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autore: Autore: a cura di Roberto Ghezzo e Alessia Ferrari

Bioetica e cultura dell’accettazione della vita – Intervista ad Andrea Porcarelli*

Partiamo dalla domanda su cosa avete realizzato sul web…
Abbiamo strutturato un portale di bioetica (www.portaledibioetica.it) con lo scopo di consentire in prima istanza a tutti coloro che ne hanno bisogno di reperire informazioni e soprattutto di riflettere e ragionare, in seconda istanza di predisporre percorsi didattici avendo un punto di riferimento unitario e una base di partenza per muoversi nel mare della bioetica anche on-line. Siamo partiti dalla considerazione che i siti di bioetica sono tendenzialmente autoreferenziali cioè ognuno parla di se stesso e non molti danno indicazioni su quello che c’è in giro. Una sollecitazione in tal senso è giunta dal fatto che il Ministero dell’Istruzione ha firmato un protocollo di intese con il comitato nazionale di bioetica per l’insegnamento della bioetica nelle scuole: ci siamo chiesti che tipo di bioetica si potrà insegnare e con quale spirito, con quale logica. Di lì, quindi, siamo andati anche alla ricerca di quello che era stato fatto negli anni scorsi nel campo della bioetica e una delle chiavi di lettura che abbiamo proposto è stata proprio l’idea che la bioetica può offrire un contesto unitario di raccordo, cioè una forma di unità sapienziale a diverse tipologie di educazioni: l’educazione alla salute, l’educazione all’ambiente, l’educazione alimentare, cioè tutte cose che nella scuola già si fanno però in modo disorganico, disparato, episodico, senza continuità. In questo senso la bioetica può offrire un contesto epistemologico di riferimento. In più ci sono alcune idee chiave nel campo della bioetica che hanno un grande rilievo sul piano educativo, sia in generale sia nella considerazione delle persone con deficit o handicap. La cosa che ho notato è che le scuole bioetiche si dividono sostanzialmente su due problemi: quale è l’etica per la bioetica e quali sono i criteri per decidere nei singoli casi bioeticamente rilevanti. Su questa seconda questione ci sono a mio avviso due linee di decisione: l’una basata su un certo modo di intendere la qualità della vita e l’altra basata sull’affermazione piena della dignità della persona. Prendiamo in considerazione ad esempio l’eutanasia: una bioetica di ispirazione laica che ha come elemento fondamentale una certa idea della qualità della vita, sostiene sostanzialmente che al di sotto di un certo grado di qualità, socialmente accettata, la vita non merita di essere vissuta. L’aveva detto Montanelli, che non avrebbe accettato il progredire di deficit psichici o fisici di qualunque tipo, così come lo dice la Montalcini.

Qui si pone il problema della libertà dell’individuo di poter scegliere.
Al di là del poter scegliere, della propria libertà, c’è un problema educativo di fondo: quando anche l’individuo avesse, ammesso e non facilmente concesso, piena disponibilità della propria esistenza, resta il fatto che l’individuo agisce in base a criteri, che non sono mai pienamente liberi ma che sono in questo caso socialmente inculcati.

