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autore: Autore: Francesco

In viaggio verso la persona

Il Centro Documentazione Handicap di Bologna (CDH), nato nel 1982, ha posto da sempre grande attenzione all’autonomia della persona disabile e al concetto di mobilità ed è stato quindi naturale per il Centro pensare al turismo accessibile e senza barriere e alla conseguente produzione di strumenti d’informazione e formazione che hanno accompagnato e affiancato questo settore. Certo ce ne siamo occupati sempre alla nostra maniera cercando di tenere intrecciati il contenuto – turismo, vacanze, mobilità – con una riflessione di taglio culturale che aiutasse a capire, noi per primi,  che cosa vuole significare l’attenzione ai temi del viaggio e della vacanza nei confronti della costruzione di un’identità piena della persona disabile, costruzione che implica sempre lo smantellamento di stereotipi e l’apertura  di nuove aree di interesse, quali appunto quelle di cui ci stiamo occupando, giudicate non più accessorie ma strutturali per un cambiamento di segno anche sociale.
Il turismo accessibile, allora, ci ha interessato e ci interessa come fattore di “inclusione sociale”: il viaggio, la vacanza, al di là dei diversi modi di realizzarla, rappresenta per tutti uno stacco della quotidianità che può aprirsi a occasioni di conoscenza di altri luoghi e stili di vita. Per la persona disabile esiste un valore aggiunto che va preso in considerazione; viaggiare, spostarsi, vivere un’occasione di vacanza sono tutti momenti in cui sperimentare una situazione di vita normale, slegata dai percorsi specialistici che ancora oggi rischiano di invadere molto degli spazi e dei tempi di vita delle persone disabili.

Gli itinerari tematici

Dai primi anni ’90 il CDH ha iniziato a produrre e a realizzare guide turistiche per tutti.
Quando intorno al 1994 vidi la prima guida turistica per tutti realizzata da Viviana Bussadori mi colpì molto l’attenzione, quasi maniacale, data alla descrizione degli spostamenti da un luogo all’altro “… in questo tratto di marciapiede vi consiglio il lato destro che è meno accidentato…” “… la Chiesa di… ha la piazzetta antistante in acciottolato di fiume, per arrivarci si consiglia di utilizzare il passaggio in lastroni che la circonda…”.
Proprio il concetto di itinerario insieme all’idea di mobilità fanno da riferimento nell’impostazione delle guide e itinerari tematici.
Le guide del CDH hanno sempre proposto degli itinerari in cui si è posta particolare attenzione agli spostamenti da un luogo all’altro, studiando e descrivendo il percorso più adatto  a chi si sposta con l’aiuto della carrozzina o ha problemi di mobilità, andando proprio a scoprire ad esempio il passaggio su marciapiedi provvisti di scivoli o la presenza di posti auto riservati in prossimità dei luoghi di visita.
Sono state queste attenzioni agli spostamenti da un luogo all’altro, inserite nelle descrizioni storiche delle città e dei luoghi da visitare, degli itinerari nella natura, nelle descrizioni dei bar e dei punti di ristoro, che mi hanno fatto capire il vero significato di Guida Per Tutti.
Non è un caso che proprio all’interno del Centro le guide sono state utilizzate e consumate da tutte le persone che ci lavorano, anche per proprie vacanze oltre che per lavoro. Colleghi disabili e obiettori di coscienza, amici appena diventati genitori, Gianluca che si è appena rotto una caviglia giocando a calcio ma non vuole rinunciare ad andare a Mantova con la fidanzata.
Pur sapendo quanto sia difficile spostarsi e fare i turisti nelle città, nelle aree verdi e anche nelle località turistiche propriamente dette non sempre è una impresa impossibile, soprattutto se si parte con uno strumento informativo che aiuti la persona, o chi deve organizzare il viaggio, e che la indirizzi immediatamente verso un itinerario il più possibile senza barriere.
Non uno strumento d’informazione che si snatura in sottrazione (una guida per disabili) ma una guida che si arricchisce di informazioni e descrizioni, con un’attenzione e una sensibilità che nasce dall’idea che viaggiare non è arrivare (nel luogo, accessibile o meno) ma che il raggiungere quel luogo è parte integrante, e spesso anche più importante, del viaggiare in posti e luoghi che non si conoscono.
Inalterati tutti gli stilemi propri della Guida, la storia e la gastronomia su tutto, la qualità e l’affidabilità di questi strumenti di comunicazione riguardano l’altra faccia del viaggio, che è proprio l’informazione verificata e mirata. Verificata perché ogni itinerario proposto nelle guide è sempre stato provato in prima persona, scelta questa impegnativa in termini di costi economici e organizzativi, ma garanzia di affidabilità. Mirata all’idea di dare informazioni organizzate lungo un itinerario di viaggio che permette alla persona non solo di disporre di unità di informazioni, magari anche molto complete ma frazionate, ma di averle in collegamento fra loro, collegamento che rende il più possibile concreta e utilizzabile l’idea che “un ambiente, in definitiva, è accessibile se ciascuno può: raggiungere luoghi ed edifici, entrare (e uscire) da questi edifici, utilizzare tutte le strutture”. (Viaggiare, si può) VALERIA: AUTORI E EDITORE SONO IN FONDO, NELLA BIBLIO, VANNO MESSI ANCHE QUI?

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Le Guide per Tutti del CDH

Firenze
Ravenna e Rimini
Garda
Lucca e Pisa
Le Autostrade del Nord – Le Autostrade del Centro e del Sud  1998/1999
Roma     2000
Bologna 2000
Venezia  II edizione 2000
Riviera del Conero
Pienza
Dolomiti II edizione 2001
Palermo   2002

Mantova  2003

 

Formarsi per informare

Realizzare alcune delle guide per tutti del CDH per me è stato, dal punto di vista professionale, un vero e proprio corso di formazione in giornalismo.
Fare una guida turistica è fare informazione.
Acquisire nella mia abitudine lavorativa un occhio particolare all’accoglienza e all’accessibilità di luoghi o eventi ha significato veramente pensare e scrivere per tutti.
Informazione e formazione, dicevamo, è un legame che sarebbe importante superasse i confini di chi, per esperienza professionale o personale, vive o è vicino all’esperienza della disabilità.
Uno degli aspetti che ritengo molto importante è proprio la formazione dei giornalisti. Questo aspetto, in qualche modo, sta emergendo anche in questo periodo di sovraffollamento di iniziative e convegni sul turismo accessibile.
Intendo la formazione dei giornalisti alla fonte, non solo per chi si occupa di turismo o chi si specializza in opere dedicate.
Penso alle scuole di giornalismo, all’Ordine dei giornalisti, agli esami da giornalista professionista; credo sarà importante avviare forme di collaborazione tra chi si occupa di turismo accessibile e queste strutture di formazione. Un’altra barriera potrà essere più facilmente superata quando in questi posti si studieranno anche i testi sull’accessibilità, sulla mobilità, si faranno ricerche sulle guide turistiche per tutti.
Dall’esperienza di lavoro condotta in questi anni dal CDH emergono alcuni punti per una formazione di diverse categorie professionali (dagli operatori dell’informazione agli operatori turistici), coinvolte con differenti livelli di dettaglio e di approfondimento, ovviamente in considerazione delle differenti professionalità.
Questi punti hanno come denominatore comune il taglio culturale, formativo e informativo, la promozione di una cultura sulla persona e sul senso del viaggiare che è, anche, divertimento, rottura degli schemi, conoscenza di sé e degli altri. Si distinguono poi aspetti tecnici e aspetti relazionali.
Gli aspetti tecnici presuppongono la conoscenza del “cliente” e delle sue esigenze in relazione alle varie tipologie di disabilità: ad esempio nello scegliere una struttura alberghiera o un itinerario si deve sapere cosa significa accessibilità e quindi saper interpretare in maniera corretta e critica le informazioni a disposizione, valutarne la reale affidabilità e saper porre le domande giuste sia al cliente sia ai fornitori di servizi.
Gli aspetti relazionali toccano il modo di comportarsi quando si entra in contatto con persone disabili; sono uno snodo fondamentale nella predisposizione di una buona accoglienza e comunicazione.
Di fronte ai meccanismi di difesa che scattano più facilmente nei rapporti occasionali con persone disabili (imbarazzo, evitamento, sostituzione… ), la struttura formativa deve anche essere occasione in cui affrontare il tema dell’immagine mentale e sociale della persona disabile e i meccanismi di discriminazione, spesso sotterranei e non riconosciuti.

Box
1.         Cultura della diversità
– La promozione di una cultura che mette in primo piano la persona.
– Come cambia l’immagine della persona disabile e ruolo sociale: dal deficit alla diversità, alle diverse abilità.
– I meccanismi di discriminazione.
– Quali disabilità?
– Oltre le barriere: architettoniche, culturali, sociali, di comunicazione.

 

2.         Gli approcci al viaggio e alla vacanza
– Il senso di vacanza.
– Inclusione sociale e potenziale economico (Ricerca Touche Ross).

3.         Mobilità e accessibilità
– Il significato e il sistema complessivo della mobilità.
– L’accessibilità nelle strutture, gli interni, gli spostamenti, il concetto di itinerario.

4.         Informazione e documentazione
– Una buona comunicazione per tutti.
– Informazione e formazione, aggiornamento dei dati.
– Opportunità e risorse della rete telematica – Internet.

 

 

Il viaggio verso la persona

Il tempo libero è da sempre uno dei punti di attenzione di chi professionalmente lavora nel “pianeta handicap”, come veniva definito quel particolare mondo popolato da persone che, certo non erano marziani, ma, proprio perché terminologicamente collocati in un differente oggetto celeste,  sicuramente neanche umani.
Scrive Claudio Imprudente, nel celebre articolo Salve sono un geranio, che per una pianta, un vegetale, un diverso, un abitante del pianeta handicap, servono tre movimenti per farla diventare persona: bisogna sforzarsi di mettersi al suo livello, guardarla dritto negli occhi e instaurare con lei una relazione alla pari. Questi tre movimenti sono necessari anche da parte della persona disabile e così si ottiene una vera reciprocità. L’integrazione non è solo l’accoglienza da parte della normalità del diverso, ma anche il diverso che accoglie la normalità in un cambiamento reciproco. Un modello di approccio mentale e culturale è stato sorpassato, un salto di qualità che è insieme politico e culturale è stato fatto. Politico/culturale certo, ma anche culturale/economico.
Lo “scarto” e lo “sforzo” culturale degli ultimi anni è stato proprio far coincidere e incrociare i movimenti da parte della società e da parte delle persone disabili, spostando l’attenzione, finalmente, sulla persona.
Ecco allora che dal coraggio delle persone disabili, dei loro familiari e da chi in questi anni ha lavorato e si è occupato anche di questo tema si è passati alle possibilità e poi all’appetibilità.
Se la persona disabile viene riconosciuta come una persona a tutto tondo, può essere anche un consumatore di pacchetti turistici con dignità di cliente. Dunque di interesse per il mercato, sempre, e per definizione, alla ricerca di nuovi target.
Tutta l’attenzione al turismo accessibile, così di moda di questi tempi, credo segnali anche questo: il pianeta handicap è popolato da persone. E intorno alle persone ruotano sempre fattori politici/economici/culturali.
La valutazione di reale cambiamento/acquisizione rispetto all’attenzione dichiarata credo passi ancora dal significato del viaggio, non del turista, dalle opportunità per la costruzione di un’immagine e di una identità che è necessaria per ognuno di noi e in ogni momento della nostra vita, bambini, adolescenti, adulti.

