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autore: Autore: Alexander Langer

Go home, Hirenaus

"Occorre una cultura della convivenza che sappia sviluppare l’arte dell’accettazione della compresenza dei diversi sullo stesso territorio…La comprensione delle differenze ela capacità di sentire la differenza etnica o culturale non come un handicap ma come una condizione oggi assai frequente". Uno degli ultimi interventi del noto esponente ecologista.

Ha ragione Eibl-Eibesfeldt: la tendenza alla xenofobia, all’ostilità verso gli estranei, al rifiuto del nuovo arrivato, del diverso, di colui che complica e magari disturba l’equilibrio relazionale e di potere esistente, è generalizzata. Non mi stupirei se avesse radici non solo culturali, ma anche biologiche. Basti pensare all’esperienza di ognuno di noi quando in uno scompartimento ferroviario o in un posticino di mare o di montagna dove ci siamo sistemati comodi, magari con i nostri cari, arriva qualcuno che vuole prendere posto, interloquire, accendere la sua radio o sigaretta, sistemarsi a suo modo e – orrore! – far arrivare anche i suoi cari, senz’altro più rumorosi, puzzolenti ed indigesti dei nostri. E più affollato sarà il mondo, più mobili i suoi abitanti e più forti le ragioni che spingono alla migrazione, più frequentemente lo xenos ci apparirà non come ospite, ma proprio come straniero indesiderato.

Epperò – tutta la storia culturale dell’uomo non è forse una storia di raffinamento e dominazione di istinti primordiali? Di faticoso superamento dell’omicidio, dello stupro, della predazione, della supremazia armata del più forte, della violenza in tutte le sue forme – insomma, un tentativo di far vincere la ragione sulla forza? Una storia di ricerca e costruzione di senso nella vita dei singoli e delle collettività, che per l’appunto non si esaurisca nel darwinismo biologico?

Non c’è dubbio che oggi la xenofobia e la conseguente dilagante voglia di omogeneizzazione ed epurazione etnica sia tra le maggiori e più pericolose sfide del nostro tempo. Se ne potranno addurre motivazioni etologiche quante se ne vorranno, ma non è detto che l’eventuale affinità con comportamenti bestiali renda più scusabili certi comportamenti inumani. I discorsi di tanti leghisti o lepenisti o razzisti comunque denominati che reclamano (o addirittura praticano manu militari) l’espulsione di marocchini e zingari, ed i ragionamenti di taluni curiosi pseudo-ecologisti che proclamano che gli uomini, come le piante, devono stare nel loro humus congenito e non spostarsi da lì, non possono certamente pretendere alcuna mobilitazione scientifica.

Anzi. Proprio se fosse accertato che siamo esposti alla xenofobia a livello biologico ed istintuale (come potremmo essere inclini a prenderci con la forza ciò che ci pare e piace), dovremmo migliorare e qualificare le nostre difese. Tra le quali collocherei in primo luogo una cultura della convivenza che sappia sviluppare l’arte dell’accettazione della compresenza dei diversi sullo stesso territorio, con tutti gli opportuni accorgimenti perché possano crescere la conoscenza e l’inter-azione reciproca, la comprensione delle differenze e la capacità di sentire la diversità etnica o culturale né come provocazione né come handicap, ma piuttosto come una condizione oggi (ed anche in passato!) assai frequente, che va saputa affrontare. Non tutti si convinceranno che «inter-etnico è (può essere) bello»; anzi, risulta più popolare, nei fatti, lo slogan opposto «etnico è bello»).

Ma la realtà è che non esiste una astratta e teorica possibilità di scelta. Le società moderne sono altamente mescolate, solo attraverso una spaventosa dose di violenza si potrebbe ridurre ad omogeneità etnica gran parte del mondo d’oggi, e soprattutto le grandi città. Converrà allora investire le risorse scientifiche, culturali e morali nella ricerca di come si può migliorare la convivenza piuttosto che nella spiegazione del perché convivere è brutto ed oltretutto innaturale.

Articolo tratto da La Nuova Ecologia, 6 maggio 1995