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autore: Autore: Ezio Bettinelli

Viaggiare ti rivolta come un calzino

Intervista ad Antonietta Laterza

Cosa rappresenta la dimensione del viaggio nella tua esperienza personale?

Per me la dimensione del viaggiare è una delle cose più belle che la mia mente possa immaginare. Soprattutto viaggiare come una full immertion in altre realtà, in senso globale. A me piace il turismo culturale, andare in una città europea  o extra europea e cercare di fare la vita che fanno tutti i cittadini di quella città. Prendere contatto con la storia, la cultura, la vita quotidiana di questi paesi, di queste persone. Viaggiando ti rendi conto di quante diversità e stili di vita ci sono nel mondo: è  molto divertente e interessante fare questi confronti. Per via della mia professione di cantante mi è capitato di fare viaggi in Danimarca, in Francia, in Inghilterra, in Germania e stranamente lì trovavo con la gente del posto una sintonia che magari non trovavo a Bologna o a Roma o a Milano. Questo è molto bello perché considerare il pianeta terra  come un’incubatrice di idee, di qualità di vita, di stili di vita immenso ti dà anche una grande speranza. Permettersi di viaggiare è come vivere di più la vita, diventa più vita perché puoi trovare delle sintonie anche imprevedibili, importanti sul piano della ricerca personale che uno fa, sul piano del suo lavoro o della sua passione, della sua arte. Sarà perché ho la luna in Sagittario ma mi sento una viaggiatrice nata, nel senso che mi piace provare  a vivere l’avventura, mi piace imbarcarmi in un tipo di viaggio dove io so da dove si parte ma non so dove arrivo e non so quando ritorno. Diventa un’esperienza, chiamiamola avventura, che mi può proprio cambiare. Per me viaggiare è come una rinascita. Poi magari  mi capita  di morire un po’ in molti viaggi, ma in altri è stata proprio una rinascita, un’esplosione di emozioni, di idee. Mio marito, Nicolas, era argentino, di Buenos Aires: mi piacciono molto le persone straniere, che parlano un’altra lingua, perché il linguaggio è poi molto legato al modo di pensare e anche al modo di essere. Diventano sfumature di contenuto, non è solo un modo di dire ma di essere. Ci sono modi diversi di intendere l’amicizia, la solidarietà, il piacere della cultura. È come essere non in un altro paese ma in un altro pianeta.
Quando Nicolas mi ha portato a conoscere i suoi è stato per me come vivere due mesi su Venere; in effetti quando si è così immersi in un’altra realtà si fa un’esperienza globale che colpisce non solo la mente ma tutti i sensi: è diversa la luce, i colori, la temperatura. A livello di esperienza fisica e poi anche culturale “ti rivolta come un calzino”, lì veramente ti senti un’altra persona in un altro mondo e questo è bellissimo. Poi dopo la morte di mio marito, ho vissuto alcuni anni con un ragazzo senegalese e anche quella è stata un’immersione nella cultura africana e in particolare del Senegal, con il loro cibo, la loro lingua, la loro religione. Ecco è come se fossi vissuta per un po’ di anni in un altro pianeta, questa volta su Marte.
Nel viaggiare ho capito che dietro agli atteggiamenti evidenti c’è un retroterra, c’è un certo modo di essere, c’è un diverso rapporto con la natura, con il tempo, con il clima; come ad esempio nel Nord tutto deve essere lavorato perché la natura non ti regala niente. Cambia, quindi, la psicologia umana. Per me è interessantissimo viaggiare anche per questo motivo.
Quando il viaggio finisce rimane tanto perché ci si sente cambiati, ci si sente più ricchi, più aperti,   si hanno molti più modi di pensare davanti, non solo il nostro. Poi c’è anche il rammarico perché è difficile mantenere il contatto. Mese dopo mese ci si ritrova a ritornare un po’ quelli di prima, però un po’ più straniati dal proprio luogo. Bisognerebbe ogni tanto avere la possibilità di partire per un grande viaggio soprattutto mentale. Per questo non mi piacciono i villaggi turistici che, anche se sono dall’altra parte del mondo,  copiano il nostro modello di vita occidentale per cui dal punto di vista culturale è come essere a Rimini.

