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autore: Autore: Giovanna Di Pasquale

…E Amici tutti voi. I ragazzi presentano il Centro

Altre storie, racconti, esperienze dalla realtà dei Centri Diurni per disabili del Distretto di Sassuolo, provincia di Modena

“Sono molto eccitato al pensiero di introdurvi in quella che è la mia grande famiglia del Centro e di tutti i personaggi che vi circolano dentro. Il Centro ha una lunga storia. Io ne so qualcosa, perché è ormai da 10 anni che vengo ogni settimana dal lunedì al venerdì, esclusi i periodi festivi.
Durante questi 10 anni, ho conosciuto tante persone. Molti sono andati via e li ho salutati con grande dispiacere, ma altri sono rimasti qui con me e di questo ne sono fiero e felice.
In questa presentazione del Centro vi dirò che spesso è come essere a teatro: ci sono tanti personaggi, strani, simpatici, matterelli, testoni, efficienti, buoni e cattivi, calmi e agitati, belli e brutti, alti e bassi, magri e grassi, lenti e veloci, allegri e tristi.
Insomma, al Centro c’è di tutto un po’. Ci sono giorni di festa e di allegria; altri sono più malinconici e tristi; altri ancora sono monotoni; oppure ci sono giorni dinamici e scattanti.
Spesso si ride e io faccio arrabbiare quasi tutti gli operatori (ma sempre per scherzo, o quasi!). Diciamo che sono lo sciacallo per eccellenza. Cosa vuol dire sciacallo? Meglio non commentare, posso solo dire a voi lettori che questa parola ci fa fare tante risate …”
Wainer

“Oggi vorrei parlare di Walter.
Mi è simpatico, perché ha bei capelli, due occhi, il collo e la bocca (anche se gli mancano alcuni denti).
Ha le orecchie talmente grandi che ci si può attaccare lo zaino.
Anche se rompe, gli voglio bene così così: va bene lo stesso”.
Alessandro

“Io, invece, vorrei parlare di Betta.
È molto bella.
Mi piace, perché è sorridente: mi fa tanta compagnia. Vorrei dire qualcosina anche di Carlo.
Lui mi è simpatico, perché mi sorride.
Urla troppo quando arriva il babbo”.
Alessia

“Finalmente tocca a me che sono Walter.
Io parlerò dei miei soggetti quasi preferiti: Paolo e Leo. Riguardo a Paolo vorrei esprimere la mia gioia quando si incavola come una bestia.
La sua collera mi ricorda Gesù sulla croce.
E poi Leo assomiglia a Burt dei Simpson”.
Walter

Il Centro come una casa

Quando una persona, conosciuta o meno che sia, apre la porta di un Centro, viene salutata con il “Ciao”; una parola che esprime l’accoglienza, che dà il benvenuto all’interno di un gruppo allargato.
Qualcuno poi arriva subito per prenderla per mano o per dire: “Ho fatto io da mangiare, va bene? Sono brava? Ho fatto i piselli”; e per chiederle se rimane per il pranzo; qualcun altro chiede a un educatore: “Chi è questa persona?”. Arriva Aldo ridendo, battendo le mani e abbracciando chi è entrato…
Alle pareti delle stanze vi sono quadri, oggetti, decorazioni capaci di esprimere il “frutto” della vita che si svolge nei diversi spazi. Qui ragazzi ed educatori svolgono attività di diverso tipo, nel salone centrale si accolgono le persone che arrivano; in un momento successivo lo stesso salone diventa laboratorio creativo, laboratorio per l’attività di musica o lo spazio in cui si svolgono giochi di gruppo. Poi c’è la cucina dove una volta alla settimana viene preparato il pranzo per tutte le persone del Centro e la sala da pranzo dove viene consumato il pasto meridiano.
Un’altra stanza che si nota è quella del relax o stanza morbida, dove si svolge nel primo pomeriggio il relax o durante la mattinata l’attività di rilassamento e di massaggio.
Lara dice: “Il Centro è una casa, mi piace fare le passeggiate, mi piacciono tutti e imparare”.
In effetti il Centro Diurno è come una casa, non mancano quindi luoghi come i bagni, gli arredi e le dotazioni per la cura della persona e scaffali pieni di diversi generi alimentari.
Come in ogni casa si possono constatare limiti e anche desiderare miglioramenti; a questo proposito Giuseppe dice: “Vorrei buttare giù la parete che separa la cucina dalla sala da pranzo per avere più spazio e stare più larghi”.

Lo stare insieme
Ciò che riempie gli spazi fisici sono le persone con le loro relazioni. Infatti nell’organizzazione dei gruppi di attività si pone attenzione alla possibilità di integrazione fra i ragazzi, alle abilità di ciascuno ma anche alla rete relazionale presente fra i componenti stessi.
Monica spiega: “Veniamo al Centro per stare assieme con gli amici, mi piace uscire all’aperto, mangiare, dormire, giocare, chiacchierare..”.
Ogni Centro è caratterizzato da un gruppo eterogeneo di ragazzi; ciascun ospite predilige o meno la relazione con altri ospiti, o per indole o per abitudini di comportamento; da queste differenze emergono relazioni di amicizia, così come quando Sandra accarezzando il viso di Walter gli chiede: “Stai male? Io sono un’infermiera”.
Oppure quando Irene chiede a Gianni: “È bella la radio? Così va bene la radio? È qua!”.
A volte si presentano relazioni di antipatia che scatenano momenti di acceso confronto e così capita spesso che Simona urli contro Irene, ad esempio, perché l’una vuole la porta aperta e l’altra la vuole chiudere.
Angelo trattiene per un braccio una educatrice e canticchia un motivo; l’educatrice prova a seguirlo ma lui dice “No, o”; e ricomincia a canticchiare; un’altra educatrice intuisce il motivo e glielo canta; Angelo sorride contento e dice: “E poi?”.
Dai dialoghi e dalle affermazioni che spesso si ascoltano dai ragazzi emerge che fare o non fare una attività diventa rilevante in funzione delle persone con cui si può stare insieme.
Monica dice: “Mi piace venire al Centro perché sto in compagnia, perché conosco anche delle altre persone”; e a conferma di ciò che significa stare insieme aggiunge: “Mi piace disegnare, mangiare, stare con voi”.
Lorenzo dice: “Mi piace venire al Centro. Trovo persone che mi capiscono: forse voi mi capite più di quanto mi capisco io…”.
Rita dice: “Mi piace venire al Centro perché conosco altra gente, gli amici, conosco tutti. Guardiamo la televisione, facciamo ginnastica”. Monica con prontezza la corregge: “Si chiama rilassamento”. Rita continua: “A volte mi piace scherzare e ridere, a volte rimango seria; a volte mi piace andare fuori altre volte mi piace rimanere anche dentro”.
L’organizzazione del mattino prevede che ci si suddivida in gruppi di attività. Occorre sottolineare che la scelta delle attività a livello generale avviene a inizio anno per quelle che hanno una cadenza prestabilita (ad esempio la ginnastica, la piscina, i mercati, ecc.). Per altre attività che non si svolgono in un giorno predefinito della settimana la proposta di partecipare viene fatta alla persona a inizio settimana o giornalmente.
A volte infatti la programmazione giornaliera viene discussa e, se possibile, ridefinita con i ragazzi, in quanto non sempre hanno voglia di partecipare alle attività previste.
Dalle frasi che seguono si può capire come vengono trascorsi i momenti prima dell’inizio delle diverse attività. Rita dice: “Non mi piace andare fuori perché fa freddo; mi piace andare al mare”; e continua “A me non piace apparecchiare”.
Irene dice che le piace venire al Centro e aggiunge: “Mi piace cucinare, andare in serra no, ci vado solo in inverno; che schifo la serra, io voglio andare fuori a mangiare, a cena”.
A sua volta Moreno dice: “Non mi piace cucinare, fare i compiti”; e Sandra: “Mi piacerebbe suonare la pianola”.
L’organizzazione del pomeriggio è dinamica e flessibile, consente a chi desidera riposare di farlo, c’è chi svolge attività ludiche in piccolo gruppo e chi svolge alcune commissioni.

(fare box)
L’organizzazione
Alla fine dell’anno gli Educatori e il Coordinatore si riuniscono per svolgere due giornate di programmazione per l’anno successivo in cui si discutono gli obiettivi generali del Centro, quelli specifici per ogni attività e per ogni ragazzo. Viene quindi stabilita un’organizzazione generale del Centro anche in relazione alle attività che ciascun ragazzo svolgerà nell’arco dell’anno.
Gli Educatori e il Coordinatore si incontrano settimanalmente nelle riunioni di équipe dove viene discussa e approntata la programmazione settimanale. Questo strumento è a disposizione anche dei ragazzi che possono consultarla da soli o con l’aiuto degli educatori e serve per definire l’organizzazione giornaliera di una settimana stabilendo i nomi degli educatori e dei ragazzi che svolgeranno una determinata attività piuttosto che un’altra.

Il Centro come luogo di incontro
Le relazioni agite nello svolgersi della giornata del Centro sono metaforicamente degli incontri ove educatore ed educando si riconoscono e si comprendono, prima di ogni altra determinazione di ruoli e di competenze, come umane esistenze che si incontrano nella dimensione educativa.
In questa dimensione educativa, l’educatore rappresenta il ponte, ove ogni passo e ogni passante è diverso dal precedente e dai passati, di qui l’importanza di cogliere le differenze che le persone ci portano.
Da una parte c’è il punto di vista dei ragazzi. Silvana dice di Federica (educatrice): “Sono una delle sue amiche”.
Angelo invece dice: “Le educatrici sono tutte belle e anche i miei amici e anche io sono bello”.
Enrica dice delle proprie educatrici: “Gli voglio bene, altroché!”. Alessandro dice delle educatrici: “Voglio bene a tutte!”.
Irene dice: “Vincenzo mi è simpatico perché ha i baffi”.
Dall’altra c’è il punto di vista dell’educatore così come afferma Francesca raccontando che “la scelta di diventare educatore professionale è stata maturata dal desiderio di fare un lavoro basato sulla relazione e finalizzato al cambiamento, nel senso di accompagnare le persone in un percorso di crescita”.
Per Gledys “l’aspettativa più importante è quella di un continuo confronto con gli altri operatori e i ragazzi e soprattutto di una continua crescita insieme a loro”.
Antonella poi dice: “Questo, fra i lavori che ho svolto, è il più gratificante; ho sempre desiderato svolgerlo e ho intrapreso gli studi necessari. Quando torno a casa al termine della giornata mi sento realizzata. Dopo 3 anni di presenza in questo Centro ogni giorno imparo qualcosa di nuovo”.
Grazia osserva: “La vita familiare in un Centro Diurno è sempre piena di sorprese”.
È importante per l’educatore cogliere le novità, i piccoli cambiamenti e valorizzarli, per ampliare il campo di esperienza di ciascuno, rimanendo la bussola che indica la direzione verso la quale si sta viaggiando.
Così come i Servizi anche l’agire dell’educatore è cambiato passando dal buon senso alla riflessione e rielaborazione del proprio operato. Infatti, Rossana dice che “per svolgere questo lavoro l’educatore deve riuscire a mettersi in discussione ed evitare, ad esempio, di sostituirsi all’altro nelle cose che può fare; occorre saper leggere i bisogni per attuare strategie di intervento, occorre saper ascoltare in modo empatico, avere capacità di improvvisazione per gestire le novità, gli imprevisti”.
Rimane comunque indispensabile la motivazione e il desiderio di incontrare l’altro così come racconta Vincenzo: “Capita a tutti, a un certo punto della propria vita, di porsi la fatidica domanda: cosa farò da grande? Le parole di John Keats riassumono brevemente la risposta: ‘Chiamate, vi prego, il mondo La valle di Fare Anima. Allora scoprirete a cose serve il mondo’”.*
(*Questa frase è raccolta dalle prime pagine del libro di Michele Pansini, Vite comuni, Pesaro, 1998).

