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autore: Autore: Arianna Gionini

Gli altri luoghi dell’integrazione

Di recente ho partecipato ad un convegno organizzato dal Provveditorato agli Studi Su “Gli altri luoghi dell’integrazione”. E’ significativo come la scuola abbia sentito la necessità di spostare l’attenzione da se stessa per riflettere e chiamare attorno ad un tavolo altri soggetti istituzionali che si occupano di integrazione lavorativa e sociale dei disabili.
Nell’invito a parlare di integrazione in altri luoghi, si celava l’idea, più volte espressa da alcuni relatori rappresentanti della scuola, che è importante capire dove vanno a finire gli sforzi che gli operatori della scuola fanno quotidianamente per integrare i disabili.
Tutto ciò, partendo da un presupposto di fondo imprescindibile che il contesto scuola garantisce al disabile, nonostante le tante difficoltà un inserimento sociale che poi non è certo sia garantito anche da altri contesti. Quasi a pensare che le modalità che la scuola ha adottato per l’integrazione dei disabili possano essere trasferite tout-court in altri contesti di lavoro o sociali. Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte ad una visione “scuolacentrica” del modo di fare e pensare l’integrazione dove gli “altri” sono chiamati a rispondere più che a condividere percorsi. Insomma un atteggiamento poco incline a riconoscere che vi possono essere diversi modelli di pensare e organizzare occasioni di integrazione sociale e lavorativa. L’impostazione stessa del convegno prevedeva che diversi soggetti istituzionali (ASL, cooperative sociali, associazioni) presentassero alcune esperienze significative di integrazione, rimandando un’impressione che mondi separati e non in comunicazione sono preposti a gestire i diversi momenti di vita delle persone disabili. In questi due giorni di convegno si sono “contrapposte” visioni dell’integrazione, tra un mondo della scuola che è poco incline a giudicarsi ma lo fa volentieri con gli altri, e quello delle ASL che da quando sono diventate aziende sono più attente anche ai “costi” degli inserimenti e da ultimo il “terzo” settore che si sta conquistando uno Spazio ragguardevole in territori liberi ma poco tutelati. Alla fine del convegno ho avuto l’impressione che questi convegni servono a chi li organizza per cercare una sorta di autoreferenzialità, ma a poco servono per riflettere realmente sul cosa stiamo facendo, su cosa si può fare insieme per costruire veramente un pensiero dell’integrazione che non sia frammentario, che riconduca ad una visione antropologica di globalità della persona disabile.
Sento l’urgenza di ricostruire un’idea di integrazione condivisa tra le diverse istituzioni, e per fare ciò è necessario imparare ad ascoltare gli altri a capire quali siano le “culture” diverse che li animano quando pensano di organizzare e gestire servizi a favore dei disabili.

Le tracce dei percorsi precedenti

Lavorare per l’integrazione non è facile non ci sono in questo senso dei primi della classe, ed è proprio per questo che gli sforzi debbono essere ricondotti ad un atteggiamento di ricerca comune dove non vi sono verità precostituite, ma percorsi possibili condivisi, pensati valutati.
E triste oggi constatare come una persona disabile pur avendo frequentato per tanti anni la scuola quando entra in un “altro luogo” non porta con se traccia del percorso fatto, che si debba spesso ricominciare tutto da capo, che non esista un filo conduttore che aiuti a capire la storia in cui si sono mossi e confrontati diversi attori. Mi piace l’idea che ogni persona disabile possa portare con se’ una valigia piena di tante cose: dei suoi vissuti e quelli degli altri, degli oggetti che lo hanno accompagnato e che lo hanno aiutato; un contenitore insomma dove lui e quelli che hanno lavorato con lui possano metterci ciò che hanno ritenuto significativo. Forse proprio questo è il punto.
Partire dalla persona dai percorsi possibili offrendo occasioni di crescita nei diversi momenti di vita. Non possiamo pensare quindi ai servizi come a monadi separate ma come a sistemi comunicanti e interagenti, come “sistemi facilatori” che adottino anche criteri di valutazione della qualità dei propri interventi.
Non possiamo prescindere un fatto ineluttabile, che anche i servizi devono sottoporsi a criteri rigorosi di valutazione su ciò che fanno e come lo fanno. Prioritariamente per garantire al “cittadino disabile” delle prestazioni di qualità che possano essere controllate e verificate. Altrimenti finiremo nella trappola in cui e finita la scuola in cui nessuno valuta veramente gli interventi di integrazione realizzati, chiusa in un sistema difensivo, forse non sempre a torto, in cui parlare di qualità degli interventi evoca fantasmi di rimessa in discussione di quanto sancito dalla legge 517 più di venti anni fa.
La scuola deve avere la capacità e il coraggio di uscire da questo meccanismo di difesa sapendosi confrontare con quelli che ancora ritiene “gli altri mondi” dell’integrazione per condividere e costruire con questi itinerari flessibili offrendo occasioni alle diverse soggettività.
Mi auguro insomma che il prossimo convegno rappresenti un punto di incontro e confronto tra i tanti servizi che lavorano con e per i disabili, e non un tavolo dove la scuola invita altri a parlare, lasciandoci come è successo ora ognuno per la propria strada.

(*) Pedagogista Servizi Sociali ULSS 16 Padova