Mi sembra che tu stia toccando un po’ il tema che cerchiamo di approfondire in questo numero di Hp ovvero la comunità come luogo di accoglienza e di partecipazione. Se abbiamo una comunità che impone slogan relativi alla qualità della vita, allo standard di vita, sotto il quale la vita non vale la pena di essere vissuta, ciò mi ricorda un po’ quello che a suo tempo Hitler ha addotto come motivo fondante per l’eliminazione dei soggetti portatori di deformità, diversità rispetto alla purezza della razza ariana.
Le prime leggi razziali di Hitler si sono tradotte con l’eliminazione dei soggetti portatori di handicap perché nella prospettiva nazista siamo di fronte ad una vita che non è degna di essere vissuta. La stessa cosa si afferma adesso quando, con l’attuale legge sull’aborto, in vigore in Italia, si concede alle donne di abortire anche oltre il limite del terzo mese, se ci sono o problemi di salute della madre o problemi psichici che generalmente coincidono con una diagnosi di malformazione del nascituro. Quindi la legge permette l’aborto se il figlio è diagnosticato come potenziale portatore di handicap perché questo genera un disagio psichico alla mamma la quale prolunga il suo diritto di vita o di morte sul nascituro e in ogni caso sottolinea l’idea che una vita di tal sorta non è degna di essere vissuta. Ciò è stato supportato da una causa negli Stati Uniti d’America intentata da una coppia che ha avuto un figlio disabile perché non gli è stato diagnosticato.
Questa è una linea bioetica che da un lato si esprime in alcune situazioni di frontiera come soppressione del nascituro o come diritto all’eutanasia, ma che è il frutto di una cultura generalmente più diffusa. C’è invece una prospettiva bioetica che afferma la “qualità totale” potremmo dire della dignità della persona a prescindere di una valutazione ipotetica di una qualità di vita, per due motivi: primo, quando anche fosse possibile fare una diagnosi univoca della qualità della vita, poter stilare una graduatoria della qualità della vita, la persona avrebbe comunque una sua dignità che gli deriva da ciò che è come persona e non da ciò che ha; in secondo luogo il problema della qualità della vita non è comunque quantificabile, nel senso che è legato all’idea della felicità e non si può misurare il tasso di felicità di una persona. Quindi c’è un duplice vizio nell’affermazione che la dignità di una persona dipende dalla qualità della sua vita, perché non è vero diremmo da un punto di vista metafisico, e dall’altro lato, in ogni caso, la stessa nozione di qualità di vita non è quantificabile, non è soggetta a una sorta di misurazione quantitativa perché coinvolge valori di altra natura che non stanno sul piano della bilancia.

Perché ti sei interessato ai temi della bioetica?
Io sono un insegnante di filosofia e presidente dell’Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi. L’interesse per la bioetica mi è derivato da due sollecitazioni convergenti:
1) l’una proveniente dagli alunni, perché la bioetica è un tema di attualità e per chi si occupa di questioni di carattere storico, filosofico, religioso ti interpella in qualche modo, per lavorare al meglio possibile in classe con i ragazzi;
2) il fatto di vedere prevalere una cultura frammentata e frammentaria a livello di istituzioni scolastiche, con la nascita di educazioni a tampone (alla salute, la prevenzione dell’aids, eccetera) tra loro disarticolate mi ha fatto pensare alla necessità di creare un quadro unificante anche per la formazione degli insegnanti, che è un bisogno previsto. È bene avere dei principi sapienziali che unificano il sapere frammentato, perché l’educatore è uno che conduce e quindi deve sapere dove vuole andare. Di qui il portale di bioetica proprio per cercare di dare questo punto di riferimento sia ai ragazzi, scritto con un linguaggio accessibile, che agli insegnanti su come sviluppare certe strategie e arricchire l’offerta del piano educativo.

Rispetto al tema comunità virtuale, rispetto alla reciprocità che si può raggiungere con il web, tu che esperienza hai?
Il sito è in fase di sviluppo, quindi la sua potenzialità non è ancora piena. Il sito ha un suo baricentro geografico nel Piemonte, con un accordo con alcuni enti. Ho avuto esperienze in comunità virtuali nell’UCIM, mi sono occupato della formazione degli insegnanti all’uso delle nuove tecnologie multimediali nella didattica, facendo lezione in aule virtuali, mantenendo mailing list, forum e luoghi di incontro. Per strutturare questi corsi a distanza e avviare il lavoro di comunità virtuali di fatto abbiamo attivato il rapporto in presenza.
Sono stato chiamato l’anno scorso in Brasile da persone che hanno letto alcuni miei scritti di didattica della filosofia e se ci fosse stato solo uno scambio di e-mail, ciò non avrebbe generato un senso di comunità ma poi sono andato fisicamente in Brasile, a Pirascada nello stato di San Paolo, ho conosciuto persone. È chiaro che la comunità virtuale che ho creato funziona (una sobria mailing list ci tiene collegati) proprio perché ci siamo incontrati, ci siamo conosciuti.
Quindi per ora delle comunità esclusivamente virtuali personalmente non ne ho esperienze particolarmente significative. Se il baricentro mentale è sull’idea dell’incontro con la persona, allora come diceva Aristotele, lo strumento è uno strumento, dipende da come lo usa chi ne è padrone: chi definisce i fini dell’uso di uno strumento è colui che lo usa. Quindi anche le comunità virtuali sono vere comunità, se chi le crea ha una logica comunitaria.