Le attività
Le attività che scandiscono la vita del Centro sono gli strumenti attraverso i quali si agisce questa dimensione educativa, sono le regole, il dove, il come, il quando, due o più persone agiscono una relazione e con essa strategie per raggiungere gli obiettivi che si sono prefissati.
Le attività si prendono cura delle abilità delle persone cercando di migliorarle, di farle sviluppare, nel rispetto della loro diversità.

Attività educative sulle autonomie personali e relative al benessere psicofisico
L’autonomia personale riguarda le diverse azioni quotidiane relative al mangiare, al vestirsi, alla cura dell’igiene; l’obiettivo generale è l’acquisizione di piccole o grandi autonomie relative al prendersi cura di sé (attraverso per esempio l’attività di Beauty), così come dice Francesca (educatrice): “Il lavoro dell’educatore tante volte consiste in piccoli gesti quotidiani, […] che contribuiscono al benessere delle persone e al raggiungimento di obiettivi”.
Queste attività hanno inoltre l’obiettivo di sviluppare il benessere psicofisico della persona e intervengono su quegli aspetti che riguardano principalmente il corpo, l’igiene, il movimento, il rilassamento; per questo vengono proposte Ginnastica, Piscina, Rilassamento e Massaggio, che aiutano la persona a stare meglio da un punto di vista sia fisico che mentale. In questo ambito di intervento vengono racchiuse anche le attività di tipo ludico-motorie che promuovono le abilità motorie; in queste attività si cerca di trasformare gli esercizi di movimento, che a volte sono meccanici e ripetitivi, in una situazione di gioco, piacevolezza e scambio con gli altri.
Mirko dice: “Da gennaio andrò in piscina”; Alessia dice: “Quando viene più caldo tutti i giorni andrò in piscina; in palestra, Francesco (l’istruttore) forse mi aiuterà quando salto dalla panchina; in gennaio vado in piscina a Modena dai pompieri e vado in palestra e sono contenta; tutti i giorni in gennaio vado in piscina al venerdì”.
“Mi piace quando si va a Sassuolo e quando si fa l’idromassaggio ai piedi, quando si va in palestra; quando c’è caldo si va in piscina e amici tutti voi”. Questo sostiene Giuseppe.

Attività educative sulle abilità relazionali e di integrazione con il contesto sociale
Le abilità interpersonali coinvolgono le varie dimensioni in cui ogni utente sta con gli altri all’interno e all’esterno del Centro. Per alcuni sarà importante acquisire la capacità di accorgersi della vicinanza dell’altro, acquisire capacità di vivere nel contesto del Centro; per altri risulterà importante acquisire delle autonomie significative anche in contesti esterni. Per questo vengono proposte attività quali Riordino degli spazi del Centro, Spesa, Colazione al bar,Mercato, Passeggiate, Gite, Soggiorni.
Un aspetto infatti che si ritiene importante perseguire è l’integrazione delle persone nel contesto territoriale, per migliorare le loro capacità relazionali in situazioni nuove, ma anche perché il Centro non rimanga una realtà isolata dal territorio ove abitano gli utenti stessi.
Vi sono poi attività che promuovono le abilità relazionali di ciascuno e che favoriscono nell’utente l’apertura verso l’altro utilizzando il tramite della musica, del contatto con un animale come il cane o il cavallo (attività di Canto, di Ippoterapia, di Pet-therapy).
Grazia dice: “Credo che il Centro sia la vita sociale dell’utente, quella che occupa la maggior parte del suo tempo”.
Federico dice: “Vengo al Centro a lavorare; ho degli amici; quando sono qua lavo i piatti, sparecchio, faccio la mensa, spazzo, facciamo le passeggiate, la biblioteca, la palestra, la piscina; mi piace venire al Centro per le fanciulle”.
Angelo dice: “Al mercoledì mattina ci sono i cani, non mi ricordo come si chiamano”.
Mirco risponde: “Uno si chiama Pumbaa e uno Milka, ma è un po’ difficile capire chi è il maschio e chi la femmina”.
“Anche a Lauro piace giocare con Pumbaa; Lauro non si esprime verbalmente per cui noi (gli operatori) gli abbiamo posto le domande alla quali lui ha risposto con un sì o con un no”.

Attività educative sulle abilità linguistiche e comunicative
Comunicare i propri bisogni, comprendere parole, frasi, fare domande: per le persone disabili sono
autonomie che consentono di interagire con l’ambiente e di limitare la dipendenza dall’educatore.
Per questo vengono sviluppate attività che coinvolgono le competenze comunicative e
cognitive di ciascuno.  
Come il Laboratorio di scrittura e lettura (viene letto il giornale e viene utilizzato il computer), come la Compilazione del diario giornaliero, la compilazione del Quaderno delle firme di presenza; una parte di queste attività si svolge anche in biblioteca per favorire comunque l’integrazione degli utenti nel contesto sociale. All’interno dei momenti dedicati alla lettura si lavora per sviluppare la capacità di riconoscere il significato delle parole e per allargare il campo delle conoscenze personali.
Francesca, educatrice, dice: “Sto acquisendo quella familiarità con le persone che consente di capire i loro linguaggi”.
Wainer fra i suoi racconti scrive: “Quali sono i miei sogni? Scrivere libri, vorrei un ufficio dove lavorare con una segretaria e un computer”.

Attività educative sulle abilità manuali, manipolative ed espressive
Lo svolgimento di queste attività, più di altre, richiede la definizione di un setting che definisce uno spazio, un tempo e un compito da svolgere. Il risultato dell’attività non è solo il prodotto realizzato, ma è anche quella soddisfazione, quella stima di sé, che si prova quando si realizza e si completa un oggetto. Il gesto, il segno, la traccia lasciata su un materiale, sono manifestazioni concrete dell’esperienza, sono appigli che aiutano la memoria a ricordare.
Vengono così proposte attività quali Laboratorio pratico-manuale, creativo e di pittura, il Laboratorio di cucina.
Alessandro racconta: “Mi piace tutto (riferito alle attività del Centro), soprattutto disegnare. Poi ascolto la musica, laboratorio di cucina”.
Un discorso a parte deve essere fatto per il Laboratorio di serra e vivaismo, o Pollice verde, nato inizialmente come spazio utilizzato per la formazione di ragazzi inseriti poi in contesti lavorativi. L’attività all’interno del laboratorio si è andata via via modificando in relazione anche ai bisogni e alle abilità dei ragazzi che vi partecipavano. Attualmente i Centri che utilizzano il laboratorio situato presso il Centro “Non ti scordar di me” (ex Casa Fantini) hanno cercato di diversificare le coltivazioni per stimolare la curiosità dei ragazzi anche attraverso la cura di piantine di uso comune
(basilico, rosmarino, ecc.); non si lavora quindi sulla quantità e, soprattutto, ciascun ragazzo vi partecipa secondo le proprie capacità con il rischio di dimezzare il numero delle piante che arrivano sul nostro banchetto del mercato. Inoltre, si è scelto di iniziare proprio dalla nascita della piantina che viene seminata, innaffiata e curata dai ragazzi che spesso manifestano un autentico interesse verso la crescita di questa e un investimento affettivo: la comparsa del germoglio è un risultato estremamente gratificante.

Attività di svago
Vi sono poi attività che, pur intervenendo su diverse delle aree sopraccitate, in realtà vengono proposte alle persone in momenti in cui non si sentono di impegnarsi in attività particolari, ma desiderano solo rilassarsi così come afferma Angelo che preferisce “fare un castamaz” (cioè niente).
Succede infatti che alcuni ragazzi chiedano di essere lasciati tranquilli e di poter ascoltare la musica che preferiscono o di guardare un bel film oppure i mondiali di calcio.

… E le famiglie…

Fra le attività che i Centri svolgono c’è un grande lavoro di tessitura di rapporti con le famiglie dei ragazzi. Di modi nei quali si realizzano questi scambi con le famiglie ce ne sono tanti: telefonate, incontri individuali, riunioni plenarie, ecc.
Ciò che il Servizio Sociale/Salute disabili ha sempre sostenuto come elemento fondamentale del lavoro dei Centri, condiviso e attuato dagli Educatori e da me come Coordinatrice, è il confronto, l’ascolto, l’accoglienza verso le famiglie. Le famiglie sono il contesto principale in cui vive il ragazzo e per questo credo che sia importante considerarle come interlocutore fondamentale del Centro nelle riflessioni sul ragazzo e sul lavoro che svolgiamo.
A volte succede che i ragazzi al Centro mettano in atto comportamenti diversi da quelli che attuano con i propri genitori: questo significa che il ragazzo distingue il contesto familiare, dove richiede un certo tipo di relazione, da un contesto di vita sociale dove agisce altri modelli comportamentali.
A me è successo di scoprire, vedendo una diapositiva di mio figlio, che a scuola si veste da solo mentre a casa mi dice che non è capace.
Quasi quattro anni fa ho iniziato il mio lavoro come Coordinatrice dei Centri qualche mese dopo il mio rientro al lavoro dopo la maternità. Essere genitori non significa capire il vissuto di tutti gli altri; ciascuno vive la propria esperienza come unica e irripetibile, ma le riflessioni fatte con gli educatori e il mio essere mamma mi hanno probabilmente aiutato a chiedermi se forse un genitore avesse bisogno di qualcosa di più che di parole, per sapere cosa fa e come sta il proprio figlio al Centro.
All’interno del lavoro dei Centri vi è una grande attenzione alla documentazione, … parole scritte, … parole raccontate. Quest’anno però nei tre Centri di Sassuolo abbiamo scelto di presentare le nostre attività utilizzando poche parole e molte immagini, e infatti la diapositiva o il video hanno permesso ai familiari di vedere i loro figli senza essere visti e di constatare direttamente con i propri occhi. Anche per noi che ci siamo visti, guardando in qualche modo dall’esterno la nostra relazione con i ragazzi, è stata un’esperienza emozionante.
A proposito dell’utilità di questi mezzi, la sorella di Luigi mi racconta che, prima di visitare il Centro che avrebbe potuto frequentare il fratello, temeva che questo fosse un luogo “ospedaliero” e che invece ne è rimasta piacevolmente impressionata. Mi racconta inoltre che la necessità della famiglia da cui è nata la richiesta di inserimento di Luigi al Centro era sì di un sollievo, ma l’intento era anche quello di proporre al fratello un altro contesto di vita e di relazioni; poi, la sorella, dice che ha avuto l’impressione che Luigi stia bene al Centro anche attraverso le immagini e i suoni del video, utilizzato per presentare le attività durante la riunione plenaria con i familiari.

