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autore: Autore: Gualtiero De Marinis

Non solo horror

Il primo film su Frankenstein è del 1910, ma è solo nel 1930, dopo l’avvento del sonoro, che il personaggio riceve la sua consacrazione definitiva. Il film di James Whale, con Bela Lugosi come protagonista, è un horror d’azione dove i “sentimenti” del mostro non trovano posto. Da allora i remake si susseguono instancabilmente.

Il fatto è che Frankenstein non l’ha mica chiesto lui di nascere così. Lui è il risultato di un esperimento scientifico e, come capita spesso in quei casi, le valutazioni estetiche non vengono certo considerate prioritarie. Anche se poi questo è un trucco, sembra quasi un effetto secondario, un rimediabile inconveniente, mentre in realtà è una cosa essenziale. E la prova è che i tentativi di costruire l’uomo perfetto o la donna perfetta che rispondessero cioè a caratteristiche di armonia, proporzione e venustà, non hanno mai avuto un successo paragonabile alla storia che stiamo raccontando.
La storia che stiamo raccontando nasce in letteratura nel 1816, passa rapidamente al teatro e poi approda al cinema nel 1910 (Frankenstein con Charles Ogle, prodotto dalla Edison) per ricomparire dopo un lustro (Life Without Soul di Joseph W. Smiley) e dopo un altro ancora (Il mostro di Frankenstein di Eugenio Testa con Umberto Guarracino). Anche se bisogna aspettare l’arrivo del sonoro perché questa riceva la sua consacrazione ufficiale con il film di Whale. Le ragioni per cui questa storia è sopravvissuta agli anni e alle stagioni sono svariate.
Tra le tante considerate questa. Il dottor Frankenstein è un uomo di scienza, è l’uomo che vuole strappare il segreto essenziale alla natura, illuminista, laico, è lui a difendere la sua Creatura contro l’ignoranza terrorizzata della gente del luogo. Il barone Frankenstein è un pazzo, un aristocratico che si crede un superuomo, è l’uomo che vuole farsi Dio e sostituirsi a lui nel momento supremo della creazione della vita. Il mostro Frankenstein è un bruto, ha un corpo informe segnato da violente cicatrici, non conosce nulla della vita e, ad ogni nuova esperienza, reagisce con violenza tremenda. La creatura Frankestein è un corpo colpevolmente lanciato nel mondo senza paracadute, ha un animo di bambino, un fondo di tenerezza, una goffaggine essenziale che lo porta inconsapevolmente a sbagliare sempre i luoghi, i momenti e i comportamenti. Quattro personalità per due soli personaggi e per un unico nome (si chiamano tutti Frankenstein). Niente male come complessità per una banale storia d’orrore, per un testo letterario che comunque non viene annoverato tra i tesori dell’umanità. Una storia che resta in testa, che non smette di riaffacciarsi al cinema neanche adesso che è passato tanto tempo.

Hrmph! Roar!

La consacrazione dicevamo avviene nel 1931. Si parte con Robert Florey, immigrato francese, che comincia a scrivere una sceneggiatura per la Universal. L’attore che dovrà interpretare la Creatura si chiama Bela Lugosi, immigrato ungherese, il direttore della fotografia sarà Paul Ivano, immigrato russo, il make-up sarà a cura di Jack P. Pierce, immigrato greco, la produzione di Carl Laemmle, figlio d’un immigrato bavarese. Tutto questo non è un caso. Hollywood all’epoca pullulava di pezzi d’Europa schizzati via dal cuore nero del nazismo in progresso. Però ammetterete che si tratta di una bella coincidenza il fatto che proprio una rapsodia di nazionalità attaccate l’una all’altra venisse chiamata a raccolta attorno alla storia di un corpo rappezzato, composto da parti diverse, provenienti da cadaveri diversi.
Poi le cose vanno diversamente. Florey firma un contratto con la Universal nel quale gli viene assicurato che sarà lui a curare regia e sceneggiatura. Peccato che con incredibile naivété Florey non s’accorga che in nessuna parte del contratto viene specificato il titolo del film. L’altro problema è l’attore. Tenete conto che l’affermarsi del sonoro aveva prodotto una bella rivoluzione nel cinema. Dalla sera alla mattina il pubblico aveva scoperto che attori dallo sguardo appassionante e criminoso possedevano una voce chioccia e una dizione inaccettabile. Proprio nel 1930 Lon Chaney, il più grande di tutti, era riuscito a morire per un simbolico cancro alla gola. Gli attori che stavano emergendo in quel momento possedevano naturalmente una ragguardevole fotogenia, un portamento elegante, un volto espressivo e, ciò che più importava all’epoca, una bella voce. Ora era piuttosto difficile convincere uno di loro a recitare, sotto un trucco tanto pesante da rendere difficile la riconoscibilità, un ruolo in cui tutte le battute si riducevano a qualcosa come "Hrmph! Roar!".
Lugosi infatti non la prende bene e si lamenta di tutto, del ruolo, delle battute, del trucco e di Jack Pierce. Di tutto questo restano giusto un paio di rulli girati come prova. Anzi non restano neppure perché i rulli vanno perduti e di loro resta giusto il racconto. Florey intanto capisce d’essere stato un gonzo, Laemmle passa la regia a James Whale e questi sceglie come protagonista il semi-sconosciuto Boris Karloff, inglese come lui. E questo è ciò che è rimasto e che ancora oggi possiamo vedere. Il resto sono chiacchiere, anche se sono tante.
Una chiacchiera la riporta Lugosi che sostiene di avere personalmente segnalato alla produzione il nome di Karloff (circostanza smentita peraltro da tutti gli altri coinvolti). Del resto i rapporti Lugosi-Karloff sarebbero rimasti tesi per lungo tempo, al punto da far dire a Lugosi di aver creato lui il mostro Karloff, un mostro del tutto irriconoscente che gli si era rivoltato contro. In più, immaginate il rancore di Florey, quello che per primo aveva avuto l’idea, quello che aveva creato Frankenstein e che poi s’era visto soffiar via da Whale tutto il merito. E che dire di Jack Pierce, l’unico che poteva dire a buon diritto di aver creato con i suoi trucchi il mostro, quei trucchi che sarebbero poi stati ricopiati pedissequamente nei film successivi e su cui lui non avrebbe più preso una lira di diritti. Anche lui, anni più tardi, poteva ben lamentarsi di aver creato un mostro irriconoscente.
Non c’è nulla da fare. Non c’è nulla di più contagioso della storia di un tale che gioca a fare Dio. Dopo un po’ tutte le persone coinvolte cominciano a sentirsi nella stessa posizione, pronti a scacciare le proprie creature dall’Eden se queste non si mostrano docili e grate.

