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autore: Autore: Paola Molinatto

Affettività e cura

Chiunque abbia vissuto personalmente o stando accanto a un’altra persona l’esperienza di una malattia, anche se breve e non grave, ha sperimentato come l’insinuarsi di un dolore o di un’infermità temporanea sconvolga in profondità il proprio modo di essere e di pensare, ma soprattutto comporti quasi un ritrarsi del mondo degli affetti* al quale si chiede di venire al più presto riconsegnati. Non è allora improprio ipotizzare che l’affettività sia un elemento costitutivo della cura anziché un fattore ad essa estraneo.Nell’inverno del 1974, Werner Herzog, regista di film bellissimi, visionari e allucinati, informato da un amico che Lotte Eisner, figura prestigiosa del cinema tedesco, era gravemente ammalata, decise di andare a piedi da Monaco a Parigi, nell’assoluta convinzione che, se ce l’avesse fatta, lei sarebbe rimasta in vita. Attraversare a piedi il cuore dell’Europa per un’amica malata non è solo il gesto tenero e irragionevole di un artista abituato a misurarsi con immagini mai viste, cariche di fisicità e di leggerezza. E’ invece la metafora di una modalità del prendersi cura che attiene in modo significativo alla sfera dei sentimenti e della immedesimazione nel destino di un altro quale offerta di pura solidarietà e condivisione. Non a caso, negli appunti conclusivi di quell’avventura nel corso della quale ha sperimentato su di sé qualcosa della spossatezza e dell’incedere tra sconforto e ripresa che caratterizza la malattia, Herzog pare aver colmato, più che la distanza tra le due città, la lontananza che lo separava dall’amica malata, fino a sbilanciare e a capovolgere il rapporto tra i due: è infatti Herzog, e non la Eisner, a essere, infine, dolente ed esausto, compreso e sollevato dal loro incontro. Il prendersi cura dell’altro sembra così alludere, in questo caso, alla capacità di collocarsi in una prossimità affettiva in grado di trasformare la relazione di aiuto in un’intesa fatta di un reciproco e gratuito scambio di esperienze, non esente da imbarazzi e solitudini, né dall’ostinazione a cercare immagini comuni del futuro. E’ sulla base dell’ipotesi di un nesso privilegiato tra affettività e cura che abbiamo incontrato Eugenio Borgna, che nei suoi libri parla della necessità di modalità di progettazione terapeutica che abbiano a configurarsi «come disponibilità infinita ad ascoltare e (anche) a immedesimarsi negli abissi di interiorità dolorosa delle pazienti e dei pazienti», chiedendogli di introdurci all’esperienza della cura e del prendersi cura. Eugenio Borgna insegna Clinica delle malattie nervose e mentali all’Università di Milano ed è responsabile del Servizio di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara. Tra i suoi libri più recenti, segnaliamo Malinconia e Come se finisse il mondo, entrambi editi da Feltrinelli.

Domanda. Vorrei chiederle che cosa pensa del rapporto tra affettività e cura, soprattutto dal punto di vista di chi, per professione o per scelta, decide di dedicarsi all’assistenza di persone malate. Penso, per esempio, alle molte iniziative di volontariato che si rivolgono a persone colpite da malattie gravi, come il cancro o l’Aids, ma anche al personale sanitario che opera in queste situazioni estreme, segnate dal1’incombenza della morte. Quale spazio occupano e quale ruolo svolgono, nell’attività di cura, i sentimenti e gli stati d’animo che attraversano e scuotono chi si pone a confronto con una persona inalata? Lei ritiene che sia possibile curare senza affetti, prescindendo dal/c proprie emozioni, o ipotizzare una semplice distanza tra questi due ambiti?