Viaggi e miraggi

Turismo per tutti: informazione, esperienze, pensieri

INTRODUZIONE

   Viaggiare è bellissimo.
Il viaggio, sin dagli albori, è sempre stato centrale nella nostra storia, la storia dell’uomo e della donna sulla terra.
Ci è stato raccontato dai poeti, dai cantastorie; la tradizione orale ha pensato ai viaggi e alle avventure in terre sconosciute che affascinano tanto i nonni quanto i bambini, poi la musica, i libri, ora il web, con tutti i mezzi di comunicazione a nostra disposizione nel tempo abbiamo s/parlato di viaggio e viaggi.
Viaggiare lo considero un bene primario dell’uomo e delle donne, proprio come l’acqua e il carbone per intenderci, come l’informazione tra l’altro, cioè quei beni di cui l’umanità ha sempre avuto bisogno per lo sviluppo di qualunque attività.
Anche le rivoluzioni nei campi più diversificati hanno attinto significati e parole proprio da quei significati che ognuno di noi ha del viaggio. Elaborati in prima persona e poi collettivamente.
La scoperta dell’LSD, la droga sintetica degli anni ’60-70, il trip, non a caso chiamata “il viaggio” perché altera la percezione della coscienza, e poi il World Wide Web, la tripla w di Internet, una rete di informazione/i grande come il mondo che puoi navigare.
È proprio qui, nell’intreccio tra beni primari, tra informazione e cultura, movimento mente-corpo, (bisogno di) alterazione della normalità, che si insinua il mio viaggiare è bellissimo.
E questo è un territorio di tutti e di tutte. Di tutte le età e le estrazioni sociali. Di tutti i colori. Di tutti diritto.

 

Viaggiare è inutile.
L’umanità, tranne rare ed elitarie eccezioni, non ha mai viaggiato per piacere, solo per costrizione o per far guerra.
E proprio oggi che il viaggio è così raccontato, pubblicizzato, reso feticcio diviene esperienza impossibile, almeno per chi vive nella parte a occidente del mondo. Spesso diventa solo illusorio, tentativo di cambiare qualcosa di noi cambiando la coreografia intorno.
Il viaggiatore si è fatto turista e sempre più vacanziere. I viaggi, le vacanze diventano obblighi sociali da assolvere non per risposta a un bisogno interno di stacco e straniamento ma per convenzioni sociali che spaccano la nostra, unica, vita in sfere separate e artefatte. Si è persa per noi inevitabilmente l’esperienza globale dell’essere attraversati (più che dell’attraversare) che i viaggiatori mitici riportavano per sempre con sé alla fine di ogni ritorno.
In tempi sempre più rapidi ci spostiamo in luoghi sempre più uguali, da cui pretendiamo risposte e stimoli, non in funzione di una comprensione reale, anche se inevitabilmente relativa, di quei paesi e di quelle popolazioni, ma delle immagini convenzionali a cui operatori turistici e addetti all’informazione ci hanno ormai educato. Gli unici viaggi sono spostamenti, i ricordi sono cartoline, i racconti aneddoti.
Per questo mi ritrovo sempre più spesso a pensare che lasciare l’aria entrare nei pensieri della mia testa  sia oggi l’unico viaggio per cui valga la pena di spendersi.

Di Francesco Ghighi di Paola e Giovanna Di Pasquale

 La lettura    

Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa – non importa sapere con precisione quanti – avendo in tasca poco o punto denaro e, a terra, nulla che mi interessasse in modo particolare, pensai di andarmene per mare, a vedere la parte del mondo ricoperta dalle acque. È uno dei miei sistemi per scacciare la tristezza e regolare la circolazione del sangue. Ogniqualvolta mi accorgo che la ruga attorno alla mia bocca si fa più profonda; ogniqualvolta c’è un umido tedioso novembre nella mia anima; ogniqualvolta mi sorprendo fermo, senza volerlo, davanti alle agenzie delle pompe funebri o dietro a tutti i funerali che incontro; e, specialmente, ogni qualvolta l’insofferenza mi possiede a tal punto che io devo far appello a un saldo principio morale per trattenermi dal discendere in strada e buttar giù metodicamente il cappello in testa ai passanti, giudico allora sia venuto il momento di prendere il mare al più presto possibile.
Herman Melville, Moby Dick, libro primo

 

Giù, giù, giù. Avrebbe mai finito di cadere? “Chissà quanti chilometri è che sto cadendo?” disse a voce alta. “Starò avvicinandomi più o meno al centro della terra. Vediamo un po’: dovrebbe fare un seimila chilometri e qualche di profondità, penso…” (giacché, dovete sapere, Alice aveva imparato molte cose del genere durante le lezioni a scuola, e benché questa non fosse l’occasione più adatta per far sfoggio di cultura, dato che il pubblico era scarsino, tuttavia era sempre il momento buono per fare un po’ di ripasso) “… sì, dovrebbe essere la distanza esatta…ma  allora chissà a quale Latitudine o Longitudine mi trovo!”
(Alice non aveva la minima idea né sulla Latitudine né sulla Longitudine, ma erano pur sempre dei gran bei paroloni da tenere pronti.)
A questo punto riattaccò: “Chissà se sto attraversando tutta la terra! Che numero sbucare fra quella folla di gente che cammina a testa in giù! Tantipodi, se non erro…” (stavolta fu abbastanza contenta che non ci fosse nessuno a ascoltarla, questa parola non le appagava l’orecchio) “… ma dovrò chiedergli il nome del paese, naturalmente. Scusi, signora, qui siamo in Nuova Zelanda o in Australia?” (e mentre parlottava cercò di fare la riverenza – figurati, fare la riverenza intanto che stai precipitando nel vuoto! Credete di esserne capaci voi?) “Penserà che io sia una paesanella ignorante! No, non sarà proprio il caso di far domande: ci sarà pure un cartello stradale da qualche parte”.
Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie

 

Sostengo – disse Andrew Stuart – che le probabilità sono a favore del ladro, che non può non essere un uomo abile!
Andiamo, via! – rispose Ralph – non c’è più un solo paese nel quale possa rifugiarsi.
Per esempio!
Dove volete che vada?
Io non lo so – rispose Andrew Stuart – ma, dopo tutto, la Terra è abbastanza vasta.
Lo era una volta… – disse a mezza voce Phileas Fogg. Poi: Sta a voi tagliare, signore – aggiunse presentando le carte a Thomas Flanagan.
La discussione restò sospesa durante il robbie. Ma subito Andrew Stuart la riprendeva  dicendo:
Come, un tempo! Forse che la Terra è diminuita per caso?
Senza dubbio – rispose Gauthier Ralph – Sono dell’opinione del signor Fogg. La Terra è diminuita, giacché la si percorre adesso dieci volte più presto di cento anni fa. Ed è questo che, nel caso di cui ci occupiamo, renderà le ricerche più rapide.
E renderà anche più facile la fuga del ladro!
A voi giocare, signor Stuart – disse Phileas Fogg.
Ma l’incredulo Stuart non era convinto e, a partita finita:
Bisognerà convenire – riprese – che avete trovato un modo ameno per dire che la Terra è diminuita! E così, siccome se ne fa adesso il giro in tre mesi…
In ottanta giorni solamente – rispose Phileas Fogg.
Jules Verne, Il giro del mondo in ottanta giorni

 

Dissi che avrei provveduto io a fare i bagagli.
Mi vanto alquanto della mia abilità nel riporre la roba. Fare i bagagli è una delle tante cose nelle quali sento di essere più esperto di qualsiasi altra persona al mondo (e mi sorprende, a volte, constatare quanto siano numerose tali cose). Convinsi George e Harris della mia capacità e dissi loro che sarebbe stato preferibile se avessero lasciato fare soltanto a me.
Essi accettarono la proposta con una prontezza che ebbe dell’incredibile. George caricò la pipa e si allungò sulla poltrona; Harris, dal canto suo, appoggiò le gambe al tavolo e accese un sigaro.
Questo non corrispondeva affatto alle mie intenzioni naturalmente…
In ogni modo modo, non dissi niente e cominciai a metter via ogni cosa. Il lavoro risultò essere molto più lungo di quanto avessi creduto; ma finalmente terminai di riempire la valigia, e vi sedetti su, e strinsi le cinghie.
– Non ce li metti gli stivali? – domandò Harris.
Mi guardai attorno e constatai che li avevo dimenticati. Ecco com’è Harris. Si era ben guardato dal pronunciare una parola prima che io avessi chiuso la valigia e stretto le cinghie, naturalmente. E George rise, con una di quelle sue risatine esasperanti, insensate, simili al raglio  di un somaro, che mi rendono furente.
Riaprii la valigia e vi ficcai dentro gli stivali; poi, proprio mentre stavo per richiuderla, mi balenò nella mente un’idea orribile. Avevo ricordato di metterci lo spazzolino da denti? Non so come sia, ma non riesco mai a ricordare se ho già messo nella valigia lo spazzolino da denti. Lo spazzolino da denti è un oggetto che mi ossessiona quando viaggio, e che mi infelicita l’esistenza. Sogno di non averlo messo nella valigia, mi sveglio di soprassalto, madido di freddo sudore, e salto giù dal letto e dò la caccia allo spazzolino. Poi, al mattino dopo, lo metto nella valigia prima di essermene servito, e devo riaprire la valigia per prenderlo; e, naturalmente, è sempre l’ultimo oggetto che vi trovo; in seguito, rifaccio la valigia e dimentico lo spazzolino da denti, e devo salire di corsa al primo piano all’ultimo momento per prenderlo, e sono costretto a portarlo alla stazione avvolto nel fazzoletto.
Naturalmente ora dovetti togliere dalla valigia ogni maledetto oggetto, e naturalmente non riuscii a  trovare lo spazzolino. Frugai dappertutto fino a ridurre ogni cosa nello stesso stato in cui doveva essersi trovata prima che il mondo venisse creato, quando regnava il caos. Naturalmente, trovai almeno diciotto volte gli spazzolini da denti di George e di Harris, ma non riuscii a trovare il mio.
Rimisi tutto nella valigia, un oggetto per volta, scrollandolo prima a mezz’aria e finalmente trovai lo spazzolino dentro uno stivale.
Riempii allora di nuovo, e richiusi, la valigia.

