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Autore: admin

Un fatto linguistico e culturale

Affrontare un discorso sulla riabilitazione significa in primo luogo affrontare un problema di tipo linguistico e culturale. A seconda dei contesti istituzionali nei quali è utilizzata essa assume significati diversi. Si pensi ad esempio ai servizi per la tossicodipendenza oppure sanitari: qui la riabilitazione ha un significato esclusivamente legato al recupero organico e funzionale nell’ambito di una terapia, là ha un significato legato a un percorso di recupero sociale e in un certo senso anche moraleDa un punto di vista generale, il principio riabilitativo presuppone un danno da riparare e in questo senso la parentela con il terapeutico è forte perché, se anche non aspira totalmente alla guarigione, consente di pensare a un miglioramento funzionale e, allargandosi, a un maggior recupero possibile di abilità e competenze motorie, cognitive, relazionali. Questa accezione è facilmente applicabile ai contesti socioeducativi, nei quali l’idea di valorizzare le risorse residue di soggetti con deficit di diversa natura è una pratica consolidata.
Il sempre maggiore utilizzo di questo termine nelle istituzioni che si occupano di aiuto alla persona è però anche preoccupante. Se infatti la riabilitazione è inequivocabilmente legata al recupero di una abilità perduta, può apparire improprio il suo utilizzo in ambiti nei quali si interviene su soggetti che certe abilità a monte non le hanno mai avute. Il percorso educativo è esattamente quello che cerca di costruire competenze personali e relazionali al di là di qualsiasi possibile danno, in un certo senso partendo e prescindendo dai limiti del danno stesso e soprattutto non identificando la persona con il danno. E’ un approccio che non mira al recupero di parametri di salute e normalità che negano la diversità della persona e della sua dignità, ma cerca di edificare condizioni sociali ed esistenziali nel segno dello sviluppo, dell’identità, dell’autonomia, del rispetto.

Quale normalità?

In realtà quando si esce dall’ambito squisitamente sanitario, nel quale l’utilizzo della parola appare assolutamente corretto, e si entra in altri i cui paradigmi di riferimento gravitano attorno al socio educativo, il suo uso è ambiguo. Da un punto di vista culturale sembra quasi che la riabilitazione sia un concetto in prestito venuto in aiuto alla pratica educativa, la cui epistemologia debole e socialmente poco riconosciuta poteva e doveva dotarsi di strumenti e parole, quali la riabilitazione appunto, a forte carica simbolica per il carattere tecnico e per l’idea di recupero che sottende. Pare che questa società proprio non ce la faccia a non porsi l’obiettivo di recuperare i propri figli malati. Ma sono proprio tutti malati? Recuperarli a cosa? A quale normalità? Quella produttiva?
Discorso ideologico questo, anch’esso ambiguo. Ogni persona ha la necessità di essere socialmente abilitata e riabilitata, pena la sua emarginazione dal corpo sociale.
L’aspetto tecnico della riabilitazione è molto rassicurante. Come tutti i bagagli tecnologici, sembra dotare chi la possiede di un ruolo chiaro perché fondato su una rappresentazione di un proprio corredo epistemologico preciso, che consente di definire un potere (di ruolo) legato a un sapere. E’ l’illusione di molti educatori che ai corsi di formazione e aggiornamento chiedono instancabilmente metodi e strumenti tecnici per svolgere il proprio lavoro. D’altra parte, quando si parla di tecnica si parla di anche di strumenti che permettono una decisa distanza relazionale. Vi è la necessità di difendersi dai vincoli con gli utenti. Evidentemente il ruolo, il progetto e il lavoro di gruppo non bastano o sono insufficienti per gli educatori a garantire quel controllo della relazione che tutela l’intenzionalità del cambiamento, e al tempo stesso i materiali della quotidianità, il corpo, i contesti informali e formali delle attività non sembrano essere un bagaglio strumentale decisivo nell’ambito dell’azione educativa, tali da non garantire una professionalità sicura e riconosciuta. Da questo punto di vista, vi è ancora molto da fare per fondare una identità di ruolo educativa che rivendichi il proprio sapere e la propria dignità professionale nei diversi contesti istituzionali e rispetto ad altri ruoli dal forte potere sociale ed epistemologico.

La valenza ideologica e culturale

Al di là del fatto che qualunque tecnica o metodo riabilitativo è sempre utile quando produce miglioramenti e non diventa un capestro esistenziale per i soggetti a cui e applicata, e dunque è una risorsa enorme nel panorama terapeutico ed educativo che connota le relazioni di aiuto, credo sia importante non dare per scontata la relatività epistemologica dalla riabilitazione nei campi in cui agisce. In altri termini, si tratta di sottolinearne la valenza ideologica e culturale in una società iperspecialistica e terapeutica e che tende a riconoscere scarso valore all’educazione. Il rischio di tecnicizzare la relazione educativa, sottovalutandone i centrali aspetti affettivi come primo motore del cambiamento, può andare nella direzione di sottrarre ulteriore dignità alle opportunità educative che fondano la loro specificità proprio sulla costruzione di relazioni e contesti intenzionalmente giocati sui concetti della condivisione, dell’appartenenza, dell’identificazione e insieme della differenziazione, in setting informali, quotidiani, comunitari. Insieme, il rischio è di distrarre l’attenzione dalla valenza etica e politica che l’educazione porta sempre con sè nelle relazioni e nei contesti istituzionali e comunitari in cui opera.

Riabilitar e trasumanar

Riabilitare soggetti svantaggiati nel nostro ordine sociale, già di per se’ alienante, non è semplice. Il paradosso di una metodologia riabilitativa nella riappropriazione della normalità, tra emancipazione dall’handicap ed obbligo all’omologazione. Intervista a Massimo Manferdini, educatore presso il Polo Handicap del Quartiere Borgo-Reno di BolognaChe cos’è per te la riabilitazione?
La prima cosa che mi viene in mente è chiarire cosa significa essere abili: a quanto ne so potrebbe essere la misura di una compatibilità con l’ordine sociale in senso lato. Penso che anche tutte le riabilitazioni di tipo fisioterapeutico oppure psichiatrico debbano avere questo fine. Mi viene da pensare che la riabilitazione sia un tentativo di creare delle opportunità affinché soggetti con difficoltà varie riescano a convivere con questo ordine sociale.

Dì qualcosa di questo ordine sociale.
L’essere abili è un problema generale, non solo degli handicappati: è un problema di tutti, perché convivere con una società così, con una quota di alienazione così grande non è semplice. L’aspetto che mi colpisce è questo, dell’alienazione, dell’essere separati un po’ dalla propria vita, e un po’ dal momento presente: per esempio, ci sono persone che vivono di film o di telenovelas, e la loro vita è completamente proiettata dentro queste strutture. Il paradosso diventa quello che non c’è interesse o coinvolgimento per le relazioni reali che li circondano. Questa è una forma di alienazione molto grande perché determina un contesto dove tutto concorre a separare la persona dalla sua esistenza e dal momento presente, spingendola a fantasticare ad avere sempre nuovi desideri da rincorrere e da soddisfare oppure inducendo a nostalgie verso un passato ormai addomesticato. In questo contesto essere abili a convivere in una società di questo tipo può presentare dei rischi anche grossi: nello stesso tempo c’è una tendenza sempre più grande (per esempio in autori come Redfield, La Profezia di Celestino) c’è una tendenza forte ma non troppo appariscente ad occuparsi della propria esistenza alla ricerca di un significato più profondo che non sia il far soldi o lo star bene, c’è un po’ di tutto.

C’è una specificità di questo problema nell’handicap?
Penso che ci sia, nel senso che ci troviamo a che fare con difficoltà particolari, anche se non è detto che queste difficoltà particolari siano sempre un ostacolo; tutti hanno difficoltà particolari, la peculiarità esiste, ma esiste per tutti, con gradi diversi in termini di gravità. Secondo me, il problema per tutti è di riuscire a non fantasticare, ad abitare il presente e a rimanere in contatto con la propria esistenza, è una cosa molto difficile che non tanti fanno, c’è la specificità, ma non è diversa da tante altre specificità.

Sono molto d’accordo con te sul fatto che ci sia un problema di abilità non scontata a vivere nel nostro mondo, e che questo problema sia di tutti. Vorrei, però, che ora tu facessi lo sforzo di qualificare in che cosa può consistere la specificità di questo problema nell’handicap, soprattutto in relazione alla tua esperienza.
L’esperienza di lavoro presso un centro diurno mi ha convinto che la riabilitazione richiesta a strutture come quella, che storicamente avrebbero dovuto rimediare ai guai combinati dall’istituzionalizzazione, finisce sostanzialmente per essere la richiesta di tenere lì delle persone non facilmente inseribili nell’ordine sociale, e tenerle lì senza dar troppo fastidio, non facendo troppi sforzi perché partecipino alla vita quotidiana. Di fatto la richiesta sociale si riduce a questo: l’esperienza mia è stata di reagire a questa richiesta sociale, non tanto per spirito di reazione, ma perché l’esigenza di queste persone era di non far parte di un ghetto, di avere una vita che comprendesse più contesti, non solo casa-centro, ma anche cinema, osterie, pizzerie, biblioteche, centri sociali, barbiere, negozi di abbigliamento, eccetera. Nonostante tutto, questo sforzo è minato alla base da come è strutturato il centro, nel senso che è una struttura dove l’handicappato va tutto il giorno, che non ha funzioni istruttive, e le funzioni educative gli sono riconosciute soprattutto sulla carta; di fatto la richiesta sociale non è quella di una maggiore autonomia di vita, ma semplicemente “tenetevi questi personaggi scomodi, prendetevene cura nel modo migliore, ma affari vostri, senza darci fastidio”.
La riabilitazione era una impegno che il centro assumeva come suo impegno, certamente non una richiesta, nemmeno dalla Usl.
Il lavoro qui è una cosa complicata, perché il lavoro è più vario e con più utenti: se penso ai gruppi pomeridiani oppure a tutta una serie di casi di interventi individuali, mi pare che lo sforzo sia quello di dare possibilità e opportunità che diversamente non ci sarebbero, come, banalmente, l’accesso a un certo negozio, o a uno spettacolo, o la possibilità di riflettere su proprie esperienze esistenziali insieme ad altri. Lo sforzo è quello di garantire queste opportunità: in un certo senso questo riabilita. Probabilmente sarebbero utili anche figure di operatori sociali che facessero questo tipo di proposte anche a persone non handicappate.

Torniamo un attimo indietro e insisto sulla specificità nell’handicap. Cosa pensi dell’idea che la specificità del problema nell’handicap sia la sua forma paradossale? Nell’handicap c’è in un primo tempo il desiderio, la necessità di appropriarsi e di partecipare ad una normalità, a un ordine sociale dai quali si è emarginati, esclusi, alienati, per poi potersene emancipare, emancipandosi quindi anche dall’obbligo alla omologazione che è della nostra cultura (è un po’ l’analisi che Pasolini faceva del sottoproletariato delle periferie delle grandi città italiane, in opposizione alla borghesia).
Si tratta di una specificità che in realtà è generalizzabile ad altre situazioni, alla malattia mentale, agli immigrati provenienti da paesi poveri, alla tossicodipendenza, fatte le dovute differenze.
Penso che questo paradosso esista, che sia un prezzo da pagare nella riabilitazione degli handicappati, e in questo gioco non bisognerebbe perdere in termini di contatto con la propria vita, un contatto che molti altri non hanno.

Qui ritorna una cosa che dicevi en passant prima, e che volevo riprendere: non sempre l’handicap, o le difficoltà particolari, sono un ostacolo. Anzi sembrava che tu volessi dire che condizioni esistenziali particolari è come se spingessero sia chi le porta sia chi gli sta vicino ad una ulteriore ricerca, ad una ulteriore spinta alla crescita.
Sì, per la distanza dagli stereotipi: più sei distante dagli stereotipi culturali e più devi cercare. E poi dov’è una difficoltà e un limite, lì c’è anche una forza per superare quel limite. Questa è l’esperienza mia, nel senso che la difficoltà è nello stare in presenza di questa difficoltà particolare, che può essere un handicap o un’altra cosa, riuscire a starci insieme, abitando con queste difficoltà. L’handicappato come qualsiasi persona può trovare una strada…anzi ha di fronte il vero, non il verosimile e già questa è una cosa che non va perduta. Non bisogna gettare il bambino con l’acqua sporca.

Ho la sensazione che questo tipo di ragionamento incida fortemente sul posto che il Metodo e la Metodologia hanno nel nostro lavoro, perché metodo significa serie di passaggi definiti e ordinati, orientati a un certo risultato: il cosiddetto “come si fa”. Nel nostro caso il lavoro di abilitazione o riabilitazione ha a che fare con un paradosso e con l’attribuzione di un certo significato al vissuto del limite, e ad una appropriazione del presente, e quindi del possibile, ma non di un oggetto definito e stabile. Come si configura, e dove si configura, secondo te, una metodologia riabilitativa che parta da questi assunti?
La risposta sta già un po’ nella domanda: se metodo ci può essere, è un metodo per compiere la prima parte, che è quella che attiene all’ordine del verosimile. Ci può essere metodo nel percorso di riappropriazione della normalità, nel rientrare. Per questo è possibile un metodo, ovvero immaginarsi una serie di passaggi successivi di acquisizione di competenze sociali, o di possibilità di movimento, oppure di capacità relazionali in senso stretto.
Per la seconda parte del percorso, che è quella che precede la prima, perché è la condizione di fatto, la condizione di handicap, ma anche la disarmonia col mondo che riguarda tutti, per quella che è attinente all’ordine del vero, il metodo non c’è. Ci possono essere delle intenzioni dei propositi, dei punti di partenza. Sono itinerari su una carta che sappiamo che potranno cambiare e non sappiamo come. E’ la prospettiva della ricerca, che non ha metodo: l’errore ha la stessa radice dell’errare, il metodo esiste ma viene costruito passo per passo, il metodo è non aver metodo. Per cui è possibile, è necessario ipotizzare un percorso strutturato metodologicamente per rientrare nella normalità, ma per l’altra parte…Comunque anche solo la riconquista della normalità è una cosa non disprezzabile!