Tornando al tema della comunità umana, conseguentemente alle nostre enormi conoscenze e progressi tecnologici possiamo decidere se accogliere o meno una persona. Quali sono secondo te gli strumenti che la comunità dovrebbe adottare per aumentare la discussione su questo, aumentando la partecipazione e la democrazia? Perché se è vero che la bioetica viene influenzata da una cultura diffusa, ho anche l’impressione che le decisioni siano prese a livello alto, che le conoscenze siano a livello universitario ed elevato, da esperti, i quali poi fanno parte delle commissioni. I temi in effetti sono complessi come quelli delle cellule staminali.
Di dibattito su queste tematiche ce n’è molto ma mancano in realtà gli strumenti per un confronto reale. Quando nasce il dibattito su una questione bioetica? Nasce quando viene ad onor della cronaca qualcosa che fa notizia, come l’uomo che morde il cane e non il cane che morde l’uomo. Si discute di bioetica quando si parla di cose atipiche, ipertrofiche, particolarmente nuove, e quindi si ha l’impressione che la bioetica riguarda sempre cose strampalate che fanno notizie. A mio avviso invece sarebbe importante acquisire un maggior grado di consapevolezza nel campo della bioetica, ma non solo, della potenzialità bioetica di questioni che sono quotidiane (gestione della sanità, diritto per tutti alla salute, alla non emarginazione, eccetera); è chiaro però in alcuni casi che la cultura dell’accoglienza si esprime in una accoglienza o in una non accoglienza anche di fronte alle sfide più strampalate. Esempio: se di fronte al problema delle cellule staminali di origine embrionale, ottenute cioè per clonazione, al fine di avere degli organi di ricambio, se di fronte ad un problema di questo tipo che è altamente complesso, le domande che ci si pone rimangono sul piano prevalentemente pragmatico utilitaristico (a chi può servire, in quanto tempo ci sarà la cura, eccetera) e non ci si pone la domanda sui soggetti che vengono sacrificati per questo, come gli embrioni, a mio avviso si fa la stessa operazione che fece Hitler, che non si interrogava sui diritti dei soggetti che sopprimeva ma solo sul vantaggio che ne poteva trarre la società, tra l’altro sbagliando anche i conti, perché il fatto di ritenere una persona con un deficit, una forma di povertà e non una forma di ricchezza , è uno sbaglio nei conti (anche se dal suo punto di vista Hitler i conti tornavano, eccome). Su questo punto tutti sono pronti a convenire, anche perché c’è una certa memoria storica, ma quando si comincia a parlare di embrioni c’è una sorta di effetto culturale di segno opposto. Si tratta di una cosa squallida creare una persona che viene prodotta e funge da riserva di materiale organico per altri.

