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autore: Autore: Donatella Petretto

Questione di clima. Il carico familiare tra disagio e risorse

Il carico familiare è l’impatto negativo che la patologia può avere sulla famiglia. I primi studi sul carico familiare sono iniziati intorno agli anni ’50 e hanno portato alla raccolta di evidenze

 

circa l’esistenza del carico e quali effetti negativi può avere la patologia sulla famiglia. La famiglia con un assistito – sia che esso sia un malato mentale che un bambino cerebroleso, che un traumatizzato cranico, un depresso… – ha tutta una serie di problemi in più rispetto ad una famiglia che non ha un assistito. Il primo aspetto è la limitazione e la restrizione delle attività; le relazioni familiari problematiche; i sintomi psicopatologici; la riduzione dei rapporti sociali e attività di tempo libero. Diciamo che questi sono alcuni degli aspetti e delle evidenze raccolte sull’esistenza del carico familiare. Penso che non sia importante entrare nello specifico sul dato (il 50% di depressi, il 25% di ansiosi…), quello che voglio dire è che questi primi studi hanno portato a considerazioni di questo tipo: le conseguenze negative della patologia sulla famiglia fanno sì che il familiare possa essere considerato come una sorta di paziente nascosto. Sono tali e tanti i riscontri di queste conseguenze negative da poter parlare del familiare come paziente nascosto.

 

La famiglia, da malattia a risorsa Vorrei fare un brevissimo accenno a quegli studi che in parallelo hanno dimostrato l’effetto negativo della famiglia e che hanno visto la famiglia a sua volta come patogena. La prima osservazione da fare è questa: gli studi sul carico familiare e gli altri studi sull’autismo, sulla schizofrenia…, hanno portato a delle considerazioni spesso negative sulla famiglia, quindi la famiglia è malata perché ha un assistito al proprio interno, oppure la famiglia può essere fonte di patologia. Il primo periodo di studi ha avuto appunto questo scopo: cercare di cogliere le evidenze delle conseguenze negative che la patologia può avere sulla famiglia. Il secondo periodo di studi ha riguardato invece il tentativo di capire se è vero che in alcuni ambiti la patologia può avere delle conseguenze negative sulla famiglia. Ma l’ottica e l’interesse degli studi più recenti è quello di capire quali sono i predittori, le variabili e i mediatori che possono agire nel determinare il carico familiare. È vero che come conseguenza del fatto che ci sia un assistito in famiglia ci può essere disagio, ma è anche vero che è possibile identificare dei predittori e degli elementi che possono far si che si verifichi il carico familiare. Mi riferisco, in particolare, ad un nuovo ambito di studi che più che analizzare il carico familiare cerca di analizzare il più generale processo del prendersi cura. Quali sono le caratteristiche del prendersi cura e in quali condizioni il prendersi cura può avere degli effetti negativi? In quali può avere effetti positivi? Si è passati quindi da uno studio descrittivo delle conseguenze del carico a uno studio più ampio che cerca di analizzare i vantaggi del prendersi cura nella famiglia, di analizzare gli elementi e i mediatori che possono portare a questi vantaggi e quelle variabili che invece possono portare a delle conseguenze negative. Quindi piuttosto che dire “La famiglia è malata”, l’orientamento degli studi è quello di dire “La famiglia può essere malata, non necessariamente malata, ma anzi può essere ricca di risorse”; ed è importante capire quali sono i predittori che ci consentono di capire quali sono le condizioni perché la famiglia possa utilizzare al meglio le risorse di cui dispone.