Vi è un’attenzione presente al turismo accessibile, a rendere il viaggio un’esperienza possibile anche per chi a difficoltà di movimento. Come la leggi questa attenzione?

È fondamentale ma occorre fare qualcosa di più e di diverso. Quello che, secondo me, bisognerebbe favorire è l’accessibilità in senso globale, di tutte le case, gli alberghi, le spiagge e non essere costretti, soltanto perché si è disabili, a fare un turismo su una corsia preferenziale perché questo, a volte, ti impedisce di conoscere gran parte dei luoghi peculiari di quel paese. Non si tratta solo di dire facciamo l’albergo accessibile, ma di avere realmente la possibilità di accedere a ciò che di vero e interessante c’è da conoscere in quella realtà.
Sono d’accordo sul fare dei percorsi che favoriscano l’accesso a certi luoghi (e si sta facendo molto) però non dimentichiamo che sarebbe molto meglio che fosse tutto già facilitato in partenza nella progettazione iniziale delle città, delle strade, delle case. Se no, hai sempre bisogno di avere degli amici disponibili ad aiutarti.
La nuova frontiera è qui: non solo i percorsi per andare in certi posti, ma prevedere nella progettazione urbanistica un piano di accessibilità globale per tutti. Se no c’è il rischio che per poter viaggiare si va solo in certi posti. Se uno vuole essere viaggiatore o viaggiatrice a tutti gli effetti,  questo aspetto si deve tenere presente: non è che il turismo per disabili ti fa veramente andare dappertutto. Questo per dire anche che oggi come oggi è assolutamente impraticabile l’idea  di una persona disabile che viaggia da sola.

L’impatto con le persone che per mestiere si occupano di facilitare la mobilità delle persone disabili: che esperienza ne hai?

Negativa, ma non per colpa dei lavoratori. A un certo livello dirigenziale si trova la massima disponibilità a parole. Ma quando arrivi, ad esempio in una stazione, chi è che ti fa il servizio? Una cooperativa di facchini! Che ti “sbatte” sull’elevatore, ti senti un fenomeno da baraccone, una merce da trasportare. Si tratta di personale non preparato, senza una formazione specifica, che spesso sente come un obbligo in più questo compito e rivendica, fra l’altro, l’assenza di un aumento retributivo ad hoc.
Si delega, si tende a garantire un servizio al più basso costo possibile. È chiaro che questo spesso  vuol dire avere un servizio di qualità scadente dove la persona disabile è assimilata a un pacco da spostare. Non si può dare la colpa al singolo operaio, lui è stato assunto come facchino per trasportare della merce, non è che ha fatto un corso di formazione per trasporto persone disabili. Bisognerebbe curare anche gli aspetti relazionali ed emotivi che un rapporto, anche estemporaneo, con la persona disabile può suscitare. Se questa cura non c’è, il servizio che  si realizza è alla fine asettico e un po’ più disumano, può creare separazione fra le persone piuttosto che integrazione nella vita normale.

Che cosa consiglieresti alle persone che si occupano in modo professionale di mobilità e turismo accessibile?