Risposta. L’attività di cura, soprattutto in ambito psichiatrico, implica strategie complesse, che devono essere tra loro integrate. In psichiatria, ma anche in altri campi della medicina, la cura non è mai riducibile a una semplice somministrazione farmacologica. Curare è un gioco raffinato e contraddittorio nel quale sono implicati gli stati d’animo di chi è medico, psicologo, infermiere, operatore e gli stati d’amnio di chi si pone, sia pure per il tramite di alcuni orizzonti comuni e non, come paziente, come interlocutore. Va da sé quindi che le connessioni tra affetti, emozioni, sentimenti e strategie di cura siano strettissime, soprattutto quando hanno luogo in un contesto scientifico e meta-scientifico precario, come quello della psichiatria, in cui la dimensione interpersonale condiziona la stessa efficacia terapeutica dei farmaci che si prescrivono. In realtà, la sfera dei sentimenti, delle emozioni e degli stati d’animo da una parte e i diversi modelli di cura dall’altra rappresentano una continuità storica, critica, culturale, pratica, un’unità epistemologica sempre indispensabile, anche se lo spirito dei tempo porta ad accelerare gli eventi, a contrassegnarli e a classificarli, svuotandoli di significato e di lentezza, sottraendo la componente interpersonale ai modi concreti di fare terapia.
Insomma, ciò che sta a fondamento dell’importanza di quanto è evocato da queste diverse forme metaforiche del linguaggio, sentimenti, affetti, emozioni, stati d’animo è il fatto che ogni sentimento, ogni stato d’animo significa apertura a qualcosa che è al di fuori di noi, mentre i processi razionali, che sono dominati dallo splendore solare della ragione, sono processi cartesianamente e spinozianamente individualistici, serrati, mummificati, imprigionati nel nostro io. Al contrario, ciò che rende la vita affettiva ed emozionale, l’indispensabile premessa a ogni cura e a ogni riflessione teorica è appunto il fatto che non c’è vita affettiva che abbia un senso che non sia sempre relazionale, costruzione, sia pure frammentaria, discutibile, fragile, di contatti, di ponti, di relazioni e di dialogo. Dunque: vita affettiva come vita interiore, come interiorità che si spalanca al mondo degli altri. Penso che Martiri Heidegger, su questo tema, sia pure nel suo linguaggio metaforico, complesso, a volte magari oscuro, ma sempre decifrabile, abbia detto cose estremamente importanti, ma soprattutto che la relazione, in quanto siamo esistenze già sempre gettate in un mondo, costituisce la struttura portante del nostro essere. Quindi la cura, qualunque cura, quando venga svolta da medici, ma anche da chi fa della semplice assistenza, è correlata al mondo degli affetti in modo essenziale. Tra l’altro, anche separare teoricamente, sofisticamente, cura da assistenza, o terapia da assistenza, mi sembra sia inaccettabile. Assistere una persona significa sistere ad, stare accanto a una persona nel tentativo di curarla mettendo in atto strategie terapeutiche, significa essere a servizio di qualcuno. Quindi anche la separazione, apparentemente così ovvia, tra la medicina e le diverse discipline a essa subalterne, tra medici e assistenti sociali, operatori oppure semplici volontari che si occupano dell’assistenza, è una separazione fasulla, che nasce da preconcetti cartesiani o comunque deformati nel senso di un cartesianesimo spesso anche malinteso.

Domanda. A partire dalla sua esperienza di psichiatra, potrebbe darci una descrizione di quel complesso di atteggiamenti che possiamo definire come «cura»?

Risposta. La premessa a ogni presenza umana che si occupi, che si preoccupi di un altro, sano o malato che sia, è indubbiamente la presenza di quell’attenzione su cui Simone Weil ha scritto cose straordinarie. Senza vivere in noi stessi questo tentativo continuo, oscuro, a volte difficile, a volte impossibile, di un’attenzione rivolta permanentemente a cogliere cosa si muove in noi per cercare di cogliere cosa si muove nell’altro, non si può fare psichiatria, non si può fare sociologia, né alcuna umana disciplina che implichi con un contratto con l’altro, come l’accompagnarsi per un tratto di strada con qualcuno che chieda aiuto. Senza attitudini, che si educano, ma che sono anche innate, a entrare in relazione con gli altri, sia che si insegni, sia che si faccia il medico radiologo, sia che si assistano persone malate di AIDS o di cancro, senza questa inclinazione a rivivere in fondo la tragedia della vita come intreccio di incontro e fallimento, di riuscita e scacco, le scienze umane sono certo fuori gioco, ma anche quelle scienze che a volte stanno in bilico tra le scienze umane e le scienze naturali, come la psichiatria o la medicina psicosomatica.

