Skip to main content

autore: Autore: Nicoletta Ferrari

Storie vere

E’ sicuramente positivo il fatto che recentemente vi sia stato sulla scena editoriale un forte incremento di libri scritti da persone handicappate, che non parlano per sé o solo per sé, ma per chi non può o non sa parlare.
Questi testi hanno contribuito a dare voce agli handicappati, valorizzando la loro capacità, la loro originalità, le loro differenze e, oltre ad avere aperto una finestra su un mondo sconosciuto ai più, contribuendo perciò a smantellare alcuni pregiudizi o qualche stereotipo, sono anche di grande aiuto a chi vive questa condizione, proprio grazie all’energia e alla voglia di non arrendersi che queste pagine sprigionano.
Infatti da queste storie emerge una grande vitalità e una forza d’animo, come se la disabilità potesse diventare quasi un’opportunità per cercare e scoprire nuove risorse e possibilità, come si vede bene dalle parole di uno degli autori di autobiografie che ho recentemente letto: "Posso testimoniare come per me la malattia abbia rappresentato l’inizio della liberazione. (..). Da ciò che per il mio corpo è stata una mutilazione, la potenzialità spirituale e quindi la creatività ha avuto dei vantaggi".(1)
Tante volte infatti, l’handicap induce a ricercare le sorgenti del proprio essere, sottolineando la distanza tra quello che è fatuo e quello che è di valore: è una situazione che ti obbliga a riflettere, a crescere, ad essere meno distratti nel confronti della sofferenza altrui e più vivi.

Il vantaggio di non nascondere i propri limiti

Tutte le testimonianze di gente comune che vivono quotidianamente la realtà dell’handicap, in prima persona o nella persona di un familiare, raccontano delle difficoltà incontrate, degli amori negati, della disperazione, dello stupore o della derisione, ma anche della possibilità di vita e di convivenza con un deficit fisico anche grave.
Dice ad esempio Valente: "Il mio impegno è rivolto a recuperare la parte sana che c’è nel mio corpo, che è il cervello. Quando incontro i miei amici, ciò che mi accomuna a loro è proprio la facoltà intellettiva, ma questa proprietà personale, l’ho dovuta coltivare con l’esercizio quotidiano e, in questo senso, ogni esercizio richiede un impegno".(2)
Queste persone impegnate a vivere, giorno per giorno, un’esistenza diversa e non per questo inutile, non costruiscono mai di sé un’immagine vittimistica, anzi sottolineano sempre la necessità di una lotta coraggiosa contro l’esclusione di una società indifferente, come si legge in un’altra biografia: "Fare l’amore, vivere sola, fare delle passeggiate, andar in vacanza con gli amici senza il traino della famiglia: ecco per che cosa mi devo battere".(3)
Infatti in una società che, oltre ad avere paura, inneggia alla perfezione, alla bellezza ed all’apparire, l’essere handicappato è molto scomodo, e soprattutto è scomodo "pretendere", perché spesso il diritto del disabile di chiedere ciò che gli spetta si trasforma, per chi non lo vuole rispettare, in assurda pretesa: ognuno di noi vede solo ciò che vuole vedere e ascolta solo ciò che vuole sentire.
Restringiamo il nostro spazio di informazioni e siamo ben felici di escludere chiunque possa turbarci.
Ma la differenza tra le persone con handicap e gli altri non è qualitativa, ma soltanto quantitativa: gli stessi problemi, le stesse difficoltà, le stesse incertezze, che nelle persone normali sono vissute con una intensità definita e tollerabile e per un periodo di tempo limitato, per chi ha un handicap assumono particolare acutezza e forma duratura.
Se tutti ci accorgessimo che siamo, ciascuno a proprio modo, portatori di differenze, come mette bene in evidenza un altro testo in cui si legge: "io cammino e sembro sana, eppure ho dei limiti e li nascondo, come tutti. Leonardo invece il suo limite lo evidenzia. Ecco perché lui è handicappato e io no. Ma il confine è stabilito solo dall’apparenza"(4) e se fossimo abituati sin da piccoli ad individuare negli altri non tanto le diversità quanto gli aspetti comuni, non esisterebbero tante forme di emarginazione.

Ascoltare le storie dei disabili

Come sempre la soluzione a tale problema non nasce spontaneamente, ma bisogna educare la società a prendere coscienza della realtà dei disabili, perché anche gli handicappati sono delle persone complete, cioè essere umani che riescono, a volte utilizzando modalità alternative, non soltanto a realizzarsi studiando e lavorando, ma soprattutto facendo amicizie, intessendo rapporti, muovendosi, parlando, comunicando extraverbalmente, toccando ed essendo toccati, amando ed essendo amati, soffrendo e facendo soffrire, insomma, capaci di ricevere e di dare felicità e gioia.