Jerome K. Jerome, Tre uomini in barca (per non parlar del cane)

L’esperienza di gioco: idee e pratiche di integrazione nel Comune di Forlì

Quali sono i dati caratterizzanti, le problematiche emergenti, gli aspetti che giudicate particolarmente rilevanti per descrivere i tratti principali della vostra realtà?La collaborazione tra Comune di Forlì e la cooperativa CAD è iniziata circa due anni fa come una scelta quasi obbligata. Nel senso che non ci entusiasma l’idea di esternalizzazione come enti pubblici i servizi.
Come operatore mi trovo fortemente d’accordo con la scelta fatta, la  mia esperienza è positiva perché gli anni precedenti non avendo un rapporto stabile con un’associazione o cooperativa in grado di supportare con continuità il processo per l’integrazione scolastica, avevamo ingressi di persone (supplenti) nella sezione discontinui, con la conseguenza di interventi poco efficaci nei confronti dei bambini disabili inseriti.
In questo senso il percorso attivato con la CAD ha significato la possibilità di lavorare con continuità.
In questo momento come Comune abbiamo dieci bambini che sono presenti e iscritti nella scuola dell’infanzia con le insegnanti di sostegno CAD e un insegnante part-time comunale;  nel nido sono due i bambini inseriti e abbiamo due insegnanti di sostegno comunali sempre part-time.
Poi c’è una “galassia”, definiamola in questo modo, di bambini con disagio sociale sempre più accentuata.
C’è una crescita esponenziale di questa situazione, di bambini in difficoltà con cui gli insegnanti devono fare i conti.
Mi pare di poter dire che il rapporto tra Comune e cooperativa CAD sta crescendo, ci misuriamo tutti i giorni sui problemi, stiamo attivando anche percorsi di formazione comune.
(Bruno Lombardi)

Nonostante la nostra cooperativa abbia un’esperienza molto ampia, quasi trent’anni di attività nel settore del lavoro di cura e dell’handicap, questo servizio è stato attivato in tempi recenti e su questo abbiamo bisogno di irrobustirci.
Forse per questo un dato che salta agli occhi è che le nostre educatrici, rispetto alle educatrici comunali, sono più giovani, sia per età anagrafica che per esperienza  professionale. C’è un percorso che bisogna costruire perché c’è un gap sia a livello di esperienza che culturale.
Sia noi che il Comune siamo intenzionati a costruire un percorso insieme e a integrarci. Per noi le insegnanti comunali sono una grossa risorsa proprio nel quotidiano e le nostre educatrici hanno molto da imparare. Dal canto loro possono mettere molta voglia di imparare e motivazione al lavoro, si buttano nelle attività e anche questa è una caratteristica importante.
(Monia Castagnoli)

Quali sono le linee principali, le “parole chiave” attorno a cui avete strutturato le politiche educative che sostengono il lavoro di integrazione nelle strutture educative e scolastiche?L’esperienza comunale sull’integrazione risale a più di trent’anni fa. Allora furono fatte scelte anche forzando la legge, forzando addirittura i rapporti con il personale per cui i bambini furono inseriti nelle strutture educative nell’ottica di un intervento (ed è questo il passaggio chiave) che fosse il più possibile precoce. Un ambientamento precoce in una struttura come il nido è una scelta che in prospettiva paga, paga con diversi tipi di deficit perché le attenzioni che vengono messe in gioco prima al nido poi alla scuola di infanzia (richiesta di relazione, percorsi, attività) danno al bambino con deficit la possibilità di essere aiutato a costruirsi un modo di rapportarsi con se stesso e con il mondo. In questo senso per noi è importante che l’incontro fra l’istituzione nido e scuola dell’infanzia e il bambino avvenga il più possibile.
L’altro problema è capire se, come e quanto siamo pronti, preparati e formati ad affrontare l’incontro e la quotidianità con i bambini disabili (il “deficit” che abbiamo fra le mani).
Per questo l’altra parola chiave è la formazione continua. Per molti aspetti la nostra esperienza trentennale ha costituito una cultura che non avevamo e questo rapporto quotidiano ha costretto moltissimi insegnanti ad imparare. Il Comune ha dato il sostegno della formazione; su questo versante il percorso formativo non si è mai interrotto, sempre avendo cura di analizzare il quotidiano, i casi emblematici che le insegnanti avevano per le mani.
Questo ha creato una cultura forte anche se ci sono delle luci e delle ombre: il rischio nelle relazioni interne (che c’era prima e c’è anche oggi con la CAD) è il rischio potenziale di una sorta di delega  reciproca per cui l’insegnante di sostegno viene caricata di responsabilità che certamente ha ma che vanno gestite in una logica di condivisione, pena la gestione in proprio del bambino da parte dell’insegnante di sostegno. È chiaro, è giusto che un bambino che ha bisogni relazionali deve avere una figura di riferimento forte ma è importante che abbia la possibilità di conoscere ed entrare in relazione con tutte le figure che sono presenti nella sezione. (Bruno Lombardi)

Ripercorrere a ritroso l’esperienza della formazione significa ragionare sull’analisi dei bisogni formativi: quali  sono state delle priorità e le attenzioni ai temi specifici in questi anni?Ci si è incentrati su aspetti salienti della pedagogia, come l’osservazione, che è uno strumento importante per tutti i bambini, è lo strumento di fondo, “obbligato” per l’insegnante di sostegno. Su questi aspetti abbiamo molte volte ragionato. L’osservazione non deve essere fatta una tantum e poi lasciata da parte: l’osservazione deve, se possibile, essere formalizzata e discussa, ripresa per poter vedere i fili conduttori che possono suggerire piste di azione; l’osservazione deve essere utilizzata. In questo senso le insegnanti vanno aiutate e sostenute. La formazione con persone che hanno culture diverse, diverse età ed esperienza può significare trasmissione di saperi e un modo sinergico di lavorare sui problemi.
(Bruno Lombardi)

Un’altra parola chiave che mi viene in mente è la documentazione, fortemente legata all’osservazione. Proprio l’anno scorso che era il primo anno di presa in carico del servizio, abbiamo concordato con il Coordinamento Pedagogico la costruzione e supervisione di una scheda individuale che accompagna il bambino, dove vengono raccolte e formalizzate e condivise le osservazioni e gli obiettivi del PEI. Adesso la stiamo sperimentando per verificarla, aperti a ogni ulteriore adattamento per poterla migliorare.
(Monia Castagnoli)

Nel quadro così caratterizzato per come lo state descrivendo, come definireste oggi lo “stato di salute” della qualità dell’integrazione dei piccoli nelle strutture educative e nelle scuole d’infanzia  della vostra  città?Lo stato lo definirei buono perché questi bambini sono comunque una ricchezza per l’esperienza che fanno i bambini e anche le insegnanti. Dopo di che l’insegnante ha l’onere di dover affrontare anche i problemi, per cui bisogna creare dei meccanismi tali che l’impegno per le insegnanti non sia troppo gravoso e gestibile. Un limite che abbiamo è che non sempre, come pubblica amministrazione,  siamo in grado di ascoltare quello che le insegnanti pongono in termini di interrogativi, di disagi portati e potenziali. Non sempre siamo pronti ad accogliere e riconoscere le difficoltà che le insegnanti portano.
(Bruno Lombardi)

 

Direi che lo stato di salute è tra il discreto e il buono perché c’è un discorso di continuità che la CAD ha garantito in questi ultimi due anni. Su questa base si possono costruire delle cose.
C’è un sodalizio fecondo con queste giovani ragazze della cooperativa. Se forse l’ente locale non ascolta fino in fondo la nostra voce, devo però dare atto che per quanto riguarda le questioni della disabilità il coordinamento è presente. Magari non tutte le istanze possono venir raccolte ma c’è uno sforzo di presenza, c’è un’attenzione a livello di coordinamento.
L’osservazione è il punto cruciale; usare l’osservazione significa poter fare un quadro di ogni bambino, un quadro flessibile costantemente in movimento, da aggiornare per ripartire. Questa dovrebbe essere anche la direzione principale di ogni formazione: un supporto a capire che ogni intervento non è mai definitivo ma si deve continuamente rivedere, rimettere in discussione e ritarare. Questo è il grande valore dell’osservazione; non è stato semplice da imparare, piano piano ci si è costruito questo saper osservare, saper ascoltare che ha permesso di uscire dall’atteggiamento
“ma adesso che cosa faccio?”
(Meris Pedrizzi)

Mi sento di sottolineare la centralità del rapporto tra insegnante di sezione e educatrice: non è semplice ma è necessaria una stretta collaborazione tra insegnanti di sezione e di sostegno.
Anch’io mi collego all’importanza dell’osservazione e della documentazione. L’osservazione del bambino ma anche del contesto è lo strumento principale per capire meglio chi si ha di fronte, una persona con limiti e capacità, per non dare nulla per scontato, per vedere le evoluzioni della situazione. L’osservazione è la base per costruire il mio intervento.
(Lorena Visotti)

Quali sono, a vostro parere, i principali aspetti positivi attivati nel percorso di integrazione sperimentati fino a oggi?Aspetto di positività è che molti bambini con disagio hanno frequentato la scuola di infanzia e l’hanno fatto con interesse e curiosità, vivendo una condizione di benessere. Questo mi sembra un dato di realtà per molti bambini e quindi anche per molte famiglie che hanno vissuto come molto importante il passaggio dalla fase di inserimento a una vera e propria integrazione. Positività è quando un bambino, che vive una situazione anche molto grave, viene volentieri a scuola, manifesta con il sorriso, con il corpo, il piacere di venire nella scuola.
Positivo è quando anche gli altri bambini accettano e cercano il bambino in difficoltà, chiedono di lui e si relazionano con lui. Sono segnali che qualcosa si è mosso, che stiamo lavorando nel verso giusto.
(Meris Pedrizzi)

Il nostro primo obiettivo è quello di far star bene il bambino. Che possa venire serenamente a scuola. Questo alla famiglia fa molto piacere, aiuta a superare le preoccupazioni di lasciare in mano a qualcuno il proprio figlio all’interno di un gruppo allargato.
Quando il bambino è sereno, anche il genitore è più tranquillo e sicuro.
(Lorena Visotti)

La parola chiave benessere (così come autonomia, identità, competenza) è pensata per tutti i bambini. C’è un’attenzione specifica per il bambino con deficit, ma all’interno di un quadro che tende in termini generali ad aumentare le occasioni di benessere (autonomia, identità, competenza) per tutti i bambini. Il fatto che il bambino stia bene, che la famiglia sia serena permette anche all’insegnante di lavorare con più tranquillità e sicurezza. Di mettere in  atto un atteggiamento osservativo che aiuta a “essere” dentro la situazione.
(Bruno Lombardi)

Quali i principali aspetti critici e di difficoltà? E come si potrebbero superare?Per la mia esperienza un elemento delicato è dato dal rapporto con l’AUSL  che è sempre un po’ sul filo del rasoio. Il bambino con disagio va visto nella sua unicità. Noi abbiamo diversi incontri con gli operatori AUSL dove ci sono scambi e confronti sul loro modo di vedere, sui loro progetti. Il difficile è trovare il mio specifico ruolo e lo specifico ruolo della scuola, e mantenerlo, nel rapporto con l’AUSL. La tendenza è quella di dare degli obiettivi piuttosto specifici e c’è un momento critico che è quello della raccolta dei dati e della trasformazione  in un progetto di integrazione. Noi come insegnanti abbiamo bisogno di essere aiutate a sviluppare il piano nostro, che è quello pedagogico, e anche di essere rassicurate su questo.
Un altro aspetto di difficoltà è legato alla presenza sempre numerosa di bambini che vivono un disagio ma che non sono segnalati per questo: è un disagio che loro portano a scuola, nelle sezioni, e con cui fare i conti.
(Meris Pedrizzi)

