Due anni fa, il 17 luglio 1995, una donna partorì due gemelli all’ospedale di Porretta e decise di non riconoscerli. Il giornalista che preparò il servizio sull’episodio per un quotidiano molto seguito, cercò di spiegare perché la redazione aveva scelto di dare spazio all’accaduto e scrisse: "L’episodio (…) non fa tanto notizia per la decisione assunta e peraltro coperta dall’opportuna riservatezza di legge, ma piuttosto perché a prenderla è stata una donna del Marocco di quasi trent’anni." Evidentemente l’identità marocchina è motivo sufficiente per trasgredire la riservatezza di legge, almeno nel suo spirito, perché l’articolo è comunque uno sfacciato tentativo di indagare nella storia privata della donna, anche se la sua identità anagrafica non viene rivelata. Impariamo tante cose su di lei: "cittadina extracomunitaria che vivrebbe nella nostra provincia in stato di clandestinità; non sarebbe in grado di presentare un permesso di soggiorno né tantomeno di esibire un contratto di lavoro." e "non risulterebbe sposata". La donna è inoltre senza recapito: "…difficoltosi e pieni di interrogativi ancora senza risposta gli accertamenti avviati dai militari dell’Arma per conoscere almeno il recapito della donna." Insomma, conclude il giornale, "una mamma del mistero". E mentre qualche lettore comincia a capire il perché del gesto della donna -clandestina, senza casa e senza lavoro in un paese straniero-, il giornale si esprime anche sul carattere della protagonista della storia. L’articolo è intitolato "Questi figli non li voglio": una marocchina partorisce una coppia di gemelli e subito dopo li ‘ripudia’ e comincia con la frase: "Ha partorito due gemelli, ma, a quanto pare, per lei l’evento si è rivelato tutt’altro che lieto…. ." I bimbi stanno bene, come la mamma che, "ha però immediatamente fatto sapere la sua irremovibile decisione". Insomma, agli occhi del giornale si tratta di una donna senza cuore e con tante cose da nascondere (1).

Quasi due anni dopo, il 29 aprile 1997, Teun A. van Dijk, professore dell’Università di Amsterdam, teneva alla Cappella Farnese del palazzo d’Accursio di Bologna una conferenza su "Il linguaggio razzista: la riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani" (2). Il professore, impegnato in varie associazioni e gruppi olandesi e internazionali che hanno lo scopo di rilevare il razzismo nascosto in giornali, discorsi politici, libri di testo, etc., è in Europa ormai un "profeta nel deserto". La sua analisi lucida e tagliente, che dimostra come le élite tendono a mascherare nel loro linguaggio i pregiudizi che sono alla base di un razzismo nascosto, è pungente e, in un certo senso, infastidisce. Mentre Van Dijk in America Latina trova sempre la aule piene -a volte vi sono più di 2000 studenti a seguire le sue lezioni-, ad Amsterdam il suo gruppo di fedeli si è ridotto a 20 studenti l’anno. Si è fatto molti avversari, il Professore, ma la sua lezione vale la pena di essere ascoltata, anche perché, come l’articolo dimostra, i fenomeni di razzismo nel linguaggio quotidiano sembrano riguardarci da vicino.

Nella sua conferenza Van Dijk si è soffermato soprattutto sul linguaggio politico, analizzando come molti politici parlano di problemi legati all’immigrazione. Alla base della ricerca vi sono centinaia di dibattiti parlamentare sull’immigrazione tenuti nei vari parlamenti europei e analizzati da collaboratori e colleghi. Precedentemente Van Dijk si è occupato anche del razzismo nei libri di testo e nei mass media (3).

Le élite pericolose

Nell’introduzione al libro "Il discorso razzista", Laura Balbo tenta di riassumere il filo conduttore del pensiero dell’autore (4): egli afferma con convinzione che le società in cui viviamo sono fondamentalmente razziste. I suoi studi però non ricercano le cause del fenomeno, egli sceglie piuttosto di analizzare e mettere in evidenza le molteplici modalità di riproduzione del razzismo. La conclusione della sua analisi si concretizza con l’invito a fare resistenza: impedire, interferire, in qualche modo bloccare i meccanismi di tale riproduzione.