Così ci siamo avvicinati agli aspetti operativi, in cosa consiste la tua pratica di riabilitazione?
Soprattutto la relazione, è lo strumento principale. Tra l’altro questi due momenti del paradosso che abbiamo descritto sono compresenti nel lavoro di riabilitazione, come giustamente nei paradossi. Da un lato l’aspetto normalizzante, per esempio nella visione dei film, che sta nel progetto che conduciamo a Bologna in via Podgora, al Circolo Pinguino Blu; c’è l’aspetto stereotipato, la presa di contatto con le richieste sociali dominanti insieme alla presa di contatto con la verità delle esperienze personali, dei vissuti esperienziali. Come sempre è così, aveva ragione Simon Weil: questa distinzione tra il piano del verosimile e il piano del vero non è possibile, sono mescolati e quindi è attraverso la discussione, il confronto, la relazione nel senso più ampio, su ciò che vediamo assieme da un lato, e sui comportamenti concreti dei ragazzi e i miei dall’altro, che cerchiamo di renderci abili a esistere…garantire a una persona un’intervento individuale di un educatore può essere l’opportunità che gli permette di riappropriarsi di spazi sociali di tutti , anche di cose molto semplici, anche di qui parte una metodologia di questo tipo, che poi per ogni persona ha le sue specificità (certi posti piuttosto che altri, certe cose, in relazione alla configurazione familiare, per esempio, cercando non risolvere problemi ma di stare nei problemi, stare in presenza dei problemi…
Il termine “problema” mi viene poi dalla impostazione metodologica del problem solving, che è un metodo che è inadatto al nostro lavoro, (è adatto per la prima parte, per la riconquista della normalità), ed è completamente inadatto per la seconda parte, per il contatto con il vero. Non c’è nessun problema da risolvere in questo orizzonte. Anche sul lato dell’educazione è la stessa cosa: per la prima parte ci può essere metodo, scienza, campo d’indagine, obiettivi anche se non in senso stretto, ma nel senso di attese di cambiamento comportamentale ma nella seconda parte, che è l’aspetto più esistenziale, davvero si tratta di un orizzonte di senso, e non di un insieme o di pratiche o passaggi successivi per arrivare a un fine… Mi ricordo un passaggio di Benjamin che mi è rimasto impresso, forse dal libro sul dramma barocco tedesco, in cui lui parla del rapporto tra ricerca e verità dove lui dice radicalmente che non ci può essere ricerca della verità e che la verità è sempre qualcosa che sorprende la direzione nella quale stai andando, cambia, non la puoi prevedere. La ricerca non è un procedimento ordinato per prove ed errori, ma un atteggiamento, una educazione dello sguardo, guardare in una certa direzione e aspettare. Se uno si educa all’attenzione quando la cosa è vera e si mostra la vedi, se no… non c’è altro.
In conclusione possiamo dire che concretamente il tempo della riabilitazione può essere occupato per rientrare o riconquistare gli spazi di normalità, il più possibile, però mantenendo viva l’attenzione non tanto a questo piano, non tanto alla verosimiglianza, ma alla verità, a cogliere gli elementi di verità che pure in questo percorso emergeranno. Anche se emergessero la paura, l’amore, la passione per l’altro, che è una passione paradossale, perché si va a cercare qualcosa che ti disconferma, e nello stesso tempo si sperimenta una forza che ti consente di sostenerla.

L’acqua calda

“Se un medico cura le malattie può fallire o avere successo, se invece cura i pazienti ha sempre successo”. E’ una frase del Dottor Patch Adams, protagonista del film omonimo, interpretato da Robin Williams. Scopriamo l’acqua calda o è un uovo di Colombo? Eppure, specialmente in ambito educativo o riabilitativo, ma non solo, qualche volta scoprire l’acqua calda è la cosa meno banale da fare.
Ridere in corsia fa bene? Banale: ci accorgiamo, dentro di noi, di averlo sempre saputo. Eppure se ci sono dei luoghi abbandonati dal sorriso e intrisi di grigiore, sono proprio gli ospedali o i centri di riabilitazione.
La fiducia aiuta lo sviluppo di un bambino. Ovvio. Eppure la famiglia, luogo della fiducia per eccellenza, raramente viene coinvolta nel processo di riabilitazione. Perfino in ambito scolastico la collaborazione con la famiglia molto spesso è tabù. Quella che Riziero Zucchi chiama la pedagogia della mammetta, che va riscoperta, che ha delle basi scientifiche, che ha delle risorse proprie, viene sfruttata pochissimo.
La riabilitazione deve partire su una base comunitaria, formando i volontari e le famiglie, che sono le prime risorse per un disabile. E’ chiaro come il sole. Eppure nei paesi in via di sviluppo, dove spesso il sole batte forte, per molti anni si è pensato di risolvere i problemi unicamente impiantando ospedali, portando un approccio tecnico e specialistico. Un approccio che poi ha favorito la delega a pochi, tipico meccanismo del colonialismo. Per fortuna, dalla metà degli anni ’80, il progetto Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC), voluto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in collaborazione con varie ONG, , sta portando i suoi frutti in tutto il mondo. Vien da dire fuorché nel nostro, perché leggendo (anche alla luce dell’intervista a Marco Grana) l’articolo di Brian O’Toole, sono molte le ragioni per guardare a sud. E’ l’ultimo articolo, quello della sezione “ai confini della riabilitazione”, che per questo numero si dovrebbe chiamare la riabilitazione senza confini.
Acqua calda o uovo di Colombo? Per dir la verità, noi di HP, che diffidiamo sempre dei sensazionalismi, preferiamo l’acqua calda. Al limite è bene diffidare anche dei detti e proverbi, perché come diceva mia Zia Teresina: “I veci ne ga magnà i schei e ne ga assà i proverbi” (I vecchi ci hanno mangiato i soldi e ci hanno lasciato i proverbi).

Una vacanza a misura di…

Tour operator, associazioni, gruppi parrocchiali e gruppi informali di volontariato, ecco chi organizza le vacanze per disabili in Italia, un settore che stenta a decollare per motivi economici e culturali. Una serie di interviste ad operatori del settoreIn questi ultimi anni alcuni tour operator hanno aperto strutture interne dedicate al turismo per disabili; ma verificandone l’attività nel corso del tempo si nota come queste iniziative non durino mai molto e quando si domanda il perché di questa fragilità ai responsabili dell’organizzazione le risposte sono molto simili: “Il settore non rende, se un disabile vuole viaggiare e meglio che si organizzi da solo, telefonando alla proloco locale e all’ente del turismo del luogo dove vuole andare, là raccoglierà tutte le informazioni necessarie”.

Mondo Possibile

“Difficilmente un tour operator in Italia si specializza nell’offerta di servizi turistici ad una clientela disabile – dice Massimo Micotti, responsabile di Mondo Possibile – non c’è un mercato abbastanza appetibile”. Lui però lo sta facendo già da alcuni anni con Mondo Possibile, una sezione interna della Promotour di Torino (p.zza Pitagora, 011/309.63.63). I motivi per cui è difficile lavorare in questo settore sono vari.
Da un lato il disabile italiano, mediamente, non ha molti soldi da spendere per il turismo, ma deve far fronte a delle spese molto più immediate, come l’acquisto di ausili, di medicine, di servizi per il trasporto… e per far fronte a tutte queste esigenze la pensione di invalidità e l’indennità di accompagnamento non sono sufficienti.
Dall’altro, e in conseguenza anche di questo, i disabili e i loro famigliari tendono ad autorganizzarsi e a rivolgersi alle rispettive associazioni di sostegno per far fronte a questo genere di bisogni. Così i “distrofici” vanno via con le vacanze organizzate dalla UILDM, i disabili mentali con l’ANFFAS così via.
“ Di solito sono vacanze – afferma Massimo Micotti – organizzate in modo familiare che si appoggiano sull’opera volontaria, che scelgono la pensione a gestione famigliare piuttosto che l’hotel, che scelgono il pullman come mezzo di trasporto. E’ un turismo senza pretese che non utilizza strutture di qualità; tutto questo naturalmente per risparmiare, per non gravare con spese economiche poco sostenibili da parte del disabile e delle loro famiglie”.
E’ con l’estero invece che lavora molto Mondo Possibile, i disabili stranieri hanno in genere più soldi da spendere per questo e molte segnalazioni sono raccolte dal sito web del gruppo che viene visitato da molti stranieri ((www.tour-web.com/mondopossibile).
“Noi vogliamo offrire ai disabili – continua Micotti , spiegando la filosofia di fondo dell’iniziativa – le stesse opportunità di vacanza che offriamo ad un normodotato; lavoriamo come una normale agenzia di viaggi specializzata in questo settore. Forniamo tutti i servizi logistici possibili per venire incontro a delle esigenze particolari. Certo, se organizziamo una vacanza in Vietnam, poi i nostri clienti non si possono aspettare di trovare gli alberghi perfettamente a norma – in Vietnam non esistono alberghi a norma! – ma devono avere anche un certo spirito di adattamento, cosa che si richiede anche ad un normodotato in certe particolari situazioni”.

Fattori economici ed culturali

Non solo il fattore economico, ma anche quello culturale gioca in questa situazione; “Un disabile tedesco non è uguale ad uno italiano quando si tratta di andare in vacanza – sostiene Stefania Marson della Viaggeria (via Lemonia 161, Roma, 06/715.829.45) – quello tedesco è più intraprendente, si adatta più facilmente a situazioni spartane”.
La Viaggeria nasce dall’idea di un gruppo di quattro amici interessati al tema della disabilità; qualcuno di loro aveva anche una professionalità da spendere nel settore turistico e così è nata questa iniziativa che si è specializzata, all’inizio, nell’organizzazione di viaggi per gruppi di disabili sportivi che avevano la necessità di pianificare bene le lo trasferte. “Anche se rimane un nostro ambito privilegiato – dice Marson – ora organizziamo vacanze ‘normali’, al mare, montagna e, in collaborazione con agenzie straniere, anche verso le grandi città europee; quest’anno per la prima volta abbiamo anche pubblicato un opuscolo che mostra le nostre offerte [lo si può richiedere al numero soprariportato n.d.r.]. L’anno passato abbiamo fatto viaggiare circa un centinaio di persone disabili”.
E i prezzi? Quanto costa una vacanza per una persona che ha particolari esigenze nell’essere trasportato, nel dormire… Non è facile dare una risposta precisa, anche se è presumibile una maggiorazione nelle tariffe; dipende molto dove si va. Per Marson, “ Nei tragitti di medio raggio la differenza di prezzo non è diversa, varia se si vuole andare in posti esotici dove mancano le strutture per disabili”. In altre parole se in Perù l’unico albergo abbastanza accessibile è anche il più caro bisogna andare in quello visto che non c’è possibilità di scelta.

Ma per un disabile costa di più?

“La differenza di prezzo per i turisti disabili – sostiene Stefano Amati dell’AICS Turismo di Ferrara, via Cortebella 9, tel. 0532/20.9036 – si fa sentire anche nei mezzi di trasporto, la dove soprattutto mancano; mentre al nord Italia ceti servizi esistono già, al sud uno per averli deve rivolgersi ad un privato”.
Da questi nostri ragionamenti sui costi rimane fuori ogni calcolo sull’assistenza diretta del disabile; se un disabile ha bisogno di un assistente 24 ore su 24 è chiaro allora che il costo è destinato quasi a raddoppiare.
Stefanio Amati fa parte invece di un associazione nazionale (Associazione Italiana Cultura e Sport) che ha aperto un settore turistico. “Noi ci muoviamo su richiesta delle associazioni – dice Amati – oppure di singoli; ci rivolgiamo verso ogni tipo di disabiltà, ma soprattutto verso persone che hanno problemi di deambulazione; l’anno scorso abbiamo coinvolto circa 150 – 200 persone in viaggi diretti al mare, in montagna, verso alcune città europee”.
Non sono solo i tour operator professionali oppure le sezioni di associazioni operanti nel sociale ad organizzare questo tipo di vacanze; un disabile e i suoi famigliari possono contare anche su altre strutture che si basano sul volontariato, magari semplici gruppi parrocchiali o gruppi informali di amici, ogni anno, soprattutto nell’approssimarsi dell’estate sulle riviste che si rivolgono al mondo dell’associazionismo e del volontariato appaiono parecchi annunci di questo tipo.
Per chi invece, vuole fare qualcosa di completamente diverso da quello che fa nel corso dell’anno, può prendere in considerazione altre proposte, come quella della Tucano Viaggi Ricerca di Torino (via Bertolotti 2, tel. 011/561.70.61) che offre pacchetti di viaggio scontati per disabili e i loro eventuali accompagnatori verso mete lontane: la prima destinazione dell’iniziativa? La Tanzania.

Estati possibili

Tempo di estate, tempo di vacanze; questa associazione non è poi così immediata per i disabili e i loro famigliari che anzi si trovano ad affrontare un genere nuovo di problemi. Dove andare, con chi, come evitare le barriere architettoniche e come evitare dei costi troppo alti. Una serie di indicazioni sugli indirizzi utili dove informarsi e sull’utilizzo dei mezzi di trasporti.

Riforma del collocamento obbligatorio

I primi tentativi di riforma del collocamento obbligatorio risalgono al 1972: in venticinque anni sono state presentate decine di proposte di legge e sono stati formulati cinque testi unificati che sono sempre decaduti con le varie legislature.
La nuova normativa sostituirà finalmente la ormai inadeguata e inapplicata legge n.482 del 1968.
Ricordiamo alcuni dati: gli invalidi disoccupati iscritti nelle liste sono 270 mila (ma quanti saranno “falsi” ?) dal 1982 ad oggi gli handicappati hanno perso oltre centomila posti di lavoro, le aziende private respingono l’80 per cento degli avviati agli uffici di collocamento.
Ecco perché l’approvazione del nuovo testo, che non è il migliore possibile, costituisce comunque un progresso.

