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autore: Autore: Sabrina Tosini (*)

Comunicare oltre il limite

8 dicembre 1995, solita giornata grigia, piena di impegni noiosi. Unica nota positiva: una BMW metallizzata con autista, da tanto desiderata. Jean Dominique Bauby, l’autore del libro, ha 43 anni, padre di due bambini, è giornalista e redattore capo del mensile ELLE. Quel venerdì aveva deciso di portare Thèofile, un figlio che per svariati motivi aveva ultimamente trascurato, a teatro. Colpito da un ictus Bauby cade in un profondo coma dal quale esce perfettamente lucido, ma con un corpo del tutto inerte: è lo stato che la medicina chiama locked-in syndromeBauby si ritrova in un letto di ospedale con un corpo rigido come lo scafandro di un palombaro, con una sola parte di cui controlla il movimento: un occhio
Questo libro scritto con “le palpebre”, unica parte ormai funzionante di un corpo-scafandro che rende prigionieri, evoca congiuntamente sentimenti contrapposti: pietà per la nostra ineluttabile condizione umana di comuni mortali, rabbia e frustrazione per l’incapacità di accettare la nostra tragica sorte.

Comunicare con un battito di palpebra

Con un battito di palpebra Bauby dice sì, due battiti significano no. L’alfabeto gli viene recitato in ordine di frequenza della lingua francese. Con un battito di ciglia Bauby ferma l’interlocutore su ogni singola lettera funzionale a comporre la parola desiderata, la frase pensata. In questo modo J.D. Bauby detta un libro, Le scaphandre et le papillon (1) che gli permetterà di comunicare con il mondo, perché anche dentro ad un corpo-scafandro, tanto inefficace, vi può essere una farfalla-mente, sentimenti, ricordi, sogni, desideri che vola alta. È questo il messaggio del libro, il suo significato precipuo: la necessità di raccontare/si, di condividere emozioni e sentimenti, quel bisogno di socializzare che attraverso il linguaggio, non necessariamente fatto di parole, deve essere comunque compreso per avere valore esistenziale .
Circa due anni dopo il tragico incidente Bauby muore.
Si libera dello scafandro che lo ha reso prigioniero, ma rimane la traccia del suo essere stato farfalla: il libro, che racconta come egli abbia continuato a volare anche nei due anni nei quali era chiuso nello scafandro, senza smettere di pensare, di soffrire, di gioire, di comunicare….., dunque di vivere.
“Così da dietro l’oblò del suo scafandro, ci invia le cartoline di un mondo che possiamo solo immaginare, dove vola leggera la farfalla del suo spirito”(dal risvolto di copertina) (2). Non ho potuto far a meno di riportare in modo integrale questo pensiero, perché credo racchiuda il dramma dell’autore, in senso più generale il limite umano, ancora una volta descritto o meglio rappresentato, dall’eterno conflitto relazionale d’interdipendenza corpo-mente.

Il corpo e la mente: un vecchio dissidio

Di ciò il mondo classico, con i suoi filosofi e pensatori, ci offre una ampia panoramica: da Omero a Platone , il rapporto corpo-mente si modifica profondamente, ma mantiene pur sempre una relazione di tipo “dialettico”,condizionandosi di continuo, reciprocamente . Con la modernità, più precisamente con Cartesio, la lettura di questo fenomeno si inasprisce: vi è una vera e propria separazione fra mente e corpo ( “cogito ergo sum”).
Vi è un altro aspetto, che ho immediatamente colto durante la lettura del testo, cioè la fragilità dell’uomo, e la sua finitudine, che lo caratterizza per il suo corpo-scafandro che pesa, che limita, che lo condanna a morire.
Possiamo considerare, senza grosse approssimazioni, la malattia come una sorte di morte interiore, sia per quel che riguarda il corpo, sia per la mente.
Si coglie nelle parole di Bauby – mi riferisco al suo spirito di autoconservazione, al suo bisogno impellente e improrogabile di comunicare per sentirsi vivo – il significato esistenziale dell’uomo: il suo bisogno di socializzare. Detterà infatti: “Se volevo provare che il mio potenziale intellettuale era rimasto superiore a quello di una scorzonera dovevo contare solo su me stesso. Così è nata una corrispondenza collettiva (…) che mi permette di essere sempre in comunione con coloro che amo (…) [e tutti] hanno capito che mi si poteva raggiungere nel mio scafandro” (p.80) (3).
“Non si può non comunicare “, ha scritto Paul Watzlawick, e dai racconti di Bauby si intuisce bene la funzione semantica della comunicazione, ovverosia il linguaggio dei segni: battito di palpebra, doppio battito di palpebra, risposta affermativa, risposta negativa e così via.
Quando comunichiamo, mandiamo messaggi , manipoliamo e indirizziamo i nostri segnali. Tutto questo non avviene quando parliamo di comunicazione non verbale.
Sto pensando a quel micro-linguaggio fatto di sorrisi, di corrugamento della fronte, di quella luce improvvisa che illumina il viso e che trasmette il nostro stato d’animo in modo istintivo e inconsapevole.