Testo tratto da:
Lorenzo Morini, Paola Perdetti, Giulia Manzini
… E Amici tutti voi. Storie dei Centri Diurni per disabili del Distretto di Sassuolo
Con il contributo di Piero Zaghi
Pubblicazione a cura di Azienda USL di Modena, Distretto di Sassuolo e Gulliver Cooperativa Sociale s.c.a.r.l. In collaborazione con i Comuni di Fiorano Modenese, Formigine, Frassinoro, Maranello, Montefiorino, Palavano, Prignano sulla Secchia, Sassuolo (Luglio 2004)

Il vizio di scrivere

autobiografie, narrazioni, disabilità

L’esperienza del Centro di Documentazione Handicap di Bologna è stata fin dai suoi inizi caratterizzata dall’attenzione alla raccolta e all’organizzazione di testi prodotti da persone disabili e da familiari, iscrivibili quindi al filone delle autobiografie e delle testimonianze narrative.
Proprio questa attenzione costante e duratura nel tempo, ci sembra possa “proteggere” le nostre riflessioni e la proposta dei percorsi di lettura e conoscenza che troverete nelle pagine di “HP-Accaparlante”, dal rischio di una adesione a una riscoperta acritica, presente oggi in molti ambiti disciplinari, della dimensione narrativa e delle funzioni che essa può svolgere.
Aver inserito negli archivi del Centro una sezione riservata alle testimonianze autobiografiche e di familiari, ha significato riconnettere alle piste di studio e approfondimento sulla disabilità originate dal versante accademico e tecnico anche quelle nate dalla rielaborazione dell’esperienza personale.
Rielaborazione che è capace di produrre un sapere comunicabile quando attiva un processo di sedimentazione di ciò che si vive e una scelta di ciò che si desidera offrire di sé a chi è al di fuori delle vicende raccontate.
La rielaborazione è un processo che mette tempo e spazio tra ciò che si vive e ciò che di quell’esperienza fluida e magmatica si deposita nella memoria e nella storia della persona; impone una distanza che ha bisogno, poi, di trovare uno strumento di comunicazione che la possa far uscire da sé e diventare patrimonio condiviso anche da altri e per altri.
La scrittura è esemplare nella sua valenza di strumento per la rielaborazione, che ha segnato in modo irrimediabile non solo i comportamenti ma la stessa organizzazione del pensiero, marcando la differenza fra il mondo dell’oralità e il nostro, dove i segni scritti predominano. Come ci ricorda Doris Lessing “Da molte migliaia di anni noi – il genere umano – narriamo storie: in forma orale o di canzone. Non scritte ma fluide…Il fatto è che i romanzi, e le autobiografie e le biografie hanno molto in comune. C’è una cosa che diamo per scontata: sono tutti messi per iscritto. Diamo per scontato il fatto che i romanzi, le autobiografie e le biografie siano tutti lì, allineati in bella mostra su uno scaffale, che siano libri, autosufficienti, completi, messi per iscritto” (1). In un certo senso, immutabili.
Una scrittura, quindi, che dà forma conclusa a ciò che è scandito da giorni che passano e mutano. Questa forma diventa una porta che l’autore apre ai suoi possibili lettori perché anch’essi, con l’atto stesso di accostarsi allo scritto, possano farsi parte attiva nella costruzione di un testo che non appartiene più, a quel punto, solo a chi lo ha scritto.
“Ho scritto questo libro per me… ho scritto questo libro per gli altri”, motiva in questo modo le ragioni del suo lavoro Silvia Bonino (2), legando insieme in modo indissolubile la duplicità della scrittura quando questa si fa pubblica.
Ogni autore ha il suo mandato, sceglie uno stile e dà una forma, alterna ciò che vuole dire a ciò che desidera tenere riservato. Sono molteplici i percorsi per dire di sé. Questa molteplicità senza pretese di costruire modelli univoci alla convivenza con il decifit, fa pensare, apre piste per esplorare più da vicino una quotidianità che, pur non appartenendo a chi legge, rivela significati e comunanze. Si fa dialogo fra le esperienze inevitabilmente diverse.
Lo strumento biografico è potente proprio quando riesce a coniugare l’esposizione del proprio mondo interiore con la volontà di mettersi in comunicazione con il mondo esterno, rendendo visibile l’identità della persona. È questa un tipo di visibilità ben diversa da quella mediatica: tanto
quest’ultima recide i legami con il contesto per vivere di vita propria e si impone come protagonismo assoluto, quanto l’altra si alimenta di connessioni silenziose, di percorsi più sotterranei che arrivano in superficie dopo aver subito un profondo lavorio.
Nuto Revelli, nel suo rigoroso e prezioso lavoro di raccolta delle storie di donne e uomini delle sue valli, indica in modo preciso le condizioni di avvicinamento alle storie di altri: umiltà, rispetto, entrare in punta di piedi. Questo atteggiamento di fondo produce la possibilità che la conoscenza dei percorsi individuali aiuti a ricostruire un quadro connettivo più ampio, facendosi sguardo sulla comunità sociale e storica a cui si appartiene.
Senza queste condizioni l’ingresso nelle case diventa invasione, l’ascolto un giudizio preventivo, la restituzione una ricostruzione sommaria per grandi categorie generali dentro cui la singola identità sfuma, si confonde e non si riconosce.
Nell’organizzare i percorsi bibliografici abbiamo utilizzato come criterio di riferimento il dato cronologico.
La collocazione temporale ci aiuta a dare una visione di insieme a queste produzioni editoriali, a rileggerle non solo come dato della capacità e volontà dei singoli autori ma anche come un segno più complessivo di una presenza sociale, pubblica, visibile di questa fetta di esperienza di vita legata alla disabilità.
Ancora, inserire i singoli testi in un percorso “datato” permette di contestualizzarli e di recepire non solo le specifiche e originali matrici delle storie, ma anche il riflesso del clima e del momento in cui si scrive. L’evoluzione dell’integrazione sociale delle persone disabili passa anche in controluce nei modi in cui gli autori parlano della loro singola situazione, nei contenuti che affrontano, nelle problematiche che sentono come essenziali, nel linguaggio che utilizzano.
Chi scrive prima degli anni ’80 e in quelli immediatamente successivi vive in un contesto dove erano davvero rari i progetti di integrazione, e ancora persone disabili vivevano in istituto o chiuse in casa. Un’epoca in cui non si pensava che una persona non in grado di parlare materialmente avesse altre possibilità di comunicare ed era quindi possibile, come per la storia esemplare di Joey Deacon (raccontata nel libro Lingua legata) passare decine di anni senza poter “dire” niente. Chi scrive quindi lo fa prima di tutto per rivendicare un riconoscimento, per dire “io esisto, non sono un vegetale, e se anche il mio corpo non è efficiente, la mia mente lo è”.
Oggi lo sfondo è costituito da un tessuto in cui l’integrazione è diventata una realtà sempre faticosa ma tangibile e presente. Chi scrive non ha il bisogno primario e irrinunciabile di farsi riconoscere come persona. Lo stesso però avverte la motivazione al raccontarsi quasi per analizzare se stesso e quello che prova e ha provato nel confronto con le proprie difficoltà e nella relazione con gli altri. Più di prima c’è anche la necessità di dire “io ce l’ho fatta, quindi ce la puoi fare anche tu!”. Diventano centrali le questioni relazionali e le prospettive legate alla ricerca di una vita autonoma e anche nelle testimonianze dei genitori viene valorizzata l’importanza della rete associativa e solidale che negli anni si è costruita nella società. Le singole voci permettono una rilettura al plurale; fanno da specchio al mutamento dei tempi, al consolidarsi di processi di inclusione così come al persistere di sacche di arretrato pietismo e inefficienza burocratica.
Avendo presente questo aspetto vogliamo però concludere queste note introduttive risottolineando come questi libri prima di tutto sono libri. Raccontano storie e in molti casi le raccontano con capacità e competenza. Per alcuni poi il valore sociale della testimonianza si somma alla capacità di esercitare una scrittura evocativa, forte, che sfrutta fino in fondo le sue potenzialità.
Nel selezionarli abbiamo quindi anche utilizzato il nostro piacere per la lettura, non volendo quindi addentrarci nel terreno della critica letteraria, anche sommaria, bensì segnalare e consigliare libri da leggere, da conoscere, da ricordare, da utilizzare perché per questo i libri sono fatti.

(1) Doris Lessing, Il senso della memoria, Roma, Fanucci, 2006

(2) Silvia Bonino, Mille fili mi legano qui, Bari, Laterza, 2006

Scrivere è esistere: le persone disabili si raccontano

Autobiografie fino al 1979

Earl R. Carlson
Nato così
Roma, Il Pensiero Scientifico, 1959
L’autore affida a queste pagine la storia della sua vita: nato nel 1897 con paralisi cerebrale, rimasto presto orfano, ha saputo conquistare un’indipendenza che gli ha permesso di arrivare a dirigere un istituto per la riabilitazione di bambini con lo stesso suo deficit.

Marcello Ceccarelli
Viaggio provvisorio
Bologna, Zanichelli, 1977
“Forse ho fatto male a cominciare così tardi a scrivere questi appunti. Ho le mani deboli anche per reggere la penna […] Forse se avessi cominciato prima dell’estate avrei avuto ancora l’illusione di poter dare a qualcuno qualche consiglio. Non ricette miracolistiche; soltanto qualche consiglio. Ma oggi – secondo giorno d’autunno – non ho più voglia di credere a questa possibilità. Però può darsi che mentre continuerò a scrivere – e non sarà questione né di qualche giorno né di poche settimane – possa pensare, sapere, intuire, qualcosa di nuovo. Chissà”.
L’autore, grande studioso di fisica, racconta qui la sua vita e la sua lotta contro la sclerosi a placche.

Joey Deacon
Lingua legata
Firenze, La Nuova Italia, 1978
L’autore, nato nel 1920, con tetraparesi spastica e incapace di parlare, viene istituzionalizzato a otto anni. Per sedici anni nessuno riesce a capire che è in grado di comunicare anche in maniera complessa e articolata. Quando un altro ricoverato se ne rende conto, nasce una fortissima intesa che porta alla stesura di questo libro che racconta la sua vita. Un libro con un autore ma quattro costruttori: Joey, che comunica a Ernie, Ernie che “traduce” e detta a Michael che passa lo scritto a Tom, il quale a sua volta lo batte a macchina. Un libro straordinario che sottolinea, se ce ne fosse bisogno, quanto sia importante non fermarsi alle apparenze e non dare per scontato che la disabilità fisica e la mancanza della parola siano associate alla mancanza di intelligenza.

