Autore: admin
Icone di libertà, Il messaggero di Sant’Antonio, Settembre 2015
Scritto da admin il . Pubblicato in Senza categoria.
Papa Francesco ha più volte parlato di schiavitù e delle forme in cui si palesa nel mondo come nella quotidianità. Mi chiedo spesso se la disabilità possa o meno rientrare in una di queste forme… E se invece fosse paradossalmente un’icona di libertà? Come si può essere liberi nella diversità? E come i genitori, o più precisamente il padre, di un bambino con disabilità possono scoprirla nella relazione che li lega e darle spazio?
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Qualche mese fa avevamo parlato di come nella relazione padre-figlio le difficoltà, ormai non più solo competenza materna, possano inaspettatamente condurre entrambi in un orizzonte diverso, fatto di complicità ma soprattutto di esplorazione dentro e fuori di sé. La libertà è terreno comune, ma è anche un campo personale in cui ci avviciniamo all’espressione di pari passo con il cambiamento. Il tema della libertà, quando si parla di una persona con disabilità, è naturalmente legato all’autonomia, alle occasioni di scelta, ma non solo, dipende anche dai servizi, dai diritti, dal contesto e dal tipo di disabilità…
Come può fare allora un padre a crescere un figlio libero? E a sentirsi libero? Se ne è parlato a lungo nell’ultimo numero monografico di «Hp-Accaparlante», storica rivista del Centro Documentazione Handicap di Bologna, dedicato questa volta al ruolo del padre con il divertente titolo «Astropapà – Il ruolo paterno tra stereotipi del passato e identità future».
A ben vedere, la prospettiva si può ribaltare. Dipende da che cosa intendiamo quando parliamo di libertà, al significato più profondo e «agito» che le attribuiamo. Cito a riguardo proprio le parole di un papà: «Che cosa è la libertà per me? Non è solo un concetto giuridico di matrice pseudo occidentale. La libertà passa per la ricchezza delle relazioni. Qualunque persona privata di relazioni non è libera, anche in un contesto nel quale potenzialmente sembra essere padrona delle proprie scelte. E la condizione biologica delle persone non è indice di potenziale poca libertà, anzi… È più libera una persona con disabilità gravissima, anche cosiddetta intellettiva, inserita in un contesto familiare o comunitario ricco di relazioni e inclusivo, o una persona che per anni è costretta a lavorare “liberamente” in un contesto non desiderato, umiliante, solitario, solo per poter sopravvivere?». Certo, queste sono domande che stimolano la riflessione e spingono il dibattito a un confronto provocatorio, ma le provocazioni aprono la mente.
Anche gli eventi con cui è cominciato il nostro nuovo anno hanno portato alla ribalta il tema, perché, di fatto, è il pilastro su cui, nel bene o nel male, si fondano le nostre vite. La disabilità ci obbliga a uscire dagli schemi e dalle definizioni e a metterci fisicamente di fronte al nostro pensiero di libertà. Una persona che non si può muovere o che non può parlare che immagine ci trasmette? Eppure la libertà, come ci racconta questo papà, non è un fatto d’immagine, ma una faccenda che riguarda l’azione, qualcosa che si muove, che è e che crea relazione. Perché, come dice Giorgio Gaber, «la libertà non è star sopra un albero / non è neanche avere un’opinione / la libertà non è uno spazio libero / libertà è partecipazione» (La libertà).
E voi state sopra o sotto gli alberi? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
Il Calamaio al Centro diurno Seneca
Scritto da admin il . Pubblicato in Monografia.
di Emanuela Canale (*)
Maggio 2014: è un sabato pomeriggio come tanti a Crevalcore, la bellezza del borgo è coperta dalle impalcature che il terremoto ha costretto a tirare su, in una panda blu quattro strani[eri] individui cercano il centro per anziani in via Trombelli, ma nessuno sa dove sia. Le persone che fermiamo per chiedere informazioni, incuriosite, vogliono sapere cosa cerchiamo, vogliono chiacchierare, scrutare, mai dirci «per dove dobbiamo andare». Eppure, dopo tanto cercare, troviamo la nostra meta a un passo dall’entrata principale del paese.
Il Calamaio è a Crevalcore per un incontro che prevede la partecipazione di bambini frequentanti la terza elementare e degli anziani del Centro diurno Seneca. I bambini della III B e della III D avevano precedentemente incontrato il Calamaio in tre incontri tenuti a scuola con Emanuela, Luca, Emanuela (servitrice) e Mario. Il filo conduttore di questa serie di incontri è rappresentato dal libro Le parole scappate di Arianna Papini; protagonisti del libro una nonna e un nipote, accomunati dal singolare approccio alla realtà in quanto affetti, rispettivamente, dal morbo di Alzheimer e da dislessia.
Alle classi, che avevano letto il libro con le loro maestre, sono state proposte delle attività che ne richiamano i contenuti, facendo leva sulla capacità di ricordo e di comunicazione che si rifanno alle esperienze della nonna e del nipote della storia narrata nel libro. Così, annusare un odore ad occhi chiusi è stata un’occasione per richiamare alla memoria sensazioni e ricordi della propria vita e poi, raccontare ciò che ci caratterizza, ciò che ci piace, per mezzo del disegno, ha permesso ai bambini della III B e della III D, di provare ad avvicinarsi ai protagonisti della storia raccontata da Arianna Papini. I bambini sono stati avvicinati a modi di comunicazione diversi da quelli che sperimentano abitualmente, invitati a farlo da Mario, animatore disabile del progetto Calamaio.
Le diverse forme della diversità hanno dunque invaso le classi della terza elementare di Crevalcore, regalando ai bambini ore di completa originalità: si sono riconosciuti tra di loro senza che il nome di nessuno venisse direttamente pronunciato nel gioco della carta d’identità, portati a guardarsi alla luce di ciò che gli piace e spronati a conoscersi per ciò che li identifica, più di un semplice nome o di un’informazione vuota e frettolosamente individuata. Si sono sottoposti all’invasione del ricordo non evocato consapevolmente, ma suscitato improvvisamente da un odore che invade i sensi che è capace di concedere alla memoria gli infiniti spazi dell’incoscienza. In essi la capacità mnemonica si muove con la libertà che il ricordo consapevole non le concede, connotandola di quell’inaspettata capacità di evocazione, che invade tanto più colui che cerca di afferrare consapevolmente ricordi forse perduti, come racconta Proust, travolto dal sapore di una madeleine e dall’infanzia perduta, da esso portata alla mente. Hanno poi disegnato, non raccontato né scritto, la loro stagione preferita, ciò che gli fa più paura, la loro famiglia. Tutto questo gli è stato proposto da Mario, animatore in carrozzina, che incontro dopo incontro i bambini hanno imparato a conoscere e ad amare, nel travolgente avvento di una diversità che scuote, colora, anima, la normale quotidianità che a un bambino non sta ancora stretta, ma può ancora apparire come uno degli infiniti modi di muoversi nel mondo.
Al Centro diurno Seneca sono venuti in tanti, incuriositi dall’incontro con quelli che chiamano «i nonni». Alcuni di essi in effetti sono proprio i loro nonni, altri degli estranei, anziani che in alcuni casi hanno il morbo d’Alzheimer, proprio come la nonna del libro, probabilmente prima mai incontrati, sicuramente mai cercati. Sabato invece c’era finalmente la possibilità di vederla la nonna del libro, di provare a stare con lei e di capirla, come gli altri personaggi della storia, nipote dislessico a parte, non erano in grado di fare. Nel grande cerchio che si è formato nella stanzetta in cui di solito «i nonni» stanno tra di loro, ad ascoltare distratti vecchie musiche che fuoriescono da uno stereo (quanto sarebbe più appropriato un giradischi), sabato c’erano tutti: i bambini e gli anziani.
Il ricordo è stato l’insolito protagonista del sabato pomeriggio al Centro Seneca: dopo aver raccontato da dove arrivavano e perché eravamo lì, cosa avevano fatto con noi del Calamaio, uno alla volta i bambini hanno chiesto ai nonni di raccontarci i loro ricordi d’infanzia, scoprendo che l’intramontabile campana accomuna tempi vecchi e nuovi. Non è mancata neanche la possibilità di scoprire che l’Alzheimer arriva a non permettere di condividere ricordi, la risposta alla domanda sui giochi d’infanzia può essere uguale a quella che una delle nonne rivolge a qualsiasi domanda, c’è solo una melodia: lala, lala, lala…. ripetuta incessantemente e spiegata da chi le è più vicina così: «la nonna è come quella del libro, ha perso tutte le parole».
