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autore: Autore: Giulia della Giovanpaola

Nicola, mio figlio

Il racconto di una madre con un figlio diverso, un bambino ammalato di sclerosi tuberosa.
Sono oramai tante le testimonianze di genitori pubblicate su libri e riviste ma ognuna sembra essere sempre nuova, sembra aggiungere qualcosa di non ancora detto al grande discorso di come accogliere questi bambini in difficoltà e di come aiutare chi gli sta attorno.Tra un mese mio figlio compirà nove anni ed io mi sono ritrovata spesso in questo periodo a pensare alla nostra vita insieme. Non avevo ancora diciannove anni quando ho dato alla luce Nicola e ricordo quel giorno come se fosse ieri ero cosi fiera di me, Così orgogliosa di lui, così felice per noi.
Mi perdevo nel guardare quel fragile corpicino di cinquantadue centimetri e mi chiedevo come fosse possibile aver donato vita ad una creatura così perfetta. Mio figlio era un vero e proprio miracolo ai miei occhi. Purtroppo, però, Nicola non era perfetto, il suo cervello nascondeva tuberi e calcificazioni, la pelle lasciava intravedere macchie ipomelanotiche, il suo viso non aveva ancora rivelato i numerosi angiofibromi che sono poi comparsi negli anni di vita successivi, insomma, mio figlio era affetto di malattia genetica multisistematica; la sclerosi tuberosa.
Non e’ stato accettato da molte persone perché‚ inaspettato e indesiderato, in seguito la sua anormalità ha fatto sì che anche lo stesso padre e i nonni potessero arrivare a rifiutarlo.
Eppure io continuo a contemplare con ammirazione il suo sguardo limpido la sua ingenuità, la sua purezza. L’Amore che nutro per mio figlio è un Amore per se e in se, non è alimentato né da false speranze né da desideri di grandezza. Il dolore che siamo costretti ad affrontare e a condividere giorno dopo giorno ci unisce in un vincolo vitale che ci fa comprendere il senso profondo della vita.
Nicola a otto anni non sa leggere, ma conosce perfettamente la prassi ospedaliera.
Nicola a Otto anni non sa scrivere, ma sa che dopo ogni anestesia potrà riabbracciare la sua mamma.
Nicola a Otto anni non sa disegnare ma sa che tre volte al giorno deve ingerire almeno dodici farmaci per sedare l’epilessia che lo ha colpito in tenera età. Nicola non sa contare, ma sa riconoscere l’insorgere di una crisi riuscendo poi a gestirla autonomamente e una volta passata mi guarda con quei suoi occhi grandi e ancora lucidi dal convulso epilettico e mi dice: “Mamma è passata la crisi, hai visto che non mi successo niente”.
Nicola non sa fare tante cose che fanno i suoi coetanei, ma ha già capito, a soli otto anni, che piangere il più delle volte non serve a niente e che al contrario e’ più proficuo lottare piuttosto che disperarsi.
Sono la mamma di un bambino portatore di handicap e sono molto fiera di mio figlio. Gioisco di ogni sua piccola conquista vivendola come un miracolo e non mi dispero perché‚ non fa abbastanza bene o non e’ abbastanza bravo, perché‚ non esiste un metodo capace di misurare l’ abbastanza dei propri figli.
Credevo che Nicola non avrebbe mai parlato ed invece un giorno mentre borbottava e urlava come di suo solito, mi guardò fisso e disse “Mamma!”. Non è descrivibile la sensazione da me provata in quel momento.
Ho sentito in me una tale emozione di pura felicità che lacrime di gioia sono salite ai miei occhi e mi sono sentita improvvisamente viva.
E poi quel suo sorriso che sprigiona amore e gratitudine ogni volta che si schiude su quella bocca angelica! Un sorriso che nonostante gli anni non cambia mai. Quel sorriso è per me un dono inestimabile.
Nicola e, il miracolo della mia vita e se c’è tanta sofferenza in me non deriva tanto dalla sua patologia, quanto piuttosto dal male che ci viene inflitto dalla gente quando ci respinge ci giudica e ci critica.
Il vero dolore che ho provato come madre è stato quando gli stessi ospedali non ci hanno saputo dare ricovero ed assistenza adeguati. O quando una delle innumerevoli supplenti scolastiche ha dato uno schiaffo a mio figlio davanti ai miei occhi. Oppure quando un medico mi ha accusata di avere picchiato mio figlio senza invece capire che le forti scosse epilettiche che lo colpiscono più volte al giorno lo fanno cadere violentemente a terra o ancora quando altre madri allontanano i loro figli dal mio dandomi dell’irresponsabile perché porto fuori un bambino con una malattia infettiva, ed invece ha il viso pieno di lesioni cutanee dovute ad una specifica sindrome.
Mi sono sentita ferita quando compagni di scuola di mio figlio hanno approfittato della sua ingenuità per divertirsi alle spalle di un bambino che sta cominciando ad avere consapevolezza del proprio handicap e che inconsciamente ha già iniziato a lottare per non essere un diverso. Ho sofferto tutte le volte che mi è stato negato aiuto dal Provveditorato, dall’USL e dal Comune affinché potessi crescere mio figlio dignitosamente domandando integrazione non esclusione.
Non mi sento in colpa per avere sempre voluto il meglio per lui è desiderio comune di ogni genitore, ma mi sento in colpa per non essere riuscita a scavalcare le barriere burocratiche che hanno fatto in modo che mio figlio non si sia potuto nemmeno avvicinare al meglio.
Mi sento in colpa per non essere stata capace di trovare in po’ di giustizia in questo mondo che sembra prodigarsi tanto per i diritti umani. Non mi perdono il fatto di avare avuto poca voce per denunciare a tutti che ci sono bambini che soffrono, benché‚ abbiano genitori amorevoli accanto, poiché questi genitori non sanno a chi rivolgersi e perché il più delle volte occorre mendicare l’aiuto dovuto.
Nonostante siano passati nove anni da quando la mia battaglia e’ iniziata ogni volta che vedo mio figlio correre verso un riparo sicuro per proteggersi dalle crisi epilettiche urlando “Mamma, mamma ho una crisi, non mi succede niente vero?” tutto intorno a me si ferma e guardo che si china violentemente in avanti e poi si irrigidisce diventando pallido come la morte ed inizia il rantolo per la ricerca di quell’ossigeno che respiriamo senza accorgersene ma che per lui sembra scarseggiare. Ed il rantolo rimbomba nella mia testa e sembra non finire mai e vorrei poter dividere la mia reazione d’aria con lui, vorrei poter prendere su di me tutte le sue pene, le sue paure, le angosce, ma non posso e l’unica cosa che mi resta da fare è quella di fargli capire che gli sono vicino, accarezzandolo e ricacciando indietro le lacrime causate dell’impotenza che mi attanaglia il cuore.
Poi, lentamente, dopo un lasso di tempo che mi pareva un’eternità, l’equilibrio si ristabilisce e il suo visino riprende colore, il respiro si regolarizza, lo sguardo torna attento, ma la voce è ancora un po’ alterata, l’occhio è lucido ed ora ha un alone viola attorno, le manine gli tremano ancora.
Nonostante tutto mi sorride, fissandomi con uno sguardo colmo d’amore misto a sgomento come per ringraziarmi di essere li, accanto a lui.