Cosa dice la nuova legge

– Sono soggetti ad obbligo le aziende con almeno 15 dipendenti (attualmente si parte da 35) nelle seguenti percentuali:
da 15 a 35 1 disabile (solo in caso di nuove assunzioni)
da 36 a 50 2 disabili
oltre 50 7 per cento
– Il collocamento è mirato. Un apposito Comitato tecnico, in accordo con i servizi del territorio, valuta le reali capacità del lavoratore disabile e le caratteristiche dei posti disponibili, individuando percorsi personalizzati di inserimento, con agevolazioni per i datori di lavoro.
– Le assunzioni si effettuano nelle aziende private per chiamata nominativa nel 60 per cento dei casi. Per il restante 40 per cento la chiamata è numerica o, in alternativa, i datori di lavoro possono stipulare convenzioni per il collocamento mirato dei soggetti che presentino difficoltà di inserimento.
– Per i datori di lavoro che stipulano convenzioni per l’integrazione sono previste le seguenti agevolazioni:
esonero del pagamento degli oneri sociali per otto anni per i disabili con riduzione della capacità lavorativa superiore al 79 per cento;
esonero parziale del pagamento degli oneri sociali per cinque anni per i disabili con riduzione della capacità lavorativa tra il 67 e il 67 per cento;
rimborso della spesa nella misura del 50 per cento per l’adattamento del posto di lavoro.
– La fiscalizzazione totale degli oneri sociali per otto anni si applica sempre nei confronti di chi assume lavoratori con handicap intellettivo e psichico indipendentemente dal grado di invalidità.
– Per le agevolazioni sono stabiliti i seguenti finanziamenti: 40 miliardi per l’anno 1999 e 60 miliardi a decorrere dall’anno 2000. Le regioni inoltre istituiscono il Fondo Regionale per l’occupazione dei disabili (che viene alimentato dalle sanzioni) con lo scopo di potenziare l’inserimento lavorativo e i servizi relativi.
– La legge chiede meno ai datori di lavoro (l’aliquota passa infatti dal 15 al 7 per cento), ma è più rigorosa e, per chi non la rispetta, è prevista una sanzione di 100.000 lire al giorno per ogni posto non coperto e l’esclusione da gare d’appalto o da convenzioni con le pubbliche amministrazioni.
– Sanzioni non previste anche per i responsabili delle pubbliche amministrazioni.
– Nel pubblico impiego i disabili sono assunti sempre per chiamata numerica o per concorso o attraverso le convenzioni per il collocamento mirato.
– Tra i percorsi per il collocamento mirato è stato previsto il coinvolgimento delle cooperative sociali. Non è ammesso lo scambio: assunzione in cooperativa sociale in cambio di appalti; i datori di lavoro si impegnano comunque ad affidare commesse di lavoro. La procedura prevede l’assunzione del disabile da parte del datore di lavoro con comando a termine (due anni al massimo) a fini formativi presso la cooperativa sociale, fino al definitivo inserimento nell’azienda stessa. Prevede altresì la facoltà per le Regioni di attuare specifiche iniziative per promuovere l’inserimento anche nelle cooperative sociali.
– Il collocamento dei disabili (che verrà effettuato, in base al D.Lgs.469/97, non più dagli uffici periferici del Ministero del Lavoro ma dalle Province) deve avvenire in raccordo con i servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio per favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro.

Nuovi posti di lavoro e nuove difficoltà

Si stima che con questa legge si renderanno disponibili nel giro di due anni almeno 70 mila nuovi posti di lavoro (soprattutto per l’estensione alle piccole e medie imprese). Occorre però ricordare che il testo prevede l’entrata in vigore delle norme dopo dieci mesi dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Accanto alle valutazioni positive vi è la persistenza di alcuni dati negativi: La conservazione delle categorie giuridiche (con l’aggiunta tradizionale di orfani, vedove, profughi rimpatriati), la presenza e i privilegi delle associazioni storiche, pesantezze burocratiche applicative e normative, il rischio dell’istituzione di un mercato del lavoro protetto parallelo e sostitutivo di quello normale, alcuni ritardi culturali nella valutazione delle possibilità di inserimento dei disabili psichici e soprattutto il fatto che i disabili vengono ancora individuati “sulla base della riduzione della capacità lavorativa”.
Il testo rappresenta una soluzione di progresso e di compromesso, non facilmente gestibile.

A tutto campo

Questa ad Andrea Canevaro, è la prima di una serie di interviste fatte a persone note che operano nel campo del sociale. Una serie di domande che non riguardano un argomento in particolare ma che danno una visione a tutto campo del tema. Una chiacchierata non specialistica per guardare l’orizzonteAndrea Canevaro è uno dei tre professori di “pedagogia speciale” che esistono in Italia: Canevaro a Bologna, Montuschi a Roma, Smeriglio a Messina.. Solo tre, perché “di più sarebbe uno spreco di risorse” sembrano avere pensato i potenti organizzatori delle università italiane. Per questo deve girare l’Italia in lungo e in largo, correre a convegni, seminari. Valutare progetti, trovare il tempo per fare ricerca. E stare con gli studenti che frequentano il dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Bologna di cui è il direttore. Con lui volevo fare una chiacchierata a tutto campo poi, sfogliando gli appunti che mi sono rimasti sul blocco, ho visto che a tante questioni non siamo riusciti a dare risposta. Con Canevaro ho così parlato di scuola, di formazione, d’integrazione. Di tecnologie e di ricerca.

L’impressione è che l’handicap sia un tema che viene spesso vissuto come superato, o messo da parte. Questo vale sia per l’immagine esterna che hanno le persone handicappate, per l’integrazione, per la ricerca scientifica. E’ d’accordo?

In parte sì e in parte no. Ho impressione che ci sia sempre la necessità di fare diventare eclatanti le cose, di stagioni tormentate. Invece servono tempi lunghi: ad esempio non è vero che la ricerca si è fermata. Se seguiamo la stampa estera vediamo che c’è un maggiore equilibrio, c’è più scienza e meno cronaca. E non solo per parlare del campo delle biotecnologie, ma anche facendo molta attenzione a quelle che si chiamano “risorse neurali”. Lo studio di cellule matrici di altre cellule, la cui funzione è attiva per tutto l’arco della vita… E’ una ricerca che non ha ancora una applicazione pratica, ma va in tutt’altra direzione della “programmazione della specie” che ha come obiettivo la riduzione dell’handicap. Mi sembra una ricerca fruttuosa e interessante.

E le tecnologie?

Si lavora molto sugli ausili. Ad esempio mi viene in mente come si stia cercando di educare una struttura informatica a sottotitolare un film per le persone sorde. Alcuni tecnici sono al lavoro utilizzando sperimentalmente la pellicola di “Pinocchio”, e questo procedimento aiuta molto la comprensione. Ma c’è un problema: bisogna educare voce per voce fino ad arrivare alla costruzione di una “banca di voci” che permetta poi di selezionare quella più simile fino ad arrivare alla sottotitolazione vera e propria. Sono a buon punto.

Eppure le risorse messe a disposizione non sono tante.

Il lavoro sulle tecnologie aiuta la produzione per la vita standard, la vita di tutti i giorni. E rendere flessibili gli standard comporta anche la diminuzione della disabilità: la produzione speciale è più cara, quella standard costa molto meno.

Se guarda oltre il Duemila cosa vede?

Vedo un rischio soprattutto: quello che porterà alla divaricazione tra una parte del mondo e l’altra. Tra il nord e il sud: nel 2006, secondo dati Unicef, una parte del mondo vivrà una diminuzione di persone handicappate del 14%; l’altra parte del mondo avrà un aumento di handicappati del 47%.

E in Italia?

In Italia vedo invece passi avanti per quanto riguarda l’integrazione. Certo, sono più privilegiate le zone d’Italia che hanno maggiore capacità organizzativa, e per questo io credo che bisognerebbe estendere a tutto il Paese l’esperienza dei “poli handicap”. Strutture che seguono la persona handicappata lungo tutto l’arco della sua vita, e quindi anche in età adulta. Quando invece in tanti credono ancora che basti trovare un lavoro, un primo inserimento, per risolvere la questione. Non è così, basta un evento non previsto, la morte di un familiare, la perdita del posto, per tornare indietro di anni. Naturalmente molto conta anche la scuola, e quello che per gli handicappati è il sostegno.

Parliamo di scuola, allora. E partiamo proprio dal sostegno.

Credo che ci sia stata un’enfasi eccessiva verso l’integrazione scolastica. Intendendola come integrazione “tout court”. Il mio parere è che bisogna storicizzare il sostegno, e non limitarsi ad una mera affermazione del “diritto al sostegno”. Non dico che non sia stata un’esperienza importante, ma bisogna anche guardare avanti: utilizziamo le risorse che sono a disposizione del sostegno, sblocchiamo i bilanci e investiamo quei soldi per fare cose diverse, produrre anche “servizi leggeri” che utilizzano le risorse che ci sono. Perché chi porta un bisogno porta sempre anche una risorsa.

Cosa manca in classe? E fuori dalle aule?

Servono insegnanti specializzati che siano in qualche modo stabilizzati, e soprattutto legati e presenti su un determinato territorio. Poi, non dimentichiamolo, siamo ancora molto indietro con gli interventi di carattere strutturale. Ancora oggi è una eccezione trovare un bagno attrezzato nelle scuole dove non frequentano più bambini con handicap, la tendenza è quella di sbaraccare tutto appena il bambino cambia scuola, oppure realizzare strutture posticce, in legno, smontabili poi appena non vengono più richieste per quel bambino specifico.

L’istituzione scolastica sembra ancora fare acqua da molte parti.

L’integrazione deve entrare nei programmi, non dimenticando anche di valorizzare il sapere della lingua italiana per usare i vocaboli giusti, un linguaggio corretto. Leggo ancora su molti giornali la parola “Down” con la lettera minuscola. In pochi sanno che stanno parlando del dottor Down, un medico che visse nello stesso villaggio dove abitò per quarant’anni Darwin. E poi: chi sa che in Italia sono 800.000 le persone Down?

Questione di programmi, di indirizzi ministeriali. O no?

A scuola non si studiano queste cose e invece andrebbero inserite nei programmi di biologia, di fisiologia… Una cosa che mi da molta amarezza è che molti bambini dopo avere passato magari cinque anni in classe con un bambino Down, facendo una bella esperienza, non trovano altri termini per definire questo handicap che indicare il nome del loro caro compagno di scuola. Questo non mi basta proprio: la scuola deve trasmettere conoscenza, deve trasmettere sapere.

Oppure colpa della politica?

La politica risente molto della superficialità cui accennavo prima. porta visioni parziali che hanno poi scarsa efficacia. Ad esempio io credo che bisogna mettersi a lavorare molto sulle “professioni di aiuto”. Quando nasce un bambino si possono prevedere tutte le tappe che interesseranno la sua vita (il pediatra, la maestra, poi il dentista…): bene, se durante la sua vita va incontro ad un abbandono deve intervenire allora il Tribunale dei minori. Mi domando: sono preparate queste persone? queste professionalità ad intervenire su casi del genere? Si conoscono tra loro i vari soggetti che vengono mano a mano chiamati in causa? Credo che bisogna soprattutto intervenire aiutando, formando le persone che già hanno un ruolo specifico nelle tappe dello sviluppo di un bambino, di una persona.. Coordinandoli e dando loro strumenti adeguati per affrontare i casi più diversi. Non vedo altre strade.

L’handicap, oggi, passa spesso anche in tv. La sua opinione?

Faccio parte della commissione Rai sull’handicap e la cosa che più mi ha colpito è la tendenza dei dirigenti Rai a intervenire sull’handicap con quelle che loro chiamano “pillole”: interventi estemporanei, di qualche minuto, buttati dentro al maggior numero di trasmissioni televisive e interpretati da personaggi noti del mondo dello spettacolo. Non credo assolutamente a questo approccio, sono cose pericolosissime: non mi fido, non ho alcuna certezza che questi personaggi famosi possano dire cose sensate e costruttive. Questo è un processo di vendita, non di comprensione.

Una proposta?

Bisogna invece lavorare per fare programmi che permettano di sviluppare delle conoscenze. E gli spazi ci sono: penso a “Sereno variabile”, a “Quark”, a “Linea verde”… Servono meno dibattiti e più linee di comprensione. Stavo pensando ad un programma sulle invenzioni, tutte le invenzioni. Quasi sempre sono collegate alla riduzione dell’handicap.

Passi di speranza

Il programma di Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC) in Guyana si chiama Hopeful Steps (Passi di speranza); è iniziato nel 1986 ed oggi è operativo in cinque regioni del paese. E’ un esempio di come la riabilitazione si può collegare allo sviluppo di una regione. Ce ne parla il direttore del ProgrammaOtto anni fa un vicino di casa si presentò a casa mia chiedendomi se sapevo come poter aiutare sua figlia Nalini, gravemente handicappata. Conoscevo quella famiglia da anni, i nostri bambini giocavano assieme, ma non sapevo esistesse un’altra bambina che non usciva mai di casa. Abitavamo a pochi chilometri da un moderno centro di riabilitazione, il mio vicino lo aveva visitato in diverse occasioni, ma adesso la sua bambina era diventata troppo pesante da trasportare su e giù dai mezzi pubblici per arrivare alle strutture specializzate. Decidemmo quindi di andare insieme a vedere cosa si poteva fare per bambini come Nalini. Sapevamo che c’erano tanti bambini come Nalini in tutto il paese.
La sfida che si presenta alla riabilitazione nei prossimi anni può esser facilmente riassunta: in tutto il mondo, i genitori di bambini handicappati non hanno un aiuto sufficiente per quanto riguarda l’educazione, l’assistenza e la preparazione dei loro figli. I servizi esistenti coprono poco più del 2% dei bisogni. Nei paesi più poveri, dove si calcola che viva circa il 75% della popolazione disabile, spesso non esiste alcun tipo di assistenza. Le disabilità impongono notevoli costi sociali, economici ed emotivi per i disabili, le loro famiglie e la comunità. Senza un’efficace riabilitazione, i disabili saranno costretti a vivere una vita infelice e dipendente, diventando un peso per loro stessi e per la società.
Fino a quando continueranno ad esistere povertà, malnutrizione, ignoranza e superstizione, guerra e conflitti, anche il numero di disabili è destinato a crescere. La maggior parte di queste persone vivrà senza dignità, in assoluta povertà, vittime delle credenze secondo cui esse sono possedute da spiriti cattivi o sono una prova della punizione divina. E’, perciò urgente una radicale rivalutazione del concetto di personale, tipo di formazione e natura dei servizi offerti. La Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC) è un contributo al rinnovamento dei servizi, in modo particolare nel contesto dei paesi in via di sviluppo.