L’incontro di generazioni che hanno più tempo dietro di sé che non davanti, a cui guardano con nostalgia, e di quelle che si apprestano al futuro con frenetica euforia, noncuranti del passato, vede nascere sguardi di curiosità tra l’uno e l’altro, l’incrocio di saggezza e inconsapevolezza, di lontananza estrema eppure di simbiosi nell’accomunante incedere del tempo e della vita. Per due ore tutto questo si è incontrato, facendo giocare insieme queste dimensioni che, inserite in squadre miste, hanno condiviso conoscenze che nessuno dei due può possedere al posto dell’altro, tutte nate dai diversi tempi vissuti. I cantanti con la lettera ‘a’ non son gli stessi per chi ha 70 anni e chi ne ha 11, le musiche che si riconoscono e si indovinano nel gioco nemmeno; così il punteggio tra le squadre procede dopo che il titolo di Una rotonda sul mare viene riconosciuto da chi su quelle note si è innamorato, mentre i tormentoni del momento vengono individuati dai piccoli di oggi, coinvolti ed esaltati.
Poi una merenda tutti insieme e l’appuntamento a maggio, di nuovo tutti insieme, per incontrare Arianna Papini, l’autrice di quel racconto che ha permesso l’avvicinamento all’insolito, dell’insolito, con sguardo curioso ma accogliente.
(*) Volontaria del servizio civile
Le parole scappate: il Seneca Cafè incontra le scuole e la comunità
Scritto da admin il . Pubblicato in Monografia.
di Giovanna Di Pasquale
Maggio 2012: il progetto nasce dalla volontà di creare esperienze e spazi di incontro fra anziani in condizione di fragilità (anziani con demenze, Alzheimer, anziani non autosufficienti) e bambini della scuola primaria. Il progetto si ispira al volume Le parole scappate di Arianna Papini: un racconto per l’infanzia che narra di una nonna malata di Alzheimer e un nipote dislessico, uniti dalla diversità e dalla solidarietà reciproca.
Dei laboratori rivolti ad anziani e bambini per parlare di malattia e disagio
Si può sviluppare intorno alla malattia il senso di una solidarietà reale? Possono le persone malate, anziane e i loro famigliari scacciare il più lontano possibile il senso di solitudine e vergogna che tanto spesso emerge dai racconti delle esperienze dirette? Può crescere la comunità mostrando attenzione e vicinanza a chi rischia di essere e sentirsi ai margini?
Al Seneca Cafè di Crevalcore abbiamo provato a dare una risposta positiva cercando una strada per condividere il peso della malattia, coinvolgendo non solo i diretti interessati (persone affette da Alzheimer e da demenze senili e loro familiari) ma anche i bambini delle scuole elementari, le famiglie, la cittadinanza.
L’occasione giusta è nata dall’incontro con un libro “Le parole scappate” di Arianna Papini, in cui l’autrice in modo denso, reale e poetico racconta la quotidianità di una nonna malata e di un nipotino dislessico.
Dalla lettura del libro è scaturita l’idea di un laboratorio che è stato proposto e realizzato in modo parallelo in alcune classi della scuola primaria e nel Seneca Cafè.
Il laboratorio si è articolato in quattro incontri per ciascuna delle realtà coinvolte, quattro momenti in cui attorno ai nuclei forti del libro (il ricordo, le paure, il coraggio) bambini e insegnanti da una parte, persone frequentanti il Seneca Cafè dall’altra hanno sperimentato emozioni, storie, racconti di vita secondo i modi e le possibilità di ciascuno.
Il frutto di questi lavori è stato poi condiviso in due incontri comuni fra le classi e il gruppo del Seneca Cafè. In un momento piacevole come il fare merenda insieme, tutti i partecipanti hanno potuto conoscere ciò che “gli altri” hanno prodotto; i bambini hanno mostrato disegni e raccontato, i “nonni” con sorrisi e qualche lacrima hanno reso partecipe il gruppo delle loro forti emozioni.
Un incontro/laboratorio alla presenza di Arianna Papini ha concluso il percorso; i bambini, gli adulti e gli anziani insieme ad ascoltare la storia letta dall’autrice, a disegnare le emozioni che fanno stare male e quelle che fanno stare bene; i nonni ad inseguire le tracce di memoria della propria infanzia, i “nipoti” a scoprirle … E molte altre persone a guardare incuriosite quel gruppo numeroso, composito, sorridente ed affaccendato durante un sabato mattina di mercato.
Punto qualificante e innovativo dell’esperienza è stato il ruolo svolto dall’équipe del Progetto Calamaio, gruppo composto anche da animatori con disabilità. In questo modo una “diversità” si è presa cura di un’altra “diversità” proponendo nello stesso tempo ai bambini e alle loro famiglie un’immagine attiva e positiva delle persone con disabilità o che vivono una difficoltà.
Attraverso gli incontri, prima rivolti in modo separato ai bambini e agli anziani e poi vissuti in una condivisione di attività ed emozioni, si è sperimentata la possibilità di ribaltare ruoli e stereotipi, di condividere paure e difficoltà, di dare spazio a coraggiosi tentativi di fare fronte a ciò che ci fa far fatica, di sentirsi meno soli. Non è un caso che il laboratorio conclusivo, vera e propria festa in città a cui hanno partecipato un centinaio di persone, fosse proprio dedicato alle paure e al coraggio.
La storia del Seneca Caffé
Scritto da admin il . Pubblicato in Monografia.
2009-2014: Seneca, un caffè itinerante per un percorso di integrazione
di Davide Ognibene (*)
Il Seneca Caffè ha sempre cercato di caratterizzarsi come un luogo di accoglienza non solo per gli anziani individuati come target di riferimento specifico o per i parenti e le persone che si occupano della loro assistenza quotidiana, ma anche come luogo rivolto verso tutti i cittadini e le risorse del territorio che possono in vario modo fornire un contributo per favorire una maggiore integrazione di questo spazio nel territorio.
La peculiarità di questa esperienza sta proprio nel tentativo di integrarsi il più possibile nella comunità locale. Ricollocare la persona con demenza al centro della vita della città, significa romperne l’isolamento, stimolare le relazioni, superare lo stigma, favorire la coesione sociale e la “presa in carico” collettiva della malattia. Nella progettazione, tutto questo si traduce in un percorso d’integrazione fatto di occasioni nuove, collegamenti inaspettati. Il nostro è un “caffè itinerante”, che si sposta dove la comunità s’incontra e vive: nei bar pubblici, nei centri sociali, nelle piazze e nei giardini pubblici.
Un percorso caratterizzato da nuovi momenti d’incontro e dal “vivere” la comunità a volte in maniera anche inattesa.
Come tutte le novità o i progetti sperimentali, anche il Seneca Caffè ha riscontrato agli inizi del suo percorso alcune difficoltà, in particolare nel farsi riconoscere e nel riuscire a integrarsi nel territorio.
Originariamente, infatti, il Seneca ha mosso i suoi primi passi in un luogo defilato dal centro del paese ma individuato come spazio ideale per una maggior visibilità del progetto ed effettiva integrazione con un centro di aggregazione frequentato da possibili fruitori del Seneca Caffè.
Analizzando i dati emersi nei primi due anni di vita del Seneca, si è riflettuto su come la posizione di uno spazio di questo tipo rispetto alla città e il suo setting, fosse un fattore importante per permettere di stabilire quale sarebbe stata la tipologia di utenti e in quale numero, quali le attività da proporre e quali, per mancanza di spazio, sarebbe stato opportuno evitare.
Partendo da queste considerazioni, a partire dal 2010, come sede principale del Seneca Caffè, pur mantenendo la sua caratteristica di percorso itinerante, è stato individuato il Centro Diurno di Crevalcore, uno spazio conosciuto e ben accessibile essendo situato nel centro del paese.
I clienti del caffé
Tutto questo perché si è ritenuto importante come l’individuazione di uno spazio di questo tipo all’interno di un ambito sociale, avrebbe potuto favorire il coinvolgimento di un numero maggiore di utenti. Questa posizione nel tempo ha sicuramente garantito una maggiore considerazione e visibilità da parte di tutti i cittadini, fruitori o possibili fruitori del Seneca Caffè, portando a un significativo aumento del numero di partecipanti a questo servizio da una media di 2 anziani nel 2009 per arrivare a una media di 10 anziani nel 2014 (senza considerare parenti, volontari e cittadini comuni).
Complessivamente nel periodo di osservazione dal 2009 fino a giugno 2014, sono 36 in totale gli anziani che hanno usufruito di questo luogo frequentando almeno tre incontri nel corso dell’anno, a queste vanno aggiunti i parenti e chi si occupa della loro assistenza quotidiana, oltre ai volontari e a chi a vario titolo ha contribuito alla promozione e all’organizzazione di questo spazio d’incontro (si parla della partecipazione di ulteriori 46 persone in totale).
