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autore: Autore: Francesca Carvelli

L’extracomunitario di carta

Giornali e nuova immigrazione, cinque anni di arrivi dal resto del mondo raccontati negli articoli di alcuni quotidiani italiani. Risultato: notizie urlate e parziali, specchio dei timori degli italiani brava gente, spesso prive di approfondimenti, tutt’al più votate ad un pietismo fastidioso, con qualche eccezione privilegiata. A tracciare i contorni della figura dell’immigrato emergenti dalla lettura dei quotidiani ci ha provato Marcello Maneri, ricercatore sociale, autore di una ricerca condotta tra il 1993 ed il 1995.
Oggetto di studio della ricerca sono stati 824 articoli apparsi su sette quotidiani nazionali: Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Giornale, l’Indipendente, l’Unità, il Manifesto su immigrazione, razzismo, xenofobia. La ricerca parte anzitutto da un primo assunto chiaro: numerose caratteristiche del discorso mediale sull’immigrazione derivano direttamente dal senso comune, condiviso circa il fenomeno, derivante dalle cerchie sociali in cui il giornalista-cittadino si trova immerso.
Di conseguenza la figura in esame, l’extracomunitario, diventa un importante indicatore della cognizione sociale sull’immigrazione.

L’etichetta evitabile

I dati raccolti dall’analisi degli articoli hanno dimostrato, secondo Maneri, un aspetto già analizzato da molti osservatori: la mancata coincidenza del referente formale dell’extracomunitario (chi non è cittadino dell’Unione Europea) con il suo referente reale (le persone nominate con questa parola).
L’autore ha operato una sovrapposizione tra categorie semantiche (violenza, deprivazione, sporcizia, devianza, clandestinità), determinate provenienze e realtà etniche, ed alcune etichette classificatorie (extracomunitario – parola che compare nel 26,6% dei casi esaminati – immigrato, clandestino, abusivo, zingaro, nomade).
I dati elaborati, per una leggibilità immediata, sono stati inseriti dall’autore in uno spazio figurato a cerchi concentrici con al centro i magrebini, gli altri africani e, man mano che ci si sposta verso l’esterno, asiatici, sudamericani, albanesi e persone dell’Est europeo (questi ultimi, nel corso degli anni, in costante avvicinamento verso il centro di gravità della rappresentazione).
L’etichetta extracomunitario coincide con il centro della figura, mentre l’attribuzione dei termini "clandestino", "abusivo", "immigrato", segue un ordine tendente verso l’esterno.
L’immagine dell’extracomunitario è strettamente collegata alla dimensione della regolarità-irregolarità e a quella dell’abusivismo; un altro aspetto caratterizzante è quello della visibilità: elemosina, lavori di strada, microcriminalità sono le attività più spesso associate a questa figura.
I termini "arrogante" e "bellicoso" sono più di frequente presenti nei racconti delle mobilitazioni di quartiere, degli sgomberi degli accampamenti abusivi e delle perquisizioni nei centri di accoglienza e nei campi nomadi. "Disperato e poveretto – afferma Maneri – testimoniano l’attualità di quella inferiorizzazione che era sembrato vedere nei primi usi della parola extracomunitario".
Interessante è notare come estranei alla categoria sembrano essere invece i termini legati a persone diverse da quelle che ne costituiscono il nucleo centrale, e quelli che identificano con precisione una professione specifica, come ad esempio "prostituta" e "trafficante" (lo spacciatore fa eccezione).
Queste analisi portano a due considerazioni: il referente geografico dell’"extracomunitario" è chiaro nella testa di chi usa il vocabolo e, in secondo luogo, l’ universo di connotazioni che emergere sta tra la criminalità e la marginalità, ed esclude il crimine organizzato, o comunque slegato da uno stato di emarginazione.

Il processo di razzializzazione

Un’altra delle ipotesi di partenza della ricerca di Maneri presupponeva l’esistenza in Italia di un processo di razzializzazione ossia di "costruzione sociale di una categoria di individui, gli extracomunitari, definiti sulla base di caratteristiche somatiche ereditabili cui viene attribuita rilevanza sociale".
Se è vero che dai dati dell’analisi spuntano due conferme (la creazione di confini di gruppo che costruiscono una certa categoria di persone, definendola, e ]’attribuzione a questa di caratteristiche dense di rilevanza sociale), è anche vero che è necessaria una certa prudenza prima di dare per acquisito questo processo di categorizzazione razziale. In primo luogo perché i contorni di una categoria sembrano ancora troppo sfumati per poter parlare di razzializzazione in piena regola; questo può essere dovuto in parte anche dalla novità del fenomeno in Italia, per via dell’esiguità numerica rispetto ad altri paesi ed alla difficoltà di creare rigide sedentarizzazioni tra le etnie esistenti.
A questo va aggiunto un fattore di sconvenienza nell’usare certe terminologie, in un periodo in cui forte è la condanna, anche se spesso solo verbale, di episodi di razzismo.
L’Italia non ha conosciuto un passato coloniale paragonabile per entità a quello di altri paesi europei per cui diventa più probabile che in termini di ricaduta culturale i processi di costruzione sociale possano essere originati da dimensioni di carattere socio-economico. Per il momento sono dunque le differenze materiali quelle che hanno più presa sui giornalisti, che catturano più l’attenzione.