Primi passi

In risposta ad alcune delle sfide sopra menzionate, è stato realizzato un programma RBC in Guyana, nel Sud America. I1 progetto si chiama Hopeful Steps (Passi di speranza); è iniziato nel 1986 ed oggi è operativo in cinque regioni del paese.
In Guyana esiste solo una scuola specializzata, situata nella capitale, Georgetown, per i bambini con problemi di udito e disturbi mentali. Per essere ammessi alla scuola occorre mettersi in una lunga lista di attesa. Sempre nella capitale, esiste anche un centro per bambini con handicap fisici ed una Unità per Bambini con Disturbi Visivi, attigua ad una scuola ordinaria.
In due città nelle zone rurali si trovano due piccole unità, per l’assistenza a bambini disabili. La capitale, con circa il 23% della popolazione, offre il 90% dei servizi nel campo dell’educazione speciale. I bambini disabili, una volta ammessi nelle istituzioni, vi rimangono per diversi anni e con l’aumento della popolazione i posti diventano sempre meno disponibili. I1 grado di copertura della popolazione ed il tasso annuo di ammissione sono molto limitati. I1 rapporto personale?bambini è molto alto. In breve, quindi, notevole è il divario tra necessità e servizi disponibili.
Al fine di verificare il potenziale della filosofia della RBC, nel periodo 1986?1988 è stato realizzato un progetto pilota in due zone rurali della Guyana. In una zona con 4500 abitanti e stata condotta una indagine sistematica e si è scoperto che l,5% della popolazione infantile del villaggio necessitava di specifica assistenza a causa delle disabilità. I servizi disponibili però erano concentrati prevalentemente nelle principali aree urbane.
Prima di dare avvio al programma, si sono tenuti degli incontri fra il personale del Ministero dell’Istruzione ed il personale del Ministero della Sanità, gruppi di genitori, capi delle comunità e professionisti della riabilitazione. L’Institute of Adult and Continuing Education (IACE) (Istituto per l’Istruzione Continuata e degli Adulti) dell’Università della Guyana ha organizzato un corso di formazione. Il programma di RBC completa la filosofia dell’IACE, cioè raggiungere le comunità rurali ed aiutare gli abitanti dei villaggi a prendere parte attiva nel loro processo di sviluppo.
Una serie di programmi radio, articoli sui giornali e comunicazioni nelle scuole, nei negozi e nei luoghi di culto hanno preparato la comunità al progetto. Ad un pubblico incontro di presentazione del programma, tenutosi in una scuola di villaggio, hanno partecipato oltre 200 persone (la madre di Nalini era fra queste). Sessantasei persone hanno chiesto di seguire un corso di preparazione per poter lavorare come volontari per i bambini disabili e per le loro famiglie. Sin dall’inizio era stato specificato che si trattava di lavoro di volontariato, non di un impiego formale. Sono stati accettati 26 candidati, tutti con un background diverso, tra cui infermieri, insegnanti, impiegati, tecnici, studenti, casalinghe. Di fatto, erano tutte donne. Un quinto circa di loro aveva parenti disabili. Tutte vivevano in villaggi distanti fino a 16 km dalla capitale. Per oltre la metà di loro, il desiderio di servire la comunità ed un generale interesse per i bambini stava alla base della loro partecipazione. La maggioranza dei volontari guadagnava modesti salari, ed aveva famiglie numerose. Eppure, i volontari avevano subito capito di esser parte di qualcosa di importante e di provocatorio. Il progetto pilota perciò ha confermato che nel contesto della Guyana è veramente possibile trovare volontari in seno alla comunità che possano efficacemente esser preparati per offrire un servizio alle persone disabili.
A 30 insegnanti di scuola materna è stato offerto un programma separato di formazione. In Guyana l’istruzione prescolare è gratuita. I bambini frequentano l’asilo al mattino e gli insegnanti sono liberi al pomeriggio per lo sviluppo e la formazione del personale.
Il progetto pilota è durato 18 mesi, con incontri bisettimanali fra insegnanti e volontari per apprendere come aiutare i bambini disabili. Il programma di formazione si è abbondantemente ispirato al Manuale dell’OMS (Helander et al., 1989), allo Zimcare dello Zimbabwe (Mariga, 1986), al progetto Portage (Revill e Blunden, 1980) e alle idee contenute nel Disabled Village Children (Werner, 1987).

Comunità e famiglia come risorse

La maggior parte dei volontari venne presto coinvolta dal programma, mostrandosi desiderosa di incontrarsi per discutere delle inquietudini, dei dubbi e dei successi ottenuti. Presto emerse un profondo senso di appartenenza, tanto che i volontari arrivarono a considerare il progetto come una cosa loro. A1 contrario, era evidente che il gruppo degli insegnanti di scuola materna si impegnava molto meno nel progetto.
Ciascun volontario lavorava con uno o due bambini disabili. In ogni casa veniva scelta una persona che avrebbe lavorato con il bambino. I1 volontario suggeriva alcune attività ai membri della famiglia, poi invitava a provare un’attività col bambino, osservato dal parente scelto a tal scopo, che a sua volta provava quell’attività; alla fine, volontario e membro della famiglia discutevano della sessione.
Il grado di progresso del bambino non sembrava dipendere dal livello dell’istruzione o dalle risorse finanziarie della famiglia o dal grado di invalidità. Un fattore significativo era invece il coinvolgimento dei genitori nel progetto. In ultima analisi, un progetto del genere non può esser giudicato unicamente nei termini di progressi registrati nel bambino o mediante un test standardizzato o una lista di controllo dello sviluppo; è invece necessaria la comprensione di ciò che il programma ha significato per coloro che vi hanno partecipato. La maggior parte dei genitori ha trovato il programma molto utile; uno di loro ha così commentato: “prima del programma vedevo solo quello che mio figlio non poteva fare. Ora vedo quello che può fare.”
I bambini si mostravano più felici, si comportavano meglio, erano più vivaci e più motivati. Un esame del materiale ottenuto dalle interviste e dai questionari ha sottolineato una maggiore sensibilità delle madri verso i loro bambini, una più intensa percezione dei loro progressi ed una miglior relazione con gli altri membri della famiglia. I genitori osservavano anche mutamenti in loro stessi, si sentivano più rilassati, più orgogliosi dei loro bambini e più fiduciosi. Un padre ha affermato: “Questo programma è servito ad unire tutta la famiglia.” Una delle principali caratteristiche del programma pilota è il forte coinvolgimento della comunità. In uno dei villaggi è stato formato un comitato per la riabilitazione, che ora si è assunto la piena responsabilità del programma.
I1 problema immediato si è presentato con Nalini e la sua famiglia, anche se l’indagine aveva indicato che esistevano molti altri bambini nella stessa situazione. Almeno la metà dei genitori si è entusiasticamente dedicata alla formazione dei loro bambini, ma per altri il lavoro era illusorio, avevano già una vita difficile e troppi problemi per riuscire ad impegnarsi a fondo nel progetto. Alcuni dei progressi più significativi sono stati fatti con bambini con problemi motori o di apprendimento. Quelli con problemi di udito invece hanno fatto solo progressi modesti, suggerendo che hanno forse bisogno di servizi molto più sofisticati di quelli offerti dal progetto pilota. Dopo due anni di progetto, Nalini non era ancora capace di pronunciare qualche parola, ma i suoi vicini ora sapevano che esisteva e la madre si sentiva incoraggiata dai progressi che notava nella mobilità della bambina e nel suo comportamento in generale. Ad un osservatore esterno i risultati potevano apparire insignificanti ma per la famiglia di Nalini, e per tanti altri, essi rappresentavano una esperienza significativa, una prova di quanto si sarebbe potuto ottenere in futuro. E’ sulla base di questo progetto pilota che, a partire dal 1989, il programma è stato ampliato per la durata di tre anni.

Rupununi

Sulla base dei risultati ottenuti dal progetto pilota, è iniziato nel 1989 un ampliamento di tre anni del programma RBC in Guyana. Questo ampliamento è stato sovvenzionato congiuntamente dagli Amici di Raoul Follereau e dalla Comunità Europea. Il progetto è stato gestito da Action on Disability and Development, Gran Bretagna, e dal Comitato Nazionale per la Riabilitazione, Guyana. E’ proseguita la formazione di volontari tramite l’Institute of Adult and Continuing Education dell’Università della Guyana. Alla fine dei tre anni di finanziamento, l’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau si è assunta la piena responsabilità del finanziamento e della gestione del programma per il periodo 1993-1995.
All’inizio dell’espansione del progetto, l’attenzione si è accentrata sullo sviluppo e l’utilizzo dei volontari della comunità. A1 corso di formazione si è iscritto il triplo dei candidati e il tasso di abbandono durante i due anni del corso è stato solo del 5%. I volontari si sono dimostrati persone notevoli che generosamente mettevano a disposizione il loro tempo e le loro sostanze. Tre anni dopo, oltre il 70% dei volontari era ancora fortemente impegnato nel programma. I volontari erano in generale accettati dalle famiglie e davano vita ad un più vasto coinvolgimento della comunità.
Un altro esempio della maggior collaborazione del progetto Hopeful Steps è lo sviluppo della RBC nella regione di Rupununi. In questa regione vive quasi la metà della popolazione amerindia del paese, suddivisa in 42 comunità molto isolate e scarsamente popolate. Obiettivo iniziale in questa regione era di tenere una serie di tre seminari della durata di una settimana l’uno, nel corso di due anni, per sensibilizzare la popolazione sui bisogni delle persone disabili. Oggi, tre anni dopo, il progetto è molto più ricco. In 8 mesi ho realizzato nella regione 5 visite sul campo, della durata di una settimana ciascuna. Ci sono stati incontri con politici locali, amministratori, insegnanti, operatori sanitari, tuschaus (o capitani) di villaggio, consigli di villaggio e capi comunità. L’approccio adottato era puramente basato su domande, non c’era niente di scritto. Dopo queste visite è stato organizzato un primo seminario di una settimana, per tutti gli operatori sanitari di comunità della regione.
Si tratta di uomini e donne provenienti dai vari villaggi, con istruzione elementare, che seguono un programma di formazione a tempo pieno, della durata di 4 mesi, offerto dal Ministero della Sanità. Eravamo stati avvertiti da gente con maggior esperienza di non aspettarci molto da questo gruppo di operatori, invece 28 persone hanno preso parte al programma iniziale di formazione, della durata di una settimana.
Alcuni di loro hanno percorso 20?30 miglia in bicicletta, o anche a piedi, pur di partecipare; due di loro addirittura hanno viaggiato per 120 miglia in canoa. Due provenienti della Guns Strip hanno camminato e viaggiato in canoa per 13 giorni, per poter essere presenti. Questo primo seminario ha dimostrato che questa era una zona di grande potenzialità abitata da persone con un forte senso dell’impegno verso i loro villaggi. In questa regione isolata negli ultimi due anni sono stati organizzati 13 seminari di una settimana`. In ciascuno dei 42 villaggi oggi esiste una équipe di tre persone, cioè l’équipe per la riabilitazione, formata dall’operatore sanitario di comunità, un insegnante di villaggio ed un capo villaggio.

Facts for Life

Il libro Facts for Life prodotto da OMS, UNICEF ed UNESCO, contiene informazioni sanitarie di base che possono letteralmente salvare la vita di milioni di persone. I1 problema però è come assicurare che coloro che hanno bisogno di queste informazioni possano effettivamente riceverle. La collaborazione RBC?GOSED, con i fondi dell’UNICEF, ha sviluppato quanto segue:
* una serie di opuscoli illustrati, tradotti in due lingue locali, e che riassumono le informazioni principali riportate nel libro
* un programma video della durata di 50 minuti, filmato nella regione, e trasmesso nell’intero Rupununi, con i principali messaggi sanitari
* un manuale illustrato per insegnanti ed operatori sanitari con suggerimenti pratici su come comunicare le informazioni contenute nel libro
* la realizzazione di un Festival ? Facts for Life. Tutti i 42 villaggi sono stati invitati a partecipare al Festival. Gente di tutte le età ha scritto poesie, canzoni, sketch, brevi storie ed ha realizzato manifesti per trasmettere i principali messaggi sanitari. I1 Festival ha conquistato l’immaginazione degli abitanti dei villaggi, e ha fatto sì che attraverso la loro ricca cultura essi comunicassero messaggi salva?vita. Sono ora in corso cinque festival sub?regionali. Alla fine dell’anno i vincitori di ciascun festival sub?regionale presenteranno i loro lavori alle finali regionali. Verranno poi prodotti un video ed un libro per presentare i lavori vincenti.
A seguito di uno dei primi seminari sulla RBC, agli insegnanti partecipanti è stato chiesto di sviluppare uno schema di preparazione all’alfabetizzazione come parte del programma RBC. Ne è risultato un seminario di una settimana, per 32 insegnanti, tenutosi nella regione di Sand Creek. Gli stessi insegnanti hanno provveduto alla sua preparazione pratica. Da questo seminario è emersa una maggior collaborazione nella regione con il Ministero dell’Istruzione, per l’organizzazione di una serie di seminari, nell’arco di due anni, per tutti gli insegnanti della regione. A tal scopo, l’équipe della RBC ha realizzato una serie di libri specificamente commissionati. La sponsorizzazione dell’UNICEF ora facilita la produzione di un bollettino per bambini, scritto dai bambini della regione.
Durante il periodo da noi trascorso nella regione, abbiamo cercato di comprendere, di rispettare e capire la ricca cultura delle popolazioni Maclusi e Wapasbana, in quanto ospiti nel loro territorio. Rupununi è una zona in via di cambiamento. E’ stata costruita una strada nel cuore della regione, che collega Manaus, in Brasile, con la costa della Guyana. L’équipe RBC ha pensato che un suo contributo alla regione poteva essere la realizzazione di una documentazione sulla cultura di queste popolazioni. A tal scopo sono stati fatti diversi tentativi. Daniel Janke, musicista canadese, ha offerto gratuitamente il suo tempo e la sua esperienza per produrre un video ed un’audiocassetta registrata che documentino la musica e le tradizioni orali della gente di Rupununi. Laureen Pierre ha scritto una serie di storie, tradotte negli idiomi locali, che presentano i temi della RBC nel folklore locale. Pamela O’Toole ha realizzato un video e del materiale didattico sulla foresta pluviale, per aiutare i bambini che vivono sulla costa ad apprezzare la maestosità e le potenzialità di questa regione della Guyana. Il lavoro è stato completato da una serie di libri di favole sull’acqua come risorsa. L’équipe RBC ha realizzato un breve video sul lavoro dei tessitori Rupununi che hanno fatto rivivere questo mestiere in modo efficace ed incisivo
Fortunatamente in tutte queste iniziative i nostri finanziatori dell’AIFO hanno apprezzato il più ampio ruolo della RBC come parte integrante di un più vasto processo di sviluppo comunitario. Se il programma Hopeful Steps si fosse sin dall’inizio limitato al solo problema delle disabilità, sarebbe stato liquidato come qualcosa di non pertinente.
Quando due anni e mezzo fa ebbe inizio il programma, venimmo informati che nella regione non esistevano disabili. Sapevamo che non era vero, ma sarebbe stato inutile contestare. Abbiamo invece cominciato con un approccio alla formazione, che avrebbe aiutato lo sviluppo di tutti i bambini della regione. Una volta guadagnato il rispetto della popolazione della regione, abbiamo potuto concentrarci sulle necessità delle persone disabili.