Cosa si fa li?
L’inizio delle attività del Seneca Caffè generalmente avviene nel mese di ottobre, per concludersi a giugno dell’anno successivo, per un totale di 18 incontri all’anno, che si realizzano di sabato pomeriggio con cadenza bisettimanale.
La durata di ogni incontro è di circa tre ore, durante il quale l’operatore e i volontari preparano la sala circa mezz’ora prima dell’arrivo degli ospiti, organizzando la loro accoglienza, momento importante per creare il clima giusto nella gestione del gruppo e che deve essere molto curata e a forte intensità umana per evitare all’anziano lo stress indotto dal cambiamento di ambiente. Fondamentalmente ogni incontro è suddiviso in tre momenti principali: l’accoglienza come detto, il momento dell’attività e il saluto finale, durante il quale viene sempre offerto ai partecipanti un piccolo rinfresco con dolci e bevande, particolarmente gradito e che favorisce un ulteriore momento di socializzazione, in particolare tra i parenti e gli accompagnatori degli anziani al Seneca.
Le attività svolte nei Caffè sono le più svariate e legate alla presenza di competenze e sensibilità locali. Si deve però sottolineare che le varie attività devono essere strettamente cadenzate, per prevenire l’ansia e la frustrazione dell’attesa da parte degli ospiti e le incertezze del parenti e partecipanti, che rischiano di produrre risposte banali.
Nello specifico si organizzano attività di tipo ludico-relazionale che stimolano le capacità residue e favoriscano la socializzazione (come la tombola o il gioco delle parole scappate), attività di tipo ricreativo e di socializzazione centrata sulla necessità e l’efficacia del mantenere un contatto con la realtà esterna (nel corso degli anni diversi sono stati i momenti organizzati in cui i partecipanti al Seneca Caffè erano accolti come ospiti in diverse realtà del territorio come la Casa del Giovane, il Circolo MCL di Palata Pepoli, la parrocchia di Sammartini e l’ARCI di Caselle), attività di tipo ricreativo e relazionale al fine di coinvolgere gli anziani in un evento importante, com’è risultato essere organizzare e festeggiare ricorrenze che evocano ricordi, emozioni e sentimenti particolari (Pasqua, Natale, S.Martino …).
Nel corso degli anni alcune attività sono state riproposte, considerato gli ottimi risultati ottenuti a livello di partecipazione e di gradimento (tombola, attività manuali come la preparazione dei tortellini, delle sfrappole e dei biscotti e organizzazione di feste a tema con la partecipazione di gruppi canori del territorio), ma sono state anche sperimentate nuove attività, alcune delle quali particolarmente gradite dai partecipanti al Seneca Caffè (l’incontro con i bambini delle scuole elementari e l’autrice Arianna Papini, i Burattini di Mattia, il Future Lab).
A causa del terremoto del 2012, non è stato possibile riproporre attività che negli anni precedenti erano andate molto bene, come la collaborazione con la Casa del Giovane e la parroccia di Sammartini; nell’ultimo anno è stato possibile però collaborare con nuove risorse del territorio, in particolare con la Libreria del Portico di Crevalcore, grazie alla quale sono stati organizzati due momenti in cui è stato possibile stimolare la memoria dei partecipanti attraverso i racconti e le zirudele di una volta.
I volontari
In tutti questi anni si è rivelato particolarmente prezioso l’apporto fornito dai volontari (per quanto riguarda ad esempio la raccolta fondi tramite il mercatino, da reinvestire in varie attività sempre rivolte al Seneca Caffè) e dai parenti, anche nel proporre nuove attività e nel fornire informazioni su anziani che avrebbero potuto eventualmente partecipare al Seneca.
Questo impulso a una partecipazione attiva dei volontari e dei parenti, oltre ad altri cittadini del territorio, nell’organizzazione delle attività e nella ricerca di risorse di vario genere, rappresenta un aspetto importante e uno degli obiettivi principali di questo progetto.
Spunti di riflessione dall’esperienza
L’esperienza del Seneca Caffè, nelle sue diverse realizzazioni, è estremamente positiva. Si costruisce infatti un approccio nuovo alla conoscenza del malato e dei suoi bisogni, facendo emergere una visione “sociale” delle demenze, che non nega l’ambito biologico del disturbo, ma lo colloca in una dimensione quotidiana, nella quale i sintomi si sviluppano ed esercitano un’influenza sulle dinamiche vitali (sociali e relazionali in particolare).
Non è possibile dimostrare oggettivamente con i dati raccolti una relazione diretta tra la frequentazione a questo spazio dedicato e i miglioramenti osservati; è però indubbio che un intervento a supporto dei familiari, che influenza non solo positivamente la loro qualità di vita, ma allo stesso tempo i sintomi comportamentali dell’anziano ed il mantenimento delle sue residue funzioni cognitive, assume una rilevante importanza nel panorama degli strumenti per la “care” delle persone affette da malattia di Alzheimer e da altre forme di demenza.
Questi luoghi, e in particolare il Seneca Caffè per le sue specificità descritte, non sono né un luogo di ritrovo come un Centro Sociale, né un ufficio dei servizi sociali del Comune e né solamente luoghi di informazione sulle demenze; al contrario, possono riassumere i punti di forza di ciascuno di questi luoghi per fornire al cittadino un servizio utile e strutturato.
E’ importante sottolineare come sia fondamentale un certo livello di autonomia e di creatività nell’organizzazione di questi spazi per arrivare a risultati significativi. In particolare occorre trovare un equilibrio tra aspetti strutturati e spontanei, perché solo in questo modo si ottiene un’elevata qualità delle prestazioni assistenziali.
Ci piace pensare al Seneca Caffè come un’isola, in un mare talvolta inospitale, sulla quale chi è ammalato e chi vive con lui può trovare un punto d’appoggio che, sebbene temporaneo, può aiutarlo a “restare a galla”; spetta alla collettività impedire che l’isola sia travolta dalla forza dell’acqua.
Si potrebbe concludere che nel Seneca Caffè si realizza una sintesi tra l’impegno personale generoso e volontario e il desiderio di migliorare attraverso questo lavoro la nostra società. E’ la visione personalistica per la quale coloro che compiono e che ricevono un atto di cura sono strettamente legati, non solo sul piano della relazione, ma soprattutto dal reciproco miglioramento, che progressivamente assume dimensioni comunitarie.
(*) Educatore e animatore del Seneca Café
L’esperienza del Seneca Café
Scritto da admin il . Pubblicato in Monografia.
Il progetto Seneca Cafè promosso dal comune di Crevalcore, si ispira al modello dei Cafè Alzheimer, uno spazio dedicato alle persone con problemi di memoria, che consente al malato di “sentire” che esiste un “luogo” pensato per le sue esigenze. Qui insieme alla propria famiglia può ritrovarsi fuori dalle mura di casa portando con sé la malattia senza doverla nascondere o sfuggire.
A Crevalcore il Seneca Cafè nasce in continuità con l’esperienza di un gruppo di Auto Mutuo Aiuto rivolto ai familiari di persone affette da deterioramento cognitivo, avviato nella primavera del 2004.
L’attività del Seneca Café, dopo una prima apertura sperimentale effettuata nel luglio 2006, è stata avviata in modo continuativo a partire dal 25 novembre 2006, e ha visto la collaborazione di alcune associazioni di volontariato del territorio, che hanno contribuito a gestirne l’animazione.
Oltre a queste importanti risorse di tipo volontaristico, dal 2008 in Comune ha affidato alla Cooperativa Accaparlante la realizzazione delle attività di animazione, di coordinamento dei volontari e coprogettazione e promozione.
Vivere (e mangiare) facile! , Il messaggero di Sant’Antonio, Maggio 2015
Scritto da admin il . Pubblicato in Senza categoria.
«O mia bela Madunina che te brillet de lontan / tuta d’ora e piscinina, ti te dominet Milan». Così cantava il ritornello della nota canzone popolare, perché «Milan l’è un gran Milan»! Anche durante la crisi e le controversie politiche che l’hanno coinvolta negli ultimi anni, la città natale di Enzo Jannacci rimane la capitale economica del nostro Bel Paese, nonché il catalizzatore ufficiale delle novità estere; una metropoli affascinante e dalle mille difficoltà, ora messa a ferro e fuoco dal grande evento dell’Expo 2015. Un appuntamento, quello dell’Esposizione universale, che ha sconvolto la planimetria della città – già costretta a ripensarsi tra vecchio e nuovo dalle diverse giunte – e che ora condizionerà, non necessariamente in negativo, gli spostamenti di molti, comprese le persone con disabilità. Grazie all’impegno di tanti, non ultimo quello del mio caro amico Franco Bomprezzi, che se n’è andato lo scorso dicembre, l’accessibilità all’Expo è stata, infatti, resa possibile e con una certa eco. Un crocevia di volti, di ruote e di originalità renderà la situazione movimentata, e per questo ancora più ricca e interessante. Anche la disabilità finirà così per «esporsi» in un contesto di quotidianità da un lato e in un’occasione di respiro internazionale dall’altro. Una bella conquista.