Van Dijk distingue vari piani sul quale si sviluppa il discorso razzista. Ovviamente esiste il razzismo quotidiano e diretto, quelle espressioni facilmente riconoscibili come razziste, spesso espresse da individui durante i discorsi quotidiani. Sicuramente gravi, ma con un impatto -e quindi con un danno- relativamente limitato. Più pericoloso è il razzismo delle élite politiche, culturali ed accademiche, perché espresso da persone con un forte potere di comunicazione, simbolizzazione e legittimazione. Attraverso le strutture esistenti (i mass-media, il sistema politico, la scuola, l’università) il loro razzismo diventa "discorso pubblico". E’ evidente che non si tratta di discorsi apertamente razzisti, ma di pregiudizi, di generalizzazioni, di valutazioni e di utilizzo di metafore e simboli che partendo da un centro di potere assumono legittimità, per poi diffondersi nella società.

Queste élite forniscono una cornice ideologica sottilmente persuasiva che rappresenta la "situazione etnica" nei paesi occidentali. Sono le élite che forniscono i "fatti" e in base a essi formulano le politiche in materia d’immigrazione, abitazione, lavoro, integrazione culturale. Questa cornice ideologica è costituita dalle seguenti proposizioni e strategie:

1. Diversità. Gli immigrati sono diversi. Hanno una cultura, una lingua e una religione diversa. Loro non fanno parte né di noi, né del nostro paese e vanno quindi trattati in modo diverso.

2. Concorrenza. Gli immigrati sono venuti qui per vivere e lavorare e occupano quindi i nostri posti di lavoro e le nostre case. Inoltre usufruiscono dei nostri servizi sociali e delle nostre scuole. Non essendocene a sufficienza per tutti, il nostro popolo diventa la vera vittima della loro presenza.

3. Minaccia. Il loro comportamento mette a rischio la nostra sicurezza e il nostro benessere. Sono principalmente clandestini, violenti e spacciatori. Minacciano le nostre donne, i bambini e gli anziani. Inoltre i loro abitudini costituiscono un pericolo per i nostri modelli culturali.

4. Problemi. Con la loro presenza e le loro attività, gli immigrati procurano guai in ogni settore della società. Non sono mai soddisfatti e protestano anche contro norme ragionevoli. Non sono solo causa di problemi ma hanno costantemente dei problemi, per esempio a scuola o nel lavoro. Provocano persino degli atti discriminatori da parte di alcuni di noi. Nonostante diamo loro tutte le opportunità, essi non si adeguano a sufficienza alle nostre regole che valgono per tutti.

5. Aiuto. Nonostante tutto la nostra etica cristiana ci dice di aiutarli, gli enti pubblici intervengono direttamente attraverso i servizi territoriali e tanti di noi si impegnano nel volontariato. In cambio ci aspettiamo un po’ di gratitudine e collaborazione, sperando che accettino le nostre condizioni, i nostri costumi, le leggi e le regole.

6. Presentazione di sé. L’Italia è un paese ospitale. Non abbiamo pregiudizi e non siamo razzisti. Coloro i quali affermano il contrario mentono o esagerano. Il razzismo e la discriminazione sono soltanto individuali e al margine della società. Sono spesso gli strati sociali più bassi, con meno strumenti culturali, che hanno dei pregiudizi. Noi, istruiti, non li abbiamo (5).

Emerge chiaramente una distinzione fra "loro" e "noi", fra una rappresentazione negativa e problematica di loro e una rappresentazione positiva e non problematica di noi.

