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autore: Autore: Angela Verzelli

Il sesso oltre la cronaca

Sempre più spesso nella mentalità corrente la violenza viene associata alla sessualità, anche se in apparenza sembra prevalere lo sdegno e il rifiuto. In particolar modo gli handicappati sono vittime di una concezione della sessualità che si presta ad essere vissuta nella violenza.

Per tentare di capire qualcosa di più, oltre la facciata della cronaca e della morale comune, abbiamo intervistato il prof. Alessandro Bosi, docente di Sociologia all’Università di Parma e componente del Direttivo nazionale del Centro Italiano di Sessuologia.
Domanda. Dal suo punto di osservazione quale quadro emerge dalla realtà attuale in merito al problema della sessualità e della violenza e di quanto rimane sommerso?
Risposta. Si possono individuare tre ordini di problemi: il primo è dato da un tipo di violenza sessuale che non è dichiarata perché, in forza delle cose, le donne devono tenere nascosta. Alludo a quella perpetrata all’interno del nucleo familiare o da persone al di sopra di ogni sospetto per cui la donna non osa nemmeno denunciarla perché molto probabilmente nessuno le crederebbe.
È un tipo di violenza che possiamo chiamare sommersa perché non riusciamo a collocarla in alcun computo statistico benché, da altre forme di indagini, appaia invece come molto diffusa.
Esistono però almeno altre due categorie di sommerso: la prima deriva da quello che chiamerei vizio di istruzione del problema nel senso che noi siamo soliti collocare la violenza sessuale all’interno della violenza tout court; credo invece che in questo modo si rischi di snaturarla nelle sue particolarità inserendola in un quadro più ampio di problematiche socio-politiche.
La violenza sessuale andrebbe invece inserita nell’ambito della sessualità in modo da essere poi spiegata in base al concetto di sessualità da noi elaborato.
Vi è infine un terzo genere di sommerso che deriva dal fatto che le nostre idee più impronunciabili sulla sessualità diventano una specie di sovrastruttura ideologica che sta alla base di tutte le affermazioni attraverso le quali noi deploriamo la violenza sessuale.
D. Intende dire che nel momento stesso in cui si condanna l’episodio di violenza si fa emergere quel substrato culturale che, in un certo senso, ne crea i presupposti?
R. Mi rendo conto che il concetto può risultare strano e perciò mi spiegherò con un esempio: quando noi affermiamo o pensiamo, cosa che avviene spesso a livello di senso comune, che una donna che ha subito violenza è rovinata, (è un "fiore spezzato" come recitava una canzone che fece scalpore qualche anno fa proprio perché trattava il tema dello stupro) sosteniamo di fatto l’idea di un accadimento mostruoso che segna la fine della possibilità di essere donna. Al di là della deplorazione insita in una affermazione di questo tipo si può ritrovare una sorta di connubio con una concezione maschile e del tutto reazionaria della sessualità e cioè l’idea che parte dal mito della verginità e del possesso della donna.
Quando una donna viene stuprata entra in un territorio proibito che è il territorio dell’altro, in questo caso del mostro e quello che viene violato è, a livello più profondo, il controllo sul corpo femminile da parte dell’uomo; per questo dico che alla base della violenza sessuale troviamo proprio quei costrutti che sostengono la nostra visione della sessualità e perciò se non si affonderà il bisturi in questo terreno si potrà fare ben poca strada a livello di mentalità comune.
D. Dunque questa idea di compassione per la donna stuprata considerata per ciò tagliata fuori, dovrebbe sparire dalla mentalità comune?
R. In un certo senso sì, in quanto in alcun modo si deve pensare che la persona vittima di uno stupro non possa più avere una vita piena sessualmente ed affettivamente; considerarla "rovinata" contribuisce a tenerla prigioniera di un costrutto che non può che essere di tipo maschilista. Certo questo è il terreno più sommerso.
D. Allarghiamo un po’ il discorso: quali connotazioni positive e negative può avere avuto sulle nuove generazioni il mutamento della morale sessuale avviatosi dagli anni ’70 in poi?
R. Di positivo c’è senz’altro il fatto di avere aperto la discussione su alcune questioni spostandole dal terreno privato a quello politico e sociale e questo è sempre un segno di progresso. L’elemento negativo può in parte essere ricavato dal discorso che abbiamo fatto prima: se questo movimento politico mantiene delle incrostazioni concettuali ereditate dalle concezioni contro le quali è diretto, allora le acquisizioni critiche non riescono a fare realmente i conti con la precedente coscienza. Questo è, secondo me, il limite col quale devono fare i conti fino in fondo i movimenti femministi.
D. Si sente spesso parlare di uno scollamento tra sessualità ed affettività che le nuove generazioni avrebbero ereditato proprio dai mutamenti culturali che pure non hanno vissuto in prima persona. Esiste davvero questo rischio?
R. Sì, è stato detto che oggi viviamo il sesso senza amore come in epoche passate si viveva l’amore senza il sesso e questo probabilmente è vero ed è da ascrivere ad una concezione ancora non risolta della nostra corporeità.
La conflittualità col nostro corpo viene resa esplicita dall’esagerazione con cui sono amplificate le nostre zone erogene: questo è dare una dimensione esaltata e dunque pornografica della corporeità ed è un rischio che le nuove generazioni, pur senza fare delle generalizzazioni, corrono in misura particolare.
D. E da questo scollamento può nascere un atteggiamento più violento?
R. Certamente quando i due momenti non sono in un rapporto significativo la violenza ha più possibilità di affermarsi.
D. Veniamo ad un ultimo punto: violenza sessuale ed handicap, quali similarità e quali differenze si possono notare?
R. Premetto che non sto esprimendo un giudizio medico ma vorrei sottolineare un concetto: la nostra idea di sessualità è fondata su un principio prometeico di prestazione e spesso è intrisa di elementi di volgarità e di luoghi comuni espressamente osceni. Tutto questo significa che noi ospitiamo all’interno stesso della nostra cultura l’idea della violenza; perciò si può dire che eventuali soggetti con turbe psichiche o altri problemi che lascio giudicare ad altri, trovino già un terreno predisposto, con un concetto di sessualità che si presta ad essere vissuto nella violenza.
D. E l’altra faccia di questo problema, cioè l’handicappato o handicappata come vittima di violenza?
R. Credo che rappresenti una realtà di fatto; è l’estremizzazione di quello che abbiamo finora detto: se la donna viene concepita come oggetto e quindi passività allora l’azione violenta è quasi legittimata perché la violenza sessuale parte proprio dall’idea che ci sia un soggetto attivo forte, l’uomo col suo principio prometeico di prestazione, e un soggetto debole che la violenza la subisce. La può subire nell’ambito della legittimità e all’interno quindi di rapporti codificati, oppure in condizioni delegittimate.
L’handicappato e il bambino sono all’estremità di questo rapporto in quanto rappresentano il soggetto del tutto indifeso che può risultare ancora più scatenante rispetto ad una "fantasia" definita secondo questo schema. Soggetto-oggetto tanto più indifeso in quanto difficilmente ne prende coscienza e ancor più raramente trova il modo di denunciare questo tipo di atteggiamenti.