Aggiungerei che non esiste un protocollo ufficiale di rapporti fra istituzioni; c’è uno scambio e una fiducia reciproci, ma forse la formalizzazione degli impegni aiuterebbe nel definire compiti e responsabilità.
Un limite che talvolta vedo è che le insegnanti possono correre il rischio di fare il mestiere degli altri, di “psicologizzare” il bambino e la sua famiglia: questo può derivare anche dal fatto che molte volte le insegnanti non sono consapevoli del grande valore professionale che hanno e vanno un po’ alla ricerca di altri modelli. Non dobbiamo avere l’ansia dell’errore, ma provare e sperimentare situazioni, proposte, giochi che approfondiscano  il ruolo e la proposta educativa per l’integrazione.
Come coordinamento siamo i referenti maggiori rispetto all’ambito dell’integrazione educativa e in particolare alle famiglie di bambini con deficit. Noi intendiamo fare leva soprattutto sulla formazione (sia insegnanti comunali che provenienti dalle cooperative). L’insegnante non può e non deve essere lasciata da sola.
(Bruno Lombardi)

 

Partecipanti al focus:
Bruno Lombardi, coordinatore pedagogico Comune Forlì
Monia Castagnoli, coordinatrice Cooperativa CAD Forlì
Meris Pedrizzi, insegnante scuola infanzia “Querzoli”
Lorena Visotti, educatrice CAD

Conduttrice: Marina Maselli, pedagogista Context-Bo, consulente Comune di Forlì

Un progetto di accoglienza: il gioco dei nomi

M. ha tre anni, è inserito in una sezione eterogenea di scuola dell’infanzia. Presenta difficoltà di comunicazione e di relazione. Si esprime prevalentemente a gesti. Nel suo repertorio linguistico sono presenti suoni vocalici e sillabici. Produce determinate espressioni interpretabili come approssimazione di parole e frasi, comprensibili a chi lo conosce bene. I rari enunciati spontanei e su sollecitazione risultano ripetitivi ed ecolalici.
Il progetto “Accoglienza” è stato rivolto a tutti i bambini della sezione. Sono state informate dell’esperienza la neuropsichiatra e la logopedista che seguono il bambino, senza venire direttamente coinvolte nel progetto.
L’obiettivo su cui si è lavorato è stato il raggiungimento della capacità di pronunciare il proprio nome e rispondere alla domanda: “Come ti chiami?”
M. percepisce il proprio nome; si volta verso chi lo chiama ma non pronuncia il suo nome. Si mostra schivo a socializzare, soprattutto con i compagni. Gioca da solo, accanto a insegnanti e bambini, il più delle volte con un tamburello e un telefono giocattolo.
Le sue modalità di gioco sono ripetitive; spesso si isola, il contatto di sguardo è sfuggente. L’interlocutore privilegiato è l’adulto: il bambino accetta di stare seduto sulle ginocchia delle insegnanti durante il momento della conversazione e sulla seggiolina durante lo svolgimento di giochi collettivi, ma non partecipa e spesso volge le spalle al gruppo.
Considerato che mostrava interesse per il tamburello e che, tramite questo, era in grado di modificare in positivo determinati comportamenti, gli insegnanti hanno pensato di partire dall’utilizzo di questo oggetto per attivare i giochi di accoglienza/riaccoglienza, rivolti sia ai bambini nuovi arrivati, come M., sia ai bambini già frequentanti. L’intento era quello di veicolare messaggi di “benvenuti” e “bentornati” a tutti, bambini e adulti, e in particolare di incoraggiare, facilitare e gratificare l’avvicinamento di M. al gruppo sezione e viceversa.
A tal scopo l’insegnante di sostegno, in collaborazione con le colleghe curricolari, ha proposto il GIOCO DEI NOMI:
– presentarsi al telefono giocattolo (…pronto, io mi chiamo…): M. porta il ricevitore all’orecchio ma non dice niente;
– concerto dei nomi (scandire a bassa voce e poi a voce molto alta e viceversa i nomi di tutti i bambini): il bambino osserva e sorride timidamente;
– uso del tamburello: percuotere il tamburello con le mani o con il percussore, produrre un suono libero, ognuno il suo suono e far seguire il nome. Pausa. Stare in silenzio per breve tempo, anche a occhi chiusi. Si viene a creare un contesto divertente e distensivo. M. entra nel gioco; percuote il tamburello traendone un suono appena percettibile e sussurra il suo nome. È gioia per tutti. Le insegnanti lo gratificano con un vibrante “Bravo!”. M. sorride apertamente e si autoapplaude.
Considerata la risposta positiva, questo gioco viene inserito nelle attività di routine al mattino. Continuando a valorizzare e vivacizzare l’esperienza (apporto di varianti a carattere psicomotorio, sempre con l’uso di strumenti musicali a percussione, creazione di un piccolo set con gli stessi), il bambino è riuscito a ripetere con pronuncia chiara e a voce alta il suo nome, quello di alcuni compagni e delle insegnanti. Il gruppo lo ha gratificato con abbracci e festosi applausi.

L’esperienza ha avuto luogo nell’anno scolastico 2001/2002 presso la scuola dell’infanzia “A. Frank”, di S. Polo di Torrile (PR), insegnanti Severina Boschi e Guglielmina Da Re, dirigente scolastico Gianni Gaulli.
La documentazione dell’esperienza è stata pubblicata in:
Chiara Dall’Asta (a cura di), Integrazione possibile. Documentazione di esperienze nella scuola,
Collana I quaderni delle esperienze n.1/ nov. 2002 Centro Provinciale di Documentazione per l’Integrazione scolastica, lavorativa, sociale, Parma.

Diario di un incontro

Presentazione

Questa esperienza, vissuta all’asilo nido “Astamblan” di via Guarnaschelli a Piacenza, e descritta dal personale educatore, vuole essere una testimonianza della fattiva collaborazione tra Enti diversi per uno scopo umano e sociale molto alto: connettere il mondo sconosciuto e solitario di due bambini con grave disabilità. Ciò ha voluto dire comunicare con chi ci sta vicino, provare e suscitare emozioni, rivolgere sguardi, comprendersi.
Il racconto che segue è caratterizzato dalla tenacia delle educatrici, dalla riflessione educativa quotidiana e soprattutto dalla ricchezza di suggerimenti professionali che ogni operatore nella sua specificità ha messo a disposizione.
Questo piccolo opuscolo infine è rivolto a chi ha la curiosità e la voglia di mettersi in gioco professionalmente ogni qualvolta incontra sulla propria strada bambini in difficoltà.
Ufficio Infanzia, Servizio Formazione, Comune di Piacenza, ottobre 2002.

Le educatrici: il nostro racconto

 

Primo anno

Come ogni inizio di anno scolastico ci siamo organizzate per accogliere i bambini della nuova sezione lattanti.
Tutto sembrava procedere per il meglio e avevamo cominciato a superare le ansie dell’inserimento. Eravamo arrivate all’inizio di ottobre con dieci bambini già inseriti, ce ne restavano ancora cinque e poi il momento più critico dell’anno sarebbe passato.
A metà ottobre, una telefonata dall’ufficio, del tutto imprevista, ci informa che avremmo dovuto inserire due fratelli gemelli. Tutte e tre ci siamo guardate in viso e le nostre ansie si sono di nuove manifestate: come saranno?
Un’altra telefonata ci informava della riunione con il neuropsichiatra che ci avrebbe spiegato la situazione dei bambini.
Arriva sabato mattina, ore 8.15, noi educatrici siamo sedute nella stanza del neuropsichiatra che, molto tranquillamente, ci illustra la situazione.
Due fratelli gemelli hanno uno sviluppo ritardato rispetto ai bambini della loro età. Provengono da una famiglia disagiata, non in grado di stimolare i bambini. La madre ha qualche problema di relazione con gli altri, è una mamma da prendere con le “mollette”.
Alle ore 10.15 la riunione è finita, noi educatrici ci chiediamo: come facciamo?
Dopo qualche giorno ci siamo riunite, davanti a un’incertezza così forte il nostro stato d’animo era quello di senso di panico, pensavamo di non avere gli strumenti per affrontare la situazione.
Da che parte cominciamo? Tutte e tre ci siamo messe in discussione e abbiamo analizzato le nostre capacità. Dopo qualche riflessione ci siamo messe d’accordo su chi doveva trattare con la madre: la persona più accomodante.
Arriva il fatidico giorno dell’entrata dei bambini al nido; la situazione si è presentata subito più problematica del previsto. Infatti mentre noi eravamo convinte di poter inserire un bambino alla volta e di riuscire ad avere una mediazione con la madre, è avvenuto che i bambini sono rimasti entrambi fino alle ore 15.30 mentre la madre è uscita immediatamente.
Nella sezione si è creata una situazione pesante, non tanto per i bambini inseriti ma per le educatrici che, contrariamente a quanto avviene nell’inserimento, non sapevano nulla delle abitudini alimentari, dei ritmi del sonno, della routine quotidiana dei due bambini. Finalmente arrivano le 15.30, i bambini vanno a casa e noi ci riuniamo per fare il punto della situazione.
Come ci organizziamo? Mettiamo a punto le prime linee di intervento:
Dobbiamo farci conoscere e conoscere i bambini. Come? Decidiamo che è necessario stabilire un rapporto di tipo individuale. Due educatrici si sarebbero occupate di M. e V. e la terza educatrice e l’insegnante d’appoggio degli altri bambini. In alcuni momenti, soprattutto il pasto, abbiamo coinvolto anche personale ausiliario, ma in modo che le due figure di riferimento dei bambini avessero la possibilità di occuparsi solo di loro.
Il nostro intento è quello di far star bene i due bambini al nido, insieme agli altri. A questo scopo abbiamo pensato che un bambino sta bene al nido se si sente circondato d’affetto. Come si fa per dimostrare affetto ai bambini? Si tengono in braccio, si coccolano, ci si fa toccare, ci si parla, si presta attenzione a ogni loro minima risposta: avevamo stabilito un rapporto di contenimento fisico. Nel frattempo ci siamo rese conto che, comunque, il rapporto con la madre doveva esserci. L’educatrice incaricata di tenere rapporti con la madre aveva continuato a mantenere il rapporto privilegiato; la scelta si è dimostrata valida perché la mamma in qualsiasi situazione si riferiva a lei: chiedeva consigli su come vestire, dare le pappe, portare i bambini al nido, in caso di malattia chiedeva quali erano i medicinali, quanto tempo doveva tenerli a casa, raccontava le sue ansie, i suoi problemi. L’educatrice, in pratica, ha sostenuto e mediato l’instaurarsi di una relazione anche con le altre due colleghe.
Quando i bambini hanno manifestato un certo adattamento al nido, ci siamo rese conto che dovevano essere stimolati anche in altri modi. Avevamo notato che facevano fatica a stare seduti, a mantenere la posizione, non prendevano in mano i giochi ed erano sempre molto rigidi, soprattutto. Ci siamo così accordate per mettere a punto un piano di intervento: finora i nostri criteri di valutazione erano sempre rapportati alla normalità, per questo è stato molto difficile capire come comportarsi. Dopo esserci confrontate abbiamo deciso di usare il buon senso dato dalla nostra professionalità, così siamo intervenute.
Per aiutare i bambini a stare seduti abbiamo usato cuscinoni morbidi che, gradualmente abbiamo poi tolto. Quando sono arrivati al nido, i bambini stavano solo coricati in posizione supina; attraverso rotolamenti, manipolazioni varie, abbiamo cercato di portarli dalla posizione coricata a quella seduta. Per combattere la rigidità e l’assenza di prensione (i bambini tenevano i pugni chiusi e non toccavano nulla), abbiamo giocato molto con il corpo sul tappeto: facevamo bicicletta, giocavamo a remare, facevamo la pasta.
Possiamo sottolineare che, pur avendo atteggiamenti diversi sulle modalità di intervento (una educatrice preferiva metterli sul tappeto e manipolarli molto, l’altra si chiedeva se ciò non fosse “scioccante”), siamo sempre riuscite a discutere e a rispettare le une le motivazioni delle altre.
In questi momenti ci siamo rese conto di quanto sia importante cercare occasioni di confronto fra di noi, da cui poter far scaturire armonia e opportunità di crescita.
A fine febbraio siamo riuscite a confrontarci con una persona esperta presente al nido una volta la settimana: la psicomotricista mandata dall’AUSL. La psicomotricista ci rincuorò ritenendo valido il nostro intervento e dandoci alcuni suggerimenti per migliorarlo.
Nel frattempo l’ufficio ci aveva assegnato una quarta educatrice in servizio dalle ore 8.30 alle ore 12.30.
Con il supporto di queste due persone la situazione, in sezione, era cambiata e i bambini se ne sono resi conto. L’accettazione delle persone nuove è avvenuta in modo diverso: l’educatrice è stata accettata gradualmente da tutto il gruppo; la psicomotricista, che veniva una volta la settimana, ha avuto più difficoltà (soprattutto V. ha impiegato più tempo ad accettarla), anche perché faceva lavorare i due fratelli in un gruppo molto piccolo, al massimo di altri due bambini.
La relazione con gli altri bambini è avvenuta lentamente: in un primo momento i bambini manifestavano paura ritirandosi fisicamente su se stessi. Abbiamo perciò preso l’abitudine di dividere in uno o due gruppi l’intera sezione, inserendo un bambino in ciascun gruppo perché c’eravamo accorte che si condizionavano a vicenda. Nella tranquillità del piccolo gruppo i bambini erano facilitati a relazionarsi con gli altri, li guardavano, li toccavano e si lasciavano toccare, addirittura salivano loro sopra perché volevano sentirli fisicamente.
Questa situazione creava qualche problema nel piccolo gruppo, gli altri bambini si sentivano aggrediti. Davanti a questa manifestazione di apparente aggressività abbiamo pensato di usare quello che noi abbiamo definito “metodo dolce”. Questo metodo consiste nel tenerli in braccio accarezzandoli, facendoci toccare e accarezzare guidando le loro mani.
Abbiamo usato anche il momento del pasto come avvio alla socializzazione.
Da un rapporto individuale siamo arrivati a un rapporto un educatore due bambini. Ciò ha consentito ai bambini di accorgersi del compagno. Primo perché erano seduti insieme a tavola, secondo perché il cucchiaio non era uno conseguente all’altro ma c’era il tempo di mettere le mani nel piatto. Da qui è cominciata la manipolazione, si è sviluppata la relazione con gli altri bambini superando così l’apparente aggressività che aveva creato un po’ d’ansia, soprattutto per uno dei due fratelli.
Osservando questi atteggiamenti ci siamo rallegrate perché abbiamo pensato di essere sulla strada giusta: era quasi un anno che aspettavamo i primi risultati.
Infatti ormai eravamo alla fine dell’anno scolastico e i bambini avevano fatto anche altri progressi: riuscivano a passare dalla situazione seduta a quella eretta, sperimentando l’equilibrio e cominciavano a camminare con l’aiuto della mano dell’adulto.
Quello che ci preoccupava maggiormente in questo periodo era l’atteggiamento ripetitivo e la rigidità fisica di uno dei due fratelli. Bisognava ogni volta intervenire in modo da creare situazioni e contesti diversi in cui il bambino imparasse a esprimersi in modo differente.
Un altro problema era quello di non aver ancora raggiunto la fase della lallazione.
Ormai l’anno scolastico era terminato ed eravamo coscienti che questi nostri interrogativi ce li saremmo ritrovati l’anno successivo. Facendo il punto della situazione ci siamo accorte che ci sorprendevamo spesso a osservare i bambini con alterni sentimenti: a volte compiacendoci, a volte demoralizzandoci, comunque sempre valutando il loro progresso e i nostri modi diversi di leggere la realtà della sezione. Grazie a loro erano migliorati il confronto fra di noi, la disponibilità al colloquio con la famiglia e l’atteggiamento anche nei confronti degli altri bambini.