Cesare Padovani
La speranza handicappata
Rimini, Guaraldi, 1974
Un volume importante nella storia della cultura della disabilità scritto da uno dei personaggi più significativi che hanno combattuto per una piena integrazione e per il riconoscimento di identità alle persone disabili. Una riflessione sulla società e le politiche assistenziali con un occhio in particolare per la vita privata e il diritto alla sessualità.

 

Autobiografie 1980-1995

Zenta Maurina Raudive
Il lungo viaggio (1985) Perchè il rischio è bello (1982) Le catene si spezzano (1985)
Cinisello Balsamo (MI), Paoline
Nata in Lettonia, l’autrice contrae la poliomielite da bambina e perde l’uso delle gambe. Donna e disabile, riesce a studiare, a frequentare l’università, dove consegue, prima in assoluto, la laurea in filosofia, raggiunge l’indipendenza e una serena vita affettiva. Tre libri intensi in cui ripercorre la storia della sua vita e le varie tappe che l’hanno portata a una vita piena e realizzata, sullo sfondo delle vicende storico-politiche dell’Europa della prima metà del Novecento, soffermandosi anche su concetti più generali di etica e spiritualità.

Mauro Cameroni
L’handicap dentro e oltre
Milano, Feltrinelli, 1983
“Sfogliando questo libro qualcuno potrà domandarsi se oggi abbia ancora un significato scrivere degli handicappati, se ciò sia utile e anche se sia giusto considerare i portatori di handicap una categoria speciale […] Sarà utile a qualcuno questo libro? Onestamente non lo so […] susciterà forse reazioni e polemiche, ma ciò non mi spaventa, anzi è proprio quella la mia speranza, il fine per cui l’ho scritto”.
Partendo dalla domanda “Chi è l’handicappato?”, l’autore cerca di riappropriarsi in maniera chiara di un’identità troppo spesso mistificata mentre mette la sua esperienza al servizio di una lotta comune. Un messaggio da dentro l’handicap ma che va oltre e diventa segno e chiave interpretativa di un problema sociale che interroga l’intera società.

Hugues de Montalembert
Buio
Milano, Mondadori, 1986
“È un libro sulla paura del buio. Ma anche su come ho riscoperto la bellezza e la luce”.
Regista e pittore, l’autore, in seguito a una aggressione, perde la vista. Qui racconta il doloroso cammino verso l’accettazione della sua condizione e di come è riuscito a reagire e a realizzarsi sul piano professionale e personale.

Rosanna Benzi
Il vizio di vivere
Milano, Rusconi, 1984
In seguito alla poliomielite, Rosanna Benzi fu ricoverata in ospedale e messa in un polmone d’acciaio. Quello che per molti sarebbe stato la fine di tutto, da lei fu interpretato come un nuovo inizio: “Ora so che è come se fossi rinata quel giorno, a quattordici anni, perché la vita mi partorì di nuovo e nel giro di 48 ore mi cambiò da così a così”. Personaggio di spicco nel mondo della disabilità, fondatrice di una rivista, qui si racconta cercando di trasmettere la sua intatta voglia di vivere e di non cedere alla disperazione. Scriverà anche un secondo libro (Girotondo in una stanza, Milano, Rusconi, 1987) che raccoglie riflessioni, pensieri, brevi episodi della sua vita.

Renato Pigliacampo
Una giornata con me
Torino, Claudiana, 1985
Attraverso la storia della sua vita di non udente, l’autore riflette su questo deficit particolare e sulle possibilità di una reale integrazione. Non è un atto di denuncia, l’autore non rincorre un utopistico sogno. Vuole soltanto accompagnarci lungo una sua giornata ideale, nei rapporti con la moglie, i figli, i colleghi, gli studenti, nelle incombenze più banali… per aiutarci a capire e farci uscire dall’indifferenza.

Franco Valente
Io, invece
Roma, Editori Riuniti, 1987
Nel segno di una lucidità impietosa e consapevolmente disperata si apre questo volume che è, insieme, autobiografia, analisi di una condizione fisica e psicologica e galleria di personaggi. L’autore guarda la sua diversità e ne ricostruisce dall’interno le tappe significative: itinerari emotivi e traguardi di una lunga marcia privata e definizione di una precisa identità individuale. Un autoritratto trasparente che lascia intravedere, senza vittimismi e forzature ideologiche, il profilo scomodo di un’invalidità non fisica ma sociale.

Sheila Hocken
Emma e io
Milano, Longanesi, 1984
In questa intensa autobiografia, l’autrice racconta la perdita progressiva della vista e la presa di coscienza dolorosa della propria menomazione. L’incontro con Emma, che sarà il suo cane guida, cuore del racconto, le dà nuovo coraggio e la spinta per riprendere in mano la propria esistenza insieme alla scoperta di nuove possibilità di vivere una vita piena.

Mario Barbon
Non ho rincorso le farfalle
Bologna, EDB, 1983
“Io non posso dire di aver rincorso le farfalle, né posso dire di aver calpestato l’erba. D’altra parte tutto questo non è necessario. Posso dire soltanto di aver passato un’infanzia abbastanza normale, anche se non accettavo la realtà”.
Ha scritto a macchina con i piedi, Mario Barbon, con determinazione e voglia di raccontare, e ha ripercorso la sua vita attraverso episodi, riflessioni e pensieri che ne esplorano la diversità e l’unicità.

Enzo Aprea
L’altro
Napoli, Tullio Pironti, 1987
Intrecciando ricordi di vita al progredire della malattia che l’ha colpito, costringendolo a successive amputazioni degli arti, l’autore offre uno spaccato delle sue esperienze, dei momenti di cedimento e della strada percorsa perché vincesse la voglia di vivere e di amare riannodando i fili con il proprio passato e chiedendo a chi lo circonda stima, rispetto e amicizia.

Nigel Hunt
Il mondo di Nigel Hunt
Bologna, EDB, 1987
“Provo un gran piacere a scrivere queste pagine; il mio primo libro”. Nigel Hunt descrive in questo suo diario il mondo per come lui lo vede, comunicando impressioni e speranze e ricordando episodi della sua vita. Nella lunga prefazione il padre sottolinea il senso di questo testo: “Questo libro è unico, e uso questa parola nel suo significato rigorosamente letterale. È stato scritto da un mongoloide, mio figlio. Nessun mongoloide ha mai scritto un libro prima di lui”.

Angelo Eremita
Locked in
Roma, Il Ventaglio, 1988
“Questo sintetico resoconto vorrebbe essere un piccolo contributo e vuole dare la parola a chi di solito non l’ha: il malato. Il testo si colloca per buona parte in un particolare momento e rispecchia gli stati d’animo di allora. Non era destinato alla pubblicazione in questa forma […] oggi lo scriverei in modo diverso. Ma queste pagine ormai non appartengono al me stesso di adesso più di quanto appartengano a qualunque lettore benevolo e mi sembrerebbe una intromissione indebita e una mancanza di rispetto per il me stesso di allora apportarvi delle modifiche; inoltre il suo eventuale interesse risiede forse proprio nella sua immediatezza. Perciò preferisco lasciarlo com’è, con le sue disarmonie e le sue asprezze – di cui sono il primo giudice – a testimonianza di una esperienza di vita”.

Marisa Bettassa
Storia di un filo d’erba
Piombino (LI), TraccEdizioni, 1991
“I lettori saranno portati a immaginare che questo sia un testo di ecologia, mentre in realtà è un’autobiografia di una persona che, come altri suoi simili, ha vissuto e vive tuttora i problemi legati all’handicap, ma ha trovato la salvezza dalla disperazione pensando a un filo d’erba […] Un filo d’erba è utile, pur essendo la cosa più semplice di questa terra perché costituisce il primo anello della catena alimentare, la catena della vita […] Se quindi un filo d’erba è indispensabile, ci sarà uno scopo anche per me che possiedo la facoltà di ragionare, di ammirare le bellezze del mondo, di amare”.
La storia di una persona che ha vissuto e vive tutt’ora i problemi legati alla disabilità ma che ha saputo affrontare la vita positivamente, anche se con fatiche e amarezze.

Valentina Paoli
Oltre l’ostacolo
Firenze, Edizioni C.R.O., 1995
Il libro, scritto di getto, racconta l’esperienza dell’autrice: affetta da una grave sordità bilaterale, è riuscita a frequentare le scuole normali e si è iscritta all’università. Come dice alla conclusione del libro, ha voluto scrivere questi appunti perché “è molto importante per me avere la possibilità di far sapere alla gente che in questo mondo dove si parla tanto di nuove frontiere esiste anche la possibilità di una nuova realtà: quella del sordo che “sente” e parla, la mia realtà, quella di una ragazza che ama, odia, soffre, ride, parla, studia, litiga, vede, perdona, ferisce…Vive!”.

Flavio Emer
Il mio cielo è diverso
Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1993
Segno distintivo di questo libro è la diversità, sia nella stesura materiale – è stato dettato lettera per lettera al computer – sia nella sensibilità particolare con cui l’autore affronta temi consueti, come viaggi, musica, amore. La lettura che fa della realtà deriva proprio dal contrasto fra l’evidente fisicità della materia e la sua intensa vita interiore: paradossalmente la sua mente “prigioniera” di un corpo immobile è più attiva che mai.
“Nel momento in cui deciderò di uscire con un libro, la situazione cambierà. Non potrò più scappare a rifugiarmi nella quiete dell’anonimato: indipendentemente dal numero di copie vendute, avrò preso una decisione dalla quale non potrò sfuggire. Sarà come aver perso la giovinezza: potrei rimpiangerla o potrei ricordarla come un periodo di tempo speso male nella sola attesa di chissà che cosa. In entrambi i casi avrei di che rammaricarmi. Ma se penso che ogni cosa non potrebbe esistere senza niente che la circondi, la preceda, la segua, riesco ad accettare anche momenti apparentemente sprecati, vedendone, invece, le peculiarità e gli aspetti positivi”.

Christy Brown
Il mio piede sinistro
Milano, Mondadori, 1990
Christy Brown nasce in una modesta, numerosissima famiglia irlandese. Alla madre “consigliavano di dimenticare che ero un essere umano, accontentandosi di nutrirmi, lavarmi e basta. Fu allora che prese la decisione di agire di testa sua […] non si accontentò di negare che io fossi un idiota, s’impegnò a dimostrare il contrario, mossa non già da un senso del dovere, ma dal suo amore per me. Fu questa la ragione del suo successo”. Considerato un minorato psichico e dichiarato incurabile, Brown riesce a superare gli ostacoli derivanti dal deficit e a conquistare la possibilità di una vita agita e non subita.