Carico oggettivo e soggettivo Il secondo filone di studi ha preso spunto da una prima distinzione del 1976, poi ripresa, da quella tra carico oggettivo e carico soggettivo. Il carico oggettivo è rappresentato da: effettiva presenza di specifiche condizioni comunemente ritenute problematiche o di eventi avversi che hanno un effetto negativo sul nucleo familiare. Quindi carico oggettivo significa dover dedicare tanto tempo a determinate attività, non poter svolgere altre attività perché molto tempo deve essere dedicato all’assistito… Il carico soggettivo è invece la sensazione di disagio, il malessere che la persona che si prende cura percepisce e che attribuisce all’assistenza. Nell’intento di conoscere e di capire il processo di “care giving” ci si è chiesti quali potessero essere gli elementi in grado di mediare tra carico oggettivo e carico soggettivo, cioè quali elementi possono far si che di fronte a un carico anche oggettivamente molto elevato – tanto tempo dedicato all’assistito oggettivamente misurabile – fosse possibile ridurre le condizioni di carico soggettivo, e quindi il disagio. Considerazioni di questo tipo hanno motivato una nostra ricerca che ha visto come partecipanti volontari alcune famiglie dell’associazione che sono state da noi prescelte proprio perché dal punto di vista di valutazione esterna presentavano un carico oggettivamente molto elevato, nel senso che gli assistiti hanno disabilità molto gravi e quindi hanno bisogno di essere seguiti nella maggior parte delle attività di vita quotidiana. Ancora, per scelta, per adesione personale questi genitori hanno deciso non solo di assumersi i compiti di “care” che in genere il genitore assume, ma anche di assumere dei compiti più tecnici e pratici nella riabilitazione. Quindi una parte dei genitori dell’associazione ci sono sembrati un buon modello di una situazione in cui si verificava un carico oggettivamente molto elevato, e per oggettivamente voglio dire “percepito dall’esterno”. Si è pensato di porre a confronto questi genitori particolari con altri genitori che avevano in comune con questi il livello di disabilità dei bambini, l’età dei bambini, il sesso. Mi riferisco a queste tre variabili perché sono quelle che possono influire sul livello di carico. La disabilità perché quanto più il bambino è disabile tanto più mi devo prendere cura di lui. L’idea di pensarla in termini di patologia è nata dal fatto che può diventare un carico diverso da quello causato, per esempio, dall’autismo che può portare problemi diversi rispetto ad una tetraparesi. Quindi abbiamo pensato di analizzare il carico nei familiari terapisti ponendoli a confronto con un altro gruppo di familiari che venivano appaiati con i primi per il livello di disabilità dei bambini, per la patologia, per l’età e per il sesso dei bambini. Abbiamo chiamato gli altri familiari “familiari deleganti” per contrapporli ai primi, nel senso che a parità di disabilità dei bambini piuttosto che assumere delle funzioni di assistenza di riabilitazione delegavano queste attività a delle agenzie esterne. Il nostro scopo era quello di vedere, in un gruppo di familiari con un carico oggettivo elevato posto a confronto con un gruppo di familiari con un carico più basso, quali fossero alcuni indicatori di malessere o di benessere psicologico. Ci dicono che i genitori terapisti hanno un livello più basso in queste variabili considerate. Questi primi dati possono essere una semplice descrizione di un maggior benessere e questo è un aspetto che è importante sottolineare. Dei genitori che oggettivamente hanno un carico più elevato rispetto ad altri non hanno come conseguenza un livello di malessere superiore, ma anzi stanno addirittura meglio.

