Skip to main content

autore: Autore: Francoise Lefevre

Il piccolo principe cannibale

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Imparare ad amare e tentare di guarire un bambino autistico è molto più semplice quando lo si immagina come un Principino. Imparerò il tuo linguaggio. Penetrerò nel tuo silenzio. Dimenticherò ciò che credo di sapere. Ti amerò. Ti rispetterò infinitamente. Rispettandoti io, anche gli altri ti rispetteranno. E’ spettacolare. Al di fuori dei litigi così violenti, ci siamo abituati a parlarci con calma. Per la strada o altrove la gente si chiede chi sia questo ragazzino a cui mi rivolgo con tanta deferenza. Mi è capitato di rispondere: "Ma come, è il Principe Sylvestre! Non lo sapeva? Vive in un misterioso regno, dove è l’unico a conoscere le strade che portano ad un tesoro nascosto. A volte accetta di disegnare una pianta. Ama disegnare. Ma attenti ai tranelli! Ama anche moltissimo vedere gli altri cadere nelle trappole!". Non m’importa sapere ciò che gli psichiatri pensano o non pensano di questi giochi in cui sei sempre un altro. E’ un metodo che ti fa progredire, perché "l’altro" mi dice cose su Jean che si è lasciato lì nel suo cimitero. Jean, che secondo te "non è molto interessante e bisogna dimenticarlo". Soffro tanto quando penso a Jean, ma so che rinascerà. So anche che non devo parlartene. In fondo sono fortunata a poter comunicare nei momenti in cui decidi di essere un altro. Sei sempre tu a decidere quando il gioco comincia. Quando finisce. Sei tu che distribuisci i dadi. Mi piace seguirti nei sentieri del tuo regno. Non ho paura di questo irrompere di parole di cui sono l’unica testimone. L’unico orecchio. Non è meglio pensare che sei un Principino invece di un bambino psicotico che presenta disturbi del comportamento e forti tendenze autistiche? Queste etichette non m’interessano, etichette così tristi e così anonime come le pareti di un ospedale. Di fronte a te, sono davanti ad un essere che bisogna salvare, un essere sepolto sotto le macerie. Un murato vivo. Strapparti via di là. Liberarti da quelle pietre aggrovigliate.   Estrarti da questa città morta. Ogni mattina respingo il fiume di parole che vorrebbe ingrossare il libro interrotto. Certo, non mi lasci il tempo. Né lo svago. Né l’aria. Né il fiato. Ma ho scelto. Ti ho scelto. Apro la finestra per respirare, come prima di affrontare un dolore. Apro la finestra per far uscire tristezza, inquietudine, lo strazio di non aver tempo per scrivere. Non aver tempo per riflettere. Non avere il gusto di respirare solo per me. Se gonfio i miei polmoni, è per te. E’ per trasformare questo ossigeno in pazienza. In amore. In resistenza. Durante questi quattro anni, il più duro è stato quello in cui ho subito non il tuo mutismo e il tuo silenzio, ma le tue grida atroci e le tue rabbie pazzesche. Credo che avrei potuto ucciderti perché tu smettessi di urlare così, facendomi diventare pazza. Per me le cose sono diventate più sopportabili quando ho smesso di affrontarti e ti ho immaginato urlante dentro le tue mura, invisibili per gli altri, ma che si restringevano attorno a te. Allora ho smesso di urlare a mia volta. Non ho più avuto questa voglia di picchiarti né di fracassarti la testa a causa delle tue urla mostruose, stridenti, ripetitive, che erano una tortura. Pensavo di perdere la ragione mentre urlavi. Capisco l’espressione "vedere rosso". Ho visto rosso più di una volta. Ma dal giorno in cui ho fatto tacere queste pulsioni d’infelicità e quando ti ho guardato mentre urlavi nel tuo deserto, mi sono servita di tutto per andare verso di te, per fartelo sentire e sapere. E perché tu mi vedessi, infine. Mi sono servita delle mie mani. Dei miei capelli che sono lunghi. Della mia bocca. Della mia lingua. Dell’acqua tiepida. Della doccia. Del profumo. Di Mozart. Delle mie braccia. Delle mie lacrime. Della mousse di cioccolato. Della mia forza. Del mio alito. Dei miei denti. Come dopo una lotta, un corpo a corpo senza pietà, t’inchiodo a terra. Ti cavalco e ti tengo fermi i polsi. Scandisco le sillabe del tuo nome. Aspetto che tu non gridi più. Allora allento la presa, prendo le tue mani nelle mie e le passo sul mio viso, fra i miei capelli. Ti dico che anch’io piango, a volte. Ti dico ancora: "Sei mio figlio! Il mio bambino. So che mi senti. Se capisci, muovi la mano. Così!". E ti faccio una smorfia. Subito distogli lo sguardo per nascondermi l’abbozzo del tuo sorriso… Jean! Sylvestre! Ascolta. Ti amo. Parlerai. Masticherai. E a sei anni frequenterai il corso preparatorio della scuola del paese. Le mie giornate sono solo fatte di TE. TE. TE. T’insegno i colori, gli odori. T’insegno a non avere più paura. Registri con una rapidità fenomenale. A cinque anni, quando hai pronunciato le tue prime parole, ti ho parlato di amici o di conoscenze, ti ricordavo un tale avvenimento, un tale artigiano venuto a fare una riparazione, un tale amico venuto dall’estero che ci rendeva visita. Quando avevi soltanto due anni, con mio grande stupore, mi ripetevi i nomi, anche quelli più complicati. Così, durante tutto questo periodo di silenzio, avevi osservato tutto, integrato tutto. Ho messo a profitto le tue capacità di ricordare. A tre anni sapevi già leggere le note, l’alfabeto e le cifre. Siccome non parlavi, avevi elaborato un sistema di schede che scambiavamo e di scrittura a colori sulle pareti della tua stanza; ciò sembrava piacerti molto. Fammi vedere la lettera G. Ed ora il numero 8. Portami le due lettere che formano il suono PA. E via di seguito. Stessa cosa per i colori. Il nome degli alberi. Dei fiori. Degli animali. Si trattava, per me, di guadagnare tempo sull’anno scolastico obbligatorio. Quella scuola a cui bisognerà rendere conto. Ero l’unica a conoscere tutti i progressi che si compivano. Nessuno poteva verificare ciò che affermavano, perché non facevi più niente in presenza di una terza persona, anche intima, o allora sbagliavi tutto apposta. Sembrava che raccontassi storie. Spesso leggevo negli occhi degli altri una lieve commiserazione. Il rovescio di questo metodo, che consisteva nel servirsi della tua prodigiosa memoria, fu di impedirti di ancorarti ad una specie di automatismo. Difatti se avessi scritto la A vicino alla porta della tua stanza e se il numero 10 scompariva dietro la doppia tenda della finestra, non accettavi che si potessero usare tutti questi segni altrove che al loro posto iniziale. Bisognava sempre rompere questi meccanismi. Inventare altri percorsi, affinché tu ammettessi il fatto che l’alfabeto poteva essere letto fuori della tua stanza, e per non sentirti più dire: "A, che è vicina alla porta. 10, nascosto dalla tenda. Z, come Zorro, vicinissimo al pavimento". Quando impari qualcosa di nuovo e io rompo lo stampo per insegnartelo in un altro modo, ciò avviene non senza provocare danni in altri campi. Me la farai pagare sempre molto cara, la tua esperienza.