Una comunanza di destino

Schopenhauer ha scritto una volta che uno dei misteri più profondi e ontologicamente fondanti nella condizione umana è proprio l’esigenza, la speranza che nasce in noi, lo slancio vitale a sentire la sofferenza dell’altro come la nostra possibile sofferenza, e quindi a cogliere e a rivivere le speranze o la disperazione dell’altro come nostre possibili esperienze. In senso più tecnico, credo che il contributo più interessante a questo proposito sia stato offerto da von Gebsattel, un grandissimo psichiatra. Egli distingue, in ogni atto terapeutico inteso in senso lato, che vale per il medico come per l’assistente sociale o per l’operatore, tre passaggi, tre transizioni. Non si inizia nemmeno un atto terapeutico significativo, nessuna cura può avere inizio, a suo avviso, se prima non si compie quel gesto preliminare dell’entrare in relazione con l’altro sul piano della simpatia, cioè di un rapporto che prescinda da ogni professionalità, da ogni rigida articolazione tecnica. Quindi, il primo stadio di ogni cura è il saper cogliere che cosa c’è in uno sguardo, in un volto, in una semplice stretta di mano, che implica la capacità, in sostanza, di sentire immediatamente il destino di un altro come il proprio destino. Questa vicinanza al destino dell’altro è la premessa di ogni tentativo di accompagnarsi a una vita che entra in crisi o che si spegne, la premessa di ogni relazione di cura. A volte cogliamo dei salti, dei veri e propri esercizi acrobatici in medici assolutamente incapaci di comprendere l’altro, di accettare la propria debolezza, di fare i conti con la propria insicurezza, di produrre delle conoscenze con la partecipazione dell’altro. Recentemente, parlando a un pubblico di medici e operatori sanitari, ho sostenuto come il processo della conoscenza in psicanalisi, come in psichiatria e in medicina, non possa avere luogo se non in un colloquio dialettico, in un tentativo di creazione, di formazione e di educazione reciproca che coinvolga contemporaneamente medico e paziente. Affermazioni di questo tipo possono apparire scontate, ma proposte in un ambiente medico, talvolta producono tensioni e fratture non indifferenti. Però, chi assista un destino segnato dalla tossicodipendenza, dall’Aids o dalla sieropositività, deve coltivare in sé queste attitudini straordinarie e soprattutto la capacità di riscattare la negatività estrema della morte, che talvolta ha sguardi terribili, privi di ogni speranza. Anche se, certo, queste sono situazioni estreme. La psichiatria, per esempio, che pure si occupa di malinconia, di angoscia, di morte, di suicidio, in fondo tratta di eventi i cui confini sono indubbiamente più vicini a noi, più facili…
Realizzare una cura in senso fenomenologico significa partire da queste premesse. Il secondo momento che caratterizza l’attività di cura, secondo von Gebsattel, è quello freddamente diagnostico e pure indispensabile quando si tratta di elaborare un processo di cura che sottintenda un discorso clinico, farmacologico o psicoterapeutico in senso stretto. Tuttavia questa fase si realizza compiutamente solo a condizione che non venga assolutizzata e premessa a ogni altro gesto del prendersi cura dell’altro, ma che venga tenuta in stretta connessione con il primo momento della cura. Il terzo momento richiede il recupero, la restaurazione di una relazione interpersonale, segnata dalla trasformazione del rapporto tra medico e paziente connessa alla diagnosi, là dove è diventato più complesso trovare radici di contatto o di dialogo.
Vorrei però sottolineare che anche il momento diagnostico trova il suo significato e la sua dimensione umana, ma a patto che venga poi trasfigurato sul piano di una Partnerschaft, di una partecipazione che sia sostanziata su profondi valori umani giocati sempre sul piano della relazione interpersonale e della comunità. Si tratta di qualcosa di più di una semplice comunione affettiva ed emozionale che tenti di riscattare il secondo momento, che certo è fatto anche di necessaria freddezza diagnostica, di distacco dagli aspetti più propriamente umani e psicologici. In questo senso, ogni cura, non solo quella specificamente medica, ma soprattutto quella non tecnica, non medica, dovrebbe legare insieme il primo e il terzo momento, saltando fatalmente il secondo, che in fondo serve solo in determinate situazioni, che del resto non sono le più frequenti per chi vive e sente come proprio soprattutto il mistero più che gli aspetti tecnici specifici della condizione umana che soffre o che deraglia. Questa, secondo me, è una straordinaria articolazione che von Gebsattel propone, a partire anche dalla sua formazione psicoanalitica freudiana, grazie alla quale egli ha sottolineato tutta l’importanza che in questi casi assume la storia della vita di una persona. Quindi nel terzo momento avviene una comunità emozionale di destino. Un destino non più simmetrico, come all’inizio, in cui da una parte c’è la persona che soffre e dall’altra una persona che dovrebbe almeno avere presente di lenire la sofferenza. Nel terzo momento si giunge a una comunione di destino, impregnata di vita affettiva, perché senza emozioni si resta dei semplici diagnostici, dei radiologi o dei chirurghi, i quali fanno della tecnica pura, della tecnica applicata.
Il volontariato, se vogliamo usare una parola comprensiva, sintetica, in grado di esprimere l’insieme degli atteggiamenti appena descritti, ha quindi un enorme significato, ma soprattutto là dove è correlato alle proprie attitudini. Perché senza reali attitudini si possono fare tante cose, anche splendide, ma difficilmente si può realizzare una cura come capacità di assistere e di ascoltare l’altro. Attitudini che hanno bisogno di pazienza e di immedesimazione, cioè di disponibilità a cogliere nella sofferenza degli altri un valore essenziale della vita. Avere sofferto non passa mai, è un’esperienza che segna. Vivere, anche solo un giorno, a contatto con una vita che si sta spegnendo o comunque segnata dalla malattia, significa confrontarsi personalmente con la frattura della sofferenza. Per questo motivo nego il valore della professionalità quando questa abbia a che fare con situazioni estreme. La medicina e i medici, invece, troppo spesso sono prigionieri di una tecnica esasperata.