Da parte di chi offre questi servizi consiglierei di fare molta attenzione a non creare ghetto. Di pensare e proporre occasioni di turismo e vacanza in tutte le situazioni normali e reali senza  considerare che i disabili debbano avere un loro posto speciale, una spiaggia solo per loro ecc. Mi piace andare in una situazione dove il rapporto fra persone, disabili e non, sia reale. Poi se ho degli amici disabili e voglio andare via con loro, bene, ma è una mia scelta e non perché sono costretta a farlo dalla mancanza di alternative.
Anche alle persone disabili direi di non fermarsi solo a queste corsie preferenziali, di considerare se stesse come persone che hanno diritto di provare a fare quello che vogliono veramente fare, senza darsi già dei limiti in anticipo perché come persone disabili non si può “avere delle pretese”. Questo è già sbagliato; è importante, invece, cercare di fare il massimo almeno per quello che riguarda i sogni e i desideri, poi ci pensa la vita reale a metterti dei limiti. Se i limiti ce li diamo già noi nella nostra testa abbiamo finito ogni discorso in partenza.

Trattati da Vip!

Intervista a Cristina Baggia

Muoversi: in due è meglio
Mi sono sempre mossa in treno. Una volta anche in corriera, in Umbria, perché volevamo visitare anche i paesi come Todi dove non arriva il treno.
Sono sempre andata via con Leda, mia amica dai tempi della scuola. Direi che è fondamentale andare via con una persona cara che sia disposta ad aiutarti di fronte alle occasioni impreviste, che abbia forza fisica e capacità e che sia disponibile.
In Italia sono stata a Napoli, Palermo, Perugia, Milano, Venezia, Torino. In Europa: Parigi, Praga, Londra, Madrid, Lisbona, Granada, la prossima sarà, Berlino. L’occasione è vedere qualcosa di bello. Io sono appassionata di pittura, d’arte in generale, e spesso il motivo per muoversi è legato alla voglia  di vedere una mostra, un museo, visitare una città d’arte o un monumento.
Non mi piacciono i viaggi organizzati. Devi muoverti insieme ad altre persone che hanno altri orari, altri interessi. A me piace vedere e avere impressioni mie. Quando viene in mente qualcosa che piace è importante cominciare a organizzarsi, cercare informazioni.
Organizzare una vacanza da sola, però, è ancora molto difficile. Ci sono aree attrezzate per essere visitate ma non ancora per soggiornarvi. Non è facile avere un’informazione adeguata, perché si devono sempre cercare dei percorsi specializzati. Nelle guide turistiche per tutti, quelle che normalmente uso quando viaggio, non c’è un’attenzione di questo tipo.

La disponibilità reciproca
La disponibilità delle persone è sempre stata molto grande. Ho sempre trovato persone molto gentili e disponibili. Certo ci vuole un comportamento educato. Ho visto persone sulla sedia a rotelle con un comportamento arrogante, ma se ti presenti gentile ed educato sarai trattato ugualmente bene. Quando ero a Palermo in un albergo meraviglioso (gli alberghi per le persone disabili sono spesso a quattro stelle!) c’era una scaletta per andare a fare colazione e c’erano sempre due persone che ci aiutavano: ci hanno proprio trattato da vip!  Anche in una città considerata difficile per muoversi siamo riuscite a vedere quasi tutto quello che ci interessava.
Credo comunque che sia importante comportarsi con gentilezza: in questo senso non sei trattato in modo diverso dagli altri. Non bisogna avere pretese assurde solo perché si è disabili.
A me è capitato addirittura che cambiassero il binario di arrivo in modo da farmi salire. Questo va al di là del dovere, è proprio l’atteggiamento che è bello. Questo forse è anche legato al mio modo di essere che cerca l’accordo con gli altri; è fondamentale che uno si comporti bene, il fatto che una persona sia sulla sedia a rotelle non è colpa di nessuno, né sua ma neanche degli altri. Una persona si deve rendere conto che se da un lato ha dei problemi oggettivi, in certi casi può anche crearne.