Quando è che nasce per te la persona?
Per me è persona ogni individuo della specie umana. Se si cominciano a mettere delle linee di demarcazione tra individui della specie umana che non sono persone e individui della specie umana che sono persone, facciamo la fine della fattoria degli animali di G. Orwell: tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali, in questo caso meno uguali degli altri.
Nel momento, quindi, in cui qualcuno ammette una eventuale linea di demarcazione, apre la strada a tutte le possibili discriminazioni. E’ come una diga: se qualcuno ammette qualche buchino piccolo a piacere, prima o poi la diga crolla.
Per ragionare in questo senso sto cercando di costituire con il supporto dell’UCIM, una rete nazionale di laboratori per la didattica della bioetica. C’è già un laboratorio operativo in Piemonte che ha una forte base istituzionale e che coinvolge la direzione scolastica regionale (ci sono più di 20 scuole collegate in rete). Poi ci sono altri laboratori come quello dell’Emilia Romagna che sono gruppi di lavoro, cioè gruppi di persone disponibili a parlare della bioetica e incontrare insegnanti nelle scuole. In diverse città d’Italia stiamo costituendo diversi laboratori per la didattica della bioetica. L’idea è proprio questa: da un lato avere il sito di bioetica che rimane il punto di supporto, lo snodo della comunità virtuale e poi creare tante piccole comunità locali che da un lato si raccordano tutte con la unica comunità virtuale e dall’altro lato promuovono le azioni sul territorio perché per fare corsi di aggiornamento e parlare con le scuole, bisogna esserci e essere fisicamente presenti. L’idea è promuovere una cultura della vita che sia simultaneamente cultura di accettazione della persona e in quanto tale di accettazione della vita, perché l’accettazione della vita è tale se è accettazione di una vita di una persona cioè di una vita che ha valore. Se tu chiedi ad un giovane ventenne, al mare, magari dopo che ha fatto all’amore con la propria ragazza, gli chiedi se lui accetta la vita, ti dirà di sì, ma non è detto che abbia una cultura della accettazione della vita, perché magari la ragazza lo molla, ha un incidente stradale, gira con una vita un po’ diversa rispetto a quella che aveva immaginata poco prima e allora pensa che la vita non abbia nessun senso. Invece ha una cultura della accettazione della vita chiunque la accetta in quanto vita di una persona, in quanto ha una dignità quale che siano la malattia più o meno temporanea o cronica o la sanità, la giovinezza o la vecchiaia, qualunque siano le condizioni e lo stato di salute.
Il vitalismo era uno degli ideali anche degli arditi, della gioventù fascista, di quelli che saltavano le baionette come mio nonno di cui conservo una foto, vitalismo che porterà Hitler a sopprimere gli handicappati perché loro non saltavano le baionette come gli altri.

Come dice lo storico De Felice il comunismo, fascismo e nazismo erano accomunati dalla volontà di creare l’uomo nuovo, non più quello borghese, ma una umanità nuova.
Questo modello si è solo evoluto, non è venuto meno. Oggi va molto il modello del tenebroso, dell’uomo la cui immagine non è più quella di Storace ma ad esempio di Micky Rourke. Si è sempre schiavi di un modello, però il problema non è quale è il modello culturale di riferimento, ma che ci sia un modello uomo in nome del quale io distinguo tra uomo e uomo. Un uomo modello da un lato e dall’altro un uomo imitazione del modello, ovvero tutti gli uomini reali che sono qualcosa di più del modello, perché per quanto valore ci sia in un modello, il valore più grande di una qualsiasi persona umana è di esistere come persona. Il fatto di limitarsi ad allargare il modello prendendolo un po’ più corretto politicamente (al limite incamerando anche le persone disabili), alla fine esclude sempre qualcun’altro! Cioè il fatto di dire che una persona ha valore a condizione che… e poi allargare le condizioni a piacere è già sbagliato! Si lascia magari fuori il moribondo o l’embrione.

Come definiresti la bioetica?
La bioetica come termine deriva da bios e ethos, mette insieme l’idea del ragionare in termini etici sulle azioni che hanno a che fare con la vita e la salute. Quindi intesa in senso largo, la bioetica ha radici antichissime, nel senso che il giuramento di Ippocrate è un testo di bioetica.
In termini più ristretti storicamente si parla di bioetica a partire dagli anni 70 del XX secolo: c’è un libro di Van Potter che si intitola Bioetica un ponte verso il futuro del 1970, che è considerato un po’ il testo che segna la data di nascita di questa disciplina. Soprattutto però dal punto di vista storico, nasce la bioetica come disciplina da che si sviluppano grandemente le biotecnologie, per cui si è creato uno spazio specifico di riflessione che ha nome di bioetica data la quantità di interrogativi posti dalle biotecnologie, imparagonabile rispetto agli ordinari interrogativi di etica medica. La bioetica va oltre l’etica medica perché mentre precedentemente la riflessione bioetica riguardava solo i medici e il personale sanitario, con l’avvento dei biotecnologie riguarda le case farmaceutiche, i bioingenieri, eccetera.