Emmanuelle Laborit
Il grido del gabbiano
Milano, Rizzoli, 1995
“Questo libro è un regalo della vita. Mi consentirà di dire ciò che ho sempre taciuto, ai sordi come agli udenti. È un messaggio, un impegno nella battaglia relativa alla lingua dei segni, che separa ancora molte persone. Mi servo della lingua degli udenti, la mia seconda lingua, per esprimere la mia assoluta certezza che la lingua dei segni è la nostra prima lingua, la nostra, quella che ci consente di essere esseri umani “comunicanti”. Per dire, altresì, che nulla dev’essere negato ai sordi, che si possono usare tutte le lingue, senza ghettizzazione e senza ostracismi, al fine di accedere alla vita”.
L’autrice, sorda profonda, racconta la sua vita, la scoperta della lingua dei segni e le difficoltà per affermare una sua precisa identità e il diritto a usare questo linguaggio, proibito in Francia fino a non molti anni fa.

Elisabeth Auerbacher
Babette handicappata cattiva
Bologna, EDB, 1991
“La cattiveria di Elisabeth Auerbacher può essere una provocazione positiva […] Non va letta però cercando di circoscrivere, isolare e mettere fuori gioco il libro. Invece è giusto vederlo su un certo sfondo storico e culturale; e leggerlo come testimonianza di una faticosa emancipazione (pensando) che questo libro riguardi ciascuno di noi, e che ogni lettore abbia buoni motivi per riflettere e sentirsi chiamato in causa”. Così Andrea Canevaro invita alla lettura della storia di Babette che ci mostra come i meccanismi dell’esclusione e la paura di tutto ciò che è fuori della norma siano difficili da sradicare.

Autobiografie dal 1996

Silvia Pagani (a cura di)
Diario di una metamorfosi
Milano, FrancoAngeli, 2006
Frutto di un intenso lavoro, il libro riporta le voci e le riflessioni di tante persone che hanno subito una lesione spinale e che raccontano il prima del trauma e l’adesso di una ritrovata, seppur difficile, quotidianità, e che riescono a dar voce all’immaginazione di un avvenire pensabile, di segnare il tracciato di un futuro possibile anche se ancora lontano.
“La voce delle persone può prendere talvolta la strada inappropriata della protesta fine a se stessa, del lamentarsi per non cambiare. La narrazione, invece, quando può esprimersi a tutto campo diventando risorsa sociale, restituisce ai soggetti il senso della legittimità di esistere e la percezione d’essere parte di una storia comune. Raccogliere narrazioni, quindi, è qualcosa di molto diverso dal sondaggio d’opinioni: è andare al cuore di ciò che l’interlocutore sente come importante per sé e per la propria storia, permettendo la rimessa in circolo delle tensioni vitali nei riguardi di se stessi e del proprio ambiente, grande o piccolo. La possibilità di narrare, in relazione a un ascoltatore neutrale ma partecipe, consente così ai protagonisti di ristabilire un contatto con la ricchezza del proprio mondo interiore, e la forza che ha consentito a ciascuno di ritrovarsi pur nella discontinuità (nel trauma/frattura) della propria biografia”.

Pino Tripodi
Vivere malgrado la vita
Roma, DeriveApprodi, 2004
Il protagonista di questo intenso romanzo è vittima a 18 anni di un grave incidente stradale. Si ritrova disabile, con un dolore da accettare e con cui imparare a convivere. Passa allora in rassegna la sua esperienza, i pensieri, gli affetti, i sentimenti, le stupidaggini e le genialità della vita di tutti i giorni, demolendo molti luoghi comuni e ipocrisie intorno alle disabilità e agli handicap, con uno stile di scrittura lucido, a volte persino spietato, ma mai pietistico. L’autore sostiene infatti che non ha “scritto questo libro per commuovere qualcuno, per muovere pietà verso di me o verso le persone che vivono in condizioni simili alla mia. Io non amo vivere di pietà. La pietà per noi è un coltello dentro la piaga […] la pietà degli altri per noi è un handicap che si aggiunge a quello che siamo costretti a sopportare”.

Barbara Garlaschelli
Sirena
Faenza, Moby Dick, 2001
“Dovete considerarvi persone normali, dice il dottore. Non è normale aggirarsi per il mondo su due ruote grandi e due piccole, e allora perché tentare una lotta che sarebbe perdente per affermare un valore di normalità che non ti è mai appartenuto? Sei su una sedia a rotelle e ciò ti rende diversa dalla maggior parte delle persone. Ciò che comprendi con assoluta e potente lucidità è che questa diversità deve diventare la tua forza […] Riconquistare la vita, questo è stato ed è ciò che ho fatto. Dall’avere il coraggio di mettermi in costume da bagno, a prendere la metropolitana, dall’andare in giro con gli amici a farmi amare da un uomo. Riuscire a capovolgere le cose, in modo che la paura, l’imbarazzo, il disagio non schiaccino né me né gli altri”.
Un racconto lucido e appassionato dei mesi che hanno cambiato la vita dell’autrice.

Vincent Humbert
Io vi chiedo il diritto di morire
Milano, Sonzogno, 2003
“Certe persone saranno tristi di venire a sapere che non ci sono più. Parleranno di dramma della disperazione. Che si ricredano, sono così felice di partire!”. Aiutato da un giornalista che ha “tradotto” in linguaggio scritto i loro colloqui, Humbert ci lascia uno spaccato di pensieri e sensazioni dal giorno in cui un pauroso incidente l’ha lasciato a un passo dalla morte, fino a quando, con l’aiuto della madre, potrà andarsene davvero.

Gabriele Viti
Cara L, storia di un normalissimo disabile
Tirrenia (PI), Del Cerro, 1997
“Forse, se ci trattassero da uomini qualunque, come un miracolo di stelle sotto al sole usciremmo dal bozzolo di bruco per volare leggeri e belli come farfalle”.
Una raccolta di fatti, riflessioni, fantasie intimamente legate da un filo sottile che l’autore sente il bisogno di confessare a qualcuno, interlocutore privilegiato, confidente segreta cui si rivolge per raccontare la sua vita, ricca di esperienze significative, fatta di studio, impegno politico, amicizie, sentimenti come un qualunque “normalissimo” giovane.

Gunilla Gerland
Una persona vera
Roma, Phoenix, 1999
L’autrice si è dovuta rapportare fin dall’infanzia con un autismo non diagnosticato. Costretta a lasciare la casa dei genitori, tutti i suoi tentativi di relazionarsi con gli altri fallirono fino all’incontro con un professore di psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza che capì la vera natura dei suoi problemi e le permise di risalire la china. Dopo la lettera che ricevette da lei, scrive “mi chiesi se anche lei non avrebbe potuto riuscire a emergere dalla sua depressione e a trovare nuove prospettive di vita, scrivendo un libro su se stessa. Gunilla aveva una capacità di linguaggio tale che mi chiesi se il suo libro avrebbe potuto essere utile per altri con problemi simili ai suoi. Non pensavo che il libro sarebbe diventato un racconto commovente, straordinariamente brillante, chiaro e di grande interesse per un vasto pubblico. Questo lavoro […] racconta la storia di una persona unica con una diagnosi singolare, ma con problemi non altrettanto singolari”.

Laura Tangorra
Solo una parentesi
Milano, Mondadori, 2003
L’autrice, che deve fare i conti con una grave malattia invalidante, decide “di prestarci per un attimo i suoi occhi (perché) non è mai scontato poter accarezzare i propri figli, parlare ed essere capiti, alzarsi dalla sedia e camminare, afferrare un bicchiere di acqua fresca e rovesciarsela in gola, senza aver paura di soffocare. Ogni semplice gesto merita un grazie. Questo vorrei che risuonasse nelle vite annoiate, depresse, sempre troppo stanche, insoddisfatte. Quando chiuderò questa parentesi di vita, l’eco del dolore sarà gioia di esserci e i miei grazie si faranno eco…”.
Laura Tangorra scriverà anche un secondo libro (Rumore di mamma, Milano, Mondadori, 2004) in cui raccoglie pensieri, sensazioni, ricordi di mamma e della sua vita passata accanto ai figli.

Alison Lapper
La vita in pugno
Milano, Corbaccio, 2006
Nata senza braccia e con una grave malformazione agli arti inferiori, l’autrice racconta la sua vita e gli sforzi compiuti con determinazione e cocciutaggine per poter tenere “la vita nelle sue mani” come, con ironia, ha intitolato il suo libro.
Scrive, forte della convinzione che “molte persone disabili vivono la propria vita arrendendosi alle pressioni, agli sguardi, alle occhiate imbarazzate e alle espressioni di ripulsa. Anch’io ho provato quelle pressioni, ma […] se le persone portatrici di handicap come me non si impegnano a spiegare che cosa significhi vivere una vita come la nostra, il resto della popolazione non sarà mai in grado di capire le difficoltà che affrontiamo. Come posso accusare gli altri di non avere alcuna comprensione della disabilità e poi rifiutare di raccontare loro qualcosa della mia esistenza? […] Narrare la storia della mia vita è il mezzo migliore che avevo a disposizione per far comprendere alla gente i problemi che mi stavano a cuore”.

Marilena Rubaltelli
Non posso stare ferma
Padova, Messaggero di Sant’Antonio, 2005
“Pian piano nella mia vita ho scoperto che avvengono piccoli miracoli ogni giorno e che la guarigione per me non consisteva nel poter correre”. Ironica e divertente, l’autrice si racconta proponendoci episodi della sua vita e incontri che le hanno permesso di crescere, accettare la sua disabilità e superarla per vivere una vita ricca e piena.

Claudio Imprudente
Una vita imprudente
Trento, Erickson, 2003
Perché una persona diversamente abile dovrebbe scrivere un libro autobiografico? A chi può interessare la sua storia fatta di disabilità, magari di lotte, vittorie e sconfitte? La storia di un diversabile che va oltre la sua storia personale per descrivere un ambiente fatto di fiducia e di progetti concreti, dando spazio alle innumerevoli persone che con lui hanno condiviso tante avventure e l’hanno seguito nella promozione di una cultura che mette in primo piano la persona.

Antonio Leone
Il grido di Tò
Genova-Milano, Marietti, 2005
Un giornalista viene mandato in un piccolo paese per ricostruire la storia di un disabile grave, morto da poco. Attraverso le pagine del diario, dai racconti di parenti e amici emerge la vita di Tò, vuota di parole pronunciate con la bocca, vuota di gesti compiuti autonomamente, ma ricca di capacità di comunicare, di amicizie e di voglia di vivere.