Hisss!!

Il primo Frankenstein incassa una barca di soldi, una marea di moniti moralistici e l’imperitura riconoscenza di tutti gli spettatori, anche futuri. Il secondo va più a fondo. La Universal capisce che con una storia del genere può vivere di rendita per anni (in America chiamano questa cosa una franchigia, per intenderci quella cosa che è capitata con Rocky, Rambo, Arma letale ecc…). Whale capisce che c’è ancora del materiale nel libro della Wollestonecraft che è possibile sfruttare. Karloff, che finalmente può pagare le rate della casa, capisce d’aver fatto la scelta giusta. Le sue battute di dialogo saranno pure dei banali suoni disarticolati, la lavorazione sarà pure estenuante (da quattro a sei ore ogni mattina per il trucco), ma intanto il suo nome è già una leggenda.
Far resuscitare Frankenstein, morto nell’incendio del mulino alla fine del primo episodio, era appena una formalità. Così come lo abbiamo creato una volta, pensavano gli Déi della Universal, possiamo crearlo di nuovo. Il problema vero a quel punto era dargli moglie. Ora, come potete capire, un conto è riuscire a convincere un attore a mascherarsi orribilmente e a bofonchiare soltanto "Hrmph! Roar!", un conto è trovare un’attrice disposta a mostrarsi all’occhio della camera con il volto disegnato dalle cicatrici, sapendo anche che la sua unica battuta di dialogo sarà "Hisss!!". Elsa Lanchester ci sta. Un po’ perché l’unica cicatrice che compare sul suo viso è appena sotto il mento e non si vede quasi mai. Un po’ perché in realtà quello non è il suo solo ruolo nel film (l’altro è quello di Mary Shelley che introduce la vicenda con un abito da mille e una notte confezionato a mano da diciassette sarte messicane). E un po’ perché non aveva niente da fare mentre suo marito Charles Laughton era impegnato in un altro film.
Il risultato è che la moglie di Frankenstein non ha nulla di fisicamente repellente (anzi ha una mèche bianca nei capelli, vagamente ispirata alla regina Nefertiti, che è ormai un’immagine classica del cinema). In ogni caso che gli Déi della Universal si preoccupassero di dare una compagna al mostro rivela comunque una qualche gentilezza d’animo. Ma la cosa più interessante di questo La moglie di Frankenstein (1935), l’episodio ancora da utilizzare che Whale ripesca dal libro di Mary Shelley è quello dell’incontro con l’eremita.
Già nel primo Frankenstein, una delle scene più controverse, quella della bambina gettata in acqua, era stata una spia importante. Frankenstein è sulla riva con una bambina che getta dei fiori nell’acqua. I fiori galleggiano. Per lui la bambina è come un fiore. La bambina però non galleggia. Come al solito lui si trova a dare le risposte sbagliate al momento sbagliato, ma nessuno potrà mai dubitare della sua purezza d’intenti, della sua gentilezza d’animo. Nel secondo Frankenstein tutti gli abitanti del paese sono alla caccia del mostro. Lui non sa neanche il perché, ma scappa. L’unico ad accoglierlo è un eremita che lo tratta in maniera umana, gli insegna un po’ a muoversi, gli insegna qualche parola (finalmente Karloff può pronunciare battute significative del tipo "buono", "cattivo", "amico"!). Per Frankenstein è una boccata d’aria fresca. Poi arrivano due cacciatori e la storia ricomincia uguale. Il fatto è che l’eremita è cieco e quindi non può vedere le fattezze del mostro. Ovvero vede meglio degli altri, senza farsi fuorviare dall’aspetto esteriore. E’ la stessa cosa che succede a Dolarhyde, il protagonista di "Drago rosso" di James Harris, le cui infermità morali sono decisamente superiori a quelle fisiche, quando incontra Reba McClane. Lei è l’unica a non discriminarlo, a non trattarlo come uno scherzo di natura proprio perché non può vedere la sua deformità esteriore (al cinema tutto questo è stato filmato da Michael Mann col titolo di Manhunter). E’ il caso in cui due mancanze si completano e invece di costituire un’impedimento alla comunicazione, ne sono anzi la causa.