Parliamo chiaro

“Due parole” è una rivista, una delle tante ma non come tutte le altre. Ha per sottotitolo una scrittura che incuriosisce: “mensile di facile lettura”, e tutto, dalla scelta dei titoli alla grafica, desta una sensazione di scorrevolezza e di facilità che raramente si incontra nell’editoria a cui siamo abituati.

Le notizie di attualità che vi compaiono sembrano sminuzzate e poi ricomposte con il linguaggio semplice della quotidianità per arrivare direttamente al loro obiettivo: i lettori. Per capire da quale ipotesi scientifica è nato un progetto di questo genere, ormai al suo quarto anno di pubblicazione e coordinato da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Scienze del linguaggio dell’Università di Roma, abbiamo rivolto alcune domande al direttore scientifico del mensile, il professor Tullio De Mauro. "L’ipotesi da cui siamo partiti – spiega De Mauro – è quella che occorre proporre un messaggio formulato in modo che vada incontro alle esigenze dell’interlocutore, e questo è un discorso valido in generale. Più in particolare possiamo riformulare una notizia scavando nel contenuto e nelle nostre capacità espressive per trovare appunto quelle formulazioni, anche molto specifiche, che si adeguano al nostro interlocutore. Questo non è un compito facile perché bisogna sommare la capacità di penetrazione approfondita di un argomento, con la capacità di renderlo cormprensibile a chi vi si accosta per la prima volta. Difficilmente i giornalisti si pongono in quest’ottica e spesso rimangono al di fuori degli argomenti di cui si occupano risultando prigionieri del linguaggio tecnico. Occorrerebbe essere specialisti più giornalisti, per usare un concetto di Gramsci".

Domanda. Chiariamo dunque a quale tipo di interlocutore sono rivolti i vostri articoli.
Risposta. Innanzitutto si tratta di un pubblico di disabili mentali, ma anche "marginali" di ogni tipo come bambini, anziani, lavoratori e lavoratrici stranieri;
noi tentiamo di dare loro le notizie del mese cercando di fare in modo che quando il numero esce non sia già invecchiato rispetto agli argomenti del momento. Non abbiamo alcuna preclusione sulle notizie da affrontare, per cui spaziamo dalla politica alla letteratura, alle notizie di vita quotidiana. Grazie a questo esperimento, che è sì scientifico ma è anche legato a fattori umani come la solidarietà verso questi gruppi di persone, stiamo poi cercando di mettere a punto un manuale di regole per la scrittura di facile lettura che dovrebbe essere pubblicato entro l’anno.