Rubén Gallego
Bianco su nero
Milano, Adelphi, 2004
“Non puoi camminare, dunque sei un ritardato”. Vent’anni passati negli orfanotrofi e negli ospizi dell’Unione Sovietica. Gallego, in questo libro bellissimo, duro e commovente, ci porta dentro questi istituti in cui cercavano di sopravvivere bambini e ragazzi disabili, ben nascosti dal resto del mondo. Ci racconta delle persone che ha incontrato e di come è riuscito a non soccombere a un regime così poco umano da garantire per legge a tutti dieci anni di istruzione obbligatoria (anche se in istituti segreti) ai quali seguiva il ricovero in ospizio senza alcuna assistenza e la morte certa per chi non era autonomo.
“Capita che mi chiedano se quel che scrivo è successo davvero. Se i protagonisti dei miei racconti sono reali. Rispondo che sì, sono cose vere, personaggi reali; più che reali. Certo, i miei personaggi sono prototipi collettivi dell’infinito caleidoscopio dei miei infiniti orfanotrofi. Ma quel che scrivo è la verità”.

Alexandre Jollien
Elogio della debolezza
Magnano (BI), Qiqajon, 2001
Jollien vive in istituto fino ai diciassette anni, già segnato da un futuro in cui dovrà arrotolare sigari. Si ritrova invece, al termine di un lungo itinerario, sui banchi dell’università a studiare filosofia. L’ipotetico dialogo con Socrate che si svolge in queste pagine è l’occasione per raccontare la sua esperienza, difficile, dolorosa, sempre stimolante, ma soprattutto diventa un invito a interrogarsi su cosa si ritiene normale. “Ben presto ebbi l’intuizione che fuggendo l’handicap ci si isola. Esiste, bisogna accoglierlo come un quinto arto, venire a patti con lui. Per fare questo mi pare primaria la conoscenza delle proprie debolezze”.  Jollien scrive anche un altro libro (Il mestiere di uomo, Magnano (BI), Qiqajon, 2003) in cui sostiene con decisione che anche un “vegetale” non sceglie affatto di abitare un corpo ridotto, dipendente: la sua unica scelta consiste nel modo di abitarlo. Per lui, l’assumere questa condizione sgorga da uno stato d’animo molto più sottile, mille volte più audace di una fuga di fronte a sguardi stupidamente idioti […] Spirito nato con un corpo scosso da spasmi, il “vegetale” pensa. Per una curiosa alchimia, il suo corpo malato riesce a produrre idee limpide e a sviluppare uno stato d’animo libero da ogni risentimento. Può così superare la rivolta ed esercitare una libertà che rischia di permettergli di assumere fino in fondo la sua precarietà”.

Hannah Merker
In ascolto
Milano, TEA, 2001
“Come puoi capire tu, che il mondo che mi attornia è silenzioso, che io non sento i tuoi passi dietro di me, che non ti sento chiamare il mio nome da lontano? Il silenzio che mi circonda è invisibile […] Le persone sorde o con un handicap uditivo possono imparare a “sentire”, a riconoscere segnali che indicano la presenza del suono. Noi possiamo ascoltare”.
L’autrice ha perso l’udito a 39 anni e racconta qui la sua esperienza e la scoperta di un nuovo modo di vivere e di ascoltare. Un’inedita analisi di cosa significhi udire e come sia un mondo improvvisamente immerso nel silenzio.

Donna Williams
Nessuno in nessun luogo
Roma, Armando, 2002
“Cominciai a scrivere. Cominciai dal centro del mio mondo, da quando mi era possibile ricordare […] Decisi di portare il mio libro a uno psichiatra infantile perché lo leggesse e mi dicesse il perché […] Non ci volle molto perché avessi notizie dallo psichiatra. Si era appassionato al libro e voleva farlo leggere a uno specialista di autismo […] Mi fece notare che c’erano molti bambini che avevano avuto esperienze simili alle mie e che il mio libro poteva essere importante per capirli. Io avevo pensato di bruciarlo. L’avevo scritto per me e avevo voluto rileggerlo per rivedere la mia vita in modo coerente e rendermi conto che essa apparteneva a me”.
La storia di una donna con autismo, diagnosticato però in età adulta. Il percorso da un’esistenza chiusa e sofferta al riconoscimento graduale di se stessa.

Hirotada Ototake
Nessuno è perfetto
Milano, TEA, 2001
“Non voglio dire che l’handicap costituisca quel che si dice un vantaggio, ma non si deve permettere che diventi un ostacolo. Alla fine tutto si riduce a quello che tu, in quanto persona, hai da offrire”.
Oto è nato senza braccia e senza gambe, ha frequentato scuole regolari, ha fatto sport e si è impegnato nella battaglia per i diritti dei disabili che la società giapponese ha sempre cercato di nascondere. Il libro racconta come è riuscito a trovare il suo personale modo per affermarsi con soddisfazione anche in contesti di vita particolarmente inospitali.

Isabella Ceola
Io sono quella che sono… oggi posso dirvelo
Bologna, Alberto Perdisa, 2001
Isabella Ceola è morta a 28 anni ma le sue cellule e il suo aspetto fisico erano quelli di una donna ultraottantenne e con questo libro, postumo, vuole poter dire a tutte quelle persone che sono chiuse in casa, in se stesse e non hanno il coraggio di uscire, oppresse dal timore di essere considerate dei diversi, che la vita è bella e deve essere vissuta fino in fondo.

Emilia De Rienzo, Claudia De Figuereido
Anni senza vita al Cottolengo
Torino, Rosenberg & Sellier, 2000
Roberto, 35 anni di ricovero al Cottolengo di Torino e Piero, 24 anni nello stesso istituto: non più emarginati ma cittadini a pieno titolo, conquistano la libertà e iniziano una nuova vita. Questo libro racconta la loro storia che decidono di mettere al servizio della causa contro l’istituzionalizzazione totale. Come dice Roberto, “oggi voglio fare riemergere la memoria, ricostruire ciò che comunque mi appartiene, affrontare gli interrogativi che affiorano perché la mia coscienza sia più ricca e il ricordo possa diventare ammonizione, possibilità di ripensamento per chi crede di poter rinchiudere dietro delle mura ciò che è scomodo vedere e affrontare nel mondo di tutti. Io oggi sono un uomo perché ho affrontato questo mondo, perché questo mondo deve affrontare me e le mie difficoltà; ieri ero solo quel che molti definiscono “una creatura” che non poteva avere un’esistenza autonoma”.

Paul Melki
Diario di bordo di uno scoordinato
Milano, Corbaccio, 2006
Paul, con una grave disabilità, scopre a dodici anni la comunicazione assistita ed è la sua liberazione. Scrive racconti, poesie e questo suo diario, ironico e dissacrante, in cui dice “Facciamola corta: noi viviamo in mezzo agli altri, la nostra vita è pubblica! Per parlare di Paul bisogna mangiare con lui, bisogna leggere il libro di Paul, bisogna ridere insieme a lui. Per parlare di Paul dovete dimenticare le vostre certezze e venire a vedere il mostro, l’uomo. Lo yeti pensa! Il microbo che ha causato il mio handicap è lo stesso che può porre questa domanda, si chiama ignoranza. Sì, voglio esprimere la mia gioia di scrivere, dal momento che non posso parlare. È incredibile per i benpensanti, ma io scrivo e canto come tutti gli altri. Canto odi e poemi per oltrepassare il mio essere, per esistere”.

Franco Bomprezzi
Io sono così
Padova, Il prato, 2003
“Se finalmente davvero io venissi considerato normale, ossia una persona qualsiasi, più o meno intelligente, più o meno bella, più o meno ricca, ma comunque banalmente normale, questo significherebbe che finalmente non sarei valutato e segnato per quel simbolo vivente che mi porto appresso. Normalità non significa identità. Non vuol dire omologazione su misure standardizzate. È l’esatto contrario, è la constatazione che nel nostro orizzonte di umani è normale, stupidamente, ordinariamente normale, essere ognuno a modo suo, senza etichette, senza definizioni ulteriori”.
Bomprezzi scrive senza ordine cronologico, sul filo di ricordi ed emozioni, offrendo un bello spaccato della sua vita privata cui affianca la sua parte più pubblica con considerazioni personali, articoli e lettere scritte nel corso degli ultimi anni sul tema della diversità.

Katja Rohde
La ragazza porcospino
Milano, TEA, 2003
“Soltanto con molto dolore riesco a sopportare la mia esistenza triste da morire. È grigia, provoca tormenti, ma emana anche il profumo dei cedri […] Sono forse troppo esigente se spero che un giorno sarò in grado di liberarmi dagli aculei del porcospino? […] Il mio autismo fu sgominato quando alla supponenza delle istitutrici della mia scuola speciale si sostituì l’intelligente calore di un’amica: qui c’è un’autistica che chiama aiuto”.
Chiusa in un isolamento totale, separata dagli altri da una diagnosi di grave autismo, l’autrice, a ventiquattro anni, riesce finalmente, attraverso la comunicazione facilitata, a esprimere tutta se stessa e a dimostrare la propria intelligenza e voglia di vivere.

Avere un figlio disabile: i genitori raccontano

Storie e testimonianze fino al 1981
 
George Hourdin
Il dolore innocente
Assisi, Cittadella, 1978
Il racconto di un padre e della sua esperienza di vita con la figlia con sindrome di Down. Hourdin si accinge a scrivere dopo la morte della moglie, quando lui solo si occupa della figlia e sa bene che “non ho scritto questo libro di ricordi per il semplice piacere di scrivere. Certo, ho provato una profonda soddisfazione a fissare le immagini dolorose, gioiose e poi di nuovo tristi, del passato, a far sì che i periodi più intensi della nostra vita con Marie-Anne non si cancellino completamente. Ho soprattutto voluto attirare il lettore, grazie all’interesse di un racconto, per spingerlo, poi, a meditare su questo fenomeno straordinario: l’esistenza e l’importanza del dolore innocente”.

Jeanine Carrette
Darti la vita
Bologna, Borla, 1975
Sotto forma di diario, la storia di una mamma, del suo percorso di accettazione del figlio disabile e della sua lotta per integrarlo e farlo accettare dagli altri. “Mi chiedo se non è soprattutto per me che ho scritto […] Ma anche se io fossi l’unica lettrice del mio racconto, non avrei perso il mio tempo: scriverlo mi fa così bene! Forse Marco lo leggerà… se Dio gli presta ancora un po’ di vita. E anche gli altri due figli che ho, quando saranno più grandi? Se poi il caso volesse che un altro lettore ne prenda conoscenza, voglio che entri… nella mia vita con la convinzione che quanto ho scritto, senza fioriture o ricercatezze stilistiche, è vero: assolutamente, terribilmente e meravigliosamente vero”.

Lucia Roselli
Gli altri
Milano, Feltrinelli, 1976
Punto di partenza del libro è la nascita di un bambino apparentemente sano, che viene poi definito subnormale, e la serie di difficili esperienze con le quali si trova a dover fare i conti la madre. La narrazione finisce per investire l’ampia gamma di problemi sociali affrontati da chi non vuole rassegnarsi. Il volume è un resoconto di esperienze che si intersecano: da una parte la situazione esistenziale di chi impara a cogliere i desideri e a scoprire la personalità di un bambino che la società rifiuta, dall’altra un’indagine sulle istituzioni che dovrebbero gestire l’assistenza e il recupero.