Tecnologia e sviluppo

La televisione è ancora un mezzo relativamente nuovo in Guyana, infatti le prime trasmissioni risalgono a pochi anni fa. Tuttavia, nonostante i mezzi molto limitati di tanti abitanti delle zone rurali, bene o male in ogni villaggio si trovano televisori e videoregistratori. Inoltre, durante il nostro lavoro all’interno del paese, ci è stato possibile usare strumenti a batterie solari o a pile. Quindi, la tecnologia c’è.
I1 valore di novità del mezzo è servito ad influenzare l’atteggiamento verso i disabili. I1 programma video presenta i bambini disabili in varie situazioni, mentre riescono a fare diverse cose, e lo spettatore è incoraggiato a vedere queste persone sotto una luce nuova.
Allo scetticismo iniziale nei confronti della pertinenza e dell’adeguatezza del mezzo (il video) nei paesi in via di sviluppo si contrappone la richiesta che 42 paesi hanno fatto per i programmi video. I1 materiale è già stato tradotto in spagnolo, in francese ed in arabo.
Molti di noi, nel campo della RBC, hanno capacità tecniche, ma spesso ne sanno poco in termini di organizzazione politica e sociale. Dobbiamo sviluppare un ruolo più ampio, aiutando la comunità ad esaminare i propri problemi rendendola conscia che è in se stessa che troverà la capacità di affrontare molte delle sue necessità.
Si è compreso tuttavia che per essere un efficace strumento di sviluppo, l’innovazione ha bisogno di una comunità ben informata e preparata, e sin dall’inizio si è cercato di promuovere la consapevolezza locale del programma. Un’ampia copertura nei giornali, alla radio e alla televisione locale è servita ad accrescere il prestigio della RBC e a stimolare il coinvolgimento della comunità.

Guardare a sud

Le comunità hanno preso coscienza dei disabili e talvolta hanno avuto un ruolo importante nel programmare metodi per venire incontro alle loro necessità.
La RBC offre un nuovo metodo di riabilitazione ai responsabili della politica, ai professionisti, ai programmatori, ai capi di comunità ed alle stesse persone disabili.
I1 progresso è stato lento e discontinuo, se si considerano i primi dieci anni di RBC. E’ però significativo che alcuni degli esempi più creativi di collaborazione fra genitori e professionisti vengano dalle nazioni più povere. E’ forse il caso che il mondo sviluppato guardi a sud per cercare metodi innovativi di lavoro con le persone disabili. Nell’avvicinarci ad un nuovo secolo, appare evidente che il problema delle disabilità deve essere ancora risolto. E’ però altrettanto chiaro che i metodi tradizionali riescono solo a scalfire la superficie. Occorre una radicale rivalutazione dei nostri rispettivi ruoli nella riabilitazione e nell’educazione delle persone disabili. La RBC indica questo ruolo.

Ridere fa bene

I clown therapist lavorano negli ospedali e nei centri di salute mentale con i bambini ricoverati, gli anziani, le persone con handicap psichico, nei reparti per ammalati di AIDS. La comicoterapia nasce negli ospedali americani e precisamente a New York nel 1986; in Italia questo tipo particolare di “sostegno” esiste negli ospedali in provincia di Milano, Como e Varese dal 1996Ridere fa bene e aiuta anche a guarire. Lo dice il senso comune, ma le ricerche degli scienziati lo confermano, e si studiano i meccanismi fisiologici che entrano in azione. Lo scopo è quello di usare il riso non come una cura, ma come un complemento al processo naturale di guarigione.
Parecchi studi hanno dimostrato che nei soggetti che vivono esperienze divertenti, quali assistere a commedie o film comici, aumenta la capacità di affrontare il dolore. Da circa dieci anni la psiconeuroimmunologia cioè lo studio dell’influenza esercitata dallo stato psicologico e dal sistema nervoso sul sistema immunitario ricerca e studia come le emozioni possono influire sulle reazioni chimiche che avvengono nell’organismo, specialmente nel sistema immunitario.
Si sta cercando di determinare se l’umorismo e il riso aumentino le endorfine (sostanze chimiche presenti nel cervello) che fungono da naturali “antidoti” al dolore.
Ridere distende i muscoli, rallenta il battito cardiaco, abbassa la pressione, stimola la secrezione d’endorfine.
Ridere è un’occasione catartica accessibile a tutti, purifica, drena e disintossica. Cosi le preziose endorfine contrastano le emozioni negative che abbassano le difese, rendendo l’organismo più vulnerabile alle malattie.
La clown therapy, od ora anche detta comicoterapia, nasce negli ospedali americani precisamente a New York nel 1986; il pioniere è un clown professionista Michael Christensen che ha creato insieme con Paul Binder la “The clown care Unit” (unità di cura da parte di clown) che porta il sorriso e la fantasia negli ospedali pediatrici, il modello è stato poi esportato in Francia (“Le Rire Medecin”) e in Svizzera (la Fondazione Theodora).
In Italia dal 1996 la clown teraphy è operativa in otto ospedali nelle provincie di Milano Como e Varese a cura della Fondazione Aldo Garavaglia e ora un’esperienza analoga è nata nel reparto oncologico dell’Ospedale Meyer di Firenze, grazie all’Associazione Clown Aid. A Roma l’Associazione Ridere per Vivere opera nelle corsie del Centro Paraplegici e nel reparto Aids dello Spallanzani.
Ma ridere dicono i clown therapist è un‘arte da imparare: “perché siamo soggetti a pregiudizi culturali che c’impediscono di scoppiare in una sonora risata, ad esempio crediamo che ci voglia una buona ragione per ridere mentre questo comportamento si esplica al di fuori della logica della razionalità e pensiamo che il movente della risata sia la contentezza, mentre si deve ridere per sentirsi meglio: per essere contenti”.
“Il riso ha una funzione sociale“ ha scritto Bergson, erompe ed è un sano modo di difendersi contro ogni eccessiva rigidità. Freud è stato il primo ad analizzare in chiave psicoanalitica il “Witz”, la battuta di spirito. Il riso, che dal punto di vista della fisiologia nervosa è semplicemente una liberazione d’energia, dal punto di vista psicologico può essere considerato come una forma di linguaggio. Un linguaggio che inizialmente è individuale, ma può diventare, per contagio un linguaggio sociale.

Il Dottor Sorriso

Entrano negli ospedali nei reparti pediatrici, i bambini ridono e le infermiere e i medici sorridono, i genitori si sentono sostenuti nel cammino di guarigione dei loro figli. I clown vogliono capire la sofferenza di ogni bambino e trovare gesti e parole che portino sollievo alla sofferenza.
I clown della Fondazione Aldo Garavaglia con il loro intervento fanno ritrovare al bambino ospedalizzato un mondo fatto di colori, musica, magia e umorismo. Tutto questo attraverso spettacoli d’animazione umoristica e d’altro genere, con un unico filo conduttore: tante risate.
Vestiti da clown, ma con camici multicolori da dottori si aggirano nei reparti pediatrici; il loro arrivo è annunciato dalla musica dei loro strumenti che creano nei bambini curiosità e stupore. I Dottor Sorriso hanno sempre precedentemente un incontro informativo con le infermiere responsabili del servizio, per conoscere il numero dei bambini da visitare e il loro stato di salute fisica e psicologica, oltre all’autorizzazione dei genitori e dei bambini stessi. I clown della Fondazione sono legati al segreto professionale e al rispetto delle norme igieniche ospedaliere.Una volta giunti dal bambino creano su misura un piccolo sketch, facendo il possibile per coinvolgerlo (nei limiti della sue possibilità) poiché dicono: ”è importante che il bambino non viva solo il ruolo di spettatore, ma che possa partecipare alle magie e agli spettacoli d’animazione, creati appositamente per lui.” Cosi’ fra bolle di sapone, musica, campanelli immaginari giochi di magia, pupazzi parlanti, oggetti dai mille rumori inizia una complicità fra i clown e i bambini che si lasciano trasportare in un mondo di fantasia evadendo dalla realtà ospedaliera. Alla fine della visita i bambini ricevono palloncini e una cartolina con la foto dei clown e s’invitano a scrivere agli stessi clown. Ogni reparto di tutti gli Ospedali visitati dal Dottor Sorriso hanno infatti un apposito spazio per ricevere la posta e come dicono i Dottor Sorriso “il giorno della visita in tutto l’ospedale regna il buon umore”.

Per informazioni:
Fondazione Aldo Garavaglia Tel 02/930.40.40
Associazione Clown Aid Tel 055/896.41.34
Associazione Ridere per Vivere Tel 06/562.27.25
Corsi per Clown therapist: Max Deon, psicoterapeuta, tel. 014.634.110 Zurigo.
Dal 13 al 20 Giugno 1999 la Libera Università di Alcatraz (S. Cristina – Perugia) organizza il Festival Internazionale di Comicoterapia con Patch Adams e altri ospiti

L’esperienza di Africa News

La rivista nasce nell’aprile del ’96; un’esperienza particolare, unica nel suo genere; una voce autorevole del sud del mondo, scritta da giornalisti locali.
L’importanza di dare alla gente del luogo le competenze necessarie per produrre informazioneAttraverso contatti con persone che vivono in paesi africani sono nate delle proposte, delle idee, una delle quali era la realizzazione di un bollettino, scritto da giornalisti africani e fatto circolare in tutto il mondo in due versioni: una versione cartacea e una versione elettronica, un’esperienza abbastanza unica nel suo genere. Bisogna rammentare che stiamo parlando di un settore, quello delle riviste italiane missionarie, in cui nel 95’, non c’era nessuno che facesse editoria elettronica. Le riviste specializzate sull’Africa erano su carta, sarebbero entrate in rete negli anni successivi, per cui la nascita di questa rivista a Nairobi, in due formati, cartaceo ed elettronico, era una cosa abbastanza rivoluzionaria. Per sostenere questa iniziativa è partita la campagna “Peacelink for Africa”. L’ azione pratica volte a sostenere questo progetto si è concretizzata in un viaggio nell’ottobre del 95’ che ho fatto a Nairobi per aiutare la redazione composta da otto giornalisti kenioti, nell’uso del computer, dei programmi e degli strumenti telematici (quest’ultimi, allora, abbastanza pionieristici in Kenya). Nel ‘95 non c’era nemmeno un provider in Kenya, c’erano solo alcuni provider statali dell’università; il full internet, cioè la connessione diretta ad internet non c’era, esisteva solo la connessione fidonet, cioè quella delle bbs, per cui ci si collegava con un computer e un telefono alla linea telefonica di un bbs centrale. Pur avendo queste risorse limitate abbiamo fatto partire l’iniziativa.

Una redazione keniota

La rivista nasce nell’aprile del ‘96 continua tutt’oggi. E’ un’esperienza particolare, unica nel suo genere, perché è una voce del sud del mondo, scritta da giornalisti del sud del mondo, per cui non sono i solitiarticoli o dispacci di agenzia scritti da missionari o da giornalisti del nord che traggono le loro informazioni dalle varie agenzie sparse per il mondo, ma sono testi realizzati da giovani giornalisti locali che riguardano gli argomenti più disparati; non sono articoli su argomenti scottanti, su novità, su notizie che passano e il giorno dopo sono già vecchie, ma sono articoli e approfondimenti sulla vita, sul costume, su come vivono e come sentono, loro, i problemi dell’Africa. Queste informazioni sono molto interessanti per chi vive là, perché la rivista gira per tutta l’Africa, ma lo sono soprattutto per noi, perché abbiamo unostrumento genuino per capire che cosa pensano gli africani dell’Africa, cioè quello che non siamo mai riusciti a leggere nemmeno nelle riviste specializzate. Questa esperienza ha coinvolto me, come membro dell’associazione Peacelink e un gruppo di giornalisti kenioti in due momenti, nel viaggio del ‘95 e in quello del Natale ‘97, dove abbiamo tenuto un corso sulla realizzazione e sulla pubblicazione di un bollettino sul Web. Fino al dicembre ‘97 la redazione di Africa News non faceva altro che prenderei testi normali, spedirli in Italia, dove c’era uno staff che prendeva i testi, li impaginava in HTLM e li metteva su internet. Dal dicembre 97’ questa operazione viene fatta direttamente a Nairobi, questo dà a loro ilvantaggio di gestire meglio non solo i contenuti ma anche la forma grafica e la struttura della rivista, connotandola con la loro cultura e il loro gusto anche sotto questo aspetto. Nel 95’ non c’era nemmeno un provider in Kenya, ora ce ne sono otto che forniscono l’accesso full internet però ad un prezzo proibitivo. Più o meno il costo dell’accesso ad internet si aggira intorno a 150/200 dollari al mese, stiamo parlando di un paese in cui uno stipendio medio di uno statale (un privilegiato insomma) è sui 70 dollari al mese. Prezzi così alti sono il frutto di scelta politica, non economica, di discriminazione di chi gestisce gli accessi internet in Africa. Purtroppo sembra che l’Africa sia il nuovo terreno vergine di conquista e si sta praticando una seconda colonizzazione che è quella tecnologica e telematica. I grossi provider che aprono in Kenya, in Ghana, in Costa d’Avorio, in Senegal, sono grandi società con sede a Boston, o in California, o comunque negli Stati Uniti e che sono controllate dai figli, dai nipoti o direttamente dagli uomini politici potenti che governano questi paesi. Perchè potenti aziende hanno interessi ad aprire service-provider in un paese dove la corrente elettrica c’è solo nel 5% delle area urbana? Perché Nairobi è il quarto centro mondiale delle Nazioni Unite, e questo significa che ci sono almeno 10/20 agenzie con migliaia di persone; ha sede l’Uniceff, la Fao, altre agenzie per i diritti umani; Nairobi è situata proprio al centro della zona dei grandi laghi, Uganda, Sudan, in una zona strategica quindi. Di fatto solo i ricchi (che lavorano nelle agenzie sopracitate) e gli appartenenti alle grandi famiglie possono permettersi l’accesso ad internet. Ecco che allora diventa importante per un piccolo gruppo di giornalisti del Kenya, che vivono nella periferia della capitale, al limitare delle baraccopoli, acquisire conoscenze tecniche per la pubblicazione di pagine Web su internet e la loro diffusione in rete.

