Recentemente è scomparso Luciano Tavazza, presidente della FIVOL (Fondazione italiana per il volontariato), fondatore e per lunghi anni presidente del MoVI, (Movimento di volontariato italiano).
Con Luciano Tavazza scompare una delle intelligenze più lucide del volontariato italiano e una delle poche persone capaci di una continua e coerente spola tra cultura laica e cultura cattolica, tra volontari e cittadini, tra servizi pubblici e volontariato, tra operatività e riflessione culturale, tra attualità e memoria, tra vertici e base.
Per chi lo conosceva di persona, come alcuni di noi, scompare contemporaneamente un padre, un amico, un maestro.
Vogliamo ricordarlo con un suo articolo del 1994, apparso sulla Rivista del Volontariato, dedicato alle “paure” del volontariato. Paura come limite ed insieme snodo di crescita; ci pare questo articolo senz’altro un pezzo importante del testamento spirituale di Luciano.Il volontariato moderno, celebrerà nel 1994 venti anni di riflessione culturale, di radicale rivisitazione dei suoi valori, delle motivazioni che lo ispirano, del ruolo che è chiamato ad assolvere, attraverso innovatìve strategie sociali, economiche, politiche, per far fronte ad una serie di appuntamenti non eludibili con la storia del nostro Paese.
Ogni tappa di svìluppo del suo dinamico cammino ha registrato ? anche in certi ambienti socialmente meno maturi ? una reazione di paura, di rifiuto del nuovo, un timore quasi congenito di perdere identità, autonomia, prestigio, potere, dimenticando il pressante invito dell’attuale Pontefice ad abbandonare l’assistenzialismo per “affrontare i problemi alle radici”, anziché chiudersi nella prassi del puro “riparatorio” a “schierarsi dalla parte dei poveri” anziché rifugiarsi nelle sole opere di carità!
Una sorta di cultura del sospetto, mai applicata per condurre un esame di coscienza civile e religiosa sulla validità storica del loro operato, ma proiettata sempre nell’essere “annunciatori di sventure”, come diceva argutamente Giovanni XXIII. Paventando cioè rischi, difficoltà, pericoli, dimenticando di essere espressione di un messaggio evangelico alla ricerca spirìtuale ed operativa di orizzonti di “nuovi cicli e nuove terre”.
Questi ambienti del volontariato alle soglie dei 1994 sono percorsi oggi dalla settima paura: il confronto ? che pare non eludibile ? fra il mondo dell’azione volontaria, della gratuità, del disinteresse, con quello economico, del mercato, delle imprese; quasi che fosse non difficile e complesso, ma di per sé impossibile, comporre imprenditorialità e solidarietà al contrario dì quanto anche autorevolmente affermato dal Stefano Zamagni (docente di Economia all’Università di Bologna), nell’ambito della recente settimana nazionale dei cattolici italiani in cui fu sottolineata l’urgenza di accettare con crescente competenza, autonomia, progettualità questo fondamentale confronto.
Eppure basterebbe un minìmo di “memoria storica” per registrare che, chi ha avuto precedenti pregiudìziali paure lungo il cammino del volontariato, ne è uscito ogni volta sconfitto sia sul piano culturale sia nella presenza incisìva sul territorio, abbandonando ?così di volta ìn volta ? gli emarginati al loro destino o indebolendone le dìfese.
Varrà la pena di ripercorrere insieme queste tappe di mutamenti e paure cariche dì insegnamenti.
Nel 1974 Monsignor Nervo delineava ? come contributo della Caritas italiana ? alcune caratteristiche innovative del volontariato moderno: la rimozione delle cause, il dare voce agli oppressi, il puntare al mutamento delle politiche sociali, l’uscire dalla sola beneficenza e dall’assistenzialismo.
Seguono quattro anni dì durissime e sotterranee polemiche. Si arriva persino a dire che “si scivola verso un volontariato marxisteggiante”. La reazione della cultura italiana anche dei soggetti lontani dalla Chiesa, dei volontariato laico è invece tutta positiva. L’opinione pubblica guarda ora con più attenzione e stima questo tipo dì azione gratuita, liberata dal concetto di beneficenza.
Nel 1978 alcuni movimenti impegnati nell’azione volontaria (tra cui l’ANPAS e il MoVI) hanno sostenuto la necessità che il volontariato avesse, oltre alla dimensione delle testimonianze, dei servizi, della donazione e condivisione, la dimensione politica; di impegno cioè a mutare la qualità della vita nella comunità. La reazione di questa seconda paura è ancora più violenta.
Alleandosi con i partiti che avvertivano in questa scelta la caduta del collateralismo, la crescita della autonomia del volontariato, gli stessi ambienti ancora una volta denunciavano la “dissacrazione dell’autentico volontariato”, l’intrusione in campi non suoi; leggevano il termine “politico” per “partitico”, annunciavano l’uscita da un “cammino storico che ci teneva lontani dalla tentazione del potere!”. Questa scelta segnava invece una svolta, una maturazione dei gruppi rispetto all’attuazione dello spirito della costituzione; una crescita dei movimenti nella difesa dei diritti di cittadinanza.
Un certo volontariato tradizionale ? fermo alle opere di beneficenza ? sembrava non capire che chi afferma di non far “politica” fa la peggiore delle politiche possibili: si schiera con i forti, con chi non vuole cambiare il sistema di ingiustizie sociali, con le “strutture di peccato” (Giovanni Paolo XXIII°).