D. Allarghiamo ora un problema oltre la sfera del pubblico specifico del vostro mensile. Dietro la scarsa fruizione degli italiani di tutto ciò che fa parte dell’editoria, libri, quotidiani, riviste, c’è principalmente un problema di bassa cultura o di disinteresse o altro ancora?
R. Indubbiamente i fattori negativi si sommano, così come quelli positivi, quando ci sono! Si tratta dunque sia di un problema di linguaggio troppo specialistico di cui i giornali fanno largo uso, sia di scarsa cultura media. Non è un mistero che in Italia abbiamo ancora oltre il 60% della popolazione che o non ha nessun titolo scolastico o è in possesso della sola licenza elementare: paradossalmente solo il 40% degli italiani è in regola con le norme costituzionali che prevedono l’obbligo per tutti i cittadini del titolo di studio di licenza media. Questo è il primo dato che possiamo così semplificare: solo quattro persone su dieci hanno abbastanza "scuola" per prendere in mano un giornale; ancora più ristretta è la fascia di coloro che hanno un titolo superiore, circa il 15%; dunque quando si parla di mercato librario italiano si deve tener presente un bacino di 6 o 7 milioni di persone e questa è la "bacinella" in cui deve navigare l’editoria italiana.
Oltre a questo si deve rilevare, e ormai molti autorevoli studi in proposito lo confermano, che la gran parte delle pubblicazioni sono fatte non per chi deve leggerle ma per gli altri che scrivono! È una specie di linguaggio per addetti ai lavori per cui si stabilisce un codice comprensibile solo all’interno: forme espressive ammiccanti che funzionano da un giornale all’altro, da un critico letterario ad un altro critico letterario e non dal critico ai lettori. Questo porta ad un eccesso tale per cui anche persone di elevata cultura possono trovarsi in difficoltà a leggere la terza pagina di un giornale o anche gli articoli di fondo. Si crea così un circolo vizioso: i lettori sono pochi o non ci sono, questo induce all’uso di un linguaggio sempre più interno "a chi scrive", il che scoraggia ulteriormente il possibile lettore!

D. In questo panorama così poco ottimistico la struttura televisiva costituisce un rimedio, con l’uso del media visivo, o allontana ulteriormente li pubblico dalla fruizione della cultura scritta?
R. Con i chiari di luna attuali le televisioni, sia pubbliche che private, possono costituire un fatto indubbiamente positivo di fronte a dati come quello che vede un lettore di quotidiani ogni dieci abitanti, che è una media da paese depresso dell’Asia: le televisioni svolgono un ruolo di supplenza per la circolazione delle informazioni. Questo lo dico comunque con una certa amarezza perché sarebbe meglio che le maggiori città italiane avessero centri di lettura, sale di consultazione e che tutto questo fosse divulgato perché oggi, molta gente, non ha nemmeno idea che possano esserci posti dove andare a leggere un quotidiano o un libro.

D. In conclusione, il grande colpevole di questo vuoto culturale generale è il sistema scolastico italiano?
R. II sistema scolastico è quello che abbiamo fatto noi; chiunque di noi si rende conto del deficit culturale che abbiamo rispetto ad altri paesi, ha in qualche modo, la sua parte di colpa perché, pur sapendo e vedendo il problema, non riesce a fare niente; poi ci sono quelli che non lo vedono o che, vedendolo, non vogliono modificare niente. È un dato di fatto che in moltissime famiglie italiane si spendono, complessivamente, miliardi per comprare magliettine, zainetti, scarpine, mutande ai ragazzini ma l’idea di comprare un libro o di far trovare libri in casa coinvolge, secondo l’Istat, solo il 12% delle famiglie italiane. In questa situazione non c’è poi da stupirsi se le cose non vanno nella direzione prima indicata, cioè l’ampliamento delle sale di lettura, concerti, ecc. In realtà questa sembra essere l’ultima delle preoccupazioni anche della classe politica, per cui il personale della scuola è male utilizzato, non ci sono risorse sufficienti per affrontare i problemi del disagio scolastico e così via. L’evento emblematico di questa situazione è la riforma della scuola secondaria che è in Parlamento dal 1969, sono più di vent’anni, e non è mai stata varata: in questi giorni ho ricevuto un avviso dal ministero per partecipare ad una Commissione che si dovrà occupare, nuovamente, di esaminare i progetti di riforma. Dopo vent’anni siamo ancora alla costituzione di una Commissione di studio, quando nello stesso arco di tempo in Germania, Francia ci sono state almeno due o tre generali riorganizzazioni dei contenuti dei programmi.
Direi che questo spiega molte cose.