La colonizzazione tecnologica

E’ importante perché innanzitutto possono superare questo collo di bottiglia creato dalle multinazionali delle comunicazioni che tende a escludere tutta una serie di gruppi giornalistici ma anche le ONG e le organizzazioni locali. Questa agenzia di informazioni può anche diventare un servizio per tutte quelle organizzazioni non governative locali, ce ne sono moltissime in tutta l’Africa; in generale i piccoli bollettini, i notiziari, possono diventare una agenzia di servizio per quelli che non possono permettersi di far pubblicare le loro pagine a prezzi esorbitanti. Io mi ricordo di aver parlato a Nairobi con il direttore di New People, che voleva pubblicare l’intera rivista su internet e mi disse che in Kenya per pubblicare una rivista normalissima come quella, che aveva più o meno 30/40 pagine, costava 8000 dollari all’anno, una cifra esorbitante e non sostenibile. E’ importante allora dare la possibilità, la formazione, gli strumenti a gruppi di base. Io mi sono reso conto da queste esperienze che la cosa più importante ora è, si diffondere le informazioni, fare in modo che circolino più informazioni dal sud delmondo verso il nord e dal nord verso il sud, ma ancora più importante di questo è dare la possibilità, gli strumenti, la formazione alle persone che vivono sul territorio perché altrimenti saremo sempre noi a prendere i testi, a manipolarli, a usarli ecc.., mentre è giusto che siano loro a farne poi quello che vogliono dei testi, dell’informazione e della tecnologia.

L’informazione, il sociale e la telematica: cambiano le regole?

Internet e le nuove tecnologie danno la possibilità a chiunque di
informarsi, attingendo le notizie là dove prima arrivavano solo i
giornalisti o gli specialisti. Ora è possibile farsi delle opinioni al di là dei
mass media tradizionali: ma fino a che punto oggi questo può essere
vero? Il fatto di potersi collegare con siti che danno informazione da
ogni parte del mondo può essere uno strumento per conoscere cose
che normalmente non arrivano mai sulle pagine dei giornali o sugli
schermi televisivi e di cui non è possibile avere un’esperienza diretta; in questo modo possiamo conoscere dalle fonti dirette le informazioni che vengono dal sud del mondo, zone che tradizionalmente non vengono “raccontate” dai media.
Ma come non perdersi in questo oceano di informazioni, come fare delle
ricerche efficaci, come essere critici e consapevoli del mezzo
telematico?
Questo da un lato, dall’altro il discorso riguarda anche la possibilità di
informare direttamente la gente: quali opportunità nuove si aprono a chi
opera nel mondo dell’associazionismo per fare informazione sociale?
Quali sono i linguaggi, le forme da usare per fare una comunicazione
efficace? Quali sono e saranno i rapporti da instaurare con i mass
media tradizionali?
Gli articoli che seguono sono il resoconto del convegno omonimo svoltosi a Bologna e organizzato dal Centro Documentazione Handicap.

Le relazioni difficili

“Con queste righe intendo descrivere un tema raramente trattato nella letteratura sui disabili, quello relativo a certi micro-comportamenti di tipo sociale che influenzano la percezione di Sé e che possono strutturare la personalità su una errata valutazione delle interazioni e quindi dell’esperienza in generale”Questo conduce all’instaurarsi di meccanismi difensivi che assorbendo notevoli quantità di energia psichica depauperano la personalità di quegli aspetti e di quelle istanze che tendono all’integrazione e all’espressione sia delle emozioni, sia delle capacità in toto, sia delle espressioni creative proprie di qualunque individuo. Quanto segue riguarda in particolar modo quelli che vengono definiti portatori di handicap e in cui l’handicap sia visibile e non occultabile. Ben diversa può essere una situazione, che riguardi un cosiddetto non udente che un paraplegico. E’ evidente che nei primissimi scambi sociali (sguardi, mimica, postura, ecc.) non è rintracciabile immediatamente l’handicap di un non udente mentre in una persona in carrozzina l’handicap è visibilmente palese e questa “visibilità” comporta sull’immediato delle conseguenze, macroscopiche da una lato, molto più, sottili, ma non per questo meno devastanti, sull’altro.

Dar del “tu” ad un disabile

Le conseguenze macroscopiche possono andare da un rifiuto neanche tanto nascosto oppure da un atteggiamento eccessivamente sollecito e altruistico o ancora da condotte di tipo compassionevole/pietistico. Ma atteggiamenti meno evidenti non vuol dire, piena e totale accettazione del soggetto portatore di handicap. Sembra che l’handicap non permetta nella percezione del normodotato la qualifica di persona adulta. Questo fatto lo si nota da quei piccoli comportamenti che ogni disabile ha più o meno sperimentato, che vanno da dare del “tu” direttamente anche se non si conosce la persona, a chiedere brutalmente quale è la causa dell’handicap, a dare dei buffetti sulle guance o passare la mano nei capelli su una persona seduta in carrozzella.
Gesti che gli adulti si permettono solo nei riguardi dei bambini piccoli e a quanto pare anche su persone con handicap. E’ chiaro che in questo caso le “distanze” non vengono rispettate e il portatore di handicap è sottoposto ad una continua violazione dei proprio Sé.
Qui si pongono due ordini di considerazioni: il primo è come può reagire un disabile a queste intrusioni al proprio Sé; il secondo invece è perché il “normodotato” si permette di violare gli spazi del Sé socialmente determinati.
Una prima modalità del disabile può essere di tipo aggressivo. L’handicap è usato come un’arma. In questo caso vige il detto “La migliore difesa è l’attacco”. Al di là di rispondere in maniera più o mena brusca ad una eventuale interazione sociale, laddove il normodotato per esempio chiede in maniera diretta qual è la causa dell’handicap, il disabile può attuare una strategia difensiva che consiste nell’assumere degli atteggiamenti che mettono il normodotato in una posizione di “doppio vincolo”; da un lato si mostra in maniera più o meno evidente quello che è l’handicap inducendo nell’altro sentimenti pietistici “‘poverino, è stato colpito da una grave malattia o da un incidente”, mentre dall’altro si afferma la volontà di non essere considerato un handicappato. L’handicap in questo caso viene utilizzato strumentalmente come un’arma appunto – per spiazzare l’altro con cui si sta interagendo.
Questa modalità peraltro quasi sempre inconscia rischia di generalizzarsi a tutti i rapporti interpersonali pregiudicando quindi un approccio più aderente alla realtà. Questa è chiaramente una manovra difensiva che cristallizzandosi nel tempo porta ad una deformazione delle relazioni ed ad attribuire tutte le cause dei propri comportamenti all’handicap. L’identificazione con le proprie parti “handicap”, seguendo la legge del “tutto-nulla” sta a significare che tutto viene autoriferito al proprio handicap e che tutte le mancate realizzazioni o mancato sviluppo della personalità sono attribuite ad avere un handicap. In questo caso non si ha un handicap ma si “è” handicap, con tutto quel che ne consegue.
Un’altra modalità di risposta è quella paradossale di non rispondere e cioè di evitare o limitare nella maggiore misura possibile qualsiasi relazione. Non sono affatto rari i casi in cui un disabile rinunci completamente ad una vita di relazione. In questo caso il disabile sprofonda nel proprio handicap e si chiude a qualsiasi orizzonte. E’ la morte sociale. L’ansia che deriva dall’incontrare l’Altro è dovuta – credo -, alla discrepanza fra l’immagine che si ha di sé. profondamente svalutata e handicappata, e alle aspettative che si possono verificare nel relazionarsi con l’altro. Le fantasie dilagano e il senso d’inferiorità non può far altro che accentuarsi fino a scegliere di “morire” in senso sociale o comunque di non vivere e di limitarsi a una pura sopravvivenza biologica.

La bandiera dell’handicap

Ci sono poi persone che invece dell’handicap ne fanno una bandiera. Sono gli apologetici dell’handicap. L’handicap viene sbandierato, ostentato come se questo fosse un pregio di cui il normodotato non è proprio dotato. La situazione si capovolge. E’ il normodotato ad essere un diverso. L’handicap viene ritenuto – a torto – come un dono che permette una maggior capacità di comprendere gli altri, una maggior sensibilità e un maggior senso di solidarietà. E’ pur vero che l’aver un handicap è come una ferita aperta la cui sofferenza non può essere che fonte di riflessione verso quello che sono i diversi aspetti dell’esistenza ma da qui a dire che i “normali” sono dei “poverini” – come capita di sentire dire – ce ne corre. Generalmente queste persone hanno subito una precoce e lunghissima istituzionalizzazione. Questa “detenzione” in luoghi lontani dai normali contesti sociali (gestiti generalmente da personale religioso del tutto impreparato ad affrontare non solo le tematiche legate all’handicap ma anche a quelle più comunemente pedagogiche) ha portato ad una identificazione con l’istituzione (identificazione con il proprio persecutore) di cui ora ne fanno lodi sperticate e rimpiangono i tempi che furono. Queste persone tendono a mantenere costanti e continui e contatti solo con persone con handicap e con le istituzioni che a suo tempo li avevano ricoverati e a fare dell’handicap il loro unico interesse.
Non c’è dubbio che queste modalità serve a ripararsi sia dalle profonde ferite narcisistiche ricevute sia dalle intense angosce che possono emergere in contesti relazionali distanti da quelli appresi/subiti durante il periodo dell’istituzionalizzazione.
Esiste poi quella che è la rimozione del problema handicap. La persona nega che ci sia un handicap. Si rifiuta categoricamente di prenderne coscienza. Tutti i suoi comportamento e atteggiamenti sono improntati a nascondere, mimetizzare o minimizzare quello che è l’handicap. La persona tende continuamente ad un modello di. “normalità”, peraltro impossibile da raggiungere, e paradossalmente tratta le persone con il suo stesso problema come se fossero dei “veri handicappati” a tentativo di confermare la sua pseudo-normalità. Anche qui i vissuti di inadeguatezza e di inferiorità agiscono come difese obliterando e nascondendo quelle parti sane del Sé che permetterebbero invece una integrazione delle parti scisse e lontane dalla coscienza, premessa indispensabile per un’armonica evoluzione dell’individuo.

La paura di fronte al deficit

Ho cercato di passare in rassegna alcune delle modalità, seppur in maniera sintetica che possono caratterizzare le risposte del portatore di handicap nelle sue interazioni sociali. In ogni caso i percorsi individuali e soggettivi possono essere alquanto sfaccettati e poliedrici e quindi prendere strade anche diverse da quanto sopra esposto.
Veniamo ora al secondo ordine di considerazione e cioè la domanda per cui un “normodotato” si permette dei comportamenti e atteggiamenti verso i portatori di handicap che con altri non si concede. La prima ipotesi può essere che il normodotato proietti le sue parti “handicap” sul disabile e che quindi – un atteggiamento eccessivamente sollecito, premuroso, altruistico non sia altro che un tentativo, attraverso l’altro, di curare o controllare le proprie inadeguatezze. Senza nulla togliere al valore del volontariato o a quelle istituzioni che si propongono la “salvezza” dei disadattati e proprio qui che si ritrovano la maggior parte delle persone che – a mio avviso – agiscono con questa modalità. Ribadisco il fatto che è l’atteggiamento altruistico eccessivo a stonare e non il fatto che una persona decida di dedicare parte del suo tempo a chi per un modo per o l’altro si trova in uno stato di difficoltà o necessità.
Un’altra ipotesi è che l’incontro con l’handicap possa generare delle angosce relative alla propria integrità “Così come è capitato a lui, questo può succedere anche a me”. E’ naturale quindi che nascano delle ansie perché questo smonta seppur brevemente l’illusione della propria immodificabilità e nel contempo può far sorgere delle fantasie relative alla perdita di parti importanti del proprio Sé. Questa forse è la ragione per cui alcuni domandano in maniera del tutto indiscreta quali sono le cause di un handicap. E’ un modo per poter razionalizzare e controllare le angosce che l’incontro con l’handicap può provocare. Non bisogna inoltre scordare che stiamo vivendo un epoca in cui si tende ad una perfezione corporea, ad una ricerca del “fitness” che non ha riscontri in altri periodi e che a volte francamente sembra che sconfini nel delirio. Non mi sembra dunque così peregrina l’idea che “incontrarsi” con il diverso possa risultare difficoltoso proprio perché va a scontrarsi non solo su quelle che sono le proprie problematiche individuali ma anche su stili di vita collettivi che esaltano sempre di più l’efficienza, il giovanilismo, l’utilitarismo…

Emai: arcas@rete039.it
url: http://www.disabili.com/ricerche/aurelio.htm

Per chi rompe la campana

L’esperienza di lavoro di una educatrice disabile all’interno del Progetto Calamaio. “ Lavorare mi ha permesso di crescere personalmente e professionalmente, mi ha aiutato (e mi aiuta tuttora) ad ampliare le vedute, eliminare i pregiudizi che mi possono essere rimasti…”Ho cominciato ad avere un ruolo sempre più importante nel Progetto Calamaio soprattutto da quando alcuni miei colleghi, per varie ragioni, non vi hanno lavorato più, se non attraverso saltuarie collaborazioni. Da allora sono cambiate molte cose, è cambiato in parte l’organico e, in conseguenza di questo, anche i compiti. Nella nuova fiaba intitolata “Cane e gatto, scacco matto,” sono entrata al posto di Floriana nel ruolo di Pepito, il cane. Ho cominciato lavorando con Alberto. Ogni tanto mi capitava di sostituirlo, anche prima della sua recente scomparsa, recitando la parte dell’orsone nella fiaba dell’ “Orso”. Impersonando tale ruolo, ho capito di essere in grado di interpretarlo, guardando le sue mosse. E’ un onore fare quello che faceva lui, sarebbe ancora maggiore riuscire a far le cose come lui le avrebbe fatte. Ogni volta che scrivo o che lavoro in progetti per i quali lui ha lavorato, io ne sento la presenza, come se mi dettasse parola per parola.
In conseguenza di questo, mi sono stati affidati dei compiti di responsabilità, anche sotto mia esplicita richiesta, che riguardano soprattutto la scuola secondaria superiore. Sono stati messi a punto nuovi programmi su nuovi argomenti che ho voluto proporre: il capitalismo, l’egocentrismo, la sessualità, i valori della persona e tanti altri. Non può che farmi bene riflettere su questi problemi che meritano un approfondimento.