Robin White
Vivere con un figlio epilettico
Roma, Il Pensiero Scientifico, 1977
Il libro, attraverso il racconto del padre, ripercorre la vita del figlio, affetto da epilessia. Si tratta di un racconto drammatico, la forma di epilessia di Checkers è fra le più gravi e porta a un’evoluzione di tipo psicotico che ne ha reso necessario il ricovero in istituto. Ripercorrerne la storia è anche un modo per aiutare tutti quei genitori, e quei tecnici, che si trovano, spesso soli, ad affrontare tutti i problemi legati a questo deficit.

 

Storie e testimonianze fino al 1997

Daniela e Giangiacomo Carbonetti
Vivere con un figlio Down
Milano, FrancoAngeli, 1996
Questo libro è la storia di Guido e dei suoi genitori. Un percorso faticoso ma vitale a un tempo, fatto di ambivalenze emozionali, di speranze e momenti di crisi. Un viaggio alla scoperta di un figlio diverso, ma anche un’esplorazione dei sentimenti e delle emozioni che si muovono nell’animo dei genitori. “Ci è stato molto utile elaborare un’esperienza emotivamente e realisticamente così complessa, sforzarci di darle un senso, soffrire e gioire, progettare e verificare nella collaborazione ma anche nel conflitto e nella lotta […] Sarebbe peccato aver fatto tutto questo solo per noi stessi, e che l’impiego di tante energie non possa produrre qualcosa di utile anche ad altri”. Uno strumento per tutti coloro che vogliono capire cosa significhi avere un figlio disabile e per tutti coloro che sono impegnati a costruire dei progetti che aiutino a dare senso ai percorsi di vita dei loro utenti.
Il libro avrà un seguito (Mio figlio Down diventa grande, Milano, FrancoAngeli, 2004) e, raccontandoci il suo cammino verso l’età adulta, i suoi genitori offrono un prezioso contributo a quanti vogliono capire cosa significhi far crescere e lasciar crescere un figlio disabile, com’è l’esperienza di essere genitori di un giovane adulto con disabilità.
“Durante la stesura di questa seconda parte della nostra storia ci siamo accorti che si veniva delineando un ritratto di nostro figlio più completo, di una persona relativamente integra e abbastanza matura. L’accoglienza positiva che ha avuto il nostro primo libro […] ci ha rinnovato la voglia di comunicare agli altri la continuazione della storia di Guido e il valore delle esperienze di vita che abbiamo attraversato, come testimonianza di speranza, di gratificazione, e di possibile riscatto da una situazione iniziale dolorosa e sconvolgente”.

Maria Simona Bellini
Vestita di nuvole
Milano, Sperling & Kupfer, 1996
“Percorrere due volte lo stesso doloroso cammino non è stato piacevole. E io ho dovuto scavare nella memoria e rivivere, terribilmente e nuovamente, quel lancinante, intenso dolore. Mettere sulla carta le vicissitudini di mia figlia Letizia avrebbe inoltre significato quasi profanare una storia che in fondo non mi appartiene e violare consapevolmente l’intimità della mia famiglia, con la sua disperazione e la sua speranza. Solo quando mi sono resa conto di quanto la nostra esperienza potesse essere utile ad altri genitori, i ricordi sono riaffiorati”.
L’autrice ripercorre tutte le tappe dalla nascita della figlia alla diagnosi poi la crescita, la ricerca della guarigione e infine l’accettazione del deficit insieme a un faticoso cammino di riabilitazione.

Lorena Anderlini
La tua storia e la mia
Bologna, EDB, 1992
Quando nasce un bambino con deficit, un genitore può credere di dover perdere la sua storia, di doverla legare in maniera indissolubile alla vita di quel bambino, di dover dire la tua storia è la mia e che questo sia un dovere imposto dalle circostanze. Crede che quel bambino sia e debba essere dipendente dalle sue forze. L’autrice ci fa capire che si può arrivare a vivere la tua storia e la mia. La crescita del bimbo è conquista di autonomia ed educazione alla libertà, e anche la madre cresce allo stesso modo. Questa testimonianza può aiutare ciascuno a cercare il proprio modo di crescere.

Josep M. Espinàs
Il tuo nome è Olga
Milano, Mondadori, 1994
Le lettere alla figlia che Espinàs raccoglie in questo libro sono frutto di un’esigenza forte. “Questo è un libro che dovevo scrivere. L’ho scritto tutto d’un fiato, forse perché era l’unico modo per non lasciare spazio all’autocritica, ai dubbi, alla riflessione e, in definitiva, alla prudenza che poteva indurmi a rinunciare. Probabilmente non tutto ciò che dico in questo libro – su mia figlia Olga, mongoloide, su me stesso, gli altri e la vita – è vero in assoluto, tuttavia è ciò che penso e sento. Mi rendo conto, quindi, che sono pagine facilmente vulnerabili. Come ogni confessione pubblica. Con il passare degli anni ho maturato la convinzione che il rapporto tra Olga e me non fosse un fatto strettamente privato, e certamente la mia condizione di scrittore mi ha spinto a correre i rischio di superare la barriera”.

Giulia Basano
Storia di Nicola
Torino, Rosenberg & Sellier, 1987
“Ciò che ha più segnato la mia vita è stata l’adozione di Nicola. Aveva quattro anni quando è venuto con me […] Adesso ho deciso di scrivere, perché so che troppe madri, troppi padri provano quella disperazione sorda, intraducibile, che scaturisce dal sentirsi o essere realmente soli con un figlio diverso che non può vivere come gli altri. È un gesto, un piccolissimo gesto di solidarietà nei loro confronti, il tentativo di rompere il silenzio […] È un appello perché queste storie vengano sempre più raccontate, confrontate, perché non ci si chiuda in un ghetto, ma si abbia il coraggio di vivere in mezzo agli altri la propria sofferenza, con l’immensità dei valori che abbiamo dentro”.
Il libro sarà ripubblicato (Giulia Basano, Nicola un’adozione coraggiosa, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999), completato dal racconto degli ultimi anni, delle nuove conquiste di Nicola nel lavoro e nelle relazioni sociali, autonome e vivaci.

Marie-Louise Eberschweiler
Meb, pittore gioioso
Roma, Città Nuova, 1983
Dalla voce della madre, la storia di un ragazzo Down nato in un’epoca in cui ancora tale deficit veniva considerato una condanna ma che è riuscito invece a realizzarsi e ad avere una vita significativa. La madre prende la decisione di raccontare “la storia di mio figlio con i suoi alti e bassi – come pure la mia, quella di mio marito, degli altri nostri figli, poiché in una famiglia nulla è separabile – i nostri errori, i nostri scoraggiamenti, le nostre gioie. Altri genitori, nostri fratelli nella prova, vi ritroverebbero senza dubbio le loro lotte, le loro speranze e l’animo gioioso di uno di quei piccoli ai quali Dio si rivela, come dice il Vangelo, più che ai saggi e ai sapienti”.

Janine Chanteur
Giobbe, perché?
Assisi, Cittadella, 1992
“Questo libro è stato scritto su richiesta della mia amica […] Lei non desiderava una storia ma una testimonianza. Ho risposto a quanto si aspettava da me? Desiderava un aiuto per quelli che hanno vissuto sofferenze analoghe, e anche peggiori, perché ce ne sono di molto più terribili. È stato duro per me rituffarmi nel passato: guardare indietro ha risvegliato i vecchi demoni che io credevo addormentati…”
Attraverso un dialogo ideale con la figura biblica di Giobbe, l’autrice ripercorre la sua vita al fianco della figlia disabile, chiedendosi incessantemente “perché lei e non io? Chi aveva organizzato così minuziosamente l’ingiustizia dei destini? Avrei dato tutti i miei successi per la sua felicità, ma non c’era arbitro per garantire il baratto”.

Suzanne Mollo
Costruire Fabrizio
Bologna, EDB, 1985
“Fabrizio ricomincia ogni giorno […]È fuori del tempo che passa, ed è con tutto il tempo che ci è dato che bisogna costruire Fabrizio”. Direttamente dalla voce della madre, la storia dell’accettazione della disabilità del figlio e della conquista di una vita integrata.
“In questo libro non intendo raccontare la storia di mio figlio, e sarebbe come dire una parte della mia vita. Neppure intendo esorcizzare l’handicap attraverso la scrittura; il modo in cui io lo vivo non si può comunicare […] Un singolo caso può offrire la possibilità di scrivere parecchie altre storie dell’handicap, a seconda che la si consideri da un punto di vista medico, filosofico, sociologico, affettivo. Errore della natura, malattia della società, dramma intimista: tutti i valori, i comportamenti, le convinzioni più profonde vengono sconvolti dall’irruzione dell’handicap”.

Clara Claiborne Park
L’assedio
Roma, Astrolabio, 1982
Elly, quarta figlia di una bella famiglia intellettuale, è misteriosamente inaccessibile al mondo esterno. Nata in un’epoca in cui dell’autismo si sa poco o nulla, viene considerata incurabile ma la famiglia gioca tutte le sue carte per avvicinarla e abbattere le mura dietro le quali vive.
Vent’anni dopo, la Claiborne Park pubblica il seguito della storia di Elly (Via dal Nirvana,
Roma, Astrolabio, 2001) e dice “Jessy non può raccontare la propria storia da sola. Per quanto non sappia dire altro che la verità, e la sua memoria sia infallibile, sono io che devo raccontarla al suo posto, oggi come quando aveva otto anni. Ha imparato a leggere, ma non la leggerà mai. Una volta ero tanto ingenua da credere che sarebbe riuscita a farlo; quando scrissi la descrizione dei suoi primi otto anni, cambiai il suo nome in Elly perché non dovesse trovarsi in una situazione imbarazzante. Oggi so quanto sforzo le costi leggere, quanto sia parziale la sua comprensione, quanto dubbio il suo imbarazzo. So anche che non leggerebbe mai una storia del genere anche se ne fosse capace, e che non capirebbe perché sia valsa la pena di raccontarla. Perciò la posso raccontare liberamente, nella sua persistente stranezza e nella sua crescente e preziosa normalità, a mano a mano che Jessy entra sempre più, ma mai del tutto, nel mondo in cui tutti noi viviamo insieme”.

Alice Sturiale
Il libro di Alice
Milano, Rizzoli, 1997
Alice ha vissuto solo 12 anni e “sorrideva alla sfida, combatteva la sua battaglia, affrontava dubbi e frustrazioni con poche lacrime (ci mancherebbe) e con grande coraggio, serena e consapevole. Ha fatto sempre così […] Aveva il dono naturale di comunicare serenità e felicità. La prova è nei messaggi e nelle testimonianze che ha ricevuto in vita e dopo. Ci è sembrato giusto raccoglierle nel Libro di Alice perché raccontano la sua storia. È la storia di una persona che ha vissuto intensamente i suoi dodici anni, capace di maturare in modo creativo senza subire i propri limiti, anzi, trasformandoli in occasioni di crescita. Non tutti ci riusciamo”. Così la descrivono i suoi genitori che scelgono di ricordarla attraverso queste pagine in cui sono raccolti i suoi pensieri, le sue emozioni e i suoi momenti più belli.