Il linguaggio delle metafore

Domanda. Mi ha colpito molto l’idea di una comunanza di destino tra chi cura e chi è malato. Ma è davvero possibile realizzarla con chi vive la prossimità con l’esperienza della morte? 0 meglio, si può condividere fino infondo l’esperienza di chi sente di non poter più fare progetti o avere speranze?

Risposta. Senza speranza si muore. Naturalmente questo sguardo di angoscia che proviene da un’esistenza che si spegne, che si avvia verso la morte, è carico di un’angoscia mortale ed è un’esperienza ultima e sconvolgente. Come possiamo viverla noi, intanto, nel confronto con l’altro? Temo che senza una profonda incandescenza affettiva ed emozionale, senza una vita affettiva capace di generosità e di dedizione assoluta, molte cose non si riescano a fare. Aggiungerei, usando un’espressione teologica, senza speranza, senza una fede profonda, che può essere anche la fede di chi crede nel valore della relazione, e non solo della relazione che trascende un legame storico e temporaneo. Se non c’è dentro di noi una speranza che è contra spem, oltre la stessa speranza, e una fede, che insieme fondino il valore assoluto della relazione come sfondamento dei propri limiti e del proprio egoismo, non c’è apertura all’altro che consenta di accoglierlo, anche se necessariamente nei termini di una distanza, giacché non ci può essere un’identificazione piena. Forse in certe situazioni si è costitutivamente soli, però un’esistenza che muoia in relazione è senza dubbio un’esistenza che consente a chi sta morendo e a chi a esso si accompagna una reale forma, seppure misteriosa, di realizzazione.
Norbert Elias, un sociologo che si è occupato dell’isolamento del malato nelle società contemporanee, ha scritto che in fondo quando si muore, quando si è colpiti da una grave infermità, probabilmente il desiderio più intenso è che il proprio corpo sia anche solo accarezzato, che una mano venga accarezzata da un’altra mano, che uno sguardo legga ciò che è cambiato. Ma perché tali gesti abbiano significato occorre che non si sia sul piano della compassione né di un semplice formalismo. Poi esistono figure straordinarie come Teresa di Calcutta che senza aver magari letto Scheler, Heidegger, Pascal, Agostino, Simone Weil o Edith Stein, inceneriscono queste parole che noi cerchiamo di rivitalizzare, a volte forzandone anche il significato, nel tentativo di accedere a una realtà per definizione sfuggente. Non è raro sentire, ad esempio nei congressi di psichiatria, requisitorie spietate nei confronti di quegli psichiatri che inventano le parole, che ne distorcono il significato, che fanno uso di termini che non esistono neanche nel vocabolario. Con ciò non intendo sostenere che le mie parole abbiano chissà quale importanza, bensì che, come ha scritto Minkowski, il linguaggio delle metafore sia l’unica cosa che rimane a disposizione quando si tenti di tematizzare il destino di chi soffre. E’ solo con il linguaggio delle metafore che si possono imboccare sentieri, raggiungere radure