Nel 1982 e dal 1984 i convegni biennali organizzati dal Centro di volontariato di Lucca affrontavano due problemi nodali: la legislazione del volontariato e la collaborazione con gli Enti Locali, abbandonando così una tradizione storica di separatezza, di concorrenzialità, talvolta di lotta fra iniziative della società civile e servizi e politiche dello Stato, delle Regioni, delle autonomie locali. Immediate le reazioni, della terza e quarta paura, talune addirittura di carattere integralistico: la legge sarebbe stata la “fine dell’autonomia”, la gabbia, la trappola. Questi gruppi di retroguardia persino in Parlamento fecero per cinque anni la lotta al progetto Lipari?Martini, mentre a parole fingevano di essere d’accordo. Non parliamo della auspicata collaborazione con lo Stato. Moriva così ? a loro dire ? il protagonismo del volontariato, la sua originalità e libertà, ci si appiattiva sul Pubblico!
Mischiare professionisti “senza ideali” a volontari “portatori di valori” sembrava essere l’ultima sciocchezza! Per fortuna oggi, nonostante reali difficoltà, incomprensioni e talora insuccessi, il volontariato più maturo collabora gradualmente, nella dovuta autonomia, sia alla nuova legislazione del Paese, sia alla revisione e innovazione delle sue politiche sociali.
Dal 1986 i gruppi di azione gratuita più attenti ai problemi della lotta alla emarginazìone e della difficoltà di vincerla qualora la si affronti in ordine sparso, o addirittura sul piano della concorrenza, hanno iniziato un ampio dibattito culturale e una collaborazione organica con il sindacato e le cooperative di solidarietà sociale. Si sono levate ancora una volta a causa della quinta paura le reazioni allarmistiche: il volontariato sarà “divorato” da queste realtà sociali molto più forti; alla gratuità si sostituirà l’imprenditorialità; al volontario il “militante”, al protagonista del gratuito il socio lavoratore; al non economico la legge della cooperazione; al dialogo la conflittualità, al messaggio sociale della Chiesa, le politiche rivendicative dei sindacati. Oggi a otto anni di distanza si deve invece registrare, che nel rispetto delle non valicabili autonomie, chi lo ha voluto ha costruito importanti sinergie con queste due componenti;
Negli anni ’90 la Fondazione Zancan, sempre attenta a cogliere il nuovo, le “gemme terminali” ? come dice Nervo ? dei fenomeni sociali, sottolineava l’opportunità di un volontariato attento a collaborare con il “terzo sistema”. Ciò in una visione di “strategie di insieme” per il mutamento incisivo delle politiche sociali, divenute inefficaci e obsolete, talvolta controproducenti nel nostro paese. Produce in proposito materiale di studio di ottima qualità.
La reazione della sesta paura è sempre la stessa. Che cosa è questo “americanismo”? Non esiste il “settore no profit”! Vogliamo “imbastardìre” l’azione volontaria? Cosa c’entra l’azione gratuita con i patronati, con l’associazionismo, con il lavoro autogestito? Vogliamo far morire forse i gruppi parrocchiali? Vogliamo inventare la “terza via” mai riuscita e nessuno in economia?
Ed eccoci all’ultima paura. La Fondazione Italiana per il Volontariato, dopo aver ascoltato le sollecitazioni di numerose grandi organizzazioni affronta a Bari durante la “II°Settimana nazionale dei volontariato” ? nella primavera del 1993 ? il problema dei rapporti fra l’azione gratuita ed il mercato, l’impresa, il mondo della produzione; la necessità inoltre di una revisione del sistema fiscale, ispirandosi a legislazioni europee ed anglosassoni sperimentate positivamente da alcuni decenni. Ed ecco che piove fuoco: stiamo per venderci, ci si domanda, alla Confindustria, alle Banche? Si diventa succubi del padronato. Ci si avventura nel mondo dell’economia capitalista!
A parte questi lamenti, di soggetti in eterna apprensione, il volontariato si trova oggettivamente dinanzi a questa sfida. La sua preparazione in materia è oggi ancora insufficiente.
Perciò vuole studiare tempestivamente il problema e si rivolge a quanti economisti, imprenditori, amministratori, sindacalisti, sociologi, responsabili di nostre organizzazioni, possono aiutarlo a condurre una ricerca che aumenti la sua progettualità, imprenditorialità, la sua cultura delle imprese.
Non solo, ma anche l’individuazione, la ricerca di fonti finanziarie trasparenti, che non ledano la sua autonomia, che provengano dalla libera scelta dei cittadini, con procedure che superino l’attuale penalizzante sistema fiscale.
Per questo proseguira la sua ricerca, dal 19 al 27 marzo 1994 a Bari, in occasione della “II° Settimana nazionale del volontariato”, aperta al contributo culturale di tutti.
A chi di nuovo si allarma, si suggerisce di riflettere sulla “memoría storica” di questi venti anni di crescente successo della qualità di solidarietà espressa dal volontariato.
Agli immemori ricordiamo un detto della saggezza orientale: “nella dimenticanza della memoria è la radice del male”.
Nel nostro caso il “male” di arrivare in ritardo, rispetto alle esigenze di solidarietà tempestiva,
richiesta dalla sofferenza odierna di alcuni milioni di italiani.