Secondo anno

Sono finite le vacanze estive e inizia il nuovo anno scolastico. Prima di affrontare le problematiche relative alla relazione con i bambini, dobbiamo premettere che il nostro trio, dopo tanti anni, era cambiato: l’educatrice che aveva tenuto i rapporti con la famiglia era stata trasferita per motivi di salute. Ci siamo chieste se questo fatto avrebbe inciso sulla sezione, soprattutto considerando che dovevamo costruire una relazione nuova con un’altra insegnante.
Comunque sono stati ripresi e affrontati gli interrogativi che ci eravamo poste alla fine dell’anno scolastico precedente. Eravamo ansiose di vedere i bambini e il loro comportamento dopo tre mesi di lontananza dal nido. Ci riconosceranno come figure di riferimento? Avranno imparato a parlare a comunicare? Riconosceranno l’ambiente nido?
Il 2 settembre i bambini hanno ricominciato insieme a tutti gli altri. Dopo qualche giorno ci siamo rese conto che non avevano dimenticato nulla di ciò che erano riusciti a conquistare prima di rimanere a casa; tuttavia i problemi restavano sempre tanti: non parlavano, non camminavano, non avevano in pratica fatto nessuna nuova conquista.
Ci siamo rese conto che avremmo dovuto fare velocemente il punto della situazione e trovare delle strategie per affrontare questi problemi, uno alla volta, pur osservandoli nel loro insieme.
Innanzi tutto il primo obiettivo era quello di far loro raggiungere una certa autonomia motoria. Ci siamo confrontate con la psicomotricista e abbiamo operato attraverso:
– l’uso del triciclo, che stimolava i bambini all’equilibrio, alla posizione seduta, al controllo e al coordinamento delle braccia e delle gambe;
– l’uso di giochi da spingere per raggiungere il coordinamento braccia-gambe nello spazio;
– l’uso del pallone come stimolo al movimento del camminare.

Una situazione educativa per loro stimolante, priva di ripetitività, era costituita dalla musica e dal canto.
I loro occhi, spesso assenti, si animavano e l’atteggiamento del corpo era meno rigido, seguivano anche gesti più elementari come il battito delle mani.
Un’altra attività molto coinvolgente per i due bambini è stata il laboratorio di burattini. In particolare l’animazione. Nel momento in cui l’insegnante ha estratto il burattino e lo ha animato, i loro occhi sono diventati particolarmente attenti, cosa che non avevano mai fatto, e il loro sentimento di gioia e di allegria si è manifestato intero per la prima volta.
M. batteva felice le mani, V. muoveva in continuazione tutto il corpo, senza la solida rigidità, e rideva; ambedue non hanno mostrato né paura né diffidenza nei confronti del burattino, anzi si sono avvicinati entusiasti, si sono lasciati toccare e lo hanno toccato.
Tutto questo ci ha entusiasmato e ci ha reso consapevoli del fatto che qualcosa, dentro di loro, si era acceso. Eravamo sulla buona strada? Un altro atteggiamento che ci ha lasciato perplesse era “il non pianto” dei bambini, sia come reazione fisica al dolore fisico, sia come manifestazione di disagio o di richiesta di aiuto.
Ci siamo chieste allora che tipo di rapporti c’erano con gli altri componenti della famiglia; il pianto è una richiesta di relazione, potrebbe essere che il “non pianto” esprima una mancata relazione?
Questa domanda ce la siamo posta perché, parlando con la madre ci siamo rese conto di quanta difficoltà aveva nel rapportarsi e nel relazionarsi con i figli.
Abbiamo allora provato a “intervenire” sulla madre: “Quando esci dalla sezione salutali, quando li prendi in braccio guardali in volto, hanno bisogno di molte coccole”.
Con il passare del tempo questi messaggi sono stati recepiti quasi completamente.
Eravamo però alla fine dell’anno scolastico e, pur essendo piuttosto soddisfatte del percorso fatto, eravamo anche consapevoli di quanta strada restasse ancora da fare.

Terzo anno

I bambini, nonostante abbiano tre anni, resteranno al nido un altro anno, su indicazione dell’équipe medica. I cambiamenti che li aspettano sono molto grandi: cambiano completamente sezione e per circa un mese rimane una sola figura di riferimento dell’anno precedente.
Questa situazione ha portato un grande disagio che V. in particolare manifestava piangendo, alternando al pianto il frequente dondolio o sull’altalena o sul cavallino a dondolo.
Questa situazione dondolio rappresenta per V. motivo di sicurezza e consolazione. M. invece si è subito reinserito al nido come gli altri bambini nell’arco di due o tre giorni.
In questi primi giorni abbiamo lasciato che esplorasse la nuova situazione a modo suo lasciandolo consolare con il dondolio che abbiamo cercato pian piano di limitare.
Da queste prime osservazioni abbiamo pensato che, quest’anno, il nostro intervento dovesse improntarsi innanzi tutto sul consolidamento delle abilità acquisite e poi sullo sviluppo delle potenzialità di ciascun bambino per facilitare il passaggio alla scuola materna.
Anche quest’anno una buona relazione affettiva fra bambini e adulti è la chiave di volta che permette di entrare nel loro mondo.
Con il passare del tempo l’azione di contenimento si manifesta in un doppio fronte: da un lato deve essere stretta nel momento in cui pretendiamo concentrazione e attenzione, dall’altro lato l’azione si deve allargare nel momento in cui i bambini si sentono in difficoltà, non riescono a risolvere da soli una situazione e con lo sguardo, l’atteggiamento corporeo e qualche suono richiamano la nostra attenzione.
Un’attività specifica che ha aiutato i bambini, oltre che a socializzare, a perfezionare le conoscenze tattili, è stato il percorso tattile: il lavoro si è svolto a piccoli gruppi ed è stato ripetuto per alcuni giorni consecutivi.
Inizialmente M. e V. non erano interessati al gioco proposto, solo quando l’educatrice ha pensato di togliere loro le scarpe e le calze e li ha invitati a fare il percorso hanno cominciato a interessarsi gradualmente al gioco, scoprendo le varie sensazioni tattili e dimostrando preferenze per alcune.
Queste attività hanno migliorato, secondo noi, lo stile di relazione fra M. e V. e gli altri bambini, soprattutto M. sta imparando a fare i conti con ciò che sta fuori di sé, sta imparando ad aspettare il proprio turno, sta imparando ad aspettare il piatto nel momento del pasto, sta imparando a uscire insieme agli altri bambini dalla sezione, sta imparando che esistono dei tempi da rispettare. Tutto questo ha comportato e sta comportando un notevole dispendio di energie sia nostre sia sue.