Un’occasione di cambiamento

Ma la malattia è anche un modo per curarsi, un’occasione per cambiare, per entrare in contatto col mondo interiore che molto spesso disconosciamo, che non consideriamo mai abbastanza, tutti presi dalle nevrosi della vita moderna, per i numerosi impegni che scandiscono il tempo dei nostri giorni.
Quando siamo costretti a ripensarci , a fare i conti con i vincoli in primis del nostro corpo , secondariamente con quelli di ordine sociale, ci attiviamo nell’intento di ristrutturare i nostri comportamenti , i pensieri ; cerchiamo soluzioni diverse che tengano in considerazione la nuova realtà.
Superato un primo momento di dolorosa accettazione , dove per altro i pericoli di lasciarsi morire sono preponderanti , la nostra intelligenza , caratteristica dell’uomo che ci contraddistingue dagli altri animali, ci rimette in gioco in un modo nuovo , più consono al sopraggiunto cambiamento .
Rifacendomi ai racconti di Bauby la problematica dell’handicap si ripercuote oltre che a livello personale, a livello sociale, professionale, quindi economico. La vita da un giorno all’altro può drasticamente cambiare e riservarci “sorprese” a dir poco drammatiche.
Nell’immaginario collettivo, a tutt’oggi, l’handicap viene vissuto come una colpa, viene considerato come una maledizione di Dio, soprattutto quando sopraggiunge inaspettato. Paradossalmente ci troviamo a volte in situazioni assurde, in cui l’handicappato deve consolare gli altri, amici e parenti, inventare un modo nuovo di stare insieme.
Leggendo questo libro non ho potuto fare a meno di pensare alle persone che per svariati motivi non riescono a parlare: i bambini, gli handicappati in generale e di come debba essere difficile per loro vivere in questa società, dove la comunicazione è di vitale importanza.
Dal suo significato originario, comunicare, altro non è che il linguaggio della comunità; non è un caso che le associazioni dei “sordo muti” abbiano ottenuto meno ascolto rispetto ad “altre” corporazioni similari. Finalmente, grazie anche a questo lavoro, mi è più chiaro comprendere alcuni comportamenti, d’acchito incomprensibili; quante volte mi è sembrato di comunicare cose di cui non ho avuto riscontro nei fatti, in parte per l’ovvia preponderanza della comunicazione non verbale.
Si pone a questo punto il problema di controllare la comunicazione, quel messaggio di ritorno che gli esperti chiamano feedback onde evitare distorsioni poco gradite . Ma allora cos’è che ci spinge a resistere, a sopravvivere, come ci ha dimostrato senza ombra di dubbio l’autore? Una risposta risiede nei geni della biologia, quella sorta di dotazione genetica per la quale la funzione adattiva dell’uomo all’ambiente ci porta a scegliere di vivere e di non lasciarci morire, oltre a quel condizionamento sociale che ci spinge a comunicare sempre e comunque .
“Lo scafandro si fa meno opprimente e il pensiero può vagabondare come una farfalla , [..] si può volare nel tempo, partire per la Terra del Fuoco o per la corte del re Mida”(4). Trovo sia difficile commentare questi versi di una bellezza straordinaria, le uniche emozioni che riesco ad esprimere in sintonia con la poesia , sono quelle di compassione e di profonda solitudine. Quando il corpo ” si ferma” il pensiero ne assume la funzione “locomotoria vicariante” e attraverso l’immaginazione si compiono nuovi viaggi. Le nostre aspirazioni, aspettative, le azioni che agiamo nella realtà dal mondo esterno confluiscono ad un mondo interiore segreto, a tratti impenetrabile: è il mondo dell’immaginario , della fantasia .
Altro aspetto non meno importante riguardante la comunicazione verbale, è quello sociale e lo si può riferire alla consuetudine di privilegiare la ratio (ragione) nei confronti delle emozioni. Anche le neuroscienze che notoriamente utilizzano una chiave investigativa di tipo “genetico” piuttosto che ambientale, contrariamente all’approccio sociologico , spiegano l’evoluzione del linguaggio e perché tale modificazione è avvenuta/avviene a discapito delle altre facoltà . L’uomo negli anni ha sviluppato a contatto con l’ambiente l’emisfero sinistro che è il luogo del cervello deputato alla parola, al computo, al ragionamento matematico. Da un punto di vista squisitamente economico le maglie del potere agiscono tramite i produttori di parole, i media. Siamo continuamente bombardati da messaggi televisivi, radiofonici e stampa (ironia della sorte il protagonista del libro era redattore del mensile “ELLE”).
Attraverso l’uso dei media si è potuto fare ciò che prima non era stato possibile, ovvero comunicare in modo uniforme a un pubblico vasto. Si tratta della “comunicazione di massa”, che fonda la sua forza su una società senza valori dove l’omologazione, la massificazione, la moda la fanno da padrone.
Tornando per un attimo al titolo del libro e al significato della metafora, cioè lo scafandro – corpo che pesa, la farfalla – mente libera di volare leggera grazie alle ali dell’immaginazione, vediamo che tutto riconduce “all’idea” che il corpo può morire, ma l’anima no.
Fin dall’antichità, dal “culto” delle religioni politeistiche fino ai giorni nostri, epoca delle religioni monoteistiche, forse anche in ragione della difficoltà di accettare la morte come evento “naturale”, l’uomo ha sempre fantasticato, pensato, avuto fede nell’aldilà: cioè ha creduto che dopo la morte si potesse passare ad altra vita.
Nella mia esperienza non ho mai avuto rapporti diretti con persone in situazione di handicap, ciononostante mi sono sempre chiesta quale sarebbe stato l’atteggiamento corretto in tali situazioni relazionali .

