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Dall’imbuto di Norimberga alla costruzione condivisa dell’apprendimento

Due convinzioni radicate

Il senso etimologico del termine educazione (ex-duco) riconduce al significato di guidare, condurre verso uno scopo. Questa forte valenza di indirizzo e guida esercitata da “chi sa” verso “chi non sa” ha formato il modello educativo prevalente per buona parte della storia europea ed è a tutt’oggi ben esemplificato da due convinzioni presenti, più o meno esplicitamente, nella più parte del modo comune di pensare e gestire il processo di apprendimento.
“La prima convinzione può essere illustrata dalla Metafora dell’imbuto di Norimberga che trae origine da un incisione su legno del diciassettesimo secolo dove si vede una sedia sulla quale è seduto un ragazzo che in testa ha un buco nel quale è infilato un imbuto. In piedi accanto al ragazzo c’è l’insegnante intento a riversare nell’imbuto A, B, C, 2+2=4 e tutto il resto della sapienza dell’epoca. Questo favoloso e ingegnoso dispositivo è stato chiamato ’imbuto di Norimberga’ perché è in quella città che per la prima volta fu immortalato in un’incisione.
Si tratta di un dispositivo certamente molto attraente, se è vero com’è vero che ancora nel nostro secolo tutte le nozioni sull’imparare e insegnare ruotano attorno a questa idea della conoscenza come qualcosa che alcuni possiedono e altri no e che i primi possono versare nelle menti dei secondi. La conoscenza è concepita come un’entità, come un insieme di oggetti. Purtroppo le cose non funzionano così, ma si assume che così sia, che l’apprendimento sia un processo di questo tipo.
La seconda convinzione nasce dalla necessità di renderci periodicamente conto di cosa lo studente sa, cosa ‘ha imparato’. E allora lo esaminiamo; gli facciamo delle domande e ascoltiamo e valutiamo le sue risposte.
Un mio collega, un compositore di nome Herbert Brun, tempo fa mi fece notare che esistono due tipi di domande: quelle che ha chiamato le ‘domande legittime’, cioè le domande per le quali non abbiamo ancora una risposta e le altre che ha chiamato ‘domande illegittime’, di cui già conosciamo la risposta. Se accettiamo questa distinzione, dobbiamo riconoscere che le domande che gli insegnanti rivolgono agli studenti, sono tutte domande illegittime, di cui già si conosce la risposta; il loro unico scopo è verificare se la sa anche lo studente.
Faccio un salto e arrivo al problema successivo: a scuola gli studenti dovrebbero essere stimolati a porsi e porre domande legittime; ma come fanno ad apprendere se non c’è esempio e occasione?
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chi apprende e chi insegna; anche Paulo Freire ci dice che “Ogni pratica educativa è complessa e contraddittoria, ha a che fare con me e con gli altri”.
Conoscere, possedere un sapere è quindi un processo che ci induce a fare i conti contemporaneamente con due posizioni. Una estremamente soggettiva, legata alla possibilità che il soggetto ha di riconoscere in ciò che gli viene proposto come contenuto di apprendimento qualche tratto (o molteplici tratti) da ricondurre a sé, alla propria storia, competenza, aspettativa.
L’altra che rimanda alla dimensione dialogica, di scambio e apertura verso l’altro. Si impara con e a partire dagli altri come è esemplarmente concretizzato dal fondamentale processo di acquisizione del linguaggio nel bambino piccolo.
In senso generale si può dire che siamo in possesso di una forma di conoscenza quando essa diventa parte della nostra esperienza, viene cioè rielaborata riconoscendone gli aspetti di vicinanza e di distanza.

La lettura

Genitori, figli, insegnanti
La scuola, sin dagli inizi, si è distinta come istituzione che, contrariamente ai rischi della vita sociale, organizza l’apprendimento in maniera sistematica, progressiva ed esaustiva. Finché la società riteneva del tutto normale che l’accesso al sapere fosse determinato dal retaggio familiare, non vi era necessità di avere una scuola. Ciascuno apprendeva ciò che i propri genitori e la propria cerchia di conoscenti sapevano. Si viveva in un ambiente dato, di cui si sforzava di apprendere progressivamente il linguaggio, i modi e le competenze; l’apprendimento funzionava in sostanza per osmosi. Risultato: si impiegava molto tempo e ciò che ogni persona sapeva si limitava a ciò che l’ambiente in cui viveva poteva insegnare.
Furono gli enciclopedisti settecenteschi (Diderot, d’Alambert, ecc.) i primi a immaginare uno strumento che mettesse a disposizione di tutti coloro che sapevano leggere il complesso dei saperi elaborati dagli uomini. L’obiettivo della loro impresa – che noi oggi proseguiamo mediante una molteplicità di strumenti e istituzioni quali libri, enciclopedie a stampa, sonore, visive o digitali, manuali e programmi scolastici, musei, conservatori, ecc. – era avvicinare gli uomini alla conoscenza e consentire loro di accedervi in maniera progressiva ed esaustiva. È un primo piano, notevole passo verso la democratizzazione dell’accesso al sapere. Ma i sociologi del ventesimo secolo ci hanno insegnato che “mettere a disposizione” non è sufficiente e che l’offerta, per quanto ben concepita, rinvia sempre all’ineguaglianza delle persone e dei gruppi nel trovare la propria strada nel labirinto dei saperi e nel comprendere ciò che viene proposto loro. In altre parole: i saperi, oggi, sono a portata di mano. Un tempo era sufficiente aprire un manuale o un’enciclopedia; ora basta ciccare su Internet… Ma con ciò, in realtà, si accede soltanto a una massa di informazioni. Occorre saperle cercare, comprenderle, vagliarle, confrontarle, metterle in relazione le une con le altre, identificare ciò che è necessario memorizzare… È nostro compito proseguire l’opera degli enciclopedisti. È compito degli insegnanti di oggi essere gli enciclopedisti di domani… veri professionisti, non solo della “distribuzione” delle conoscenze, ma anche dell’accesso ragionato e autonomo ai saperi. Si tratta del prolungamento naturale del tradizionale mestiere di insegnare; ma ciò richiede anche una nuova professionalità, caratterizzata da un’attenzione particolare a ciò che assai impropriamente viene definito “studio a casa”.

(P. Merieu, I compiti a casa. Genitori, figli, insegnanti: a ciascuno il suo ruolo, Milano, Feltrinelli, 2002)




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