Oramai siamo alla fine dell’anno scolastico e anche alla conclusione di un ciclo fondamentale per i bambini.
Ci rendiamo conto che ora hanno ciascuno una propria personalità e nell’arco dei tre anni hanno sviluppato un proprio percorso di conoscenza e acquisito una propria identità, ponendo le basi per la loro crescita futura.
Questo ciclo è stato fondamentale anche per noi educatrici che, alternando momenti di disagio o sensazioni di incapacità, impegno nella ricerca e nel confronto, abbiamo cercato di raggiungere ciò che è diverso, di crescere sia umanamente che professionalmente, di metterci in discussione e quindi di confrontarci in continuazione fra di noi e con persone al di fuori del nido.
Abbiamo infatti cercato di creare intorno ai bambini e alla loro famiglia una rete di aiuti che comprendevano oltre a noi educatrici anche l’intervento della psicomotricista e del neuropsichiatra, dell’assistente sociale, dell’assistente sanitaria e della pediatra, per tutto ciò che comportava la quotidianità e l’aiuto esterno al nido.
Così, grazie a questi bambini, abbiamo scoperto che lavorare in équipe con persone di altre strutture ci ha fornito l’occasione per confrontarci e conoscere altre realtà che, comunque, erano direttamente partecipi del vissuto dei bambini.
Per noi è stata un’occasione molto stimolante e forse unica.

 

Il diario dell’esperienza educativa è stato realizzato dalle educatrici dell’asilo nido “Astamblam” di via Guarnaschelli, Piacenza: Domenica Bellissimo e Paola Cortimiglia.
Alla realizzazione del percorso educativo hanno partecipato altre educatrici di sezione: Dora Manfrinati, Romina Pavesi e Maria Scali e due educatrici di sostegno, Barbara Gentili e Rosaria Gagliano.
La realizzazione dell’opuscolo è stata curata dall’Ufficio Infanzia del Servizio Formazione del Comune di Piacenza.
Coordinamento pedagogico: Luigi Squeri, Donatella Zanangeli.
Si ringraziano per la fattiva collaborazione:
Dott. P. Vampirelli – Neuropsichiatra dell’AUSL, Dott. M. Polledri – Neuropsichiatra infantile AUSL, L. Poggi – Psicomotricista AUSL, I. Fossati – Assistente sociale AUSL.

Comunicare al di là delle parole

Dice la favola: “E la regina mentre stava ricamando si punse un dito e una goccia di sangue bagnò il bianco lenzuolo. Allora la regina pensò: oh come vorrei avere una bambina con le labbra rosse come il sangue, la pelle bianca come la neve, i capelli neri come l’ebano”.
Sono proprio le fiabe a raccontarci così bene come un bambino nasce prima nei pensieri, poi nel cuore e infine nella pancia.
I desideri, i sogni, le paure e le preoccupazioni formano un’immagine interiore forte e radicata, anche se nascosta e spesso non detta che accompagna tutto il percorso fino alla nascita di un bambino/a.
È il “bambino della notte” che è ospite nei pensieri paterni e materni, ed è con questa immagine formata, costruita, sperata, che ogni bambino quando nasce o come si dice, quasi in contrapposizione, viene alla luce, fa in un certo modo i conti.
Le prime comunicazioni che alimentano la vita mentale e fisica sono presenti in questo periodo dell’attesa, oltre le parole possibili, attesa che accompagna il passare dei giorni e crea lo sfondo per il primo incontro tra il bambino e il mondo che lo accoglierà.
È in quel tempo che il genitore prepara il venire al mondo del proprio figlio tra aspettative e titubanze, tra la curiosità di sapere “come sarà”.
Il centro emotivo della casa si sposta: “Un bambino nasce e noi diventiamo padri e madri. Questo avvenimento è diverso da tutti gli altri perché è veramente irreversibile, senza possibilità di ritorno.
Possiamo cessare di essere marito e moglie ma resteremo sempre genitori”, scrive la psicoanalista Silvia Vegetti Finzi nel libro Il romanzo della famiglia.

Nella nostra società il venire al mondo è accompagnato da un carico di promesse di felicità, spesso enfatizzato, spesso anche esasperato da una difficoltà diffusa crescente e generalizzata a confrontarsi con i termini reali del vivere; vivere è sempre affrontare questa mescolanza di aspetti, attivi e passivi, pulsioni vitali e momenti di sofferenza e difficoltà. È come dire a un nuovo essere: ti aspetta un futuro solo di cose felici quando noi sappiamo che invece ci sarà un alternarsi di momenti di felicità e di disagio.

Quando la nascita però è segnata da un tratto diverso, come la presenza di deficit oppure da elementi di sofferenza evidente o anche di incertezza (situazioni non chiare, confuse, ma che comunque indicano qualcosa che non va), questo messaggio simbolico e culturale cambia dolorosamente di segno e ci si trova davanti alla prefigurazione di un futuro solo difficile. L’immagine del bambino “immaginato” e l’immagine concreta si divaricano e la distanza può diventare davvero pericolosa se i genitori non sono aiutati a vedere oltre il dato fisico, a dare parole al proprio dolore, ad aprirsi alla comunicazione possibile.
Perché è bisogno primario di ogni bambino di essere visto, raccontato, accolto in senso ampio come bambino tutto intero, come persona da subito piena di caratteristiche e modi propri. Ogni bambino, tutti i bambini, in un modo o nell’altro si sottraggono alle tabelle di marcia o alle attese precostituite. Si impongono nel mondo come una presenza nuova e imprevista.

Uno psicologo inglese, il dottor Laing, ha scritto: “Ogni bimbo è un essere nuovo, un profeta potenziale, un nuovo Principe dello spirito, una nuova favilla di luce caduta nelle tenebre esteriori. Chi siamo noi per poter decidere che per lui non ci sono speranze?”.

E ancora Silvia Vegetti Finzi: “Ciascuno nasce già inserito in un sogno altrui, già parlato da altri discorsi. Il nome proprio, ad esempio, esprime le fantasie, i desideri, le ansie, le speranze della famiglia. È la prima eredità che riceviamo dalla società e non è sempre facile accettarla”.

Per un bambino che ha anche dei deficit questo bisogno è ancora più forte; la ricerca di una sua identità personale vera si situa in un percorso che corre fra due gravi rischi: la negazione della sua situazione (“non ha niente, è uguale agli altri”), oppure all’opposto l’assimilazione totale con la sua condizione di deficit, malattia, difficoltà ( rimane “il bambino è il suo deficit, diventa tutto deficit”).

La strada principale per restituire a questi bambini il senso del loro posto nel mondo è quella di contribuire a costruire un’immagine di identità capace di tenere insieme il presente e il possibile, ciò che si vede e ciò che si intuisce, ciò che è definito (e anche definitivo) e ciò che è potenziale.

Claudio Imprudente, del Centro Documentazione Handicap di Bologna ha una tetraparesi spastica che gli impedisce totalmente di camminare o correre, ma non di spostarsi; che gli impedisce totalmente di parlare ma non di comunicare, perché utilizza una lavagnetta trasparente sulla quale sono incollate le lettere dell’alfabeto e attraverso questa lavagnetta Claudio Imprudente ogni giorno incontra persone, lavora nelle scuole e con i bambini, comunica col mondo.
Ancora oggi Claudio Imprudente fa riferimento alla prima informazione reale che la sua famiglia ha avuto di lui, quindi anche la prima immagine data dalla società che si è incontrata/scontrata con il “bambino della notte” e si presenta ai convegni così: “Salve sono un geranio!”, spiegando poi: “Mi presento così facendo memoria di ciò che era stato detto a mia madre al momento della mia nascita dal famoso luminare di turno ‘Signora guardi, suo figlio è vivo ma resterà per sempre un vegetale’ e come vegetale allora ho scelto di essere un geranio”.

Della famiglia di Claudio Imprudente e in particolar modo della sua mamma mi ha sempre colpito la capacità di non fermarsi solo a quello che si vedeva e che si vede, e che è così forte: sua madre non ha mai rinunciato per lui a possibilità future e a capire, anche nel dolore e nella fatica, che c’era un bambino da accogliere, per cui valeva comunque la pena di fare dei pensieri pieni di futuro, anche se in quel momento sembrava più facile negargli questo futuro, soprattutto di fronte alla frase “Suo figlio è vivo ma resterà per sempre un vegetale”.

Il primo importante compito che la scuola dell’infanzia ha nell’incontro con il bambino o la bambina che ha anche dei deficit, che arriva prima nella scuola e poi nella singola sezione, è anche quello di accogliere un bambino nella sua interezza e contribuire a restituirgli un’immagine non monodimensionale ma pluridimensionale.

Scrive Andrea Canevaro, uno degli studiosi che più ha contribuito all’integrazione scolastica, lavorativa e sociale dei bambini e degli adulti con deficit: “Un bambino o una bambina disabile ha bisogno di essere riconosciuto per quello che è, accettando il deficit come un dato irreversibile e che va conosciuto, approfondito il più possibile. Ha bisogno di ridurre le sue difficoltà, trovando le risorse in sé, negli altri, nell’ambiente in cui vive, nei coetanei con cui ha amicizia, gioca, studia. È prima di tutto un bambino o una bambina”.

Nello stesso libro che si intitola Quel bambino là… Scuola dell’infanzia, handicap e integrazione si trova la testimonianza di un insegnante delle Scuole dell’Infanzia del Comune di Ravenna: “Ho conosciuto Dario quando si è presentato insieme ai suoi genitori per il colloquio iniziale al momento del suo inserimento a scuola. Con Sonia, la collega della sezione ho vissuto i tanti dubbi e i pensieri che ci premevano. Primo fra tutti il rapporto con l’insegnante di sostegno: è già faticoso andare d’accordo in due figurarsi in tre, e poi saremmo state in grado di gestire la situazione, ce l’avremmo fatta? Alla fine del percorso posso dire che ho imparato che Dario è un bambino, un bambino Down per mappa cromosomica, ma un bambino. È stato questo scoprirlo bambino, con il suo ritardo psicomotorio, con le sue paure ad affrontare le esperienze, con la sua difficoltà ad organizzare gli apprendimenti ma anche con il suo abbandonarsi fiducioso a chi gli si avvicinava con calore che mi ha aperto gli occhi: c’era Dario nella nostra sezione, non la sindrome di Down.”

Allora questo è il riconoscimento: stiamo incontrando un bambino, una bambina; sembra una situazione scontata, ma non lo è affatto in presenza di deficit e se non si dà per scontato questo riconoscimento, scopriremo che è il presupposto fondamentale per una buona comunicazione e risponderà anche a tutti i nostri dubbi, le nostre fatiche, le nostre domande: faccio bene, faccio male a fare così? Ma questo bambino lo posso toccare? Vorrà farsi coccolare? Mi capirà se parlo? ecc.
Senza negare il deficit possiamo riconoscere e scoprire l’essere bambini nonostante il deficit.

Crediamo e sentiamo di avere bisogno di indicazioni molto tecniche, specialistiche, “speciali” per metterci in relazione con i bambini che hanno anche dei deficit.
Ma quali sono i motivi di questo bisogno così forte di rassicurazione e indicazione? Perché questo bisogno è così forte, al punto che manda in crisi tutte le nostre competenze, le nostre conoscenze abituali, proprio quelle che utilizziamo tutti i giorni nel nostro lavoro e che fanno parte del nostro bagaglio professionale, della nostra professionalità e da cui attingiamo spontaneamente in situazioni “normali”?

Perché facciamo così fatica tutti noi, genitori e insegnanti, tecnici e persone in generale, a porci nei confronti di chi ha un deficit con un atteggiamento educativo che riconosca la possibilità di essere prima di tutto bambini, adolescenti, adulti e poi anche anziani?