Affidabilità e fiducia
L’itinerario: ci viene in mente di andare da  qualche parte, spesso c’è un motivo legato alla storia, all’arte. Leggo, mi informo, poi prenoto tramite la mia agenzia, sempre quella da tanti anni. È l’agenzia che fa da filtro, che mi cerca un bell’albergo accessibile. Per me è importante l’affidabilità e la fiducia in chi mi cerca l’alloggio. Ho provato a utilizzare anche  Internet ma non sono certa del grado di accuratezza delle informazioni e soprattutto adesso che non ho più la possibilità di muovere anche solo qualche passo da sola ho bisogno di essere sicura di non trovare brutte sorprese all’arrivo.

Accessibilità
Il livello di accessibilità è abbastanza buono anche se ci sono delle eccezioni. Ad esempio all’Accademia di Venezia, dove pur avevo telefonato per verificare se c’erano problemi di accesso e avevo ricevuto risposta negativa, già all’ingresso c’erano due scalini impraticabili senza un aiuto. Poi ancora due, infine per accedere alle sale della mostra un’altra serie di gradini. Non si può dire: “siamo attrezzati” e poi dover confidare sulla buona disponibilità delle singole persone che trovi là.
Anche Casa dei Carraresi non è di facile accessibilità. Poi, per contrasto, sono riuscita a visitare bene Bergamo alta perché la funicolare ha una piattaforma in cui si riesce a entrare con facilità. Anche all’estero sono riuscita quasi sempre a visitare le cose che mi interessavano, A Parigi, fra l’altro, non è necessario neanche  prenotare prima per il trasporto ferroviario: c’è un “battaglione” di ragazzi in divisa rossa che è a disposizione. È molto comodo perché puoi decidere di spostarti anche sul momento. Ci sono città che per la loro conformazione sono più difficili da girare come Lisbona, tutta un sali e scendi, e città, come Londra, che mi sono sembrate molto attrezzate e dove comunque sono riuscita a vedere ciò che mi interessava. Spesso, comunque, dove non arrivava l’accessibilità tecnica ha compensato la disponibilità delle persone, cosa questa che è un limite e una forza insieme.

Viaggiare: come costruire la propria libertà

Per una persona disabile nelle condizioni fisiche di estrema gravità come le mie, soprattutto per quanto riguarda la comunicazione verbale, viaggiare ha rappresentato una tappa fondamentale; una fonte inesauribile di scoperte e di infinite sensazioni di benessere, di amore e di rispetto per la vita.
Nei miei numerosi viaggi, soprattutto all’estero, ho constatato l’importanza di essere persona in mezzo ad altre persone, non più solo un disabile in mezzo alle persone ma una persona vera e propria in carne e ossa in continuo confronto con me stesso e con gli altri.
Grazie a questo confronto ho potuto assaporare le meraviglie della vita, come quando mi sono trovato di fronte a Parigi, dopo un lungo viaggio su una vecchia Renault 4 con il mio amico Andrea di Modena. Ricordo un episodio molto buffo e divertente: durante il viaggio, mentre stavamo risalendo una strada ripida verso la Francia, ha incominciato a uscire fumo dal motore della macchina. Io e Andrea ci siamo detti: “Vuoi vedere che ci tocca andare a Parigi a piedi?” Per fortuna mancava solo l’acqua nel motore e, una volta messa l’acqua,  abbiamo potuto continuare il nostro avventuroso viaggio verso Parigi.