Protagonisti della cura Al di là di voler descrivere questo fatto positivo, ci siamo chiesti quali elementi fossero in grado di spiegare ciò. È vero hanno un livello più basso di depressione e di ansia, ma quali sono gli elementi che possono spiegare e che possono consentire di predire questo fenomeno? Il passo successivo è stato quello di valutare la variabile “attribuzione di causalità”, che è un termine tecnico che significa “il sentirsi protagonisti, sentirsi efficaci, sentire di poter avere un ruolo utile”. Ecco che abbiamo misurato questa sensazione e abbiamo trovato che i familiari terapisti posti a confronto con i familiari deleganti si caratterizzavano per un livello di attribuzione di causalità interna più elevata. Si caratterizzavano per il loro sentirsi utili, sentire di poter avere un ruolo nel processo riabilitativo, sentire di poter avere un ruolo nel miglioramento del proprio assistito. Quello che abbiamo potuto rilevare nei genitori considerati è che il sentirsi utili poteva essere l’elemento di mediazione, una variabile che consentiva di mediare tra un carico oggettivamente molto elevato, visibile dall’esterno e il carico soggettivo che era molto più basso di quanto ci saremmo potuti aspettare. Cioè sono molto coinvolti nell’attività, non possono fare vacanze, non hanno tempo libero, non possono avere contatti sociali… – e in realtà queste sono affermazioni di pregiudizio – ma i dati ci dicono che utilizzano molto tempo nell’assistenza del bambino ma stanno bene e stanno bene proprio perché il sentirsi utili media tra questi due aspetti. In che modo le inferenze che possiamo fare su questi dati ci possono guidare e dare delle spiegazioni rispetto al coinvolgimento della famiglia? Le prime inferenze che abbiamo fatto riguardavano il coinvolgimento della famiglia nel processo riabilitativo. Attribuire alla famiglia un ruolo, darle le indicazioni pratiche sul che cosa fare, e far si che i famigliari possano sentirsi utili, può consentire un buon coinvolgimento di tutto il nucleo famigliare. Alcuni autori sostengono che la famiglia ha tante energie e tante risorse, è importante capire come queste energie possono essere canalizzate e utilizzate nel miglior modo possibile. L’inferenza che traiamo da questo studio è quindi che la famiglia può essere inserita nel processo riabilitativo. In che modo queste informazioni possono essere riportate in ambito scolastico? Dalla legge quadro che con il DPR del ’94 le riferisce anche in ambito scolastico. La domanda che ci siamo posti è in che modo gli studi sul carico possono fornirci delle indicazioni utili relativamente alla collaborazione con la famiglia. Dall’analisi dei predittori del carico e dai mediatori nel processo di care giving emerge il senso di autoefficacia, dell’attribuzione di causalità interna, del senso di poter avere un ruolo nel processo di miglioramento del bambino, e quindi della sensazione di controllo della situazione. Pensate alla sensazione di confusione che può derivare dal non sapere che cosa fare! Una cosa che mi ha colpito nel conoscere queste famiglie è proprio l’uso di termini molto tecnici rispetto ai miglioramenti. Non significa che tutte le famiglie siano così ma che hanno anche questa risorsa e capacità di cogliere le variazioni in sfere e ambiti diversi. Dicevo che gli studi sul carico ci dicono che l’attribuzione di causalità interna, la sensazione di autoefficacia e la sensazione di controllo mediano tra carico oggettivo e soggettivo, riducono la sensazione di malessere e, anzi, promuovono il benessere e quindi accrescono la speranza, e hanno un forte impulso anche sulla motivazione all’azione. È terapeutico per la famiglia sentire di poter avere un ruolo utile. Il termine terapeutico non vuol dire che la famiglia è malata ma che stiamo cercando di capire in che modo mantenere e creare una sensazione di benessere al suo interno. Quindi i primi studi sul carico ci dicono che per la famiglia è importante avere un ruolo, sapere che cosa fare e non sentirsi confusi. Questo è importante perché ci sono una serie di studi che dimostrano che un clima relazionale positivo, e quindi di benessere, all’interno della famiglia ha delle fortissime ripercussioni sulla riabilitazione, sul miglioramento e sul recupero. Vi posso dare qualche indicazione sullo studio di Gass che ha dimostrato che avere intorno a se un clima familiare positivo e stimolante accresce del 65% il recupero in pazienti che hanno avuto un ictus. Cioè confrontando gli assistiti che hanno avuto un ictus e che hanno intorno a loro un ambiente propositivo e coinvolto nel processo riabilitativo, con i pazienti che hanno un ambiente poco stimolante e che interviene meno nel processo riabilitativo, si è visto che il recupero è del 65% più elevato nei pazienti che hanno avuto un clima emotivo buono. Altri studi invece dimostrano che una famiglia che sta male può avere un effetto negativo sulla riabilitazione. Quindi gli studi sul care giving ci dimostrano che è importante sentire di poter essere utili, questo è il primo punto. Il secondo è in che modo la famiglia può essere utile? In che modo l’operatore può essere utile alla famiglia? La famiglia può avere un ruolo di collaborazione molto importante ma questo ruolo nasce in una interazione reciproca. La famiglia fornisce delle informazioni e il tecnico – in questo caso si parla di insegnanti, ma possiamo riferirci a qualsiasi altro tecnico – ha un ruolo importante nei confronti della famiglia. Si possono elencare alcuni aspetti in cui la famiglia potrebbe avere un ruolo. Il primo punto è: la famiglia è depositaria di chiavi di accesso preziose alla sfera emotiva, affettiva e relazionale del bambino. Si pensi per esempio alle prime fasi dell’inserimento scolastico in cui la famiglia può trasmettere alla scuola delle conoscenze che derivano da una interazione quotidiana tra il familiare e il bambino. La famiglia conosce i gusti del bambino, sa, per esempio, che gli piace la musica, e che ci sono degli stimoli che per gli altri sono piacevoli ma per lui no. Ad esempio, raccontava una madre che alcuni stimoli piacevoli possono dare molto fastidio al suo bambino che ha una capacità uditiva più elevata rispetto agli altri; viceversa, alcuni stimoli che per gli altri erano spiacevoli per quel bambino erano molto piacevoli; il sentire l’ambulanza per il suo bambino era molto piacevole mentre era spiacevole sentire la musica. Quindi, conosce i gusti, conosce le modalità motivanti, le condizioni in cui il bambino è disposto a fare certe cose e quelle in cui non è disposto a farle.