"Italiani brava gente"

Torniamo alla signora nell’ospedale di Porretta. Il modo in cui viene rappresentata risponde perfettamente alle caratteristiche attribuite a loro dalla cornice ideologica di Van Dijk. Lei è molto diversa di noi. Anzi, la sua diversità è il motivo per pubblicare l’articolo. Ma come reagisce l’altra parte, il noi? I primi a muoversi sono i medici (il pronto soccorso, l’ambulanza, il reparto di ostetricia) che lavorano tempestivamente e senza commettere errori. Poi i carabinieri che fanno gli accertamenti. Dopo di che si mettono a lavorare sul serio: "Sotto il coordinamento del Comando compagnia di Vergato alcune stazioni dei militari dell’Arma della media ed alta Valle del Reno non sono riuscite, almeno per il momento a stabilire dove la donna abbia abitato fino ad ora". Poi i "competenti servizi assistenziali dell’Azienda Usl Bologna Sud", che avviano "le operazioni per l’assegnazione dei due neonati ad un istituto in attesa della eventuale richiesta di adozione". Infine anche l’Ufficio Stranieri della Questura di Bologna viene consultato dai carabinieri per "fare luce su questa donna". Insomma, la risposta dei nostri servizi e delle nostre istituzioni è tempestiva, non guarda ai costi o all’impegno di tantissime persone. Il fronte italiano è compatto, unito e collaborativo, giornalista incluso. Ognuno fa quello che deve fare con impegno e dedizione come una macchina ben oleata.

Il conformismo dei giornalisti

L’articolo considerato faceva parte di un gruppo di 70 articoli pubblicati nel mese di luglio 1995 sui quotidiani La Repubblica, L’Unità, Il Resto del Carlino e Il Manifesto nelle pagine di cronaca locale bolognese dedicate all’immigrazione. Gli articoli sono stati letti e analizzati in base alla teoria di Van Dijk sul razzismo nei mass media (6) dai partecipanti al corso di formazione rivolto a "Operatori per l’accoglienza e l’integrazione degli immigrati" del Centro di Formazione "Galileo" nell’ambito del modulo Gli strumenti della comunicazione, curato da sottoscritto.

Dall’analisi degli articoli è emerso il seguente quadro (7):

C’è un gruppo di cittadini che in base alla loro provenienza viene trattato dalla stampa in modo diverso e viene conseguentemente rappresentato come "diverso".

Un fatto di cronaca nera, ma non solo, aumenta di valore giornalistico se vi è coinvolto un rappresentante del gruppo generalmente indicato come "gli stranieri" o "gli extracomunitari".

Ai rappresentanti di questi gruppi vengono principalmente attribuiti due ruoli: quello di "cattivo" o di "vittima".

Essendo cattivi o vittime causano problemi al gruppo dominante e soprattutto alle sue istituzioni.

L’immagine che emerge a proposito dei rappresentanti del gruppo dominante è quello di grande efficacia, di grande capacità decisionale e di spirito di sacrificio per aiutare i membri dei gruppi stranieri. Nonostante ciò gli stranieri causano problemi.
I meccanismi e le strategie giornalistiche che contribuiscono a sostenere questa immagine sono: la scelta delle notizie (molta cronaca nera con immigrati coinvolti); il lasciar prevalere i commenti delle istituzioni rispetto a quelli delle persone direttamente coinvolte (ad esempio: è più facile trascrivere il comunicato stampa dalla polizia che andare con gli stivali lungo Reno ad intervistare gli nomadi); il modo di presentare i fatti (iper-completezza, vaghezza, esagerazione); la colpevolizzazione delle vittime (se un marocchino viene picchiato è automaticamente un regolamento di conti) e, infine, la rappresentazione positiva del proprio gruppo.

Il razzismo quotidiano

Gli stereotipi e il razzismo, una volta diventati "discorso pubblico", si diffondono nella società attraverso i discorsi quotidiani della gente. I discorsi di senso comune sugli stranieri, anche se in tono diverso, sono caratterizzati da meccanismi e strategie analoghi a quelli applicati dalle élite: l’immagine positiva di sé stessi ("Non sono razzista, ma……";"Non ho nulla contro di loro, ma……"); l’alleggerire le affermazioni negative ("Ci sono anche dei buoni, ma la maggior parte….); l’attribuzione di giudizi negativi ad altri o ai mass-media ("Il quartiere non ne può più….", "Dicono che non si lavano….") o l’utilizzo di singole esperienze negative come "prova" generale a sostegno di un parere negativo ("Una volta, in autobus, ho visto….."). I temi che ricompaiono sono il lavoro, la casa, la criminalità, la diversità e il rifiuto di integrarsi da parte degli stranieri.