Parigi, città di straordinaria bellezza e di intenso profumo settecentesco, con i suoi palazzi maestosi ma allo stesso tempo dal clima quasi familiare. Una caratteristica preziosa, secondo me, di Parigi  è di essere città multirazziale e multiculturale, dove possono coesistere diverse identità religiose, sociali e culturali e dove ogni cultura ha una propria dignità, e nessuna cerca di opprimere il pensiero degli altri. Ti accorgi che quello che conta veramente è solo l’identità di ogni singola persona. Sono rimasto entusiasta nel visitare  i suoi stupendi monumenti come la Tour Eiffel, che ho scalato fino all’ultimo gradino raggiungendo la cima, vedendo tutta Parigi ai miei piedi, anzi, alle mie ruote, sentendomi libero; il Museo del Louvre, scendendo sotto alla piramide di vetro e visitando la storia dell’umanità attraverso i suoi preziosi tesori e le stupende opere d’arte. Gli occhi faticavano a trovare spazio sul viso per aprirsi di fronte alla meraviglia delle meraviglie. Con la nostra Renault 4 siamo passati sotto l’Arco di Trionfo; siamo andati a visitare il Globo, il Museo della Scienza e della Tecnica vicino a Parigi. All’uscita dal Globo è successo un evento molto importante: io e Andrea abbiamo incominciato a dialogare nel giardino del Museo; è stato un dialogo profondo come veri amici, mi sentivo veramente partecipe della vita in quel momento, perché ho potuto esprimere, attraverso l’ausilio dell’alfabetiere trasparente (l’Etran), le mie opinioni, le mie sensazioni e il mio stupore di fronte alla  vita che mi stava mostrando tutte le vie d’uscita dalla mia condizione fisica. L’atmosfera di quel dialogo mi ha dato l’impressione di essere considerato, da parte di Andrea, una persona vera e propria, capace di ascoltarlo, di capire le sue problematiche e di sapermi confrontare con lui. Questo ha fatto crescere la mia autostima, facendomi gioire e divertire ancora di più i  restanti giorni di permanenza a Parigi.

Ricordo le incantevoli serate parigine, odoranti di intensi profumi di una tarda primavera, passate a passeggiare lungo la Senna, ammirando lo spettacolo di fusione di luci del tramonto con quelle della città; l’emozione era tanta che mi veniva il nodo in gola di fronte a tanta bellezza della natura e dell’ingegno dell’uomo. Avevo la sensazione che il mio corpo fosse diventato talmente leggero, come una piuma, da permettermi di volare nei cieli della libertà.
Questa sensazione di libertà era resa più palpabile dalla gentilezza dei francesi, a partire dall’albergatore, che ha predisposto una camera a piano terra munita di un bagno abbastanza spazioso; l’unico inconveniente dell’albergo era che per far colazione si doveva scendere una rampa di scale non attrezzata; dovevano portarmi con le braccia l’albergatore, il mio amico e alcune  cameriere, ma senza farmi sentire a disagio. Non mi sono sentito a disagio neanche durante il nostro itinerario tra vari ristoranti francesi per degustare le loro specialità; non mi sentivo addosso gli occhi giudicanti della gente e dei ristoratori, ma venivo considerato come una qualsiasi persona; l’unico disagio che ho provato in questi ristoranti è stata la sensazione di avere ancora la pancia vuota anche dopo essermi abbuffato delle loro specialità, per il semplice fatto che mancava la benedetta pastasciutta italiana. Nei miei viaggi successivi ho constatato, purtroppo, che questa carenza esiste anche nel resto d’Europa.

Ho potuto constatare la gentilezza dei francesi anche durante il viaggio di ritorno da Parigi, quando ci siamo fermati a Lione per dormire. Durante la cena in un piccolo e grazioso ristorante, una cameriera si è accorta della mia difficoltà a masticare la carne e si è offerta di tritarla; è ritornata dalla cucina con la carne tutta tritata, forse anche troppo, ma il suo gesto ha significato molto per me, mi sentivo considerato, rispettato e amato in quel momento.
Purtroppo, quando siamo usciti dal traforo del Monte Bianco, ci siamo accorti di essere in Italia e che il nostro avventuroso viaggio a Parigi stava giungendo al termine. Il mio cuore era colmo di gioia e di  tristezza: di gioia perché avevo vissuto un’esperienza indimenticabile, piena di pathos, di indescrivibili sensazioni interiori e di forte partecipazione alla vita tanto da farmi provare un senso di libertà che andava al di là delle mie gravi condizioni fisiche; mi frullavano tante idee e tanti progetti per il futuro, insomma mi sentivo veramente vivo. Allo stesso tempo provai molta tristezza perché quel meraviglioso viaggio era giunto alla fine e io dovevo ritornare alla mia solita routine quotidiana, cosa che mi metteva un po’ di  amaro in bocca.
Nei giorni successivi al ritorno dal viaggio a Parigi, la mia condizione quotidiana di disabile mi andava stretta, mi sentivo a disagio dentro alle quattro mura di casa e sognavo di viaggiare per assaporare ancora la sublime dolcezza della libertà.