Forme alternative di comunicazione L’altro punto è quello relativo alle forme di comunicazione. Anche in questo caso mi riferisco ai primi momenti dell’interazione scolastica con il bambino. Con i bambini che hanno delle gravi disabilità motorie a cui si associano delle gravi disabilità nella comunicazione verbale la prima sensazione che possiamo avere tutti è che poiché non parla non capisce. Ma il non parlare non significa non comunicare, esistono tante forme di comunicazione che possono essere colte nella quotidianità dell’interazione e possono anche nascere da una reciprocità nell’interazione. È una forma alternativa di comunicazione che nasce da una interazione quotidiana di cui la famiglia può essere depositario prezioso e che può essere trasportata anche a scuola. Ieri pranzavamo con Paolo, un bambino dell’associazione che ha una comunicazione verbale molto ridotta, che ha grossi problemi di articolazione. Usava dei gesti nella comunicazione con la madre emetteva semplici suoni che per me non avevano alcun significato ma che venivano usati dalla madre per scegliere il pranzo, per decidere quale primo prendere… Facevo l’esempio del caso in cui ci siano grosse limitazioni nella comunicazione verbale ma mi piacerebbe allargare questo esempio ai casi in cui la comunicazione verbale c’è ma è alterata, pensavo al caso dell’afasico. Quest’ultimo ha un disturbo del linguaggio a causa di una lesione cerebrale, può essere un bambino o un adulto e uno dei problemi più grossi che può avere è la denominazione, per noi è facile dire “questo è un foglio, questa è una scarpa, questa è una borsa”. Nell’afasico questo non è immediato, può dire “coltello” per “forchetta” o viceversa. È una comunicazione verbale alterata. Quindi è l’interazione quotidiana con la persona afasica che consente di capire che ha detto coltello ma voleva dire forchetta, oppure che per fargli capire che deve prendere la forchetta piuttosto che il coltello devo aggiungere un informazione ulteriore, come ad esempio: “Devi prendere la forchetta che ti serve per prendere le pennette”, oppure, “Devi prendere il coltello che è quello che ti serve per tagliare il pane”. Questa informazione ulteriore fa la differenza tra la situazione di confusione e quella in cui la comprensione è possibile. L’esempio delle forme alternative di comunicazione può, quindi, riguardare il primi momenti di interazione con il bambino soprattutto di fronte a quegli atteggiamenti iniziali in cui si pensa che non parlando non capisce. Il genitore rispetto alla comunicazione può dare informazioni circa le possibilità di comprensione a cui un tecnico arriva dopo un lungo periodo di studi, per esempio: “La comprensione è possibile se tu gli fai la domanda chiusa invece che aperta.” Se tu chiedi ad una persona che non ha una comunicazione verbale “Cosa hai fatto ieri?” non potrà dirti niente; ma se tu gli dici, “Ti è piaciuto quello che hai fatto ieri” e si stabilisce un codice condiviso in cui guardare a destra vuol dire “Si” e guardare a sinistra vuol dire “No”, a questo punto è possibile la comunicazione e la comprensione della comprensione cioè dall’esterno capisco che lui ha capito. Alcuni esempi. Un bambino che strofina le orecchie quando è contento. Per me operatore che vedo un bambino che fa questo gesto diventa impossibile capire perché lo fa, ma il genitore mi può dire che lo fa per farmi capire che quello che tu hai fatto gli piace. O viceversa, i dondolamenti tipici dell’autismo vengono decodificati dal genitore come segnali del fatto che è disorientato e che non capisce quello che gli sta succedendo. Vorrei aprire una brevissima parentesi rispetto all’attribuzione di intenzionalità: l’interazione tra il genitore e il bambino è la stessa interazione che nel bambino piccolo consente l’acquisizione del linguaggio, gli studi hanno dimostrato che il bambino impara a parlare solo perché dal giorno in cui nasce il genitore comincia a parlargli come se capisse. Quindi questa forma di comunicazione reciproca consente lo sviluppo del linguaggio. Non vorrei ripetermi su questo ma penso che sia una cosa importante perché è quasi una costante nell’inserimento scolastico il pensare che se un bambino non parla non capisce. È importante capire che cosa si intende per comunicazione, per comprensione e quali forme di comprensione sono possibili e quali invece non lo sono. È importante sottolineare che il non parlare non significa non comprendere e che esistono delle forme alternative molto creative che possono consentire delle comunicazioni creative, ironiche… in assenza di qualsiasi tipo di comunicazione verbale. Il genitore ha queste conoscenze che nascono dall’interazione quotidiana che possono essere riportate in ambito scolastico nella comunicazione con gli insegnanti e con i pari. Sacks in “Risvegli” parla di contesti adeguati. Prima facevo l’esempio dell’afasico; ci possono essere delle situazioni in cui l’afasico capisce e altre in cui si verifica l’alienazione del significato e il contesto può essere importante nel consentire la comprensione. L’esempio che facevo prima, “La forchetta è quella che serve per prendere le pennette”; è vero che la penna può essere confusa con le forbici, essendo tutti e due degli strumenti affusolati, ma per consentire la comprensione posso dire di prendere la penna che è quella che serve per scrivere. Quindi una specificazione del contesto che consente una migliore comprensione.