La mia mente ritorna a quando da bambino, nei ridenti anni Sessanta, mi recai con i miei genitori in visita a Roma. Anche là (come oggi a Milano) c’era un bel crocevia di figure da tutte le parti del mondo. Io ero una di quelle e mi sembrava normale passeggiare in mezzo a loro. Se non che in albergo, al momento del pranzo e della cena, fui «invitato» con la mia famiglia a mangiare in camera, così da non turbare gli altri ospiti della struttura… Questo episodio oggi – in pieno clima Expo 2015 – mi fa sorridere. Che dire? A distanza di oltre mezzo secolo il cibo è più o meno lo stesso e i sapori sono simili (pur con tutti i mutamenti climatici e non solo, e le nuove tecniche di coltura): a essere cambiati sono, però, il contesto e l’immagine collettiva legati alla disabilità. Ce lo dimostra anche il gruppo di persone (con disabilità e non) che ha partecipato alla costruzione di «Expofacile», un piano per rendere accessibile lo spazio dell’evento e l’intera città a ogni tipo di turisti e visitatori.
La prima Esposizione universale si tenne a Londra nel 1851. Nata per aprire gli orizzonti alla scoperta scientifica, la Great exhibition puntava anche a migliorare la qualità della vita e ad alimentare il gusto della meraviglia. Centosessantaquattro anni dopo la tradizione prosegue. Pur con tutte le contraddizioni che i grandi eventi portano con sé, credo che la spinta originaria di Expo 2015 ci conduca anche verso qualcos’altro: dalla scoperta alla fiera delle vanità, dal commercio al confronto su dati di realtà. Tutto questo è parlare di integrazione e accessibilità. L’Esposizione universale di Milano è un grande salotto dove gustare ogni cibo…
E voi, preferirete mangiare al chiuso o all’aperto?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
Se la vasca è lunga un giorno…, Superabile, Aprile 2015
Scritto da admin il . Pubblicato in Senza categoria.
"Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.
Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.
Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!
Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…
E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.
Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.
Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!
Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…
E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.
Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.
Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!
Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…
E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.
Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.
Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!
Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…
E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.
Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.
Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!
Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…
E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. (Claudio Imprudente)BOLOGNA – "Voglio restare tutto il giorno nella vasca con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena/ mangiare e bere sempre e solo a dismisura senza dover cambiare buco alla cintura…". La vasca di Alex Britti è lunga un giorno intero… E guarda caso è proprio così che si chiama l’iniziativa promossa dalla Polisportiva Masi di Casalecchio di Reno (BO), "Una vasca lunga un giorno", una staffetta in acqua aperta a tutti, che domenica 19 aprile vedrà la partecipazione del Centro Documentazione Handicap di Bologna e di molte altre realtà socioeducative e sportive del territorio.
Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
Tante le altre iniziative in programma che potete trovare qui, a seconda dei vostri gusti acquatici.
Mi raccomando, non fate i pesci fuor d’acqua!
Io, nel frattempo, continuerò a fischiettare nella vasca…
E voi avete mai provato a mettere la testa sott’acqua? Che cosa avete scoperto? E se finite per bere sott’acqua… Pago io!
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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
Non mancherà il divertimento anche per i più piccoli, alle ore 16.30 al Parco del Blogos ad ascoltare le avventure di "Cucciolo", favola animata a cura di Coop. Accaparlante e co-condotta da educatori e animatori con disabilità.
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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
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Appuntamento alle ore 11 con le Prove Subacquee di Taoufik Msallemi e Alessandro Lana (istruttori HSA) a cura della Coop. Accaparlante per consentire, anche a chi ha una grave disabilità o è alle prime armi, di cominciare a immergere la testa sott’acqua fino a scoprire, per chi se la sentirà di continuare, l’emozione di nuotare all’aperto tra le meraviglie del mare. A seguire, alle ore 14 le Prove di Canoa a cura di Canoa club Bologna e CSI, ancora una volta esploratori di noi stessi, tra gare, limiti, nuove tecniche e prove da superare. Per finire, tutti fuori dalla vasca per un momento di festa, alle ore 18, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria della Solidarietà, i cui proventi saranno destinati alle iniziative di Casamasi.
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Eravamo quattro amici al bar, Superabile, Aprile 2015
Scritto da admin il . Pubblicato in Senza categoria.
Sono passati ormai diversi mesi dalla scomparsa di Franco Bomprezzi. Con questo articolo Claudio Imprudente desidera ricordalo così com’era, uno dei suoi quattro grandi amici e punti di riferimento con cui cambiare la cultura della disabilità tra conquiste, risate e un buon caffè.
Oggi mi sono svegliato con un’immensa voglia di fischiettare…Ma come si fa a fischiettare? Beh, si prende una canzone a caso, direte voi, ma il caso non esiste…E così ho cominciato a pensare a "Quattro amici al bar" di Gino Paoli.
Quattro amici che ogni giorno si incontrano a fine giornata nello stesso bar, per il protagonista della canzone dei veri punti di riferimento, o forse ancora di più, dei modelli ispiratori, compagni di chiacchiere e bevute e di idee con cui cambiare il mondo.
Subito la mia immaginazione è andata nella saletta di un bar e mi sono chiesto chi fossero per me quei quattro amici. Ve li cito non in ordine di comparsa ma di scomparsa: Rosanna Benzi (1991), Enzo Aprea (1995), Alberto Fazzioli (1997) e Franco Bomprezzi (2014).
Ricordo Rosanna che dall’alto del suo polmone d’acciaio si pavoneggiava del suo nuovo colore di capelli, perché voleva essere sempre in ordine e non apparire sciatta…Ma chi era Rosanna? Aveva un vizio…"Il vizio di vivere".
Accanto a lei Enzo Aprea, il classico ex sessantottino, che ripeteva continuamente gli aneddoti delle sue avventure come inviato della Rai…"Vi ho mai detto di quella volta che…"
Sulla sinistra, un po’ in angolo, Alberto Fazzioli, già sudaticcio per l’emozione di essere lì tutti insieme a contarla su, che ascoltava attento e che non si sarebbe mai dimenticato di ogni nostra parola, sognava insieme a me di fondare un posto strano…ai limiti dell’utopia e dello scandalo, un posto dove stare bene, divertirsi, dare un calcio al pallone e cambiare la cultura della disabilità: il Centro Documentazione Handicap.
E infine, avvolto da almeno tre sciarpe dell’Inter con una foto di Giacinto Facchetti c’era Franco Bomprezzi, lui voleva fare l’uomo invisibile ma non ci riusciva!
Eccoli lì i miei quattro amici, i miei modelli ispiratori che mi hanno accompagnato nella vita tra discussioni, scoperte, lotte e conquiste e che hanno smosso le coscienze dell’opinione pubblica con le loro personalità.
Che dire? Non mi resta che continuare a fischiettare…"Eravamo quattro amici al bar/che volevano cambiare il mondo/destinati a qualche cosa in più/che a una donna ed un impiego in banca/si parlava con profondità/di anarchia e poi di libertà/tra un bicchier di coca ed un caffè/tiravi fuori i tuoi perché / e proponevi i tuoi farò…".
E voi, siete bravi a fischiettare? Tanti Auguri… anche di Buona Pasqua! Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)
L’integrazione è liquida, Il Messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2015
Scritto da admin il . Pubblicato in Senza categoria.
Tornando a casa in macchina da un convegno al quale ero stato invitato con alcuni colleghi in una cittadina del nostro bel Sud, sonnecchiavo e ascoltavo distrattamente un acceso dibattito tra alcuni di loro. Sentivo lettere, sigle, parole, frasi all’apparenza senza senso… “Non hanno preparato il PEI per quel ragazzo con DSA…” oppure “Non è prevista come disabilità dall’ICF” ed ancora “di quel lavoro doveva occuparsene il GLI”.
Per semplificare la vita ai miei lettori (non tutti addetti ai lavori sull’integrazione scolastica) spiego qualcuno di questi acronimi… PEI è il piano educativo personalizzato, i DSA sono i disturbi specifici dell’apprendimento, il GLI è il gruppo di lavoro per l’inclusione e via dicendo…
Così riflettevo sul senso di queste sigle, sulla loro utilità, su questa corsa alla classificazione e di conseguenza alla specializzazione.