Questo sogno di libertà si è avverato negli anni successivi all’esperienza di Parigi. Infatti, sempre con il mio amico Andrea, sono volato ad Amsterdam più volte dagli aeroporti di Linate (Milano) e di Bologna, dopo una faticosissima ricerca di un parcheggio per disabili. Chissà perché, negli aeroporti italiani, la segnaletica  per i parcheggi disabili è sempre ben nascosta, forse per scoraggiare i disabili a volare?

Un’altra situazione imbarazzante negli aeroporti italiani si verifica quando, ai check in, mi chiedevano di firmare una dichiarazione di non responsabilità e certe volte mi chiedevano  anche di allegare un certificato medico come fossi  un malato e non una persona che vuole solo viaggiare per godersi la vita.

Nonostante questi intoppi negli aeroporti italiani, mi sono ritrovato ad Amsterdam a vivere nuove esperienze che si sarebbero rivelate importanti per la conoscenza di me stesso, ma soprattutto ho scoperto di saper fare delle cose che non mi sarei mai immaginato  di poter fare.
Il clima di assoluta libertà di Amsterdam è stato complice del mio primo bacio sulla bocca di una donna. Una sorpresa straordinamente rivelatrice, non mi aveva mai baciato una donna, ma soprattutto non sapevo se ero capace di farlo, e invece sì, ero stato capace di baciare una donna e questo sconvolse il mio più intimo animo di persona al di là delle mie condizioni fisiche di disabile. La vita avrebbe potuto mettermi infiniti ostacoli di fronte, ma li avrei superati tutti  con un solo battito di ciglia, realizzando il sogno di libertà. È stata una sensazione bellissima quella vissuta sotto il cielo di Amsterdam, sembrava che Van Gogh l’avesse dipinto per me.

I vissuti di queste mie esperienze di viaggi mi hanno insegnato a costruire la mia libertà anche dentro casa, stimolando la grande voglia di autonomia. Infatti, ora so fare delle cose che prima non sapevo fare, come, ad esempio, amare, stare da solo e sapere svolgere tutti quei  piccoli compiti quotidiani che mi fanno sentire vivo anche in condizioni fisiche di estrema gravità. Io, oggi che non viaggio più frequentemente, amo la mia casa e amo stare con i miei familiari perché sto riuscendo a esercitare la mia libertà nelle decisioni essenziali per la mia vita presente e, spero, anche futura.
Attraverso il viaggio ho imparato a conoscere me stesso e cercare di superare i limiti della mia condizioni fisica. Ho trovato, sì, numerosi ostacoli durante i miei viaggi ma li ho tutti superati grazie alla mia volontà, grazie alla voglia di mettere in gioco tutto me stesso e scoprire inimmaginabili capacità di adattamento alle diverse realtà, costruendo la mia libertà attraverso la partecipazione attiva alla vita. Viaggiare ha rappresentato un’iniziazione di questa mia partecipazione attiva, un punto di rottura nella vita di disabile, con tutti i suoi stereopi, per approdare a una vita in cui ero e sono protagonista in tutti i sensi, sia in positivo che in negativo; mai mangiata la “pappa” già pronta, ho tentato di preparamela sempre da solo: è più gustosa!

 

Relazione presentata al Convegno “Dire, fare, viaggiare, quando il turismo… incontra l’handicap”,
2 aprile 2004, Adria (Rovigo)