Andiamo a incominciare

Partendo dalla mia esperienza personale, di pregiudizi, in quanto disabile, ne avevo già subiti molti per cui quando Claudio Imprudente mi ha parlato del Progetto Calamaio mi è venuta la curiosità di saperne di più: ho chiesto all’USL se potevo lavorare a questo Progetto e, fortunatamente, mi hanno dato una risposta affermativa. Ritengo che il Calamaio sia un modo nuovo per affrontare i pregiudizi. E’ come se mi si fosse risvegliata la rabbia tenuta dentro per tanto tempo. Il pregiudizio è spesso soltanto una questione di ignoranza, nel senso vero del termine. Sul momento si può lasciar perdere, ci si passa sopra, ma dopo, se si vuole costruire qualcosa è importante mettersi in gioco attraverso il Calamaio.
Possiamo dire che il clima all’interno del Centro Documentazione, in particolare del Progetto Calamaio, è gioviale, ludico, molto familiare; inizialmente c’era un rapporto di scambio a due tra me e la mia operatrice, Floriana. Dopo si è trattato di mettersi nell’ordine d’idee di lavorare in gruppo. Sono emerse difficoltà, fatiche, in quanto non ci eravamo abituati.
Sono partita da una formazione aziendale. Secondo la mia qualifica professionale avrei dovuto fare tutt’altro tipo di lavoro in ufficio-magazzino o in ufficio di produzione: gestione scorte, materie prime, gestione di documenti ecc. Come la vivo adesso? Mi sento come tanti altri: alle volte studiano per fare un tipo di lavoro e magari ne faranno uno completamente opposto: si accontentano di quel che c’è.
Durante i primi incontri nelle scuole, avevo un’impressione sconcertante, mi sentivo male, mi sembrava di essere lì per caso, un pesce fuor d’acqua, a disagio: “Che cosa vado a dire? Come dirlo? C’è modo e modo di dire le cose; il mio modo sarà adatto?”
Mi veniva da pensare: “Ma guarda, io che non ho fatto il Liceo Classico o l’Istituto Magistrale, vado nelle scuole e mi sento un po’ una maestra. Da molto tempo oramai non ho più quella sensazione sconcertante un po’ per merito dell’esperienza pratica fatta all’interno del Progetto Calamaio,
un po’ per l’attenzione che i nostri colleghi “normodotati” hanno avuto nei nostri confronti. Ora so che la mia fatica e quella dei miei colleghi, rientra nella normalità della vita quotidiana, anche se a volte è maggiore, l’affronto in maniera diversa, la prendo meglio psicologicamente.
Si sa che se si vuole continuare a svolgere il Progetto Calamaio, una certa dose di fatica fisica è da mettere in conto, è insita nel Progetto stesso. E’ una fatica che porta i suoi frutti, per questo viene accettata. In questi ultimi anni, sono aumentate le richieste, soprattutto da parte delle scuole materne. E’ aumentato il mio senso di responsabilità e ho potuto trovare un mio spazio sempre più ampio dove potermi esprimere.
In quanto al futuro del Progetto Calamaio, mi piace pensare che possa continuare, perché è un lavoro utile e penso che abbia ancora molto da dire, indipendentemente dalle questioni economiche, che pur ci sono. Io lo faccio perché ci credo anche se è difficile capire come. Ci siamo resi conto che nel sociale ci sarà sempre qualcosa da fare, per quanto riguarda i rapporti umani che sono e rimangono molto complessi.

Nelle scuole

Durante l’esperienza alle elementari a Mogliano Veneto, un bambino di nome Stefano, si è riconosciuto in me essendo anche lui portatore di deficit: mi ha vista come un suo simile, tanto che mi è letteralmente saltato al collo, sedendosi sulle mie gambe fin dalla prima volta che mi ha visto. Ditemi voi se questo non è gratificante, incoraggiante, sia per le insegnanti, sia per i bambini, sia per noi.
I bambini di Crespellano ci accompagnavano per il corridoio in giardino. Si è creata una atmosfera particolare, gioviale nella quale si sono rivelati intellettivamente vivaci ma calmi fisicamente. E’ stato uno dei percorsi meglio riusciti. Sono questi i momenti che lasciano il segno e i singoli componenti del Progetto stesso ne costituiscono la storia. Il Progetto Calamaio alla scuola materna nel quartiere Borgo Panigale, a Bologna, ha avuto inizio nel 1992. Erano presenti: Roberto, Floriana, Cinzia, Alberto, ed io. Per l’occasione abbiamo fatto un percorso utilizzando una versione ridotta del film “ l’Orso “ di Annaud. Questo per questione di tempi sia nostri che dei bambini. E’ stata un’esperienza memorabile: insegnanti, bambini e noi tutti coinvolti. Sono stati realizzati dei costumi per la drammatizzazione della fiaba, con la collaborazione di insegnanti, bambini, bidelli e genitori.
I bambini sceglievano a loro piacimento l’animale da impersonare, poi si dividevano in gruppetti. Ed ora tutti a giocare! Sdraiati per terra, saltare, cantare, mimare e travestirsi. Nell’esperienza del pesce nella fiaba dell’orso, c’è un momento nel quale l’orso dà da mangiare all’amico orsetto. Una bambina mi si è avvicinata e mi ha chiesto: “Che cosa stai mangiando?”. “Hai visto, sto mangiando un pesce”.
Durante un altro momento, quando il cacciatore cattura l’orsetto impersonato da me, i bambini tutti attorno cercavano di aiutare l’orsetto a liberarsi dalla corda al collo. In un incontro successivo un bambino mi si è seduto sulla schiena senza la paura di farmi male, in modo talmente naturale che da lì è nata l’idea di mimare la tartaruga con l’aiuto dei bambini. Per me era la prima volta che mi succedeva una cosa del genere, mi ha lasciato stupita. Io fin da piccola sono stata trattata come dentro una campana di vetro. Quel bambino con naturalezza ha rotto la campana e io ho provato una grande emozione.
Alla fine del percorso i bambini si sono messi a giocare liberamente con dei teli di stoffa. Durante il quinto incontro sono state fatte delle sagome di gomma piuma che possono rappresentare l’équipe del Progetto. Queste servono per comunicare ai bambini la differenza tra sé e l’altro; lo stesso vale per il gioco dello specchio.

Esserci o non esserci?

Il Progetto Calamaio mi ha permesso di crescere personalmente e professionalmente, mi ha aiutato (e mi aiuta tuttora) ad ampliare le vedute, eliminare i pregiudizi che mi possono essere rimasti, nei confronti di alcuni ambiti che esulano dalla mia esperienza diretta. Mi aiuta ad acquisire nuove competenze lavorative, a rimettere in discussione le mie motivazioni iniziali: dopo più di dieci anni di lavoro al Centro Documentazione Handicap ci è sembrato sia venuto il momento di farlo.
Ho scoperto di essere un po’ demotivata, ho dovuto prendere una decisione rispetto al futuro. Mi sono chiesta: ”Ci sto ancora al Progetto Calamaio o mi sono stancata? …Ho deciso di rimanere e trattare temi interessanti sia per me, che per gli studenti. Ho scoperto una peculiarità molto importante, fondamentale, alla quale non avevo mai fatto molto caso: la versatilità, la flessibilità del Calamaio, cioè il poterlo trasformare a seconda dei miei interessi, è più bello di quanto si pensi; è una peculiarità molto preziosa, senza la quale questo luogo di lavoro non potrebbe esistere. E’ senza dubbio un preludio alla creatività.

Il piacere di giocare

Ciascun gioco ha significato, anche quello di tipo più “normale”; i bambini a partire da un’età molto precoce, utilizzano il gioco come un mezzo per esprimere la loro relazione con il mondo che li circonda e con le altre persone.
Intervista a Licia Vasta psicopedagogistaNel 1921 la Klein aveva cominciato ad interessarsi al modo in cui l’apprendimento, un’attività presumibilmente intellettiva, potesse subire l’interferenza di blocchi causati da fantasie e paure inconsce.
Successivamente s’interessò non solo ai blocchi, ma all’attività stessa d’apprendimento, e affermò che tutto quello che il bambino fa nel suo gioco è un’espressione della sua fantasia inconscia. Ciascun gioco ha significato, anche quello di tipo più “normale”; infatti, proprio nel gioco libero l’accento passa dalla domanda “ che cosa fa quest’oggetto” alla domanda “che cosa posso fare io con quest’oggetto”. Winnicot afferma che solo giocando il bambino o l’adulto ha la possibilità d’essere creativo e di sfruttare pienamente la sua personalità; il gioco permette di ottenere un piacere, vale a dire una soddisfazione e uno scarico mediato e indiretto dei moti pulsionali attivati.
I bambini a partire da un’età molto precoce, utilizzano il gioco come un mezzo per esprimere la loro relazione con il mondo che li circonda e con le altre persone, e per affrontare le difficoltà sia fisiche sia emotive. Il gioco è così un primo passo nella formazione del simbolo. E’ la capacità di digerire, elaborare e riflettere su un’esperienza importante. Tramite il gioco, i bambini nella vita di tutti i giorni possono entrare in contatto con i propri sentimenti e avere l’opportunità di elaborare eventi esterni o interni a loro stessi.
Poiché questi sono in gran parte inconsci, i bambini non saranno capaci di parlarci direttamente del loro significato, anche se sono capaci di parlarci delle azioni e degli eventi che sono riprodotti nel gioco.
Il gioco si mostra dunque carico di significato, ed è un veicolo a tutti gli effetti per l’espressione delle fantasie infantili, vale a dire i pensieri e i sentimenti inconsci che stanno dietro alle azioni.
Di questo tema ne parliamo con Licia Vasta psicopedagogista: coordinatrice psicopedagogica servizi per l’infanzia, socia del Centro italiano di psicoterapia psicoanalitica per l’infanzia e l’adolescenza di Bologna.

Il tuo intervento a chi è rivolto con quale metodologia e orientamento?

La mia esperienza professionale mi porta a lavorare con la primissima infanzia 0/6 anni riconoscendo il gioco come primo strumento di comunicazione/osservazione.
Dopo la laurea ad indirizzo psicologico, il mio percorso di formazione è stato in pedagogia psicoanalitica e questo mi ha dato la possibilità di Ri-conoscere nell’indirizzo psicoanalitico un mio modo di rapportarmi all’altro, in particolare al bambino. Uno degli autori ai quali la Scuola di Formazione (C.I.Ps. Ps. I.A.) fa riferimento è Winnicot e quello che lo psicoanalista racconta nei suoi testi, dal mio punto di vista, è stato incisivo per incontrare il mondo interno del bambino.
Come psicopedagogista mi trovo spesso a lavorare in situazione, o ad incontrare i collettivi per supervisionare i casi. E’ importante definire il mio ruolo ed il mio intervento perché non rientrano in un campo perfettamente “terapeutico” ma in un percorso di “prevenzione “ al disagio. Riuscire a leggere i segnali che un bambino, anche di soli 14/15 mesi, presenta attraverso il corpo mi dà una sensazione di piacere. E’ la disponibilità dell’educatore, quell’adulto, che può muovere un cambiamento nell’altro. Solo attraverso il godimento dell’esperienza, del non farsi intrappolare dal dolore del bambino si può capire, o meglio sentire, il bisogno di questo. Ritengo il “piacere” la prima parola chiave che uno psicopedagogista dovrebbe tenere nella propria mente per sostenere l’altro. Il bambino può crescere solo attraverso una relazione, ma una relazione si sviluppa solo c’è la reciprocità del piacere.
Proverò a raccontare che tipo d’intervento faccio tenendo presente alcuni presupposti, sia quando sono io direttamente a giocare con il bambino, sia, quando sono le educatrici dei servizi educativi che seguo. Ormai sappiamo che ogni bambino c’è rivelato attraverso il gioco. Il gioco è anche osservazione, è la capacità di mantenere quella giusta distanza emotiva che mi fa osservare, ma anche osservarmi. Ascoltandomi posso differenziare me dall’altro, riconoscere ciò che posso temere io o teme l’altro. L’interpretazione del gioco, del transfert, come c’insegna Winnicott, è quasi totalmente interno a me, minimamente coinvolge verbalmente il bambino. Più il bambino è piccolo, più la lettura del gioco, i movimenti del gioco si ricercano nel pre-verbale. Quello che interpreto durante il gioco mi deve servire per modificare l’ambiente.

Perché è importante utilizzare il gioco in età evolutiva?

E’ una risposta breve ma è tutto poter affermare che il bambino mentre gioca ci porta il suo mondo interno, si presenta, ci racconta i suoi affetti, ci dice come le due energie di base (libidica e aggressiva) si muovono dentro/fuori di lui. Nel gioco è il non verbale che “entra in gioco”; gioco sta a significare “giocare dentro” e solo con un ascolto costante e continuo posso giocare, comprendendo l’altro nella comunicazione, nella disponibilità a tollerare dentro di me la diversità che incontro fuori.
Solo all’interno di questo rapporto è possibile la regressione, cioè il poter rimettere “in gioco” mancanze, frustrazioni per gestirle, non compensarle. Chiedersi quando si è con un bambino quali legami il bambino sente con l’ambiente, cosa ci sta narrando attraverso il gioco, come usa l’oggetto e lo spazio, a cosa sta dando importanza, quali sentimenti si stanno muovendo tra me e il bambino è di vitale importanza fra narrare il gioco, poter guardare se stessi mentre si guarda il bambino giocare.
Non c’è solo la tecnica nel gioco, c’è il sentimento nell’esperienza, il cambiamento in un bambino avviene dal momento che l’altro (l’adulto) coglie i suoi segnali e riesce a stare in contatto con l’ipereccitabilità, l’assenza, l’aggressività con affetti faticosi per il bambino.
Quando il bambino sente che l’adulto non scappa, il bambino si sente visto, letto, accolto, investito, celebrato anche nella parte non cosciente. In un movimento di questo tipo ritorna la parola chiave “piacere”, piacere di stare con l’altro e potersi permettere di cambiare; magari cambiare trasgredendo, condividendo un’esperienza di contatto e non di solitudine.
Questo, nel mio lavoro, mi dà la possibilità di muovermi non per situazioni che richiedono interventi terapeutici, ma che si attivano all’interno delle istituzioni educative (come asili nido e scuole materne) nelle lettura della prevenzione del disagio.
Alleggerire gli aspetti giudicanti, arricchire di immagini e di emozioni l’altro e condividere i “casi” all’interno del gruppo facilita il veicolare delle emozioni.
Il contatto con il bambino è decisivo nel nostro lavoro, ma sappiamo anche come certi atteggiamenti e movimenti possono diventare “pericolosi” se non filtrati dalla supervisione.
Altro passaggio nel gioco con il bambino è il dare un significato ai comportamenti del bambino; se l’adulto nei servizi educativi non propone un’organizzazione, se nella propria mente non ha una trama il gioco non si sviluppa, la fantasia non è feconda, non c’è sequenza narrativa, c’è solo la solitudine del bambino, perché ogni bambino ha dentro di sé una storia.
Per giocare deve raccontarla a qualcuno che lo sta ad ascoltare e le storie dei bambini sono legate alla quotidianità delle loro esperienze familiari. La presenza dell’adulto di quando gioca con un bambino, è il dare un significato allo stare insieme nei gesti quotidiani. L’educatore dovrebbe rispettare il sentimento vero del bambino, perché l’esperienza vera ha bisogno del suo tempo per costituirsi.
Il contatto presuppone il rispetto, l’ascolto, l’attesa.
Mentre gioco è il clima relazionale che “nutre” che trasforma e accoglie, che fa accedere nell’immaginario del bambino, alleggerendolo delle sue ansie. Il “buon gioco” è legato all’atmosfera che si crea nel rapporto con il bambino, alla capacità di contenere il disagio, le emozioni, la solitudine del bambino.