Pensavo anche a quanto ci eravamo detti alcuni mesi prima a riguardo con Andrea Canevaro, emerito professore e pedagogista di fama internazionale.
Così ho lanciato ai miei colleghi una domanda, per provocarli un po’… Ma secondo voi l’integrazione è solida o liquida?
Nel confronto con Canevaro avevo parlato proprio di questo, del bisogno crescente di siglare, di classificare, di specializzare che si riscontra ovunque, non solo nelle scuole. Come se certe “frontiere” possano aiutare a trovare in fretta soluzioni a dei problemi che in realtà sono molto più complessi. Proprio da qui volevo partire. Perché l’idea collettiva, e non sto parlando solo di integrazione scolastica, è quella che catalogare ci aiuti a definire e a circoscrivere meglio i problemi. Finisce così che tutti i ragazzi con disabilità psichica hanno dei tratti autistici e tutti gli anziani al primo accenno di senilità sono affetti da Alzheimer o, addirittura, che tutte le persone di colore (basta leggere le cronache della psicosi che si sta vivendo in molte realtà occidentali) siano potenzialmente affette dal virus dell’Ebola. Esempi semplici ma efficaci, che ci fanno capire come le classificazioni e le semplificazioni spesso ci conducano alla superficialità, all’ignoranza e al razzismo.
Io credo che di solido non può esserci nulla nell’integrazione. L’inclusività deve fondersi per poi diventare liquida (o perlomeno gassosa), così da insinuarsi in ogni frontiera che la nostra cultura pregna di stereotipi produce.
La stessa classe “disabilità” , alla quale teoricamente appartengo anch’io, può essere considerata vaga o quantomeno astratta se pensiamo a tutte le diversità che la compongono.
Ognuno ha le proprie specificità, ognuno ha le proprie caratteristiche e i propri valori. Possiamo inventarci tutte le tabelle e le frontiere che vogliamo per catalogare persone ma non troveremo mai una soluzione universale a tutti i problemi.
Proprio perché l’integrazione è liquida entra e esce continuamente da questi schemi, quindi va fatta lavorando con le persone, non con tipologie di persone.
Dunque, mi chiedo, per voi l’integrazione è solida, liquida o gassosa?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.
Claudio Imprudente
Un Natale “smerlato”, Il messaggero di Sant’Antonio, Dicembre 2014
Scritto da admin il . Pubblicato in Senza categoria.
Spulciando tra le mie scartoffie ho ritrovato un vecchio articolo, datato 1986, a proposito dei sacchetti della Caritas destinati a raccogliere gli indumenti per i cosiddetti «bisognosi». L’autore dell’articolo, il mio caro amico Andrea Pancaldi, parlava a quell’epoca di «guerra del rusco» (dell’immondizia, ndr) e, riflettendo sugli aspetti culturali del riciclo degli indumenti, notava come essi «ricacciano le persone handicappate nel ghetto, anzi nel bidone del rusco, e alimentano pregiudizi e luoghi comuni dei “normali”». Io stesso ricordo che i sacchetti che alcune associazioni dedicavano alla raccolta degli indumenti usati avevano l’immagine di un barbone banalmente raffigurato nelle sue tipiche sembianze: bastone, toppe sui pantaloni, barba lunga e ciotola in mano. Al suo fianco un altrettanto tipico disabile, rappresentato con un classico plaid scozzese a coprire le gambe (per proteggerle forse dal freddo?).
Trent’anni fa si faceva presto a dire che qualcosa non serviva più a niente e a buttarlo nell’immondizia; nel pieno dell’era usa e getta, anche quello che veniva allora chiamato handicappato, aveva un destino simile, come soggetto che non produce e quindi inutile alla società. Pancaldi concludeva il suo articolo dicendo: «Tra rifiuti e rifiutati il passo è breve».
Facciamo con la bacchetta magica un salto al presente. In questi trent’anni si è ormai compreso come l’usa e getta nascondesse fin troppe controindicazioni. Ce lo dimostrano i cambiamenti climatici causati dall’erosione delle risorse che ci hanno portato a modificare la concezione di ciò che è rifiuto, inserendo quest’ultimo nella grande macchina del riciclaggio.
Ora riciclare è diventata una moda, non solo per quanto riguarda gli indumenti: negozi che vendono usato, siti che propongono idee per riusi e riutilizzi di ogni genere e via dicendo. Il riciclo, da necessità, è diventato dunque sinonimo di creatività. Così sta cambiando la prospettiva, per cui anche il rifiuto, e di conseguenza il rifiutato, non si presentano più in versione usa e getta, ma sono inseriti in un ciclo funzionale all’economia, alla natura e, più in generale, alla vita stessa.
Ma ritorniamo per un attimo a quei sacchetti pieni di indumenti; indumenti irregolari, smerlati, frastagliati, apparentemente brutti e inutilizzabili. Oggi, come dicevamo, qualcosa è cambiato. Così non mi sono sorpreso quando qualche tempo fa ho visto in riviera un negozio di abbigliamento che fa ormai da anni di quell’irregolarità e di quell’unicità il suo cavallo di battaglia. I suoi abiti, insieme agli accessori, altro non sono che pezzi di stoffa, apparentemente da buttare, riassemblati da giovani stilisti per creare opere allegre, utili e originali per la comunità.
Questo marchio e la sua politica di fondo mi sono sembrati rappresentare una metafora e un’immagine perfetta della disabilità. Quindi per questo Natale mi auguro che quella stoffa diventi per tutti il simbolo della propria originalità e della capacità di rinnovarsi. Perché la diversità è variopinta e in perenne trasformazione proprio come il nostro aspetto e le nostre personalità.
Buon Natale a tutti i miei lettori, e scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
Un paradosso sul tetto del mondo, Il messaggero di Sant’Antonio, Giugno 2014
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Forza Mario! Come quale Mario? Vi ricordo che tra pochi giorni partono i mondiali di calcio brasiliani e il nostro Balotelli, il Mario nazionale per l’appunto, avrà la responsabilità di farci ancora vivere e godere quelle notti magiche del 1982 e del 2006.
Balotelli: l’immigrato, l’attaccante, il mito. Un personaggio così discusso, sempre al centro di cronache mondane, gossip e chi più ne ha più ne metta, non sempre un esempio positivo, oltretutto, per i milioni di ragazzini che si identificano in lui. Quello che però mi ha sempre colpito della sua figura non è in realtà né il suo stile di vita né le sue bravate fuori dal campo né, in effetti, il suo naturale talento calcistico. È più una questione di paradosso. Balotelli è il simbolo vivente di come certi stereotipi possano essere abbattuti: un ragazzo, immigrato di colore, nato nelle difficoltà, simbolo italiano nello sport più famoso e seguito al mondo.
Una contraddizione vivente, che non dimentica di fare sfoggio di sé, nel tipico atteggiamento di chi, partendo da una situazione difficile, è arrivato al successo. Eppure ho imparato che sono proprio i paradossi gli esempi più concreti e immediati per cambiare un paradigma, una visione. Questo ragazzo italiano di colore, nonostante sia l’emblema dell’ostentazione in campo, credo infatti abbia molto in comune con il mondo dell’inclusione e dell’integrazione e, di conseguenza, della disabilità.
La sua storia ormai la conosciamo tutti. Mario Barwuah nasce il 12 agosto 1990 da una coppia di immigrati ghanesi che, per motivi economici e alcuni problemi di salute, lo affidano, con l’aiuto dei servizi sociali, a una famiglia del bresciano, la famiglia Balotelli appunto. Così è cominciata la leggenda che oggi è sotto i nostri occhi. Evidentemente nessuno allora avrebbe scommesso un centesimo su di lui, in piena linea con tutto ciò che facciamo rientrare nell’etichetta della «diversità».
Come sempre, però, la vita va per la sua strada e trova da sola un modo per dialogare con gli stereotipi che essa stessa ha creato, di solito estremizzando le reazioni di chi prima li fomenta e poi li ostacola.
La presenza di Mario in campo, infatti, palesa molto spesso nell’atteggiamento dei tifosi quanto, nonostante la fama e il successo ottenuti, l’integrazione reale del nostro calciatore sia ancora un work in progress. Già nello scorso gennaio avevo scritto su questa rubrica un pezzo sul razzismo, di come questo può diventare una pregiudiziale, un elemento forte di esclusione, proponendovi un ironico slogan: il pallone è rotondo, il razzismo è quadrato.