1 euro, 2 euro… In questo elenco dei contributi che la famiglia può dare in ambito scolastico mi sembra utile analizzare l’aspetto relativo al tempo, quindi la durata e la costanza della relazione educativa tra genitore e figlio. Il genitore sta con il bambino tutto il giorno e questo intervallo di tempo lungo e protratto può essere prezioso per consentire la generalizzazione di alcune conoscenze che vengono apprese a scuola e una contestualizzazione di alcune conoscenze. Il bambino capisce che 2 euro sono il doppio di 1 euro perché capisce che con 2 euro posso comprare 2 gelati, invece con 1 euro ne posso comprare solo uno. Voi capite che operazione cognitiva è questa, significa pensare che una quantità è il doppio di un’altra perché c’è il riscontro nell’attività quotidiana. Quindi il senso di questa affermazione era: la famiglia proprio per la continuità, la costanza degli interventi può consentire un allargamento, un transfert, una generalizzazione delle conoscenze che avvengono a scuola a contesti diversi. La risorsa famiglia può consentire una acquisizione veloce di conoscenze che derivano da una conoscenza antica e quotidiana di tanti anni che possono essere trasmesse nell’immediato Finora ho elencato le informazioni che il familiare può dare alla scuola, ma l’interazione è collaborativa e reciproca, quindi manca l’altro aspetto. In che modo è possibile l’interazione reciproca? Ecco che il tecnico assume il preciso ruolo di indicatore, di organizzatore e di coordinatore di alcune conoscenze intuitive di cui il genitore si fa portatore. Il termine “intuitivo” qui non ha una connotazione valutativa; è intuitivo proprio perché nasce dall’interazione, “Non ci ho studiato ma so che per quel bambino è importante avere domande chiuse piuttosto che quelle aperte”. Rispetto a questo il tecnico può fornire delle indicazioni importanti. Pensavo ad una madre che era preoccupata per i problemi che avrà il suo bambino quando lei non ci sarà più e pensava di fargli acquisire delle autonomie, come per esempio l’uso del denaro. Se il genitore ha la sensazione che una certa acquisizione possa essere importante il tecnico può insegnare in che modo poter fare questo. Per imparare l’uso del denaro ci sono degli studi che sottolineano l’importanza di creare delle situazioni sempre simili, quindi di creare inizialmente una automatizzazione che poi consenta una generalizzazione. Per esempio, andare sempre a comprare il giornale con 2 euro e sapere che si avrà sempre il giornale più 1 euro, è una costanza che crea una comprensione dell’uso del denaro. Èquindi dalla reciprocità dell’interazione che può nascere la collaborazione. Il familiare ha delle conoscenze. Il tecnico può consentire una coordinazione di queste conoscenze e può a sua volta fornire al familiare delle indicazioni su come usare quelle conoscenze di cui il familiare dispone. Quindi il tecnico è colui che può e sa dire alla famiglia quali modalità di approccio ad un certo problema possono essere più efficaci. Torniamo sempre al punto che per la famiglia è importante il sentire di avere un ruolo nel progetto educativo, riabilitativo e di vita del disabile. La reciprocità nasce proprio dal fatto che il tecnico può coordinare e fornire delle informazioni precise – nei limiti di quanto questo può essere possibile – o comunque delle informazioni di coordinazione delle attività del familiare.