Quel che resta del mostro

La moglie di Frankenstein esce nel 1935 e a quel punto tutta la mitologia frankesteiniana è legittimamente fondata. Da quel momento in poi assistiamo a variazioni sul tema, combinazioni diverse, ma sostanzialmente quel che c’era da dire è già lì. Da quel momento Frankenstein incontra Dracula, l’Uomo Lupo, si fa ridicolizzare da Gianni e Pinotto (e qui siamo ancora negli anni ’40, ancora in età classica, ancora alla Universal). Cambiano gli attori. Bela Lugosi in Frankenstein contro l’Uomo Lupo riesce a riprendersi il ruolo perduto dodici anni prima, poi il suo posto lo prende Charles Strange. Quindi arrivano gli inglesi della Hammer con Peter Cushing che fa il dottore e Christopher Lee che fa la creatura.
Ci sono state nel frattempo varie dispute sui diritti d’autore. Una tra la Universal e Balderston, l’autore dell’adattamento teatrale su cui Florey aveva basato la sua sceneggiatura. La cosa ècuriosa perché poi neppure il nome di Florey compare nei titoli di testa del primo Frankenstein (almeno nelle copie americane). Ma tutto questo conta poco. Frankenstein ormai è diventato un patrimonio di tutti, una figura riconoscibile (anzi indimenticabile). Nel ’58 rimedia anche una figlia (regia di Richard E. Cunha) e lo stesso anno si vendica (regia di Terence Fisher). Tre anni più tardi Benito Alazraki in Messico dirige Frankenstein el vampiro y Cia. Nel ’65 va in giro per lo spazio (Frankenstein Meets the Space Monster di Robert Gaffney) e l’anno dopo sbarca in Giappone per merito di Hinoshiro Honda (Frankenstein alla conquista della Terra). Quasi contemporaneamente l’uomo più fantasioso quantomeno nella scelta dei titoli, William Beaudine, gira Jesse James Meets Frankenstein’s Daughter. Nel 1967 è in Turchia per "Killing" contro Frankenstein di Nuri Akinci. Nel 1970 in Spagna per Jess Franco (Dracula contro Frankenstein, doppiato due anni dopo da La maldici¢n de Frankenstein), nel ’71 sua figlia Š in Messico con Santo contra la hija de Frankenstein. Nel ’74 esce Frankenstein junior di Mel Broooks che ripercorre con precisione ammirevole tutti i luoghi sacri della frankensteinologia riuscendo a produrre un film esilarante e intelligente. E’ Brooks, tra l’altro, il primo e l’unico a dare non solo una moglie a Frankenstein, ma pure una vita coniugale, cosa che poi lui (Peter Boyle) trova anche piuttosto deludente. Molto meglio ballare il tip tap sulla scena assieme a Gene Wilder.
Definitivamente oggi Frankenstein non è più di nessuno. E’ patrimonio di tutti come l’aria che respiriamo. Non passa lustro senza che qualcuno tenti di riportarlo ancora una volta in scena (ci ha provato recentemente Branagh con De Niro) pensando di trovare risvolti inediti, interpretazioni originali, ma lui resiste a ogni tentativo, refrattario, un po’ ottuso, con l’aria di chi non capisce o finge di non capire. Frankenstein rimane se stesso, come ogni storia millenaria che si racconta da sempre e che da sempre contiene qualcosa capace di spiegare la realtà. Cosa che capita alla piccola Anna nello Spirito dell’alveare di Victor Erice. Nel paesino di campagna in cui vive è arrivato il cinema ambulante. Nel più grande magazzino del paese si proietterà Frankenstein. Lei osserva ad occhi sbarrati la sequenza dell’incontro della bambina col mostro. Poi torna a casa, va in giro per i campi e in una casupola abbandonata incontra un fuggiasco, un disertore della guerra che infuria, un ricercato dalla Guardia Civil, un ribelle, un mostro. Poi l’uomo muore, ma intanto Anna crede d’aver capito qualcosa in più della realtà.