Il paradosso, insomma, è sempre in agguato. La nostra società tende a osannare ciò che al contempo emargina, dalle stelle alle stalle e dalle stalle alle stelle… Un ragazzo nero, vestito d’azzurro, con la coppa del mondo, la più ambita, tra le mani. Piazze e città italiane in festa. Questo per me sarebbe il «paradosso» più bello. E voi quale paradosso potreste portare sul tetto del mondo?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.
Il ruolo della comunicazione
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a cura di Nicola Rabbi
Intervista a Massimo Ghirelli,esperto dell’Unità tecnica Cooperazione del Ministero degli affari Esteri per quanto riguarda gli aspetti della comunicazione e responsabile di redazione del Portale Cooperazione Italiana allo Sviluppo.
Che ruolo ha o dovrebbe avere la comunicazione per le Ong e per tutti coloro che fanno interventi nei paesi in via di sviluppo?
Più che una questione d’importanza è una questione di necessità. Sono migliaia purtroppo gli esempi di cooperazione, anche buona, che non raggiungono i loro scopi perché non viene tenuto conto in maniera giusta e completa l’aspetto comunicativo. Ti faccio l’esempio di un intervento che facemmo in Niger con i Tuareg che riguardava la costruzione di un ospedale. Non avevamo pensato che in Africa le donne non vanno in ospedale e che quindi, se non si faceva un lavoro d’informazione e di comunicazione, spiegando per quale motivo ne valeva la pena (per ragioni di infezione, igieniche…), tutto sarebbe rimasto lì come una cattedrale nel deserto. Ma fuori dell’edificio c’era un grande parcheggio che era stato trasformato dai famigliari dei pazienti in un villaggio di capanne. Tutto questo era ovvio e naturale: non avevamo pensato al fatto che mai in Africa una donna sarebbe stata lasciata da sola in ospedale e che quindi, attorno a quella persona, ci sarebbero state intorno tante altre persone diverse che, venendo da lontano, avrebbero poi dovuto fermarsi a dormire lì. In quei casi perciò o fai una stanza comune o, come è stato fatto, adibisci a dormitorio il parcheggio. Questo è stato un caso lampante di mancanza di comunicazione adeguata.
Nell’ambito della cooperazione la comunicazione è sempre stata vista e molto spesso ancora oggi viene trattata come un argomento di secondo livello e quindi considerato un di più, una cosa marginale e perciò, ancora peggio,qualcosa che si fa nel momento in cui il progetto è fatto e finito, a volte confondendolo con una parolaccia come “visibilità”, che di per sé non sarebbe una parola sbagliata, nel senso che bisognerebbe far vedere quello che si fa ma che in realtà viene intesa solo come buona immagine di quello che si fa nella cooperazione italiana. La visibilità spesso non ha nulla a che fare con il buon progetto, la visibilità non è comunicazione. Fino a non molto tempo fa questa parte era considerata molto marginale dalle Ong. È anche vero che le Ong, stando più vicine al territorio ed essendo espressione di parti della società civile dovrebbero avere ancora più ragioni per capire e per utilizzare una buona comunicazione, per informare prima di tutto i donatori del territorio e le persone che vi partecipano.
Le Ong, inoltre, avendo per controparte società civili o piccoli villaggi, comunque non solo istituzioni, dovrebbero fare in modo che questi interlocutori capiscano bene e che soprattutto siano loro a comunicare qualcosa su quello che si aspettano, su come vedono il progetto e su come lo vogliono gestire. Nel mio lavoro spesso mi sono trovato a mettere delle pezze a progetti in cui c’era una piccola quota riservata alla comunicazione e a convincere gli altri che costituiva invece una parte integrante del progetto. Questo è un elemento raramente compreso, le Ong un pochino ci sono arrivate ma non tutte e soprattutto non ci è arrivata l’istituzione. La nostra Direzione si è dotata di Linee Guida per la comunicazione; una volta consistevano in un manuale su come si fa la targa, su cosa deve esservi scritto, l’adesivo e tutto il resto; un po’ abbiamo superato questa ipotesi ma anche le Linee Guida attuali, sono solo un punto di partenza per cominciare a parlare di altri aspetti. La comunicazione, per cominciare, deve essere fatta in entrambi i luoghi da parte di vari partner, in patria, e da parte del cosiddetto beneficiario, beneficiario che deve essere partner anche della comunicazione e quindi avere gli strumenti per comunicare.
I progetti devono avere non soltanto la partecipazione ma anche il consenso sociale senza il quale il progetto non ha senso. I progetti stessi in molti casi dovrebbero essere intesi come progetti di comunicazione e non come la comunicazione rispetto ai progetti, sono due cose diverse: i progetti di questo tipo ancora abbastanza rari. Si potrebbe cambiare in questo modo l’intero sistema delle comunicazioni dei paesi in cui si attua il progetto, dalla formazione dei giornalisti alla legge sulla stampa e così via.
Al momento sono in atto progetti di questo tipo? Voi ne curate qualcuno?
Ce ne sono ma si contano sulle dita di una mano. Ho seguito un centro di documentazione per un sindacato di comunicazione in Sud Africa ai tempi della fine dell’apartheid e più recentemente la ristrutturazione di un’agenzia palestinese, la Wafa, un’agenzia stampa che all’epoca era una specie di servizio stampa di Arafat che aveva sede a Gaza e ora ha sede a Ramla. Abbiamo fatto anche un media center, in collaborazione con le Ong e con l’Arci a Belgrado, in una situazione complicata come i Balcani. Negli ultimi anni questi progetti vengono appoggiati anche dai direttori delle UTL (Unità Tecniche locali). In alcune UTL, ho scritto dei progetti come “Comunicare la comunicazione”, quindi intesi proprio per far questo, come riuscire a comunicare bene e chiedersi: “Che strumenti ha l’UTL per farlo?”. Di qui la necessità di dotarsi di un sito, mettere insieme i donatori, le Ong e gli altri partecipanti in rete, in discussione, per comunicare quello che si fa e per farli partecipare e anche organizzare mostre, eventi sulla cooperazione. Adesso in Palestina si sta lavorando, dopo tre anni di attività, alla terza fase del progetto “Comunicare la comunicazione” e a Gerusalemme, finalmente, si faranno dei corsi di aggiornamento per giornalisti. In un paese particolare come quello di Israele, si tratta di operare per dare degli strumenti soprattutto per lottare, per avere una legge sulla stampa più aperta, considerando il fatto che i giornali possono essere chiusi in qualsiasi momento. In generale c’è ancora pochissimo attenzione sulle possibilità di stampa e televisione indipendenti.
Lo stesso vale per l’Iraq, dove non c’è un UTL ma c’è la Task Force Iraq, organizzazione, il nome lo fa capire, che prima era militare-civile mentre adesso, da qualche anno, è completamente nelle mani della nostra Direzione Generale alla Cooperazione allo Sviluppo. La Task Force, soprattutto in questa fase, in cui si sta piano piano pensando di lasciare il paese, deve raccontare quello che sta facendo e ha fatto. Si tratta comunque di progetti di grande interesse in una situazione difficile come quella della guerra. Progetti di capacity building, di comunicazione interna, progetti che vanno a formare le istituzioni locali, progetti di patrimonio culturale, ambientali, tutta una serie di progetti in cui la comunicazione ha un ruolo centrale. Anche lì, se non c’è consenso, partecipazione e conoscenza dei fatti nulla può funzionare.
Per quanto riguarda il privato sociale, le ONG, ci sono casi di progetti di comunicazione analoghi a quelli che hai elencato?
Ci sono ma sono abbastanza rari. Alcune Ong hanno un buon impianto comunicativo, come il Cesvi di Bergamo, che nasce proprio con una grande vocazione alla comunicazione. Fanno un lavoro sulla comunicazione notevole sia di comunicazione rispetto ai progetti, sia nel modo di presentarli. Un altro che si occupa molto di comunicazione sia in Italia che all’estero è invece il Cospe di Firenze che è diventato un punto di riferimento nazionale per ciò che riguarda media e intercultura, media e immigrazione.
Se tu dovessi realizzare un piano di comunicazione in occasione di un progetto in un paese in via di sviluppo che riguarda, mettiamo, l’inclusione di bambini disabili all’interno di una scuola, come ti muoveresti?
Intanto la prima cosa che farei è inserire la comunicazione nel progetto, cercando di farla entrare a ogni livello, come parte consistente e sostanziale e che sia economicamente supportata. E’ necessario poi che ci siano le competenze necessarie per portarla avanti, quindi le risorse umane e che non si riduca l’attività alla semplice dicitura “attività promozionali”. Occorrono poi delle azioni preventive, come quelle di allertare la società di cui si fa parte e i partner più importanti che sono nel nostro paese e nel nostro ambito, non soltanto per avere più fondi ma soprattutto per avere quel consenso di cui si parlava. E poi ci sono una serie di input importanti non soltanto economici che poi ricadranno sul progetto e che ci serviranno per preparare le basi di quello che sarà il ritorno di visibilità.