 

Storie e testimonianze dal 1998

Fiorella Baldassarri
Due nuove stelle in cielo
Firenze, Polistampa, 2005
Perché si scrive? I motivi possono essere tanti ma dal diario accorato di questa mamma che ripercorre la brevissima vita della figlia emerge soprattutto il desiderio di averla ancora vicina, di ricordarla e conservarne la memoria anche per il fratello di poco più grande.

Maristella Martena
Un angelo in transito
Lecce, Piero Manni, 1998
Il racconto vuole essere la semplice testimonianza di uno scorcio di vita caratterizzato da eventi di gioia e di serenità pur nella sofferenza di una condizione dura da sopportare. Una storia in cui si dipanano varie fasi, prima di smarrimento, poi di accettazione consapevole di un figlio, della sua condizione di disabile e dell’impegno costante di un’intera famiglia perché lui potesse avere una vita quanto più possibile serena e tranquilla.

Paul Collins
Né giusto né sbagliato
Milano, Adelphi, 2005
Morgan ha quasi tre anni quando viene diagnosticato come autistico, Peter il ragazzo selvaggio di Hameln visse per più di settant’anni una vita tutta sua ma senza una diagnosi.
“L’autistico ha un diverso sistema di parametri – che non è né giusto né sbagliato. Mentre noi viviamo in un mondo fatto di tu e io, il bambino autistico vive esclusivamente nel mondo dell’io”. E così mentre cerca una relazione col proprio figlio (Morgan appunto), l’autore ci conduce in un viaggio affascinante alla scoperta di uomini del passato con caratteristiche del tutto particolari. Ma soprattutto si interroga sulla normalità e la buona riuscita chiedendosi il senso di un’integrazione che può portare a una grande sofferenza.

Charlotte Moore
George e Sam
Milano, Corbaccio, 2004
“Questi esseri misteriosi, impossibili, affascinanti, saranno sempre fra di noi, involontari termini di paragone per il nostro comportamento morale, sfida inconsapevole alla nostra definizione di che cosa significhi essere umani. Spetta a noi creare un posto per loro nel nostro mondo, un posto confortevole dove siano liberi di essere quello che sono”.
Come dice Nick Hornby nell’introduzione, la Moore “contrariamente a quello che credono alcuni genitori, è convinta che dentro ai suoi figli non sia imprigionato nessun bambino normale, in attesa di essere liberato. L’accettazione di questa realtà le permette di guardare i suoi bambini con amore e felicità, piuttosto che con amore e dispiacere, di osservare il loro comportamento con una gioia vincente, pur nella sua eccentricità […] E aggiunge che il libro “propone e, cosa ancor più impressionante, risponde a una serie di domande importanti che sono valide per tutti noi: fino a che punto siamo veramente preparati ad accogliere i nostri bambini? Siamo in grado di amarli così come sono? Se la nostra vita non è come ce l’aspettavamo, qual è il modo migliore di viverla?”.

Daniela Rossi
Il mondo delle cose senza nome
Roma, Fazi, 2004
“Quali suoni hai potuto ascoltare i primi mesi che abbiamo vissuto insieme? Parlavo, cantavo, inventavo nomi per le tue dita che si muovevano leggere come alghe, sceglievo musiche che accompagnassero i tuoi giochi. Più di un anno siamo andati avanti, io e il mondo, prima di scoprire il muro di vetro che ti circondava. Non era facile accorgersi di non poterti raggiungere […] Adesso so che nessuno più di te sa leggermi il cuore e che i bambini sordi non si accontentano di parole, anche se possono impararle tutte. La strada del tuo linguaggio è ancora lunga, ma ora che la disegni tu sembra davvero bellissima”.
Sotto forma di lettera al figlio sordo, l’autrice ripercorre la propria vicenda, raccontando di come ha saputo del deficit del suo bambino, dei numerosi viaggi e delle tante visite alla ricerca di soluzioni, delle persone che incontra, medici, insegnanti, specialisti, non sempre figure positive, ma soprattutto raccontando le fatiche e le gioie di essere mamma.

Carlo Hanau, Daniela Mariani Cerati (a cura di)
Il nostro autismo quotidiano
Trento, Erickson, 2003
“Autismo non è solo sofferenza e dolore. Autismo, per i genitori, è stanchezza, fisica e psichica, è sistema nervoso logoro, è accettazione di qualcosa che ancora nessuno è stato in grado di spiegarci, è come essere una macchinetta che viaggia con il freno a mano costantemente tirato, è speranza che quel freno non si rompa mai. Ma è anche accontentarsi del nulla in un mondo che non si accontenta più. È riuscire a tagliare le unghie a tuo figlio senza aspettare che dorma. È insegnarli, giorno dopo giorno, a lavarsi i denti da solo, massaggiandogli le gengive una frazione di secondo in più, ogni giorno che passa. È chiedergli, quando va a dormire: “Federico è un bambino normale o un bambino speciale?” e sentirsi rispondere: “Speciale”, forse solo perché ti piace il suono di quella parola che racchiude l’essenza della sua meravigliosa vita”.
Molto è stato scritto sulle teorie e gli approcci all’autismo. Un aspetto meno conosciuto è quello della vita quotidiana e concreta, fatta di faticose realtà di tutti i giorni e soprattutto di persone prima che di diagnosi. È questa dimensione che ci viene qui presentata attraverso storie di genitori e dei loro bambini autistici.

Laura Jaffè
Max è importante
Milano, TEA, 2000
“Sei handicappato. Non è poi così drammatico, finché tuo padre e io siamo felici con te. Finché siamo fieri di te, dei tuoi minimi progressi, come lo sarebbe qualunque altro genitore. Talvolta, però, questa realtà è estremamente dolorosa. Come una sorta di malattia cronica contratta assieme a te al momento della tua nascita. Qualcosa di molto strano, ma di una stranezza sospetta. Quando la gente ci guarda troppo, per strada, nei negozi, sull’autobus, al parco, mi sento handicappata anch’io. Quando gli altri, i cosiddetti normali, ci scrutano con insistenza mi sento giudicata, in colpa. Ma anche vittima di un rimprovero non formulato. Se tu sei a-normale agli occhi dei passanti, dei negozianti, degli sconosciuti, di chi ti scruta, ti compatisce, ti disprezza o s’impietosisce, significa che io non sono in grado di condurti verso la normalità? Che cosa pensano? Che cosa immaginano? Che giudizio si fanno? Che sono una cattiva madre? Che sei un bambino sbagliato? Non si rendono conto che sei semplicemente un bambino? Prima di tutto un bambino? Un bel bambino?”.
L’autrice, in un’alternanza di capitoli, racconta in prima persona e dà la voce che non ha al suo secondogenito, in un lungo e toccante percorso di fatiche, gioie e condivisione.

Fiammetta Colapaoli
A mia discolpa
Tirrenia (PI), Del Cerro, 2004
Il libro raccoglie la testimonianza di una madre che, insieme alla sua famiglia, ha condiviso il particolare percorso di vita del figlio, affetto dalla sindrome del x fragile e che dice “questo diario a posteriori, scaturito da un intimo e forte impulso a superare il mio sentirmi inadeguata, mi ha permesso di capire e di accettare. La speranza è che altri capiscano e accettino”.
Come sottolinea Canevaro nell’introduzione, “Fiammetta ha bisogno di essere ascoltata, ha la necessità che la sua parola venga accolta da qualcuno. L’essere arrivata a scrivere può essere un elemento positivo ma anche negativo. Positivo perché ha voluto, generosamente e giustamente, mettere a disposizione una riflessione maggiore che non quella della parola emotiva: la parola scritta raccoglie sì le emozioni, ma impegna a rielaborarle, a riviverle, forse anche a correggerle. Negativo, ma che può diventare positivo – e che ci fa ricollegare il racconto di Fiammetta ad alcuni scritti di sopravvissuti dei campi di sterminio – perché rivela la sua difficoltà a trovare ‘l’interlocutore dialogante’ e quindi il suo rivolgersi ai lettori nasconde la speranza che fra questi ci sia qualcuno che diventi dialogante”.

Milena Portolani, Luigi Vittorio Berlini
È Francesc@ e basta
Molfetta (BA), La Meridiana, 1998
Il libro racconta una storia vera di amicizia nata grazie a un fitto scambio di e-mail.
Luigi Vittorio, educatore, e Milena, mamma di una bambina con sindrome di Down, discutono di disabilità e di molto altro ancora. E Milena dice che “grazie a questa esperienza, ho capito che c’è un tempo per ogni cosa, che chi ha l’opportunità di vivere la Vita e sa cogliere quello che ci riserva nel bene e nel male, cercando di trarne insegnamento, allora quella vita non l’ha sprecata. Mi piacerebbe che chiunque leggesse questa raccolta di lettere, ne traesse speranza, specialmente tutte quelle persone che soffrono nella solitudine. So benissimo che quando si soffre è difficile, anzi è raro, trovare qualcuno capace di ascoltare senza pietismi e senza condizioni. A me è successo. Sono riuscita a risalire la china della disperazione trovando, non so dove, la forza di raccontarmi a uno sconosciuto […] La cosa più bella che la Vita ci riserva è l’essenza che sappiamo trarre da ogni esperienza, dolorosa o felice che sia”.

Autori Vari
Come pinguini nel deserto
Tirrenia (PI), Del Cerro, 2005
La nascita di un bambino Down, le indagini prenatali, le dinamiche familiari e la vita di coppia, la gente, la scuola, i fratelli… Sono i temi che il libro affronta attraverso “storie personali variegate e caratterizzate da atteggiamenti spesso in apparenza contrastanti, frutto di un travaglio interiore fatto di gioia e dolore, preoccupazione e speranza, rifiuto e accettazione”. Così come il libro merita di essere letto con attenzione, merita di essere raccontato anche come è nato, come ricorda l’introduzione: “Alex, il fratello maggiore di un ragazzo di venticinque anni con sindrome di Down, ebbe l’idea di creare su Internet un sito dedicato a questa disabilità intellettiva […] che si è subito trasformato, da una delle fonti dove poter attingere informazioni sulla sindrome di Down, in un luogo virtuale dove condividere esperienze e soprattutto sentimenti, in un caffè virtuale sempre frequentato dove scambiare quattro chiacchiere fra amici, in un luogo informale insomma dove ci si può raccontare senza paura di essere giudicati e dove aprendosi alla condivisione del proprio vissuto si può scoprire di non essere soli a camminare in quel modo un po’ goffo e apparentemente fuori luogo, in un mondo apparentemente ostile in cui ci si sente un po’ come pinguini nel deserto.