"Avevo bisogno di amici, di persone della mia età che non mi dimostrassero pietà. Anche se ero infermo inchiodato in casa non era detto che potessi fare a meno di ciò che formava la trama della vita degli altri: il football, il ballo, le riunioni attorno ad un bicchiere di birra, le ragazze".(5)
Così racconta un giovane e ci ribadisce che tutti dovremmo capire che gli handicappati e le malattie croniche non sono problemi, sono condizioni, sono "fatti di vita", che bisogna cercare di decifrare, di capire, per ricomporre il valore della persona: "Rimane una cosa che mi consola: è che le varie età della nostra vita, come l’infanzia, l’adolescenza o la giovinezza, sono diverse da quelle che vivono le persone normali. Imparo che ogni tempo, anche se a noi sembra sprecato, è degno di essere vissuto e forse anche apprezzato".(6)
Ciò che l’handicappato desidera è la dignità alla quale ha diritto al di là del suo handicap, quella dignità che gli viene negata proprio a causa della sua menomazione.
Ma i "diversi" non hanno qualcosa in meno, anzi tante volte hanno qualcosa in più: lo straordinario dono di non subire i propri limiti e di saper trasformare la propria sofferenza in energia, come ci fa capire questo brano: "Fu un pensiero molto lineare a salvarmi dalla disperazione: un filo d’erba è utile, pur essendo la cosa più semplice su questa terra, perché costituisce il primo anello della catena alimentare, la catena della vita. Infatti dell’erba si nutrono gli animali erbivori, che a loro volta vengono predati dai carnivori e dall’uomo. Se quindi un semplice filo d’erba è indispensabile, ci sarà anche uno scopo per me che possiedo la facoltà di ragionare, di ammirare le bellezze del mondo, di amare". (7)
Ascoltare la storia di un handicappato contribuisce a dargli quella dignità che spetta ad ogni essere vivente e può esser il primo passo per superare il muro dell’indifferenza e smuovere le coscienze: ognuno di noi ha un ruolo nel mondo e tutti siamo necessari per costruire quello straordinario mosaico che è la vita.

1) Olmi Ermanno, E’ l’amore la forza più grande, in Schiavina Maria Antonietta, Diversi da chi?, Normali vite con handicap, Milano, Amoldo Mondadori Editore, 1995, pp. 115-116.
2) Valente Franco, Io invece, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 15.
3) Auerbacher Elisabeth, Babette handicappata cattiva, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1991, p. 32.
4) Nerozzi Lucia, Il bambino senza genitore, in Schiavina Maria Antonietta, Diversi da chi?, op. cit., p. 148.
5) Brown Christy, Il mio piede sinistro, Milano, Armando Mondadori Editori, 1990, p. 92.
6) Valente Franco, Io invece, op. cit., p. 59.
7) Bettassa Marisa, Storia di un filo d’erba, Piombino, TraccEdizioni, 199 1, p. 28.

Handicap: al di là dei pregiudizi

Noi siamo portati a valorizzare il nostro modo di vedere e, corrispondentemente, a sottovalutare o ad attaccare tutto ciò che sembra contraddirlo o minacciarlo.
Cioè continuiamo ad attivare dei meccanismi di difesa che funzionano in quanto valvole di sfogo destinate a scaricare i malcontenti, le frustrazioni, le personali dissonanze ed ad alimentare la conflittualità sociale.
Ecco quindi che l’handicappato con le sue differenze psicosomatiche, organiche e funzionali, estetiche e comportamentali, suscita reazioni emotive verso, e talvolta contro, la propria persona, reazioni che traggono origine da meccanismi di difesa o da difficoltà di identificazione.
Infatti a tutti sarà certamente capitato di incontrare uomini che arrancano su una carrozzina, che vagano smarriti, chiusi nel loro delirio, o che si muovono con la difficoltà propria di chi non è padrone dei propri movimenti, o che articolano con estrema fatica sillabe difficilmente comprensibili.
Ciascuno di noi ha probabilmente avuto in quella circostanza la tentazione di fuggire per paura o è stato preso da un eccesso di commozione, o si è corazzato con l’indifferenza e il cinismo, per non provare dolore: manifestazioni tutte di disagio profondo di fronte a ciò che potremmo diventare in ogni momento.
Questi scomodi incontri fanno scattare in noi una profonda volontà di rimozione, quasi un disperato tentativo di allontanare una nostra cattiva immagine, che il soggetto che abbiamo di fronte ci rimanda e che avvertiamo come una minaccia.
Tentiamo allora in tutti i modi di distanziarci da quell’immagine, isolando ed emarginando la persona afflitta, così la sua menomazione o il suo deficit si trasforma, nel nostro contesto relazionale e sociale, in handicap.