Lo psicologo genovese Carlo Lepri, che lavora da anni sull’inserimento lavorativo delle persone adulte disabili, si chiede: “Qual è il motivo vero che ci rende così maldestri? Lo dico partendo da me stesso, perché sono sentimenti ed emozioni che nonostante 25 anni di esperienza io ritrovo ancora nel mio cuore. Come mai facciamo così fatica a essere tranquilli nei rapporti con una persona disabile? Perché diventiamo tutti un po’ maldestri, non siamo più spontanei come normalmente si è nel momento in cui si incontra una persona “normale”? Io credo che questo sia uno dei temi che porta al centro di una complessità psicologica veramente importante.
Questa fatica, questa ‘maldestrezza’ relazionale, che ci coglie nel momento in cui ci confrontiamo con qualcuno che non è conforme, che non è normale, che non rispecchia la nostra normalità, è un’esperienza che bisogna riconoscere per potere gestire”.

Questo è un passaggio importante per tutti noi: riconoscere i nostri stati d’animo significa poterli gestire, non esserne troppo spaventati e quindi poter cominciare a ragionare del perché li viviamo.

Facciamo fatica perché il rapporto con la diversità rimanda e fa scattare dentro di noi una serie di rappresentazioni mentali che sono proprio dentro di noi, profondamente dentro di noi: sono immagini interne ma che hanno anche un risvolto di immagine sociale altrettanto forte.
Faccio un esempio che ci può aiutare a capire e quindi a riconoscere questa maldestrezza, questi timori e paure, a volte rifiuto, che investono tutta la nostra persona, la nostra comunicazione verbale e non verbale, che “agiscono”, anche contro la nostra intenzione, nelle nostre azioni e nei nostri atteggiamenti.

L’esempio riguarda la rappresentazione che “vede” il bambino disabile come “malato”.
Questa rappresentazione è il risultato di un approccio medico, pseudo-scientifico che considera la disabilità come una malattia.
È una rappresentazione che consente una costruzione parziale dell’identità perché se una persona è malata non può confrontarsi pienamente con i ruoli sociali della vita quotidiana.
Infatti ci sono moltissimi disabili che sono in cura perenne, sono in continua riabilitazione: fisioterapia, ippoterapia, musicoterapia, iniziano dalla primissima infanzia e non finiscono più.
Perché se una persona “normale” “va a cavallo”, va solo a cavallo, ma se lo fa una persona “disabile” fa “ippoterapia”, e se io vado in palestra faccio “ginnastica”, ma se lo fa una persona disabile fa la “fisioterapia”?
Allora cosa c’è dietro a questo tipo di atteggiamenti, che ci portano verso la costruzione di una identità di una persona che è sempre in riparazione, che è sempre malata, che deve continuamente fare delle cose per poter stare meglio?

Questa rappresentazione amplifica i meccanismi normali di cura e protezione che noi abbiamo nei confronti di tutti i bambini e però fa sì che per i bambini anche con deficit scattino meccanismi di iperprotezione che spesso durano ben al di là dell’età infantile. Quindi una rappresentazione di un bambino sempre da curare, assistere e proteggere. Che quindi corre il rischio di veder ridotte le proprie possibilità di fare esperienze e intrecciare relazioni in maniera anche casuale, non finalizzate a qualcosa, riconosciute come terapeutiche o di apprendimento, ma semplicemente come vivere anche casualmente le occasioni della vita. Pensiamo a quanto è stato importante il Ruolo della Casualità nella formazione della nostra identità.

Questa rappresentazione, così forte e che corre attraverso gli anni, attraverso le epoche temporali, ha una profonda influenza sui nostri pensieri e sulle nostre emozioni e ci limita nell’immaginare quei bambini là come bambini con un futuro possibile diverso che non sia quello del deficit e della malattia, quindi in cura continua.

Riflette ancora Carlo Lepri: “Se uno è pensato come un bambino e se è rappresentato come un bambino malato, da proteggere difficilmente potrà diventare ‘grande’.
Alla lunga farà il bambino, cioè si adatterà a questa rappresentazione, a questo ruolo che in qualche misura gli altri pensano vada bene per lui. Allora i bambini e le bambine disabili non diventano grandi o fanno fatica a diventare grandi non perché non sono intelligenti o perché hanno difficoltà specifica o di settore, ma perché non sono immaginati dagli altri, da tutti noi, come possibili adulti. Perché non abbiamo dentro la testa questa possibilità, questo immaginario verso l’adultità. La costruzione dell’identità adulta comincia da quando uno è piccolo e comincia dalla capacità di immaginarlo che hanno gli educatori, in senso molto ampio, i genitori, il gruppo familiare, e tutti gli educatori che una persona incontra nella sua vita, gli insegnanti.
Alla capacità che tutte queste persone hanno di immaginare la persona disabile come persona che può diventare adulta, e di lavorare per questo, mi verrebbe da dire usando una bella immagine giapponese: ‘vedendo la foresta prima ancora che ci siano gli alberi’.  E questo se ci pensiamo è quello che è accaduto a ciascuno di noi.
I nostri genitori hanno sognato la nostra crescita, il nostro diventare grandi. Quando un genitore chiede al proprio figlio ‘Cosa vuoi fare da grande’ che cosa gli sta dicendo? Gli sta dicendo ‘Io penso che tu puoi diventare grande, che puoi diventare adulto, che puoi avere un ruolo sociale’. Cioè apre un credito, apre una fiducia. Questa è una cosa che facciamo per i bambini normali, perché non lo facciamo con la stessa naturalezza per i bambini disabili?”.

Si apre un credito dunque, si dà fiducia e questo ci fa capire molto bene i bisogni primari che hanno tutti i bambini e le bambine, soprattutto in un contesto educativo e scolastico come la scuola dell’infanzia, bisogni che sono quelli di avere accanto adulti che li possano immaginare dentro un futuro possibile, che solamente allora è molto probabile che lo diventi.

Questa è responsabilità nostra, non c’entrano le intelligenze di ognuno o gli impedimenti psicomotori; la possibilità di tutti i bambini e le bambine di diventare grandi è legata agli atteggiamenti, alle esperienze, ai rapporti affettivi e a quelli educativi.
Si può diventare adulti anche essendo pochissimo intelligenti. Occorre però incontrare le persone capaci di mettere in atto delle “immagini” e una comunicazione che aiuti a costruire, e prima ad accettare, il percorso di crescita.

In comunicazione non esiste il “migliore”, o il “peggiore”. Esiste soltanto il “personale”: ogni comunicazione, infatti, è personale. E per questo, unica. Diversa.

E la presenza di un deficit-diversità può mettere in crisi qualsiasi struttura della comunicazione, a partire proprio dal linguaggio.
Da sempre per definire le persone che hanno anche dei deficit ci si situa tra un eccesso di attenzione e un eccesso di tecnicismi, spesso per la paura di offendere.

Proprio per la potenzialità del linguaggio di formare pensiero e come stimolo a ribaltare concetti, credo che il fuoco non sia tanto nella parola che cambia (handicappato, persona con bisogni speciali, disabile, persona con deficit, diversamente abile, ecc.) ma si trovi nel significato che la parola ha per ognuno di noi quando la usiamo.
E forse, come nel caso di persone con diverse abilità, si cercano termini e definizioni non tanto per sostituire quelli vecchi ma per sostituirne i significati, o almeno per cercare di indicarne altri, non validi forse in assoluto ma in quanto “stimolatori” di nuove percezioni, di nuove immagini, che con uno scarto linguistico spostano l’attenzione dal deficit alla persona.

Qualche volta la comunicazione, verbale e non verbale, può allontanare piuttosto che avvicinare: la paura di sbagliare, di comportarsi in un modo non appropriato, di ferire anche, portata agli eccessi, rischia di bloccare alla nascita la spontaneità di una qualsiasi relazione e dunque di bloccare anche la capacità di attingere dalla nostra professionalità, dalle nostre capacità dimostrate tutti i giorni con i nostri bambini nelle scuole.

L’incontro con i deficit, o con una forma di “diversità” percepita come tale, ci chiama in causa però ben oltre le parole che usiamo, siamo immersi in una comunicazione profonda (per le parti di noi che vengono chiamate in causa), complessa (per tutti gli elementi di diversa natura che la compongono) e estremamente coinvolgente.

E non si può non comunicare, comunicare è un verbo che non ha il suo opposto: la nostra immagine è informazione. Questa comunicazione può non essere intenzionale, eppure esiste. Generalmente, quando si parla di “comunicare” si pensa subito alle parole: in realtà, non esiste una comunicazione verbale isolata, è sempre accompagnata dalla comunicazione non verbale che può rafforzare le parole che pronunciamo, ma anche renderle ambigue o perfino smentirle. Sono i metalinguaggi, il tono della voce, il nostro sguardo, la gestualità a comunicare per noi, anche ciò che non diciamo.

Una comunicazione metalinguistica che comunica ciò che siamo anche in modo indipendente da ciò che vogliamo. E tale comunicazione fa riferimento ai nostri modelli interiori, coscienti e inconsci, alle nostre emozioni, alle nostre rappresentazioni mentali.
Ed è questo il primo nodo da sciogliere: essere consapevoli che nel nostro modo di comunicare, noi trasmettiamo, in aggiunta a ciò che razionalmente pensiamo, una parte del nostro mondo interiore, delle emozioni che le persone e le situazioni suscitano in noi.
Fare i conti con questo spazio emotivo, saper riconoscere quando siamo attraversati da aspettative e curiosità, da tensioni o preoccupazioni ci permette di evitare il più possibile il rischio di irrigidire o rendere stereotipato il nostro stile comunicativo.

È questo che un insegnante mette in gioco di sé quando si fa carico/incontra un bambino/a anche con dei deficit o in difficoltà: la capacità di ascolto e accoglienza inizia dal riconoscimento di ciò che un incontro di questa natura “muove” nei propri pensieri e nelle proprie immagini mentali ed emotive. 
Occuparsi di un bambino/bambina anche con deficit è un compito impegnativo e forte perché costringe a occuparci di ciò che questo provoca in noi, non solo di ciò che il bambino o la bambina porta nella scuola, in sezione, nel gruppo dei coetanei.
Questo è un grande tema da condividere, che tocca la sfera professionale e quella emotiva, personale: ciò che provoca in noi.
È un compito che tocca il nodo centrale della professionalità dell’insegnante e del ruolo della scuola dell’infanzia.

Altro compito importante che la scuola ha è quello di favorire l’apprendimento e la crescita evolutiva, in senso lato. Il processo di apprendimento però è insieme di ordine cognitivo ed emotivo, questo vuol dire che anche le emozioni che un bambino vive e sente condizionano le sue possibilità di crescere e di apprendere: se sono emozioni difficili, immagini negative, senza un futuro immaginato e possibile, questa crescita sarà rallentata e, nei casi più gravi, del tutto impedita. Ecco come il ruolo delle emozioni personali è sempre fondamentale in un processo d’apprendimento, anche quando sono gli adulti a percorrerlo.

Compito della scuola è permettere anche un’elaborazione collettiva di queste esperienze.
Allora proviamo a dare un senso al perché ci si occupa di bambini e bambine che segnalano e hanno, vivono, dei disagi, dei deficit.
Gli insegnanti se ne occupano non in nome del fatto che sono brave persone (anche se si spera che lo siano) o perché animate da spirito caritatevole. Né perché debbano diventare quasi terapeuti, quindi con il compito di prendere in carico il problema, sanare una situazione o riparare qualcosa di rotto, ma proprio per poter svolgere il ruolo di accompagnamento, supporto alla crescita e allo sviluppo cognitivo ed emotivo che è lo specifico di questa professione.