boschive, abitare luoghi caratterizzati da un fitto intreccio di luce e oscurità, speranze e angosce. Certo, è inevitabile che esistano le divisioni di malattie infettive, di oncologia o di psichiatria, ma mi chiedo quanta reale capacità di contatto non tecnico, ma personale e umano, sappiano produrre, nonostante si tratti di reparti che pure affrontano problemi come quelli dell’Aids o del cancro. Oppure si pensi a taluni reparti di psichiatria: spesso ci sono muraglie, porte chiuse, letti di contenzione, elettroshock. E necessario allora uscire da queste logiche, per infrangere quella inavvicinabilità che spesso si stabilisce tra chi sta morendo e chi almeno ora è lontano dalla morte, per rendere tale distanza meno gigantesca, meno assoluta, e perché possa trasformarsi in un mistero che consenta però di aprire qualche breccia nel problema. Il mistero, infatti, non rimanda solo a ciò che è inaccessibile, ma permette di individuare alcune possibili aree di soluzione. Nel linguaggio mistico di Simone Weil, che ha vissuto la dura esperienza delle catene di montaggio della Renault, nel suo linguaggio creativo, geniale, rivoluzionario, ritroviamo questa sottolineatura estrema dell’ attenzione, dello slancio, della speranza, non della speranza?illusione, ma della speranza che, insieme ad altre costellazioni di senso, riesce a rendere meno incolmabile l’abisso che pure ci separa dall’altro. Rimarranno senza luce questi abissi ghiacciati del cuore? Rimarrà sempre isolata e abbandonata l’anima, che è il territorio in cui si esprimono i sentimenti, le emozioni, le grandi vicende della vita? Ancora una volta abbiamo bisogno del linguaggio che si lega alle metafore, per parlare di sofferenza, speranza, ragioni del cuore, memoria, inquietudine, scoramento, affetti.
Ma che cosa sono gli affetti? Da un certo punto di vista sembrerebbero indicare quel groviglio di emozioni e di sentimenti che divampando, anche senza venire del tutto purificati, prendono forma, passando dal femminile al maschile, dalle emozioni, dagli stati d’animo (che sono, più propriamente, stati dell’anima), per ricadere poi nell’universo maschile dei sentimenti e degli affetti. Per questo, probabilmente, gli affetti, almeno semanticamente, rinviano a una qualche inclinatura clinica, gli affetti perturbati, gli affetti incandescenti, gli affetti morbosi, gli affetti che consentono alla ragione di esplorare i cieli stellati; mentre invece l’espressione «vita affettiva» mi sembra più ricca e interessante. E’ all’originaria dimensione femminile della psyché che allude il mondo dell’affettività, degli stati dell’anima, delle emozioni. Mentre i sentimenti, sebbene siano «maschili», mantengono un sentire in fondo che ha già in sé una trascendenza, una spinta verso l’altro. Non a caso, tutta la fenomenologia, da Scheler a Kierkegaard a Heidegger, afferma che l’essere è al di fuori dei confini del proprio io e che dunque la trascendenza costituisce la struttura portante, ontologica, metafisica, esistenziale ed emozionale della vita.

