbastanza cura di Parys – in un’occasione è stato quando ho licenziato una ragazza alla pari che lo aveva picchiato. Se fossi una madre come le altre non lo avrebbero fatto.”
Non si può fare a meno di pensare che la tenacia di Alison la proteggerà in tutti questi momenti negativi e, quando la si confronta con gli altri genitori della serie, ci si accorge che non se la sta cavando affatto male! “È ovvio che tutti i genitori hanno i loro problemi, a prescindere da dove provengono e da chi sono. Guardo il programma e penso che sto facendo bene, e questo mi galvanizza! Avere avuto Parys mi ha realizzata; lo guardo e penso ‘wow!’”.
(www.bbc.co.uk/ouch/closeup/lapper.shtml)