Giuseppe Pontiggia ha scritto nel libro Nati due volte: “Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da noi, da quello che sapremo dare”. E, vorrei aggiungere, potremo dare anche a partire dalla nostra disponibilità ad accettare che l’incontro con un bambino o una bambina che ha anche dei deficit inizia prima dell’incontro fisico, della prima volta che vedo quel bambino là, ma inizia dall’immagine di diversità che abbiamo dentro.

Per questo diventa importante avere spazi e tempi per comunicare tra noi queste immagini, mettersi intorno a un tavolo e avere la possibilità di parlare, di ascoltare, condividere e confrontare le proprie emozioni, la fatica e la gioia: questa è una delle prime strade conoscitive che abbiamo per aiutarci a capire cosa stiamo facendo e perché lo facciamo; quindi anche cosa trasmettiamo con la nostra comunicazione non verbale.
Penso in questo momento a difficoltà o risorse che hanno a che fare con noi come persone e che come persone mettiamo in gioco nell’incontro e nel lavoro con la diversità.
È in questa dimensione che si situa la creazione di momenti di riflessione sulle difficoltà che si incontrano nel gestire quotidianamente la disabilità; fare un lavoro sulle nostre immagini vuol dire cercare di capire che cosa si sta vivendo e avere più chiaro possibile questo quadro emotivo significa anche trovare delle piste concrete operative, nonché elementi arricchenti per altri colleghi.

Suggerisce Gianfranco Staccioli, docente di Tecnologie dell’apprendimento dell’Università di Firenze: “La via d’uscita sembra essere quella di accettare l’idea che la realtà non sta nelle cose, né nella mente che le elabora, ma nell’atto stesso di discuterle e di confrontarsi con il loro significato.
Per far questo occorre da una parte porre in discussione il famoso proverbio ‘vedere per credere’ e cambiarlo in ‘credere per vedere’. Insomma come dice Goodman: ‘La realtà si crea, non si trova’”.

È questo il primo strumento di lavoro per tutti noi che condividiamo spazi, tempi di vita e lavoro con bambini e adulti che hanno anche dei deficit: l’attivazione di una riflessione su quello che si fa e si vive. Molte cose si sanno, poche diventano esperienza vera. Sta in questo passaggio, dal fare quotidiano all’avere un’esperienza di questo fare, la possibilità di un vero apprendimento che non ci lasci ogni volta con la sensazione di non essere adeguati o di stare sulla difensiva.

Per concludere vorrei fare una riflessione su un punto che mi sta molto a cuore, uno fra gli strumenti fondamentali per chi lavora in ambito educativo e scolastico: la documentazione. Forse è anche la meno amata ma dobbiamo fare il possibile per allontanarci dal concetto di documentazione come un’azione inutile, noiosa.

Io penso a una documentazione attiva, e che diventa attiva proprio perché può rimandare alle nostre esperienze, anche e soprattutto emotive, parla di noi, su di noi, delle nostre fatiche, delle nostre difficoltà e degli eventuali piaceri che abbiamo incontrato nelle nostre modalità di lavoro concreto.
Una documentazione costruita giorno dopo giorno, che possa raccontare le situazioni, positive o negative, confuse o particolari, per esempio la prima volta che abbiamo incontrato una bambina o un bambino che ha anche dei deficit o che ha anche altre abilità, nella nostra scuola o nella nostra sezione.
È la possibilità di costruire “un’intelligenza collettiva e reticolare”, da cui attingere, e che si compone delle esperienze e degli scambi con altri nella nostra situazione, strumento ancora più necessario a mio avviso dell’aspettarsi le indicazioni da parte di un’intelligenza superiore, l’esperto che dovrebbe saperne di più. E credo che tutte le istituzioni scolastiche dovrebbero impegnare sempre più risorse e strumenti per favorire questo tipo di documentazione.
Non parlo solo di conoscere i possibili progetti che hanno funzionato, che pure sono importanti anche se difficilmente replicabili in contesti diversi, penso soprattutto a una documentazione chiamata a curiosare, a indagare, a mettere in relazione la propria situazione e a come si è affrontato le situazioni che di volta in volta abbiamo incontrato, il nostro contesto e come le abbiamo vissute noi personalmente, altrimenti si rischia di farle rimanere conoscenze e modalità che sopravvivono solo nella memoria dei protagonisti e poi si disperdono.
Proprio per non dover ricominciare tutto da capo, ogni volta, sapendo e ignorando al tempo stesso, che a pochi chilometri di distanza da noi altri colleghi si sono o si stanno confrontando con difficoltà ed emozioni così simili alle nostre.

Relazione “Comunicare oltre le parole” presentata al Seminario Abilità-Disabilità in Età Evolutiva, Comune di Roma, Dipartimento XI°-III^ U.O, Piano di aggiornamento rivolto al personale docente della Scuola dell’Infanzia del Comune di Roma, 19 marzo 2005, 8° Municipio di Roma.

A Roma si aggira uno Yeti che abbatte le barriere (e si rifugia in una libreria)

È decisamente lo Yeti più accogliente che si possa immaginare: libreria, bar-caffè e postazioni Internet in due locali costruiti e arredati in modo da abbattere qualsiasi tipo di barriera architettonica.
Veramente accogliente e caloroso, “lo Yeti” è un posto speciale, è un luogo dove chiunque, felice di trascorrerci ore da adulto, avrebbe voluto passare anche i suoi pomeriggi bambini, o almeno io me lo sarei augurato.
Ha caratteristiche di accessibilità che sono state pensate e progettate sin dall’inizio della ristrutturazione dei locali di un vecchio “Vini e olio” del quartiere romano del Pigneto: sportelli che si aprono completamente, spazi tra i tavoli, la cucina disposta con adeguati disimpegni, la possibilità di muoversi agevolmente davanti agli scaffali dei libri e dietro il bancone del bar rende la struttura interamente accessibile a ogni tipo di visitatore (anche ad anziani, genitori con passeggino, viaggiatori con ingombranti zaini e valige, ecc.) e al personale che si muove con una sedia a rotelle. Infatti la Cooperativa Integrata “Libera… mente”, che gestisce “lo Yeti”, ha tra i suoi soci fondatori Daniele Lauri che dal 1991 usa e si sposta con una carrozzina. Dall’esperienza comune di un collettivo di amici che nel 2001 gestisce un campeggio in Sardegna e deve inventare come rendere fruibili e accessibili tutte le sue zone (spiaggia, bar, bagni, percorsi, ecc.) nasce l’idea di costituirsi in cooperativa integrata – 5 soci con diversi ruoli e tempi d’impegno – e di sperimentare anche al proprio interno, su di sè, sul proprio deficit – potrei chiamarla una “auto-rilevazione” – come rendere uno spazio architettonicamente ideale per un’accoglienza che in qualche modo incontri lo specifico culturale e la propria vita.
Ma a questo punto si incontrano, non facili da abbattere, le barriere legislative e burocratiche.
E ce ne sono ancora tante!
Nel 2005 in Italia, a Roma, appena passato l’anno europeo del “disabile”, ci troviamo di fronte a un paradosso difficile da credere: la rampa, bellissima e discreta, che permette ai visitatori con problemi di mobilità e permette a Daniele Lauri di accedere ai locali in piena autonomia personale e lavorativa, viene bollata e considerata dagli “esperti” come “un manufatto a servizio della propria attività commerciale” e per questo deve essere abbattuta (lei!, la rampa!), multata dai Vigili Urbani ed essere sostituita con una pedana mobile da rientrare ogni sera; evidentemente non si tiene in alcun conto il valore e il significato di avere un ausilio (la rampa) indispensabile per l’autonomia lavorativa, che può essere gestito senza necessità d’aiuto da chi si muove in carrozzina. “Se devo essere aiutato e assistito a sistemare dentro e fuori ogni giorno la pedana, allora avrò sempre bisogno di una persona”, spiega cinicamente Daniele Lauri. Per fortuna ciò non è ancora successo ma certamente da questa immagine emerge la difficoltà a trovare una mediazione istituzionale che superi un’eventuale carenza legislativa, si esalta una difficoltà che nega la ricerca di un ponte tra l’impossibilità di modificare il suolo pubblico e la necessità di farlo, per garantire, e non solo a parole, anche la possibilità di un inserimento professionale e sociale.
Cosa succede se l’Ufficio Tecnico si impunta? Come scriveva Roland Barthes nei Miti d’oggi: “Vedere qualcuno non vedere è il modo migliore per vedere intensamente ciò che egli non vede: così al teatro di marionette sono i bambini che suggeriscono a Guignol quello che lui finge di non vedere”. Che fare se l’istituzione municipale non sta al passo con un quartiere che al contrario è sensibile per “istinto”? Già, il Pigneto, tra la popolare via Prenestina e l’antica via Casilina. Un quartiere particolare, a Roma, che sta diventando di tendenza anche per la sua popolazione eterogenea: universitari fuori sede, immigrazione di seconda generazione, giovani coppie e vecchi romani di e dalla lunga memoria. È in questo contesto che la libreria-caffè “lo Yeti” è diventata punto di aggregazione per tutti gli abitanti del quartiere, pulsioni vitali che si sono consolidate in questi quasi due anni di apertura, testimoniate anche dai numerosi ragazzini che la frequentano. Due sono le postazioni per l’uso del computer da cui si può, con contributo minimo, navigare sulla rete.
Nella sala lettura si possono leggere riviste, quotidiani e fumetti bevendo e mangiando comodamente a colazione o all’aperitivo, all’ora del the o al brunch. La proposta gastronomica va dalla tradizione mediterranea – salumi e formaggi, cous-cous, tapas, hommus – sino al salmone islandese, e ancora ottima pasticceria e scelta di vini. Tutti i prodotti sono di cooperative e agriturismi che ne certificano la qualità e la provenienza da agricolture biologiche.
La libreria invece dedica un’attenzione particolare alle produzioni indipendenti e alla piccola editoria, con una sezione dedicata al fumetto d’autore e un catalogo indirizzato in particolare alla letteratura per l’infanzia, la didattica e gli ausili pedagogici. Sempre in movimento la libreria propone e ospita numerose iniziative, possiamo trovare presentazioni di libri, spesso abbinate a dei dj-set dal vivo e la possibilità per piccole case editrici e per giovani, e vecchi, autori di presentare le proprie produzioni. Inoltre, insieme ad altre organizzazioni del quartiere, organizza eventi di strada che coinvolgono centinaia di persone: reading di poesie, performance teatrali, concerti, lezioni di tango che portano la festa e i libri per strada.
Accessibile in tutti gli spazi, anche in quello più misterioso e nascosto del portafoglio, dato che tutto è a prezzi bassi, c’è la possibilità per chi si muove in carrozzina di lasciare l’auto, munita di contrassegno, ai margini dell’isola pedonale del Pigneto che vi porterà direttamente a “lo Yeti”, uno Yeti di sapore nordeuropeo, unico nel suo genere mitologico che si trova improvvisamente (pieno) in surplus di calore che distribuisce a tutti noi dalle ore 10 alle 23 di tutti i giorni, tranne il lunedì che è chiuso.

Libreria-Caffè “lo Yeti”
Quartiere Vigneto, via Perugina 4, Roma
Tel/fax  06/702.56.33
e-mail: info@loyeti.org
sito web: www.loyeti.org