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autore: Autore: a cura degli operatori del Centro Zanichelli (*)

Il burnout raccontato dagli educatori

Un logoramento costante, un forte senso di delusione e di impotenza e alla fine il sentirsi bruciati. Una condizione questa, osservata con sempre maggior frequenza e diffusa tra i molti operatori sociali che svolgono attività con disabili gravi.

Il Centro Zanichelli, e così tante altre realtà simili, accoglie circa quindici disabili gravi, già abbastanza adulti, alcuni di età oltre i 50 anni. Un’utenza stabile, sempre le stesse persone per molti anni. All’educatore è chiesto un lavoro che coinvolge, che tocca l’emotività, gli aspetti più profondi della persona. Richiede una capacità di relazionare e di considerare l’altro che passa attraverso l’affettività, che coinvolge e spesso arricchisce.
Più difficile è agire sul contesto, mantenere un clima di armonia nel gruppo, creare un buon rapporto con i colleghi, con l’amministrazione agendo così sulla qualità e organizzazione del servizio.
Se il lavoro di gruppo degli educatori, il confronto, il lavoro con il supervisore non prendono in considerazione le dinamiche di lavoro, i conflitti e il malessere che le gravi patologie possono mettere in circolo, c’è il grosso rischio che questo malessere venga fatto proprio dagli educatori, amplificato fino a diventare un ostacolo che limita la comunicazione ed anche il riconoscimento delle reali condizioni e dei reali bisogni dell’handicappato grave.
Si è a contatto quotidianamente con la sofferenza, il dolore, la morte, il senso di impotenza, di inutilità. Tutto ciò amplifica la necessità di trovare un senso, un significato condivisibile con i colleghi sul proprio lavoro, su perché lo si fa e come. Se questo non avviene, e spesso può accadere, ci si trova in balia dello stress o della stessa sindrome del burnout: un senso di svuotamento e di apatia che incide sulla qualità del lavoro e sulla vita privata.
In questi periodi si azzera la lucidità sulla realtà e ne viene messa in risalto solo la parte problematica. Questa ottica riduttiva e anche mistificatrice non rende giustizia né al lavoro che si è svolto fino ad allora (spesso con zelo ed ardore), né all’importanza che si continui a farlo, né all’immagine o idea dell’handicappato grave e adulto che rischia di essere appiattita ad un’unica dimensione (dolore, negatività, sofferenza).

Lavorare non solo con la mente ma anche con il corpo

Il primo passo verso il disabile grave è quello di creare una modalità di relazione, dove quella verbale rimane fondamentale ma molto spesso viene integrata da quella gestuale, corporea, affettiva. Quindi a seconda della persona che si ha di fronte si devono leggere e tradurre segni diversi.
All’educatore viene richiesto di lavorare totalmente non solo con la sua intelligenza, ma anche con la sua intuizione, la sensibilità, non solo con la mente, ma anche con il corpo. L’esposizione è totale poiché la base fondamentale per questo tipo di relazione è l’affettività. Lavorare allora vuol dire cercare un costante equilibrio tra un profondo rapporto di empatia e di partecipazione con il disabile e un distacco, per poter valutare continuamente il proprio operato. Un lavoro che chiama in causa non solo la professionalità ma anche la persona nella sua globalità. Un lavoro che espone totalmente l’operatore, a volte anche alle aggressioni fisiche e che diventa facilmente fonte di frustrazioni poiché spesso con i disabili gravi quello che si evidenzia non è tanto quello che si riesce a fare bensì ciò che non si riesce.
Di fatto la nostra è una professione che ha un alto corrispondente teorico rispetto all’operatività. Le tante e diverse difficoltà dell’utente richiedono un solido bagaglio teorico per poterle affrontare. Ecco allora la necessità di strumenti di crescita e di opportunità concrete affinché il gruppo di educatori possa riflettere, elaborare pensiero rispetto al proprio lavoro, produrre documenti validi per trasmettere la conoscenza acquisita attraverso l’esperienza lavorativa, il confronto e la riflessione di gruppo. Questo impegno, questo sforzo intellettuale dovrebbe essere riconosciuto e questo potrebbe in qualche maniera colmare le altre lacune.
Le risposte che singolarmente gli educatori possono dare sono limitate. Spesso è indispensabile agire sulla struttura togliendo i centri per gravi da un ambito separato e chiuso ma inserendoli all’interno di percorsi educativi e formativi più ampi. Evitare che un educatore rimanga per interi decenni a contatto con gli stessi problemi, le stesse situazioni, gli stessi utenti.
Diventa importante tentare, come è stato fatto in questi anni al Centro Zanichelli, soluzioni istituzionali capaci di garantire mobilità e vitalità ad un’attività sociale (apertura al territorio; utenza allargata e patologie meno gravi; utilizzo delle risorse umane, culturali, strutturali e organizzative da parte del Servizio Handicap Adulto; formazione ad altre strutture) in modo da evitare la fuga dell’educatore e quindi una perdita di ricchezza motivazionale e di esperienza professionale indispensabile per questo tipo di strutture e in generale per la crescita della cultura sull’handicap.

(*) il Centro Zanichelli si trova a S. Lazzaro di Savena (Bo)