Diversi non si nasce si diventa

Quindi diversi non si nasce per natura, lo si diventa per cultura.
Possiamo nascere con delle limitazioni fisiche, magari con dei deficit, ma non con degli handicap. L’handicap è uno stato sociale ed appartiene alla sfera della personalità, cioè a quell’essere meno capace, rispetto agli altri, di avere rapporti armonici ed efficienti con il mondo che lo circonda.
La battaglia dei diversi è quindi quella di cercare di non essere più sottomessi, di essere ciò che sono senza avere vergogna, è mostrare le contraddizioni di questa società che non vuole sapere di loro, mentre fa finta di fare qualcosa per loro.
Infatti non sono solo gli atteggiamenti che emarginano l’handicappato, ma anche tutto l’ambiente che lo circonda.
Indubbiamente per gli handicappati che usano la sedia a ruote le scale, gli scalini, le porte e i corridoi molte volte troppo stretti, gli ascensori troppo piccoli sono ostacoli insuperabili; i telefoni pubblici, le cassette per le lettere, le maniglie, gli interruttori possono essere irraggiungibili, perché troppo alti; senza dire poi della difficoltà ad usare i mezzi di trasporto pubblico, treni, autobus, aerei, metropolitana.
Tutti questi ostacoli limitano la vita e la partecipazione sociale degli handicappati, ma purtroppo c’è una scarsa sensibilità di fronte a questi problemi, infatti non si è provveduto a rimuovere le barriere architettoniche neanche là dove si sarebbe potuto intervenire facilmente e con poca spesa.
Però a volte, un gradino, una rampa di scale, una porta stretta sono i disagi meno dolorosi da affrontare per un handicappato.
Gli sguardi compassionevoli o al contrario le occhiate di fastidio feriscono molto più chi è costretto a convivere con una minorazione.E questo atteggiamento non risparmia nessuno, né padri, né madri. né fratelli, né parenti, né autorità diogni tipo.
Purtroppo di fronte ai vari mutamenti evolutivi che si verificano (l’andare a scuola, il diventare adolescenti o l’andare a lavorare) la famiglia non si modifica e l’handicappato resta spesso un eterno bambino, pena il mettere in discussione l’assetto raggiunto e affrontare nuove angosce.
Si tratta di famiglie che non esaminano le potenzialità del proprio figlio, ostacolandolo nel suo cammino verso l’autonomia, mentre è solo affrontando l’età adulta che l’handicappato potrà sentirsi riconosciuto e compreso come persona.Il ragazzo disabile necessita ovviamente di cure, ma ha anche bisogno di capire, che possiede delle capacità, allorché esistono, che deve sfruttare al massimo, deve essere in grado di guardare positivamentea ciò che ha e non solo alle proprie carenze.

Etichette e pregiudizi

Importante sarebbe quindi riuscire ad ignorare l’etichetta assegnatagli di eterno bambino, per stabilireun dialogo che non sia legato solo al suo sintomo e che quindi possa per lui diventare momento di evo-luzione.Se quando si pensa all’handicappato si pensa soltanto alle sue difficoltà, ai suoi deficit, difficilmente sipotrà realizare con lui un progetto educativo costruttivo.La consapevolezza delle sue caratteristiche non deve mai portare ad una accettazione di queste comeun limite prestabilito, bensì deve essere un punto di partenza su cui costruire per vivere l’handicap.Purtroppo difficilmente nelle programmazioni scolastiche si parte dal bambino diverso, si cercano piut-tosto aggiustamenti, adattamenti, per adeguarlo a qualcosa di prestabilito e adatto per i normodotati.L’effetto di questo atteggiamento è la limitazione delle esperienze proposte al soggetto in difficoltà, proprio perché l’interlocutore non è lui, ma i suoi limiti, le sue mancanze, i suoi sintomi.È vero i limiti ci sono, però in base a quelli si possono trovare altre strade.Le scelte si possono fare, ma prendendo il diverso come interlocutore, mettendolo alla prova, parlandone anche con lui e soprattutto tenendo conto del fatto che ciò di cui questi ragazzi soffrono, non è soltanto un handicap, ma il ritornello: "Tu sei handicappato. Tu non puoi fare quello che fanno gli altri. Tu sei a parte".
L’handicappato ha invece sempre una parte "sana" a cui dobbiamo rivolgerci, che sottintende una carica umana da sviluppare, che permette di considerarlo come un essere umano, la cui vita ha certamente uno scopo e le cui risorse saranno utili alla società; purtroppo, pochi hanno con il diverso un rapporto alla pari.
Egli è troppo spesso solo un "caso", non un essere umano.
Lo aggrediamo con un linguaggio denso di stereotipi, un linguaggio in cui si possono facilmente individuare i nostri pregiudizi, le distorsioni non vitalizzate da un confronto costante, serio ed onesto con la realtà.
È un tenersi ancora una volta "lontano" dalle situazioni per non essere coinvolti, è uno snocciolare suggerimenti vuoti da manuale, soluzioni preconfezionate.
È una assoluta incapacità totale alI’ascolto attento per capire e, perché no, anche per imparare. Infatti l’attenzione di tutti è perennemente portata sull’handicap, sulla limitazione e così i bisogni veri, i tanti bisogni della persona in quanto tale, non vengono visti o non vengono riconosciuti, oppure vengono repressi o addirittura negati.