Francoise Lefevre, "Il piccolo principe cannibale", Padova, Franco Muzzo Editore, 1993.

La forza delle parole
commento di Giovanna Di Pasquale

 Un libro racconta una storia. Ma anche la storia di come si è giunti a raccontare quella storia. E’ un incastro di scatole cinesi che lascia al lettore la libertà di inventarsi un modo di accostarsi alle pagine e di seguire esplorazioni meno consuete. Anche questo libro racconta una storia: una madre e un bambino, piccolo principe cannibale, ed i misteri della quotidiana vicinanza. Accanto, e spesso ingarbugliate come matasse di lana, corre un’altra storia: quella di una donna, scrittrice, che non vuole abbandonare i suoi progetti ma che ha paura di ciò che sente. Forse perché se una donna vuole scrivere occorre che abbia "una stanza tutta per sé" ed anche un forte sentimento della propria persona.  La contrapposizione è rifiutata e nell’intreccio le storie si disegnano in una sola macchia, l’esperienza diventa materia attorno a cui imbastire la trama della narrazione. Ed ecco che la donna-madre-scrittrice inizia il suo racconto. Racconta la ricerca di parole con cui esprimere ciò che vive come madre di un bambino che è lontano, distante dalla realtà e dai suoi linguaggi usuali. Racconta la scoperta di se stessa e dell’altro, il costituirsi di una coppia che si erge solitaria di fronte ai giudizi, lontani dalla comprensione, che gli altri lanciano con gli occhi e con i gesti. La storia diventa allora e soprattutto ricerca di senso per la sofferenza provata, ricerca che ha bisogno di una lingua per dirsi, per affermarsi con significato. Francoise ha bisogno di trovare le parole. E le cerca nella testa e nel cuore nella mente e nel corpo. La parola che è senso e segno, che è azione e riflessione. La parola che ha un peso ed un valore se è capace di mettere radici nel silenzio, di avere limiti. Se accetta di non rappresentare l’universalità delle cose ma la parzialità dei punti di vista e l’aderenza alle esperienze vissute. La parola frammento, lontana dai proclami e vicina alla vita.