Una delle strategie argomentative preferite delle persone più istruite -spesso quelle più preoccupate per la propria immagine- è quella di mostrare comprensione e simpatia ("Ma poveretti, stanno molto meglio a casa loro, nella loro cultura, dobbiamo aiutarli laggiù, qui subiscono solo la discriminazione di chi non li vuole.").

Un aspetto interessante è la percezione che i bianchi "poveri" hanno di se stessi come doppia vittima: sia nei confronti degli stranieri, sia nei confronti del governo che non fa niente per risolvere il problema. Anzi, "Non li manda via" e "Adesso gli danno anche la casa……". Van Dijk sospetta intenzionalità da parte delle élite, che grazie all’accentuazione sistematica di certi "problemi" sono riuscite a far sviluppare l’ideologia etnica in maniera tale che l’appartenenza ad una classe socioeconomica rimane in secondo piano.

Van Dijk sostiene che la rappresentazione negativa di un altro gruppo serve soprattutto a rafforzare la propria immagine e, in tempi di crisi culturale, politica e economica, a mascherare il fallimento del gruppo dominante nel risolvere i suoi problemi, attribuendo la colpa ad altri. Un’affermazione che allarga molto il campo di riflessione, che evidenzia come i modelli di Van Dijk, senza grandi modifiche, sono applicabili a tante minoranze, o gruppi discriminati: omosessuali, handicappati, donne, etc. Proprio per questo vale la pena di ascoltare Van Dijk. Non ci insegna solo qualcosa sul razzismo o sull’analisi di testi; il suo è un modello universale di esercizio di potere per proteggere, anche inconsciamente, la propria cultura, la propria posizione di gruppo dominante, un potere "bianco", pulito, accettabile, mille volte più sottile dei metodi del Grande Fratello di Orwell.

Note:

(1) Tutte le citazioni provengono da un articolo pubblicato sul Resto del Carlino del 18.07.1995, pag BO/8.

(2) Conferenza organizzata da: Associazione Culturale Italia-Olanda-Fiandre, COSPE, Dipartimento di Scienze dell’Educazione e facoltà di Psicologia dell’Università di Bologna, Istituto Gramsci Emilia-Romagna, Istituzione G.F.Minguzzi, in collaborazione con il coordinamento per il monitoraggio degli incidenti razzisti a Bologna e con il patrocinio dell’Istituzione dei Servizi per l’immigrazione del Comune di Bologna.

(3) Per conoscere i risultati delle ricerche dell’autore sulle analisi del linguaggio utilizzato nei libri di testo e per consultare uno strumento prezioso di critica dei sistemi d’istruzione formale. cfr. T.A. Van Djik 1994a.

(4) T.A. van Djik 1994b pag. 5

(5) T.A. van Djik 1994b pagg. 67-70

(6) T.A. van Djik 1993

(7) Cfr. anche l’articolo di Francesca Carvelli sull’immigrazione degli Stranieri nella stampa italiana, HP53 luglio/agosto 1996

Bibliografia

– Teun A. van Dijk 1981: Testo e Contesto. Il Mulino, 1981.
– Teun A. van Dijk 1989: La riproduzione del pregiudizio. In: Democrazia e diritto, XXIX, 6. Pag. 127-50.
Teun A. van Dijk 1993: Élite Discourse and Racism. Sage, Newbury Park.
– T. A. van Dijk 1994a: Il "discorso" pedagogico. In: M. Mezzini, T. Testigrosso e A. Zanini: La fabbrica del pregiudizio. Per conoscere ed affrontare i pregiudizi culturali nella scuola. Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole. Pag. 76-130.
Teun van Dijk 1994b: Il discorso razzista. La riproduzione del pregiudizio nei discorsi quotidiani. Messina, Rubbettino.

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