La sessualità negata

Anche la sessualità è un bisogno, è relazione, è contatto, è desiderio, è piacere e anche sofferenza, matutto questo passa attraverso il corpo e viene vissuto nel corpo, e questo è vero per tutti, tranne cheper gli handicappati.
Ecco quindi che le manifestazioni erotiche sono percepite come anormalità da curare, oppure sono fon-te di preoccupazione e di allarme per i genitori che vanno in ansia e si colpevolizzano.In questi casi la sessualità è vissuta come trauma, un risveglio dell’angoscia, pertanto deve essere cancellata, negata.Per i soggetti di sesso femminile l’indirizo più seguito dai genitori è quello della repressione, ora imposta con dolcezza e persuasione, ora con minacce, ora con la somministrazione di farmaci, ma soprattutto con la distrazione, cioè impegnando l’handicappata in altre attività.Per i soggetti di sesso maschile c’è chi vorrebbe l’ evirazione, o prostitute, o addirittura l’incesto.Ma non si può negare a priori ad un individuo la possibilità di avere una vita affettiva, significa frustareuna parte della personalità, inibire un’esigenza naturale che chiunque ha il diritto di cercare di soddisfare in qualunque condizione si trovi, anche la più difficile.Il soggetto disabile non deve essere la fotocopia di una "normalità" che non esiste, ma un modo di vive-re che rispetti le varie esigenze dell’individuo senza che ciò comporti la separazione, scandalo o peggioancora pietà e commiserazione.Realizzarsi nella vita non vuole dire solo sapere fare certe cose che diano autonomia di movimenti, tro-vare una lavoro, una indipendenza economica, ma anche riuscire a realizzare la propria sessualità.E la sessualità e l’affettività si possono realizzare pienamente in tanti modi.

Per una nuova cultura

Quindi per prima cosa, bisogna sempre cercare di capire quali siano le effettive esigenze e le effettive prospettive dell’handicappato, rimuovendo le incapacità e i pregiudizi che lo condannano al ruolo grottesco dell’ eterno bambino.
Infatti non ci potrà essere cambiamento nel soggetto, se non c’è anche cambiamento nella realtà in cui egli vive, perché non è solo il soggetto che deve acquisire regole di comportamento, ma anche chi sta attorno deve capire la realtà, i contenuti, gli specifici di una realtà che non deve spaventare ma arricchire.
È pertanto indispensabile un’ azione di educazione sociale, di consapevolezza, di accettazione vicendevole.
Un avvicinamento che non sia soltanto fisico, ma soprattutto psicologico e culturale.
Solo allora l’handicap, concepito abitualmente come assenza, mancanza, privazione, può essere visto come parte inevitabile del flusso della vita, uno dei tanti aspetti delI’esistenza con le sue peculiarità, accanto alla sofferenza e alla possibile ricchezza.
Indispensabile è quindi una nuova cultura che non neghi l’evidenza, la diversità, ma l’assuma come valore.
Ogni persona va valutata nella sua complessità e variabilità, con le sue piccolezze, i suoi limiti, ma anche con nascoste e insospettabili risorse e grandezze proprie di ogni essere.
Bisogna cioè cercare di dare a ciascuno la possibilità di essere riconosciuto per se stesso.
Uguaglianza di opportunità non significa dare a tutti le identiche cose, piuttosto dare a ciascuno quello che gli è indispensabile, affinché, con pari opportunità in rapporto alla propria personalità, ciascuno possa raggiungere una piena padronanza di se stesso.