Un esempio di questo tipo è rappresentato dal Magis, un’Ong dei gesuiti italiani, che ha lavorato in Albania con i non udenti anche attraverso il teatro. Gran parte del successo di questo progetto è stato quello di portare in Italia lo spettacolo di questi ragazzi. Ecco questo è un esempio di comunicazione nel senso più normale del termine. Solo che a queste cose ci si pensa dopo, a progetto finito, raccontando solo i risultati e questo non basta. Sia perché sono finiti i fondi, sia perché ti accorgi che non avevi fatto la giusta documentazione, che non avevi fatto le riprese video, scattato le foto.
Bisogna quindi inserire la comunicazione in tutte le fasi del progetto e fare il modo di garantire la sua sostenibilità. La sostenibilità di un progetto, poi, in quanta parte è sostenuta dalla comunicazione? In larghissima parte! I materiali di quel progetto se non vengono curati sono semplicemente i distillati di una relazione che nessuno si legge, che non leggono nemmeno le ONG. La comunicazione invece va inserita all’interno del progetto, è uno degli elementi fondanti, a tutti i livelli, pensando prima di tutto all’ownership, alla partecipazione democratica di tutti, dei donatori che capiscono effettivamente che cosa stanno donando, senza tuttavia proporre argomentazioni patetiche. Questo lavoro di comunicazione va fatto prima, durante e dopo il progetto, per costruire un ambiente prima di tutto non ostile, poi consenziente; per poter ricevere un aiuto da parte di tutte le agenzie possibili, di tutte le istituzioni e anche della società civile che è possibile coinvolgere.
Faccio un altro esempio. Ho un amico che ha delle belle idee e mi ha chiesto una mano per scrivere un progetto sulla conservazione della musica africana finanziato dall’Istituto sonoro nazionale. Quando ho letto il suo progetto, mi sono accorto che non aveva messo niente su che cosa si sarebbe fatto con tutto il materiale raccolto. Invece quello che poteva venirne fuori era una cosa bellissima; una mediateca di musica tradizionale africana, fatta attraverso una ricerca nei paesi, a contatto con la gente, frutto di registrazioni, quindi anche un lavoro antropologico importante. Il prodotto finale poteva diventare così una mediateca in Italia e nel paese d’origine. Dobbiamo far vivere quello che abbiamo e pensare anche a come può vivere dal punto di vista della comunicazione questo progetto, che materiali ne emergono, chi ne è coinvolto. Da qui si parte. Dopo bisogna fare una scelta e capire come in quel paese si comunica. Tutto questo deve essere studiato prima per capire quali possono essere gli strumenti giusti da utilizzare e naturalmente capire il linguaggio con cui devi parlare alla gente. Comunicazione vuol dire anche questo: farsi capire. Per questo è importante conoscere non solo gli strumenti altrui ma anche i loro codici e lavorare molto su quello.
C’è un bellissimo progetto che ha molto a che fare con quello di cui stiamo parlando; è un progetto che è stato sostanzialmente seguito da un ragazzo, Guido Geminiani, che è stato per un certo periodo un cooperante in Uganda in cui c’è uno dei più grandi ospedali dell’Africa, fatto da una coppia di medici occidentali, al confine con tre – quattro paesi. Questo ospedale è diventato importantissimo e ha una storia molto bella e drammatica perché lì ci furono le febbri emorragiche; prima la moglie e poi il marito morirono proprio perché si erano infettati curando i malati. Qui quello che sono riusciti a fare, è stato di africanizzare completamente l’ospedale; dai medici all’ultimo degli infermieri sono tutti africani e oggi questo ospedale ospita qualcosa come cinquecentomila persone all’anno. Accoglie anche, in un apposito settore, bambini non accompagnati, anche lì centinaia, migliaia e qui si parlano moltissime lingue. Il ragazzo di cui ti parlavo è stato uno dei primi a lavorarci e ha inventato, in collaborazione con i dirigenti dell’ospedale, un modo per comunicare nonostante la diversità delle lingue. Devi pensare che lì spesso la gente rimane e ci vive, è così l’ospedale è diventato una città. Con quale lingua allora comunicare? E soprattutto come fai l’informazione? Hanno fatto così uno studio sulla segnaletica e sul codice per cercare di trovarne uno comune, basandosi sulle storie, i costumi, le mentalità diverse, la concezione diversa di comunicazione e di spazio, il tutto per arrivare a fare una segnaletica “esperantica”, capace di arrivare a tutti quanti.
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Un’attività di inclusive education nei paesi in via di sviluppo
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a cura di Nicola Rabbi
L’intervento di Educaid in Salvador. Conversazione con Alfredo Camerini.
Che cos’è Educaid?
E’ un’organizzazione, creata da professionisti del settore educativo e sociale, di cooperazione allo sviluppo che opera nel contesto degli aiuti internazionali con una propria mission a cui è legato un certo tipo di approccio. La mission è quella di promuovere competenze sia nelle figure professionali sia in diverse figure che hanno responsabilità di cura e di educazione e promuovere competenze anche nelle forme associative e nelle istituzioni che operano in questi settori. In questi dodici anni in cui abbiamo operato, l’obiettivo è sempre stato quello di interloquire con dei contesti facendo delle proposte in risposta a esigenze che venivano via via rappresentate dai soggetti più vari, vale a dire, come in Palestina, da associazioni locali votate al lavoro educativo o richieste provenienti da governi, come avvenuto in Salvador. In Salvador la richiesta in un primo momento era più centrata sullo sviluppo dell’educazione speciale, poi si è evoluta. Ciò è avvenuto anche in seguito a un cambio di governo, per cui si è verificato un cambio di politiche e di attenzione verso un approccio all’educazione inclusiva, che potesse dare risposte ai minori con seri problemi di diserzione e di dispersione scolastica. Alla fine si è evoluto in un progetto di promozione per la scuola a tempo pieno, al fine di mettere in campo una proposta educativa che mantenesse i minori a scuola. Altre volte abbiamo agito su richiesta di soggetti esterni come le Agenzie delle Nazioni Unite, soprattutto l’Unicef. L’Unicef infatti è l’organizzazione che maggiormente si occupa di minori “svantaggiati”, anche se hanno un settore che in realtà è più che altro costruito con l’obiettivo della protezione dell’infanzia. Questo fa sì che nella stragrande maggioranza i loro funzionari siano di formazione giuridica e che abbiano difficoltà nel promuovere processi d’innovazione in campo sociale ed educativo. Il nostro apporto, che viene richiesto in termini di consulenze, è molto utile perché offriamo la possibilità di sperimentare progetti che consentono di organizzare una situazione laboratoriale in cui si praticano proposte educative con la possibilità di conoscerle e anche di discuterle e questo aiuta a interloquire. Il nostro è un approccio centrato fortemente su una metodologia della “ricercAzione”(ricerca-azione). Educaid però, non lavora solo sulla disabilità, sullo svantaggio, lavora per esempio anche nel settore della global education cioè nel proporre attività e sollecitazioni culturali rivolte ai giovani per conoscersi e relazionarsi in modo più consapevole in rapporto alle nuove relazioni che restituisce la globalizzazione. C’è ormai una maggiore facilità di relazione che rischia però, se non sostenuta da un’intenzionalità di tipo educativo, di disperdersi.
Ritorniamo all’inclusive education e fammi un esempio di un luogo dove avete lavorato.