La classe pericolosa

Alcuni giornali, soprattutto L’Indipendente, Il Giornale ed in certi casi il Corriere della Sera, hanno spesso attribuito con chiarezza il degrado o la criminalità all’arrivo degli extracomunitari.
Negli altri casi, più numerosi, si è accentuato soprattutto dal ’94 in poi, il nesso esplicito tra presenza di immigrati e criminalità.
Anche se non si ricorre ai luoghi comuni del razzismo classico, si nota, ad esempio negli articoli sulle tensioni nei quartieri che la provenienza o il colore della pelle, che pur fanno "poca differenza" sono con insistenza, pericolosamente specificate. "La ragione di ciò – ha detto Maneri – sembrerebbe stare in un diffuso desiderio di dare un nome ed una faccia a un’insicurezza le cui complesse cause sociali è difficile comprendere. Al di là di questo c’è però il risultato di un processo sociale che più che l’immigrato-criminale sembra aver prodotto un’intera nuova classe pericolosa".
Maneri nota due aspetti di rilievo nel passaggio dal discorso impersonale sull’illegalità a quello etnicamente connotato. Il primo constata la provenienza straniera degli spacciatori nel tentativo di allontanare non chi spaccia e commette atti illeciti in toto, ma gli extracomunitari, meglio i "clandestini". Le proteste di comitati e di cittadini spesso vengono fatte proprie negli articoli senza che la riflessione possa risentire di contributi più illuminati (tranne ii riconoscimento da parte degli stessi autori del fatto che dietro le fila delle attività illecite ci sono di frequente trafficanti autoctoni).
Il secondo aspetto, che spiega in parte il primo, mostra come la presenza degli extracomunitari diventi di per se stessa, motivo di degrado e oggetto della domanda di intervento rivolta alla polizia. Oltre alla criminalità si invocano le forze dell’ordine per "l’immigrazione selvaggia" e oltre all’eroina ed ai viados sono "i letti ad ore per i nuovi arrivati" a causare "il malcontento dei cittadini" (Indipendente 6-2-’93) e di conseguenza la frequenza di frasi come "tempi duri per l’eterogenea fauna di spacciatori, tossicodipendenti, extracomunitari senza fissa dimora che da mesi si erano impossessati della zona" (il Giornale, 4-3-’93).
L’essere extracomunitario diventa quindi motivo di pericolosità sociale, che richiede un necessario ed urgente intervento di controllo.

I nuovi Miserabili

Uno spunto interessante della ricerca di Maneri, che si rifà a questo proposito ad una indagine di Chevalier del 1976, mostra una certa affinità tra l’opinione degli osservatori della prima metà del secolo scorso sulle classi lavoratrici, etichettate come classi pericolose, e l’attuale condizione di clandestinità, la mancanza di una "fissa dimora", l’essere "extracomunitario" che diventa sempre più sinonimo di pericolosità sociale. Illuminanti accostamenti tra il comune sentire delle due opinioni pubbliche separate da un secolo e mezzo di storia.
"Negli articoli esaminati infatti – sottolinea Maneri – i ‘disperati’, talvolta ‘disgraziati’ e ‘poveretti’ sono sì i più ‘malconci’, quelli che dormono all’aperto, quelli che si ‘trascinano da uno sgombero all’altro’, ma sono allo stesso tempo i protagonisti della discesa in una serie di ‘gironi infernali’ che portano inevitabilmente alla criminalità".
Vistosi sono anche, per la somiglianza con quelli attuali, gli elementi che pi- colpiscono l’osservatore borghese dell’epoca (situazione igienica, sovraffollamento, odori, immondizia, scoppi di violenza, mancanza di documenti di identità).
Del tutto particolare risulta poi sotto questa luce l’analisi degli articoli apparsi sul Corriere della Sera, che appaiono troppo schierati su posizioni di netta distinzione tra buoni e cattivi, proprio come nel romanzo di Hugo. Alcuni esempi: "Molti gli immigrati per bene e costretti a vivere di stenti e tanti quelli che, invece, popolano il mondo della microcriminalità" oppure "Molti impegnati nel difficile mestiere di sopravvivere e tanti, purtroppo, desiderosi di guadagni facili e poco puliti" (Corriere della Sera).
In definitiva, per Maneri, "Ciò che definisce il luogo simbolico dell’extracomunitario è il suo rappresentare il punto di incontro tra classi lavoratrici e classi pericolose. Se, come è emerso finora, l’extracomunitario è, senz’altro considerato una fonte di degrado di per sé, due sono i significati teoricamente possibili del suo rifiuto: il degrado criminale che lo circonda ed il potenziale criminale attribuitogli".
La discriminazione che emerge dai romanzi di Hugo tra i ‘veri parigini’ ed i ‘barbari invasori’ non si allontana molto da quella emersa a Milano, in occasione della polemica su quella che era stata chiamata emergenza freddo tra ‘barboni nostrani’ ed extracomunitari’.
Se sono queste categorie sociali e morali a fondare lo statuto dell’extracomunitario, ciò non significa affermare l’estraneità di questo tipo di discorso da ogni dimensione razzista.
Se gli extracomunitari non sono ancora, con ogni probabilità, un gruppo razzializzato, i discorsi che li riguardano sono declinati in termini alieni da solidarietà e rispetto.