Qual è il tuo ruolo durante il gioco

Dipende dalla situazione; il mio ruolo, di solito all’interno di un piccolo gruppo con 2/3 bambini, può essere diretto o di “osservatore partecipante”; è sempre però attento ad aiutare quel bambino a trasformare le sue azioni senza significato in atti aventi un significato ludico.

Come?

Facendo da “specchio”, accettando e sottolineando con gesti e voci la propria presenza senza che sia intrusiva; rilanciando gli “spunti” del gioco, riprendendo le espressioni dei bambini. Integrando ed estendendo i movimenti ludici del bambino.

Mi puoi parlare di una tua esperienza?

Vorrei brevemente narrare un’esperienza con una bambina della sezione grande di un nido che coordino. Sara, così la chiamerò, si presentava come una bambina competente, attenta a tutto ciò che la circondava. Sara manteneva però un “muro invisibile” tra lei e i bambini, tra lei e l’educatrice; se a casa aveva un’ottima competenza linguistica, al nido si rifiutava di parlare.
A seguito di diversi colloqui con la coppia emergeva un quadro di separazione (dai genitori) non del tutto risolta. Il mio intervento, come in altri casi, è stato quello di intervenire sulla bambina ma pensandola dentro a quella specifica dinamica della coppia genitoriale. Sara al nido non godeva dell’esperienza del gioco, l’uso dell’energia libidica e aggressiva erano quasi assenti. Il mio intervento, durato quasi tutto l’ultimo anno di nido, con scadenza quindicinale, era integrato dall’educatore di riferimento. Ogni mese con le educatrici ci ritrovavamo a leggere le osservazioni, discuterle, formulare ipotesi e individuarne strategie.
Un primo intervento sul gioco (nello specifico era il gioco della bambola) che si è rilevato fondamentale per incontrare Sara è stato quello di restituirle le “emozioni che la bambola provava” come ad esempio “la bambola piange perché vuole la mamma..”.
Il mio ruolo inizialmente è stato di un Io ausiliario. Il gioco di accudimento alla bambola ha portato via via Sara a ri-conoscersi in quei movimenti, a permettersi delle emozioni che inizialmente nel mondo esterno (nido) potevano essere estranee e sconosciute. Fidandosi e affidandosi all’adulto si è permessa un movimento di separazione, si è potuto esplorare gli affetti della bambina.
Spesso il mio ruolo era silenzioso dove l’attenzione era rivolta ai gesti, alla postura ecc. ma questo non sarebbe stato possibile se a monte non ci fosse stata un’alleanza psicopedagogica con i genitori. In quel caso l’elaborazione di un’esperienza faticosa come la separazione è stata rivisitata con una lente d’ingrandimento restituendo a Sara il piacere del gioco, del movimento ad andare avanti, dove separarsi non è perdersi e sparire, ma ri-incontrarsi con altre modalità.

Handicap e gioco

C’è una accezione della parola handicap che ha caratteristiche di positività e la traduciamo con la parola difficoltà. Positiva perché se noi riusciamo a connettere l’handicap-difficoltà ad un gioco allora scopriamo il valore dell’handicap, valore che non esiste in sé ma esiste in quanto inscritto in un sistema di regole, in un sistema di giocoProviamo a ripensare al collegamento tra handicap e deficit in relazione al gioco, tema che già da un po’ stiamo tentando di affrontare sulle pagine di HP. Premetto che ci sono molti tipi di giochi (noi abbiamo preso in considerazione in questo caso soprattutto quelli con regole) e come dice Wittgenstein, non esiste una unica logica sottesa a tutti i giochi linguistici, non esiste il Gioco dei giochi, che racchiude in sé il significato di tutti gli altri. In altri termini non pretendo di dire la verità ultima sul gioco perché equivarrebbe a svelare il mistero della natura umana ma a esplicitare alcuni meccanismi di funzionamento, alcune connessioni tra handicap e gioco.
Esistono due accezioni della parola handicap: una sicuramente negativa, tradotta con i termini svantaggio e ostacolo. In questa accezione l’handicap va per quanto possibile ridotto, va combattuto con tutta la creatività di cui siamo capaci.
Ma un’altra accezione della parola ha caratteristiche di positività e la traduciamo con la parola difficoltà. Positiva perché se noi riusciamo a connettere l’handicap-difficoltà ad un gioco allora scopriamo il valore dell’handicap, valore che non esiste in sé ma esiste in quanto inscritto in un sistema di regole, in un sistema di gioco.
L’handicap è come il sale, elemento non affrontabile in sé ma fondamentale se si riesce a connettere ad altro, ai cibi: da ciò trae il suo valore. Già da tempo diciamo che dell’handicap in quanto tale non ci importa nulla semplicemente perché, in sé, l’handicap non ha senso. L’indifferenza, tanto combattuta e stigmatizzata, verso il cosiddetto “mondo dell’handicap” è giustificata, anche solo per il fatto che questo mondo non ha senso di esistere, o per meglio dire è disabitato, come Cartagine è stato distrutto e sopra i Romani hanno cosparso il sale. Qualche volta la sensazione che si prova ad entrare in un centro residenziale per soli disabili equivale ad addentrarsi in una salina, in una landa desolata senza vita.

Bianchi e Neri

La categoria del gioco diventa allora fondamentale. Ma proviamo ad approfondirla meglio: in che rapporto sta l’handicap-difficoltà con le regole del gioco? La prima cosa interessante da riscontrare è questa: da un certo punto di vista si ribalta la concezione per cui l’handicap deriva dal deficit in rapporto all’ambiente. In realtà in ogni gioco c’è già un handicap-difficoltà di vario tipo. Ogni gioco che merita questo nome ha in sé una difficoltà che costituisce il sale del gioco. L’handicap, nell’accezione di difficoltà, preesiste al deficit. Quello che si chiama deficit è uno scarto tra un elemento del gioco e le regole o le condizioni abitudinarie e usuali per poter giocare. Pensiamo al gioco degli scacchi: ogni giocatore parte con lo stesso numero e tipo di pezzi. Il Bianco ha le stesse potenzialità del Nero (a parte un leggero vantaggio iniziale per il fatto di fare la prima mossa). Proviamo ad introdurre un deficit: togliamo ad un giocatore, ad esempio al Bianco, una torre. Dal punto di vista del “materiale” si è creato uno svantaggio per il Bianco. In una partita tra due giocatori a pari livello di “abilità” la situazione del Bianco sarebbe già compromessa. Man mano che cresce il livello di abilità dei giocatori, e diminuisce l’incidenza del caso, della fortuna nel gioco, questo deficit diventa sempre più determinante. Un GM (grande maestro) di scacchi contro un GM che gioca con una torre in meno fin dall’inizio della partita ha quasi il 100% di probabilità di vittoria (a meno che non commetta una svista madornale e non giochi al suo livello). Abbiamo con questo esempio due tipi di handicap: un handicap preesistente al deficit, la difficoltà nel gioco degli scacchi, ciò che rende appassionante il gioco, e dall’altra una ulteriore difficoltà determinata dal deficit di un giocatore, difficoltà che in questo caso è realmente uno svantaggio tutto a carico però di un unico giocatore. C’è infatti da osservare che questo svantaggio si tramuta in vantaggio per il giocatore avversario che di fatto si trova ad avere un pezzo in più.

La vita è bella

Ma dobbiamo analizzare meglio la questione. Se ci pensiamo bene, qual è lo scopo del gioco? Si gioca a scacchi per mille motivi, ma il più importante sicuramente è la bellezza stessa del gioco: c’è un piacere di giocare. Ne “La vita è bella” di Benigni è evidente la ricerca di senso nelle cose, nei giochi che ci troviamo a vivere per varie ragioni. La ricerca di senso è il dato più importante, quello che è importante è il piacere di giocare, il piacere di condizionare e non solo essere condizionati dagli avvenimenti. Non è a questo punto nemmeno il gioco ad essere determinante ma la ricerca di senso nelle cose che accadono. Di fatto, da dati apparentemente oggettivi si arriva, nella storia raccontata dal film, alla ristrutturazione del significato. Ricordate la scena in cui il tedesco del campo di concentramento illustra le regole del campo e di volta in volta Benigni le traduce in un gioco per il proprio bambino? E’ importante il gioco ma è più importante il perché si gioca, la bellezza che sta nel gioco, che non va ridotta al gioco stesso, non va confusa con il gioco. Il soldato tedesco vuole imporre un sistema di regole: il padre-Benigni non accetta di giocare a quel gioco e lo cambia. La sua genialità sta nel cambiare il gioco apparentemente lasciandolo immodificato: lasciando immodificati i “dati oggettivi” ma trasfigurando totalmente agli occhi del figlio il significato di questo dati. Il soldato tedesco vuole fare paura perché lui rappresenta la razza superiore: nel gioco di Benigni il soldato tedesco vuole fare paura perché non vuole che il bambino vinca il carrarmato.
Se un gioco non valesse più la pena di venire giocato evidentemente dovremmo cambiare le regole o cambiare (come Benigni) il significato al gioco, perché non è l’uomo per il gioco ma è il gioco per l’uomo. La vita è un insieme di giochi ma non è la risultante di questi giochi: nessun gioco è assoluto ma la vita sì. Ecco perché il film di Benigni non si intitola “Giocare è bello” ma “La vita è bella”. Se il gioco diventa l’assoluto si rischia di fare la fine del medico tedesco che è talmente preso dai suoi indovinelli e giochi di parole, tanto da perdere il contatto con la realtà, disumanizzandosi.

Adattare, inventare, integrare

Se la presenza di un deficit impedisce di giocare abitudinariamente un gioco ci sono alcune strade possibili. La prima è una non-strada, cioè si smette di giocare: l’handicap del secondo tipo, ovvero lo svantaggio causato dal deficit, è talmente aumentato che conviene non giocare. E’ una specie di suicidio del gioco stesso. Ciò avviene perché si assolutizza il gioco, ovvero si ritiene che non sia tanto importante chi gioca e la sua ricerca di piacere e di senso, ma sia importante il gioco stesso. Se non ci sai giocare, amen…torna un’altra volta, torna in un’altra vita, sono problemi tuoi. L’altra strada è il gioco adattato, ovvero giochiamo lo stesso gioco ma cambiando le regole, introducendo degli ausili che permettono comunque di giocare nel modo più simile al gioco originario. Una ulteriore strada è il gioco speciale, ovvero si inventa un gioco che una persona con deficit riesce a fare, un gioco completamente nuovo e originale. Sto riproponendo la classificazione delle discipline sportive per disabili: le specialità degli sport adattati (il basket in carrozzina eccetera); gli sport speciali (il torball, ad esempio, giocato solo dai ciechi). Esiste una terza distinzione: gli sport integrati, giocati sia da atleti normodotati che disabili (gli unici due esempi per ora sono il calcio in carrozzina e il calcio a sei).
Ciò che alla fine è essenziale è il giocare, non l’insieme dei giochi storicamente esistenti. Giocare ovvero sperimentare la bellezza nel gioco, chiamiamolo il piacere del gioco.

Handicap, deficit e piacere

Nei giochi con regole il piacere è dato da una equilibrata interazione tra handicap e regole e l’handicap è determinato dalla connessione tra le abilità-potenzialità e le regole (il limite). Come si è detto prima, se l’handicap aumenta troppo o diminuisce troppo non ci si diverte. Esempio: tra due giocatori di scacchi ci si diverte quando i giocatori hanno le stesse abilità visto che le potenzialità, nel senso dei pezzi in campo, sono uguali. Il divertimento nasce da un confronto possibile tra due giocatori, tra due abilità. Se un maestro di scacchi gioca con un dilettante può trar piacere per molti motivi ma da un punto di vista strettamente scacchistico non si può più di tanto divertire perché vince facilmente. Per lo stesso motivo il dilettante si sente schiacciato dalla superiorità del maestro, e va incontro ad un risultato scontato della partita. E’ interessante notare che se in questo caso affibbiamo un deficit al maestro, togliendogli una regina e privandolo così di forze “materiali”, allora forse questo riequilibra le sorti della partita, aumentando l’handicap-difficoltà del maestro e diminuendo l’handicap del dilettante. Paradossalmente in questo caso al deficit non corrisponde in realtà un handicap come svantaggio, ma un handicap più gestibile, meglio distribuito tra i giocatori. L’handicap aumenta il piacere della partita, perché il risultato non è più scontato. Un altro caso in cui si può tentare di equilibrare l’handicap in presenza di un deficit, si verifica quando, in una partita tra due giocatori equivalenti in abilità, togliamo una torre ad uno ma la togliamo anche all’altro. La somma di due deficit tra due avversari ricrea una situazione di equilibrio.
La conseguenza di questo ragionamento è che non è corretto dire, come invece diciamo, che mentre il deficit è oggettivo, immodificabile, l’handicap è soggettivo e in movimento, quindi si può diminuire o aumentare. Anche il deficit, sebbene sia più oggettivo, più misurabile, in realtà non esiste in sé ma nel confronto tra una normalità-abitudinarietà del gioco e una situazione di originalità (come nel caso della mancanza di un pezzo nella formazione del Bianco o del Nero, nel gioco degli scacchi). Oltre a questo, è sì giusto affermare che il deficit esiste in questo rapporto, ma ciò che ci interessa non è il deficit in sé ma il suo significato in rapporto al gioco, le conseguenze del deficit in rapporto al gioco. Arriviamo al caso limite in cui il deficit del maestro (che gioca senza la regina contro un dilettante) aumenta il piacere del gioco, equilibra le sorti della lotta tra Bianco e Nero, rende l’handicap-difficoltà gestibile. Possiamo dire che il significato del deficit dipende dalla qualità dell’handicap-difficoltà del gioco, dalla gestibilità di questo handicap.