Nel Salvador la nostra proposta ha cercato nel corso del tempo, e direi ottenuto, il miglior livello di contestualizzazione nella realtà locale. Anche questa fa parte della complessità del lavoro di cooperazione che in realtà, almeno nella nostra interpretazione, non mira tanto a trasferire competenze proponendo modelli, quanto a promuovere principi che possano aiutare a interloquire con i professionisti o comunque con le figure che hanno responsabilità e ruolo nell’ambito educativo e nel campo del lavoro sociale per cercare di proporre sperimentazioni locali. In Salvador il tutto è iniziato un po’ sotto traccia, a partire da un mio coinvolgimento personale richiesto da alcuni esperti del Ministero degli Affari Esteri che si occupano di educazione. Questi funzionari mi hanno proposto una missione per valutare la possibilità di integrare un intervento educativo a un intervento, di fatto, di edilizia scolastica, perché la cooperazione aveva deciso su richiesta del governo locale di costruire un Centro Risorse sulle disabilità presso una scuola, secondo un modello di tipo anglosassone. Un centro risorse cioè che mettesse a disposizione delle competenze per un lavoro di tipo individuale, quindi con specialisti ma anche figure dell’area sanitaria e riabilitatori. Si trattava di un lavoro non tanto volto all’inclusione ma alla riabilitazione in collegamento con la scuola. Ciò costituisce comunque un contesto separato, in cui il minore con problemi viene prelevato dalla classe e portato a seguire percorsi di riabilitazione per poi essere restituito alla classe, il tutto in un contesto in cui esistono le scuole speciali e in cui non esiste quindi un processo di inclusione affermato. Stiamo parlando di lievi difficoltà di apprendimento, un bambino con paralisi cerebrale o altri deficit più rilevanti ha percorsi non inclusivi. In collaborazione con la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna abbiamo progettato la componente pedagogica del Centro Risorse, il che comportava progettare un Centro Risorse di tipo diverso, cioè un centro per il territorio volto all’inclusione scolastica e sociale. Il nuovo governo salvadoregno ha creato la “Segreteria per l’inclusione sociale”, una sorta di ministero che si occupa di inclusione sociale e ne ha fatto una delle bandiere della propria attività; in questo ha incontrato perfettamente quella che è la visione di Educaid in merito all’educazione inclusiva: riteniamo che per educazione inclusiva deve essere inteso tutto il lavoro educativo che viene esercitato a livello sia scolastico ma anche extra scolastico. Nella dizione anglosassone invece, inclusive education è l’inclusione scolastica dei minori con difficoltà e in linea di massima con disabilità.
Questo Centro Risorse è ora passato in gestione a qualcuno? È funzionante oppure è ancora in via di allestimento?
Il Centro risorse è stato poi realizzato su principi diversi, attribuendogli quelle che sono le funzioni di un nostro centro di documentazione educativa e cioé la funzione informativa, formativa e di documentazione. Svolge un’attività di supporto all’inclusione sia nella scuola ma anche nella comunità locale. Poi il progetto è passato a uno stadio successivo in cui abbiamo operato perché la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna potesse farsi promotrice di una fase due, vale a dire sperimentare l’attivazione altrove di queste funzioni del centro risorse. Questo è stato fatto nei centri di formazione docente che sono istituzioni regionali che il Ministero dell’Educazione salvadoregno utilizza per la formazione in servizio dei loro insegnanti. In questo modo si è cercato anche di sperimentare, in un certo numero di scuole, il sostegno educativo in classe dei minori con disabilità. L’esperienza di integrazione precedente (integradora) aveva costituito delle aule d’appoggio dove per alcune ore portavano fuori dalle classi i bambini con difficoltà; qui gli insegnanti di appoggio facevano una sorta di lezione d’insegnamento intensivo in rapporto alle materie su cui i ragazzi avevano maggiore difficoltà. La proposta è stata quella di promuovere attività laboratoriali da fare congiuntamente e soprattutto di promuovere la consulenza degli insegnanti di appoggio che diventavano insegnanti di appoggio a livello scolastico e di raccordo fra la scuola e la comunità locale, soprattutto la famiglia, puntando molto sulla funzione sociale della scuola. A questo punto si è passati a un’altra fase dovuta al cambio storico di un governo di destra dopo diciotto anni di potere ininterrotto. Su richiesta del nuovo governo abbiamo elaborato un programma di riforma della scuola di base che comportasse l’introduzione della scuola a tempo pieno. È stato così messo a punto un progetto dalla facoltà di Scienze della Formazione con il contributo di Educaid che prevede un vasto programma di apertura del tempo pieno di diverse scuole. La Cooperazione Italiana si è impegnata a finanziare questo tipo di intervento. Educaid concorrerà per avere in appalto l’organizzazione della componente pedagogica. Ho ora presentato questo caso perché è un buon esempio del rapporto che sempre si cerca di intrattenere sia verso il livello alto, quello ministeriale e decisionale, sia verso il livello più basso, quello più vicino alla realtà quotidiana comunitaria, che è il lavoro educativo nelle scuole. Questa è un po’ la caratteristica di molti dei nostri progetti, come in quelli che non intervengono tanto nel campo dell’educazione inclusiva ma nel campo dell’inclusione sociale, vale a dire i progetti per esempio di deistituzionalizzazione.
Educaid via Vezia, 2 – 47900 Rimini tel. 0541/280.22
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A Mandya si mette alla prova la riabilitazione su base comunitaria
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a cura di Nicola Rabbi
Sunil Deepak, medico di origine indiana è il responsabile dell’ufficio scientifico dell’Aifo dove lavora come cooperante da 22 anni. Il progetto Mandya in India è iniziato nel 2008 con una ricerca sull’esperienza della riabilitazione su base comunitaria (CBR). Dato che le persone che lavorano in questo campo sono spesso sociologi, sulla CBR esistono soprattutto dei racconti, dei rapporti descrittivi e poco o quasi niente materiale scientifico per dire se questo approccio cambia e migliora la vita delle persone disabili. Le istituzioni e gli esperti di riabilitazione considerano la CBR come qualcosa da paesi in via di sviluppo, per paesi poveri, non come valida alternativa.
Madya si trova a 150 km a sud ovest di Bangalore: è un distretto con due milioni di abitanti per 5 mila km quadrati. In accordo con l’Oms che promuove la CBR abbiamo voluto fare una ricerca sulla validità del metodo e anche sui suoi limiti proprio in questa località. Da dieci anni due ONG sul territorio sostenuti da Aifo, lavorano secondo principi della CBR e hanno coinvolto, nel corso del tempo, 22 mila persone disabili. In generale la cultura locale non è accogliente, in una società povera se uno non contribuisce a far entrare qualcosa viene messo in secondo piano, ma questo per necessità, non c’è spazio per pensieri romantici; le aree rurali possono essere feroci verso i disabili, le donne, i ragazzi tutti quelli che sono concepiti come diversi.
I disabili sono pochi in queste regioni, sopravvivono meno degli altri. Di solito il mondo è fatto per le persone che stanno bene, non per chi ha problemi. Le università di Firenze, Londra e Bangalore, che collaborano alla ricerca, hanno somministrato delle interviste e poi realizzato un’indagine statistica-sociologica. Abbiamo però pensato che poteva essere valutata la CBR non solo da un punto di vista scientifico ma utilizzando gli stessi disabili come ricercatori; all’inizio dicevano che non era possibile fare diventare dei ricercatori delle persone che erano analfabete; e invece, grazie a dei ricercatori dell’università anche loro disabili che sono serviti da gruppo di sostegno, questo è stato possibile.
Aifo ha partecipato come coordinamento e stimolo del fatto che questa iniziativa poteva essere fatta da persone disabili. Per il pedadogista Paulo Freire anche le persone analfabete capiscono la loro situazione, sono in grado di capire, anche se non riescono a rielaborarla in un linguaggio colto; ma se una persona povera riesce a elaborarla in un linguaggio che si capisce questo porta all’emancipazione. Non potevamo coinvolgere 22 mila individui ma abbiamo coinvolto le persone a diversi livelli; abbiamo individuato 26 persone che rappresentano tutte le disabilità, gente del posto, con titoli di studio diversi; questo gruppo ha fatto incontri con altre persone disabili per cercare di capire come fare la ricerca; hanno individuato 8 aree legate al tema della disabilità e hanno identificato 5 temi legati all’ambito di intervento (lavoro, salute, educazione, empowerment, legislazione) e gruppi di auto aiuto e associazioni dei disabili. Hanno infine individuato altri temi più trasversali (violenza, tempo libero, povertà…). Su ogni tema (22 in tutto) hanno fatto delle riunioni, che duravano anche dei giorni, coinvolgendo persone disabili. Come metodologia hanno utilizzato le storie di vita cercando di capire quali erano i loro problemi e in che misura il CBR li aveva aiutati a risolverli.
Alla fine di ogni riunione hanno documentato il tutto attraverso il filmato di circa un’ora. I risultati di questo lavoro di analisi non sono univoci ma sono complessi; la CBR ha aiutato le persone ad accedere ai servizi, ha aiutato certi gruppi di persone disabili ma altre sono rimaste escluse e stiamo parlando delle persone ammalate di lebbra, le persone epilettiche, i malati mentali. Il progetto è finito nell’aprile, in tutto sono state coinvolte 400 persone disabili, senza contare tutte quelle che hanno visto il video. Ogni volta che li vedo, mi rendo conto di come sono cambiati durante tutto questo lavoro: sono diventate persone più consapevoli. Ben 13 persone del gruppo si sono state candidate alle elezioni comunitarie.