Se l’insicurezza spegne l’onnipotenza

Domanda. Lei ha sottolineato la necessità di colmare la distanza che ci separa da chi vive un’esperienza di sofferenza e di difficoltà. Questo è un compito che impegna ovviamente ogni essere umano. Ma occorrono particolari attitudini per accompagnarsi a un’esistenza che si spegne? E in che modo possiamo riconoscerle ed educarle?

Risposta. Sì, certo, direi che sono necessarie delle attitudini. La capacità di dialogo innanzitutto, di un colloquio che non sopraffaccia l’altro, che non isoli nella propria interiorità. Ma soprattutto attitudine a cogliere il senso della vita, non solo della propria, ma anche di quella degli altri. Se non si dispone di quell’intuizione preliminare che induce a pensare che la vita abbia un senso solo se giocata in un contesto di interpersonalità, da sola questa componente finisce già con il bruciare ogni altra virtuale attitudine. Attitudine all’intuizione, cioè a quella forma di conoscenza e di pensiero che c’è in ciascuno di noi e che, come ha scritto Simone Weil, può anche essere esercitata e insegnata, grazie alla quale siamo in grado di cogliere, al di là di ogni studio psicologico, qual è la dimensione spirituale della persona con cui ci accompagnano, soprattutto se si tratta di una persona sofferente. Ma possiamo considerare le attitudini anche come portatrici di quella particolare forma di connotazione psicologica che è l’insicurezza. L’insicurezza è per lo più intesa come un segno di inadeguatezza, mentre in realtà l’insicurezza spegne l’onnipotenza, attenua e condiziona ciò che si presenta come certo e assoluto, mette in crisi ogni decisione, ogni dialogo, ogni affermazione. Il grande Hegel, a proposito della nozione di cultura, ha sostenuto, nella Fenomenologia dello spirito, che avere cultura significa trascendere la propria particolarità per divenire capaci di pensare i punti di vista dell’altro. Si tratta di una considerazione a un tempo banalissima e rivoluzionaria. Ma se sostituiamo il pensare con il sentire, se ci chiediamo che cosa significhi intraprendere e realizzare un’esperienza di condivisione, ci accorgiamo quanto sia importante essere dotati di antenne che ci permettano di sentire l’altro, gettare qualche ponte leggerissimo perché il fossato che da esso ci divide non si allarghi, lanciare qualche travicella, qualche filo di paglia che sia segno di un contatto, di una vicinanza. Cultura è la capacità di pensare i punti di vista dell’altro. Celebre per le sue definizioni sintetiche, Hegel, senza dubbio uno dei filosofi meno poetici e romantici, anche in questo caso ci ha fornito una sfolgorante chiave di lettura utile a comprendere chi siamo, che cosa possiamo fare, quanti punti di vista riusciamo a sentire come nostri (anche se Hegel, da parte sua, pretendeva di pensare tutti i possibili punti di vista della sua epoca). In questo senso, il pensare che diventi un verbo di riflessione, nel senso di Reflexion, di rispecchiamento e di riverberazione, è una dimensione essenziale della vita. Altri, certo, al mio posto avrebbero detto che per setacciare, selezionare, cogliere, individuare le reali attitudini di una persona a essere utile agli altri occorre un attento esame psicologico. Se abbiamo a che fare con uno psicologo con certi orientamenti professionali, ci sentiremo dire che se la persona è un po’ timida e insicura, occorre scoraggiarla, per carità, perché non è in grado di aiutare altri, perché ciò che conta non sono le sensazioni personali.

(*) responsabile del Servizio di psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara ? c.so Mazzini 12 ? 21800 Novara ? tel. 0321/37.32.56.

Articolo tratto da “Animazione sociale, n.3, 1998