Lo sguardo degli altri

Vorrei essere naturale, gentile ma non pietosa, simpatica senza sembrare aggressiva, vorrei essere in grado di comprendere e non di giudicare. Che presunzione! Dal libro si deduce quanto siano problematici i rapporti con disabili anche quelli più intimi, di parentela. Ce lo mostra il brano di Bauby che descrive la difficoltà mostrata dai visitatori della clinica, in cui egli è ospitato, dinnanzi alla gravità di certi pazienti: “Conosco fin troppo bene il leggero imbarazzo che provochiamo quando attraversiamo rigidi e silenziosi, un gruppo di malati meno sfortunati di noi […]. Di sotto, si ride, ci si diverte, si parla. Mi piacerebbe prendere parte a tutto questo divertimento, ma quando volgo il mio unico occhio verso di loro, ragazzo, nonnina, e barbone girano tutti la testa e provano un bisogno impellente di contemplare il sistema antincendio fissato sul soffitto. I turisti [visitatori] devono avere un gran paura del fuoco.” (5).
Purtroppo questo comportamento è diffuso e involontario, spesso non sappiamo come comportarci; la malattia e maggiormente l’handicap fisico ci spaventano molto, sono uno scheletro che non vorremmo vedere, non s’intonano con la “società dell’immagine”; tutti belli, tutti sani, tutti forti, tutti …, che continuamente ci viene riproposta e che ci induce la paura del contagio.
La malattia, in senso lato, ci mette davanti senza mediazione alcuna, alla profonda instabilità e fragilità del destino umano: ci sentiamo impotenti e questo ci fa stare male.
Nel libro affiora preponderante la problematica del rapporto con i famigliari: “Mio padre spiega le sue difficoltà a reggersi in piedi. Attraversa coraggiosamente il suo 93° anno di età (Jean-Dominique ne ha solo 43, padre di due bambini, sarà costretto a vivere un’esistenza di grande disabile per poi morire all’età di 45 anni) […]. La dolce Florence non parla se prima non ho respirato rumorosamente dentro la cornetta….”(6), per non parlare dei figli che ripetono “E’ il mio papà , è il mio papà! come fosse la formula di un incantesimo” (7).
La società troppo spesso si cela dietro a messaggi di solidarietà che rimangono inesorabilmente non
compiuti, in realtà non fa altro che favorire quel sistema di interessi, egoismi, vere e proprie truffe che il linguaggio economico giustifica in nome di un mercato onnisciente.
Non mi voglio addentrare ulteriormente in una riflessione socio-politica, non è il fine che mi sono proposta in questo lavoro, penso però che sia necessario sviluppare una sensibilità più consona a queste problematiche e prendere posizioni più chiare a riguardo.
Penso ad esempio all’eterno problema delle barriere architettoniche; solo nella nostra facoltà, in una recente ricerca ne abbiamo rilevate diverse. Altra questione non meno importante e che colpisce le persone con handicap sensoriale necessiterebbe di sistemi d’avanguardia, che prevedono insegnamento integrato, cioè linguaggi e metodi più funzionali ai bisogni individuali
Lo scafandro che dall’etimo francese scaphandre e dal greco skàphe “imbarcazione” e anèr, andròs “uomo” rimanda ad un’idea di movimento, pare suggerire che in definitiva l’unica vera possibilità di “viaggiare”, quindi di conoscere, fare esperienza , appartenga alla categoria del pensiero: in altre parole conta di più quello che pensiamo della realtà che ci rappresentiamo, che non la realtà stessa.

Note
1. Tradotto in italiano col titolo Lo scafandro e la farfalla (Ed. Ponte delle Grazie srl, Milano, 1997,pp.126).
2. Bauby J.D. , Lo scafandro e la farfalla , Famigliano (CN) , Milanostampa S.p.a. , 1997 , risvolto di copertina
3. idem , p. 80
4. Bauby J.D. , Lo scafandro e la farfalla , Farigliano (CN) , Milanostampa S.p.a. , 1997 , p. 8
5. Bauby J.D. , Lo scafandro e la farfalla , Farigliano (CN) , Milanostampa S.p.a. , 1997, Pp. 36 – 37
6. idem , Pp. 44 – 45
7. idem , p. 71

(*) laureanda alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Parma