Collegheresti la bioetica all’educazione ambientale? Il teologo brasiliano Leonardo Boff afferma che l’uomo è pastore dell’Essere, non deve possederlo ma rispettarlo, averne cura. Il termine bioetica contiene la parola vita che non è solo vita umana: come colleghi questo alla tua riflessione? Può la comunità umana accogliere non solo la vita degli esseri umani ma anche quella di tutti gli esseri viventi?
Sono da un lato d’accordo sul rispetto dell’ambiente (e chi non lo è!) ma il problema è un altro. Io partirei dalla vita umana, dicendo che ciò che ha motivo di dignità specifica è la vita umana. Da questo punto di vista, quando io parlo di dignità della persona e dignità della vita di ogni persona attribuisco alla persona un valore diverso dal sedano o dal carciofo, che mi sono mangiato prima di venire qui. C’è da dire che la vita umana non è una vita che si sviluppa o cresce in un ambiente isolato o chiuso, nel senso che la vita umana può esistere nella misura in cui esiste un ambiente, un ecosistema, un mondo e nella misura in cui per se stessi o per gli altri non lo si distrugge. Però sono due livelli di dovere diversi: io devo alla persona in senso stretto un rispetto assoluto e totale, poi a ciò che consente di vivere a quella persona in modo più o meno diretto, io devo una qualche forma di rispetto, che è diversa. E’ chiaro che se distruggo la casa di una persona, gli creo dei problemi, però non posso dire che è dello stesso tipo la forza dell’imperatività etica che io ho nei confronti della persona, rispetto alla forza dell’imperatività etica che io ho nei confronti della sua casa, del boschetto, eccetera

Le considerazioni che fai sono legate alla nostra cultura occidentale, ma in altre culture c’è un maggiore rispetto per la vita non umana.
Esistono i fruttariani che portano il discorso alle estreme conseguenze, cibandosi solo di ciò che cade da un albero, senza secondo loro fare violenza alla pianta, alla natura. In India addirittura c’è un particolare ordine di monaci che gira con una garza sulla bocca per evitare che delle mosche possano farsi male entrando dall’orifizio orale.
Se io ammetto che gli esseri viventi sono tanti gli animali quanto le piante, voglio vedere uno che è in grado di sopravvivere senza mangiare una pianta, un animale o un frutto! Con la mia idea di rispetto forte della persona cosa hanno a che fare questi squinternati! E’ molto facile che prima si allarga, poi si restringe, perché i fautori della così detta bioetica animalista, ad esempio Peter Singer, nell’affermare che gli animali hanno gli stessi diritti delle persone, affermano che la persona acquisisce diritti dal momento in cui diventa capace di provare dolore e piacere, dunque per esempio gli embrioni non sono persone. Quindi il cagnolino ha i suoi diritti, l’embrione no! Questo tipo di mentalità, nella realtà culturale, cioè al di là dell’astrazione mentale di gruppi elitari, nella realtà culturale diffusa dei fatti, produce effetti che non sono auspicabili. Quindi non è che l’uomo deve una forma di rispetto assoluto a ogni forma di essere vivente, ma deve una forma di rispetto assoluto a ogni persona e di riflesso all’ambiente in cui le persone vivono, nella misura in cui questo è una ridondanza del rispetto dovuto alla persona, perché se qualcuno mi dice che devo rispetto a una carota in quanto vivente e a una persona, in quanto vivente con lo stesso tipo di forza deontologica, a mio avviso apre la strada ad abusi sconsiderati.

* Presidente dell’Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi