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Autore: admin

6. Imparare da chi è meno fortunato, aspettando la ripresa

Maurizio Marchesini è amministratore delegato di Marchesini Group, grande azienda di macchine automatiche per il packaging con sede principale a Pianoro (BO) che si è distinta per le buone prassi nell’integrazione di lavoratori con disabilità. Dal giugno 2009 Marchesini è inoltre Presidente di Unindustria Bologna, l’associazione di imprese nata nel 2007 dalla fusione di Api Bologna e Confindustria Bologna.

Ci può descrivere il vostro contesto aziendale e la vostra esperienza come azienda nell’integrazione di lavoratori svantaggiati?
Siamo un’azienda a fortissima vocazione internazionale (il nostro fatturato viene per l’85% dall’export) ma ancora a conduzione sostanzialmente familiare, nonostante le nostre dimensioni siano cresciute notevolmente. All’interno delle maestranze è ancora presente la prima generazione, che però sta progressivamente andando in pensione. C’è comunque un forte desiderio da parte dei più anziani di inserire i giovani, e questa è una caratteristica tipica dei fondatori. Complessivamente il clima aziendale è molto disteso e familiare. I dirigenti hanno ordine di tenere le “porte aperte”. Ci teniamo che le persone vivano in armonia nel contesto lavorativo, visto che vi passano una parte notevole del loro tempo. Tutto ciò vale naturalmente anche nei riguardi dei lavoratori svantaggiati. Il loro inserimento, per noi, non è solo un obbligo di legge: è, piuttosto, l’opportunità di integrare nella nostra comunità lavorativa qualcuno meno fortunato, che può peraltro insegnare tanto.

Quali sono le motivazioni, sia personali che aziendali, in base a cui decidete di procedere all’inserimento di lavoratori con disabilità in azienda, e con quali criteri di massima gestite tirocini e assunzioni?

Cerchiamo, nel nostro ambito, di tradurre sul piano pratico e con comportamenti concreti un tema molto forte quale è la responsabilità sociale dell’impresa. La conduzione familiare dell’azienda ci permette di dare ancora l’impronta a determinate scelte. Ad esempio, prestiamo grande attenzione, per quanto possibile, affinché i lavoratori con disabilità che vengono inseriti alla Marchesini Group siano residenti nel territorio prossimo all’azienda: questo permette loro di raggiungere il posto di lavoro in autonomia, e di non gravare ulteriormente sulle famiglie.

Quali supporti o consulenze esterni ricevete abitualmente nella fase di inserimento lavorativo e in quella successiva al lavoro? Esistono forme di sostegno che vorreste ricevere, ma che l’attuale sistema dei servizi non fornisce?
Da alcuni anni abbiamo un confronto diretto con l’Ufficio Provinciale del Lavoro, con cui ci confrontiamo per le eventuali necessità aziendali o loro stessi ci indicano persone da valutare: e questo, possiamo assicurare, è un ottimo metodo. L’ufficio attiva delle “Borse Lavoro” che permettono sia al lavoratore che all’azienda di valutare la reale fattibilità all’inserimento lavorativo e di conseguenza all’assunzione definitiva. Per la nostra esperienza, i servizi sono presenti nella prima fase di inserimento, poi scompaiono completamente. Sarebbe utile un loro periodico monitoraggio del lavoratore soprattutto per alcuni tipi di handicap.

Come incidono sul processo di inserimento, in senso positivo o negativo, le relazioni tra colleghi? Come direzione aziendale attuate interventi su questa dimensione per facilitare l’inserimento?
Spesso chi è meno fortunato ha in realtà tantissimo da insegnare, soprattutto in fatto di integrazione e accoglienza. E noi ci teniamo a incentivare questi valori, anche e soprattutto attraverso le relazioni che si instaurano tra colleghi di lavoro. In particolare, inoltre, ogni volta che in azienda viene inserito un disabile, facciamo sì che trovi al suo fianco un responsabile (scelto naturalmente con caratteristiche idonee per svolgere questo ruolo) che ha il compito di prendersene cura.

Quali sono le strategie e i progetti che come Presidente di Unindustria Bologna ha attuato o intende attuare per facilitare i percorsi di inserimento lavorativo nelle aziende associate di persone con disabilità?
Unindustria ha sempre partecipato attivamente a tutti i “tavoli” su questo tema. E, mi preme sottolinearlo, la nostra non è mai stata una presenza passiva: siamo sempre stati attori, non spettatori, con proposte e iniziative. Penso, ad esempio, all’accordo tra associazioni imprenditoriali, sindacati e Provincia per l’assunzione di disabili da parte di cooperative sociali, alle quali poi l’azienda si rivolge per proprie commesse specifiche. O penso, altrettanto, alla quotidiana attività di consulenza alle imprese da parte dei nostri uffici, una consulenza che è generalmente orientata alla ricerca delle soluzioni più appropriate in relazione alle specificità di ogni singolo caso: dal tirocinio alla borsa lavoro, al contratto part-time, e alla stipula di apposite convenzioni con la Provincia stessa.

Nell’attuale momento di grave crisi occupazionale, come stanno reagendo le imprese associate rispetto all’obbligo e all’opportunità di questi inserimenti lavorativi – le direzioni aziendali tendono a rinviare le nuove assunzioni, o anche i tirocini di orientamento non finalizzati all’assunzione? E come vengono considerati i lavoratori con disabilità nel momento in cui una direzione aziendale deve definire il personale in esubero?
Purtroppo che la crisi ci sia, che sia pesante e che riguardi praticamente tutto il pianeta, sono tutti dati di fatto. Nel caso italiano, e in quello bolognese, ci troviamo di fronte a forti cali di fatturato, anche del 50-60 per cento per diverse aziende, e tutto ciò sta comportando un utilizzo massiccio degli ammortizzatori sociali. In queste condizioni, ahimè, è arduo parlare tout court di nuove assunzioni per chicchessia, o anche di tirocini formativi. Per quanto riguarda invece eventuali esuberi, c’è in ogni caso una norma di legge che tutela i lavoratori disabili. E noi come Unindustria Bologna, per quanto ci compete, cerchiamo, in ottemperanza alle leggi vigenti, di trovare anche nella gestione di situazioni di difficoltà quegli equilibri che le condizioni individuali meritano.

Quali consigli si sentirebbe di dare da un lato ad altre imprese analoghe alla sua, e dall’altro ad altre associazioni di imprese, per favorire un efficace sistema di inserimenti lavorativi di persone svantaggiate durante e dopo la crisi?
Auguriamoci, innanzitutto, che la ripresa giunga il più presto possibile, poiché fino a quando perdurerà la crisi sarà abbastanza difficile estrarre conigli dal cilindro. Quando la crisi sarà stata superata, invece, sono certo che riprenderemo a cercare, con la delicatezza che ogni caso particolare richiede, quelle soluzioni che consentano all’impresa e al lavoratore disabile di conoscersi, di comprendersi e di collaborare, individuando per ogni specificità la più indicata tra quelle soluzioni di cui parlavo anche più sopra, al fine di un attento e costruttivo inserimento lavorativo mirato: dalla borsa lavoro ai tirocini formativi, dal periodo di prova al contratto a tempo determinato (che può avere una durata anche di tre anni), dal part-time alle convenzioni con la Provincia. Ed è questa ricerca, tanto meticolosa quanto rispettosa appunto delle specificità, che mi sento di consigliare a tutti i colleghi.

5. L’inclusione “paga”

Leonardo Callegari, cooperatore e sociologo bolognese, è presidente di CSAPSA (Centro Studi Analisi di Psicologia e Sociologia Applicate) e AILeS (Associazione di promozione della Inclusione Lavorativa e Sociale), e ha curato la pubblicazione Aziende solidali e lavoratori disabili. Quando le strutture organizzative sono prossime alle persone.

Ci sono punti dell’esito di questa ricerca che stupiscono, o contraddicono la vostra esperienza precedente?
Punti che contraddicano quanto immaginavamo non ce ne sono, ma ci sono aspetti che possono da un lato confortare quello che già si sapeva alla luce dell’esperienza e delle prassi sul campo e della letteratura in materia, e dall’altro portare un contributo positivo all’idea che si ha in generale delle aziende. Faccio un esempio: una delle ipotesi che si ponevano all’inizio è che gli interlocutori aziendali (responsabili del personale, imprenditori, datori di lavoro) evidenziassero le competenze professionali richieste, l’adeguamento dal punto di vista prestazionale nello svolgimento dei compiti. Di fatto, così non è stato: anche da parte dei referenti aziendali, che ovviamente sono per mandato sensibili al fatto che una persona possa essere adeguata dal punto di vista produttivo-prestazionale, sono stati evidenziati soprattutto aspetti di tipo sociale-relazionale, e di conseguenza anche culturale, che agivano nel contesto facilitando l’inclusione. Tramite questi movimenti, indirettamente, vengono posti in essere una serie di adattamenti che intervengono, soprattutto nel micro-setting, anche sul piano prestazionale, dei processi produttivi e dell’organizzazione operativa nello svolgimento del compito. Questo è un aspetto che credo sia giusto segnalare, così come la smentita dell’idea che, parlando di aziende profit, si parli di luoghi dediti solo a una produzione finalizzata al profitto, senza altre considerazioni che riguardano le relazioni umane e quindi il rapporto con le persone e le compagini che vanno a costituire queste realtà, che sono dal nostro punto di vista anche e soprattutto sociali. Abbiamo invece verificato in non pochi casi – che però non delineano una prevalenza assoluta, anche perché il target di aziende interloquite era già selezionato, tramite la Provincia di Bologna, tra quelle più adempienti rispetto alla Legge 68 – che si registrano caratteristiche organizzative e di relazione interna che hanno tratti quasi cooperativistici; di converso, anche se non è emerso nella ricerca in questione che non riguardava per la nostra parte le cooperative sociali, sappiamo bene dalla nostra esperienza che soprattutto in grandi cooperative troviamo un’inversione di caratteri, con l’espressione di tratti aziendalistici o distanziamenti che ci si aspetterebbe solo nel profit. Questo è un elemento che è giusto considerare, magari con qualche amarezza visto che io sono un cooperatore, ma superando la convinzione che la cooperazione possa esprimersi con caratteristiche analoghe ovunque, quando invece vanno fatte valutazioni circostanziate.

Quanto incide l’esperienza personale dei decisori aziendali rispetto al contesto di mercato e alla cultura aziendale in cui operano (quando non sono loro a determinarla, come proprietari dell’azienda)?
Sicuramente il ruolo delle disposizioni soggettive e degli orientamenti culturali del singolo decisore è di grande importanza, e questi affondano le radici nella loro biografia personale, che abbiamo colto per tratti, anche se l’indagine non aveva degli strumenti di analisi in profondità, perché sono comunque affiorati e sono stati richiamati anche nel report. Ci sentiamo di dire che questo aspetto andrebbe approfondito, alla luce di storie di responsabili aziendali che possano ripercorrere la loro biografia e le loro precedenti esperienze familiari, scolastiche, di frequentazioni amicali, per non parlare di un impegno politico, sociale e di volontariato che è pure emerso nel corso delle interviste. La formazione acquisita e le precedenti esperienze avute nell’ambito dell’inclusione di persone disabili sono aspetti che vanno a deporre favorevolmente rispetto a una opzione di apertura; non sempre si verifica il contrario, per cui anche in aziende ultra-certificate, con le ISO ma anche con la SA8000, non è detto che dichiarazioni di mission, di valore e di orientamento certificate a livello internazionale si traducano automaticamente in comportamenti effettivi e in buone prassi inclusive dal punto di vista dell’inserimento lavorativo di persone disabili. Si verifica poi anche, e almeno tre casi particolarmente significativi sono stati registrati dalle interviste, la convergenza tra una dimensione di cultura e orientamento politico-aziendale, con certificazioni annesse, e opzioni e comportamenti dei singoli responsabili, che creano una complementarità virtuosa.

Come ha impattato la crisi nella capacità di accoglienza dei decisori aziendali da un lato, e dei gruppi di lavoro dall’altro, ad esempio nelle situazioni di esuberi di personale?
Le dinamiche di crisi e le difficoltà di mercato condizionano fortemente sia le opzioni generali aziendali che le disposizioni e le scelte dei singoli decisori, vagliate però dal filtro di una valutazione soggettiva: se la crisi non agisce in termini particolarmente devastanti su una data azienda, la sua entità percepita dipende anche da quanto la crisi venga utilizzata strumentalmente o, viceversa, possa essere messa non in primo piano. Mi spiego meglio: anche in una situazione di crisi, ci sono aziende che possono includere – non necessariamente assumere, però accogliere persone all’interno di tirocini che comunque comportano un’apertura alle diversità soggettive, e, se anche il momento non è dei più favorevoli, dove ci sono disposizioni da parte di decisori aziendali che vanno in quella direzione non è la crisi di per sé che la preclude. Scelte di questo genere possono insomma essere fatte, è anche un’interpretazione della crisi che agisce in un senso o nell’altro. Nei contesti di lavoro, tra i colleghi, non abbiamo rilevato tensioni, almeno nelle aziende con cui siamo venuti in contatto, anche se ci sono un timore diffuso e un’incertezza che non aiutano la creazione di meccanismi solidaristici. Rimane da approfondire la disposizione empatica all’interno dei gruppi di lavoro, nei confronti delle persone che presentano difficoltà soggettive e diversità personali; questo è uno degli aspetti che andrebbero maggiormente promossi, perché ovviamente non può essere imposto tramite un’azione direzionale o anche formativa, la quale non crea di per sé empatia. Nei gruppi dove si creano condizioni inclusive di tipo prossimale, con capacità supportive delle persone inserite, ciò avviene perché scattano meccanismi empatici, ovvero le persone possono rispecchiarsi: “mi potrei trovare in una condizione analoga”. La disabilità non è solo in ingresso ma può essere anche acquisita; ci sono state aziende che hanno affrontato il tema delle persone dell’area della cosiddetta normalità che si sono ritrovate disabili, e hanno cercato soluzioni non espulsive. Questo è un aspetto che, anche quando si agisce di supporto ai gruppi di lavoro per migliorarne la capacità inclusiva, va promosso e stimolato per attivare, assieme all’empatia, le capacità di supporto reciproco, e per stimolare attitudini negoziali a trovare soluzioni di mediazione, che ripartiscono all’interno del gruppo l’impegno, senza sentirsi minacciati o sovraccaricati da una presenza che può essere in alcuni casi impegnativa per le problematiche di cui si fa portatrice. Sugli effetti della crisi sui gruppi di lavoro, come detto, non abbiamo comunque avuto occasione di fare osservazioni specifiche, ma io non credo che si esca dalla crisi deprivandoci ulteriormente in termini di capacità di relazione e di inclusione, lasciando a lavorare solo quelli che “producono al massimo” senza altre considerazioni – non foss’altro, per il tipo di commitment e di investimento motivazionale: se io adesso sono un lavoratore produttivo, ma penso che se mi succede qualcosa (una malattia, o una flessione motivazionale legata a qualunque accidente di vita), nel momento in cui “non viaggio al massimo” la mia azienda mi butta fuori, probabilmente su quell’azienda io investirò poco. Io voglio crederci, forse sarà una visione un po’ romantica, ma esperti molto più accreditati di noi ne sono convinti anche dal punto di vista teorico.

Quali differenze si riscontrano nell’inserimento lavorativo in aziende di diverse dimensioni e caratteristiche?
Non ci sono state a oggi indagini comparative, ma le differenze ci possono essere dal punto di vista della dimensione relazionale di maggiore o minore vicinanza o distanza, anche se vanno circostanziate alle situazioni di micro-setting; la dimensione in quanto tale rileva, perché ha un effetto di significativo condizionamento, ma non è determinante. Una grande azienda può applicare principi di organizzazione e strutturazione dei rapporti di lavoro in modo non favorevole all’inclusione fin nei singoli reparti e quindi nei luoghi più prossimi alla singola postazione, o viceversa, anche se ha una dimensione sovranazionale (come nel caso di IKEA che abbiamo intervistato), può avere una caratterizzazione a livello di reparto, ossia di micro-setting entro cui si inseriscono le persone, che mantiene connotazioni di tipo prossimale, quindi con una capacità supportiva e un’inclusività che fa leva anche sulle relazioni tra le persone. Solitamente si pensa in termini idealtipici, e anche noi siamo tra questi, che nella piccola impresa a conduzione familiare, artigiana, c’è una personalizzazione dei rapporti rispetto ai quali è più consigliabile l’inserimento di persone che hanno bisogno di avere riferimenti certi e personali, mentre in una grande azienda, dove c’è una socializzazione più rarefatta e basata su modelli posizionali e vale più il rapporto di ruolo, dovrebbero essere inserite persone che hanno già delle capacità più sviluppate in termini di “saper lavorare”, e quindi consideriamo questa dicotomia per fare degli abbinamenti di inserimento. Anche questa distinzione va però articolata e circostanziata, perché come nel caso che si citava delle “curiose inversioni” tra profit e cooperazione, altrettanto può accadere tra piccola e grande azienda, e possono esistere grandi imprese con clima informale come piccole imprese con clima autoritario. Noi abbiamo visto che ci sono aziende che coniugano la dimensione della struttura di impresa, anche sovranazionale, con caratteri di prossimità all’interno dei micro-setting, che sono poi i reparti, le zone prossimali per contiguità non solo fisica, ma soprattutto comunicativo-relazionale. Sono questi gli esempi più auspicabili per traghettare la crisi verso soluzioni meno pessimistiche; del resto, le aziende che abbiamo consultato stanno attraversando la crisi senza subire effetti devastanti, magari reinternalizzando alcune attività per non attingere in maniera massiccia alla cassa integrazione, e non è facile capire in quale rapporto di causa-effetto stiano clima/organizzazione aziendale e capacità di resistenza alla crisi. In questo senso, sarebbe interessante costruire un modello di analisi teorico di organizzazione aziendale, a partire dai sistemi socio-tecnici, tenendo conto dell’azione e retroazione tra soddisfazione delle relazioni e produttività/sviluppo aziendale. Naturalmente parliamo di modelli organizzativi non gerarchici e più partecipati e condivisi, senza per questo non avere fini di profitto come le cooperative, ma paradossalmente presentando caratteri organizzativi interni di tipo cooperativistico che risultano funzionali alla performance aziendale. Per quanto già detto, forse queste aziende non sono prevalenti, ma dimostrano che è possibile avere caratteri virtuosi capaci di dare una prospettiva di uscita dalla crisi.

Nell’esperienza che avete svolto in questi anni nel supporto alle imprese, quali sono le difficoltà più frequenti che un gruppo di lavoro incontra nell’integrazione di un nuovo collega con disabilità o svantaggiato, e come è possibile superarle con risorse esterne o interne?

Ci può essere intanto un deficit informativo rispetto alle problematiche della persona, e a come rapportarsi nel modo più adeguato con lei. Inoltre, si possono innescare dinamiche legate al modo in cui il gruppo di lavoro si rapporta con una variabile che perturba un equilibrio raggiunto, e questo comporta uno sforzo per “mettersi nei panni di”, collocarsi in un’ottica di reciprocità e trovare delle soluzioni mediate. Bisogna però avere a mente che il più delle volte – e ne abbiamo un caso recente riportato nel testo e oggetto di un intervento di supporto informativo – le persone disabili possono agire all’interno dei luoghi di lavoro come soggetti “analizzatori” di dinamiche e di problematiche, anche organizzative e relazionali, che comunque ci sarebbero, che emergano o rimangano latenti, e che vengono maggiormente evidenziate alla luce del fatto che una persona disabile viene inserita appunto in quel contesto. Da questo punto di vista, può essere un luogo comune ma è comunque vero, l’inserimento di persone disabili può aiutare le stesse organizzazioni di lavoro a migliorarsi per includere non solo i disabili, ma per tutti i lavoratori. Di conseguenza, se dovessimo consigliare noi le aziende, incontri informativi preliminari, che a volte abbiamo fatto ma che non sono richiesti frequentemente, sarebbero senz’altro utili per preparare l’inserimento lavorativo di persone in situazione di handicap o di disagio, così come l’offerta di supporti consulenziali in itinere, a fronte di determinate problematiche che possono sopravvenire, per facilitare i gruppi di lavoro ad affrontarle e gestirle con le mediazioni migliori possibili date le circostanze. In ogni caso, è importante predisporre una assistenza post-inserimento, a fronte di problematiche che possono sopravvenire anche a distanza di molti anni. Questi sono supporti che le aziende con cui siamo venuti in contatto hanno considerato positivamente e hanno richiesto, e c’è un’aspettativa in quel senso, anche se ancora non c’è una domanda generalizzata, probabilmente per un deficit informativo, e se vogliamo promozionale, per un tipo di servizio come questo – che era stato peraltro messo a disposizione dalla Provincia con un finanziamento specifico qualche anno fa, e ora rimane in forma residuale, ma non è stata fatta una campagna informativa nei confronti delle aziende che le portasse a conoscenza di questa possibilità.

Questo deficit informativo è un sintomo della distanza che permane tra operatori della mediazione e operatori aziendali?

C’è una difficoltà da parte degli operatori della mediazione nell’acquisire una maggiore e migliore conoscenza del mondo del lavoro profit, di che cosa vuol dire gestire un’azienda con criteri che non sono quelli del welfare, ma con cui occorre entrare in comunicazione e in un rapporto di collaborazione. Questo è un gap che gli operatori della mediazione devono superare, e c’è inoltre un problema a monte di endemica sottovalutazione dell’importanza di promuovere contesti aziendali, in particolare profit, oltre alle cooperative sociali, con cui già c’è un rapporto di collaborazione storica, ai fini dell’inclusione non necessariamente a fini occupazionali, ma per accogliere le persone con percorsi di stage, tirocini formativi e di transizione, che poi nel tempo possono sfociare anche in conferme assuntive. Su questo versante va fatto uno sforzo aggiuntivo di coinvolgimento organico delle imprese profit più socialmente responsabili, che ci sono più di quanto si possa immaginare, e che magari agiscono per puro spirito civico e solidale: ci sono piccole imprese che accolgono persone senza essere soggette a obbligo, perché ritengono giusto farlo, e non ne danno comunicazione perché non sono neanche consapevoli di attuare una buona prassi, e invece andrebbero pubblicamente menzionate e valorizzate, come merito distintivo, anche per fungere da volano emulativo nel tempo per altre imprese. Chiaramente parliamo di azioni di lungo corso, con mutamenti che dovrebbero avvenire sul piano culturale, prima ancora che strutturale, che richiedono impegno e i cui esiti, graduali, incerti, si possono misurare solo nel tempo. Per questo motivo credo che tale versante promozionale, comunicativo ed emulativo di buone prassi inclusive nelle aziende profit, oggi ancora sottovalutato, vada ulteriormente considerato e sviluppato con iniziative non episodiche, condivise, ancorate alle comunità di appartenenza delle persone disabili e di insediamento delle aziende ospitanti.

Quali sono gli sviluppi, a breve e lungo termine, che vi attendete e che state curando per il lavoro di ricerca e accompagnamento alle aziende?
Siamo consapevoli di essere all’inizio di un processo che, per poter avere qualche ragionevole efficacia, deve essere situato in una realtà territoriale che possa fare affidamento sulla organica disponibilità collaborativa dei principali attori istituzionali, di privato sociale e imprenditoriali costitutivi del sistema locale di welfare e di politica attiva del lavoro. Per questo motivo è nostra intenzione far confluire riflessioni e proposte, ad oggi formulate, nell’ambito della programmazione di un Piano di Zona distrettuale sensibile ai temi della responsabilità sociale di impresa e di territorio (quale ad esempio quello relativo al tavolo lavoro del Distretto dei 15 Comuni della Pianura Est bolognese), con il fine di promuovere un Patto del Lavoro locale in favore delle fasce più deboli di popolazione. In un siffatto, auspicabile, Patto del Lavoro, oggetto di un seminario che organizzeremo come CSAPSA-AILeS a fine settembre 2010, potrebbero essere messi in rete strumenti diversi di mediazione, facilitazione, incentivazione utili a coinvolgere maggiormente le imprese più eticamente orientate come partner stabili di programmi di inclusione lavorativa e sociale, oltre ad Enti e Servizi pubblici, cooperative, associazioni già tradizionalmente collaboranti.

4. Le condizioni per l’inclusione lavorativa

Tra 2009 e 2010, il Prof. Angelo Errani, docente di pedagogia speciale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna, ha coordinato la ricerca “Realizzazione professionale delle persone disabili”, con l’intento, tra l’altro, di evidenziare le condizioni che agevolano l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità in un contesto produttivo, tramite interviste ai decisori di un campione di imprese scelto in base alla capacità inclusiva dimostrata negli ultimi anni e quindi alla possibilità di evidenziare buone prassi per l’inserimento.
La ricerca è stata divisa in tre filoni in base al tipo di contesti produttivi indagati, distinguendo imprese profit, cooperative sociali ed enti pubblici, e il primo di questi tre filoni è stato affidato al presidente di CSAPSA (Centro Studi Analisi di Psicologia e Sociologia Applicate) Leonardo Callegari, anche tenendo conto dell’attività svolta da CSAPSA nel monitoraggio delle azioni facilitanti le buone prassi di responsabilità sociale di impresa per l’inclusione delle persone svantaggiate finanziate dalla Provincia di Bologna, con il concorso del Fondo Sociale Europeo, nel 2007/2008, e tuttora sovvenzionate a livello provinciale. Gli esiti di questa parte di ricerca, insieme a un quadro teorico entro cui inquadrarli, sono oggi pubblicati nel testo Aziende solidali e lavoratori disabili. Quando le strutture organizzative sono prossime alle persone, edito da AILeS nel marzo 2010 e presentato in un ciclo di tre workshop sul tema dell’inclusione lavorativa a 10 anni dalla legge 68, tenutisi a Bologna nell’aprile-maggio 2010.
Il testo parte dalla constatazione che l’inclusione sociale per ogni individuo non è mai un risultato definitivo, ma un processo dinamico, in cui la realizzazione lavorativa, che ha un peso rilevante, si compie all’interno di condizioni reali e di contesti aziendali definiti. Gli operatori dei servizi di mediazione e inserimento, al contrario, si concentrano in genere sulla valutazione funzionale della persona disabile per proporne l’inserimento in una azienda, senza tenere in sufficiente conto le caratteristiche dell’azienda a cui si propone l’“abbinamento”. Ciò è dovuto a una carenza di conoscenza, da parte degli operatori del welfare, delle logiche di gestione del mondo produttivo profit, in generale e per come ogni impresa le declina al proprio interno; la distanza che ne nasce tra i due mondi di servizio sociale e impresa porta spesso le aziende a diffidare delle proposte di inserimento lavorativo provenienti dai servizi. Tale scarto tra logiche si ricollega al più generale dilemma tra razionalità organizzativa e felicità umana evidenziato in sociologia già negli anni ’60, che però non va inteso come una contrapposizione, quanto come una necessità di reperire un equilibrio tra due esigenze in potenziale conflitto, tale da eliminare da un lato gli sprechi e dall’altro gli esiti di alienazione individuale. Un approccio del genere è del resto già acquisito dai nuovi modelli manageriali, che hanno superato il più rigido taylorismo scientifico per approdare agli studi motivazionali e agli approcci sistemici, affiancandosi all’evoluzione reale dei contesti produttivi e alle loro nuove esigenze negli ultimi decenni del XX secolo. Il contesto di lavoro viene quindi interpretato come un “sistema socio-tecnico”, in cui “c’è la tecnica, ma ci sono anche le persone”.
La ricerca distingue analiticamente, all’interno di un’impresa, “dati identificativi” più generali, “struttura organizzativa e processi decisionali” che costituiscono il macro-setting aziendale, e “struttura organizzativa e psicosociale della postazione di lavoro” che identifica il micro-setting in cui si compie concretamente l’inserimento. I contesti aziendali di conseguenza si dividono nei livelli macro (strutturale/organizzativo, entro cui si situa la cultura aziendale), intermedio/gruppale e micro (individuale), e per la riuscita dell’inserimento come vera e propria integrazione/inclusione della persona svantaggiata emerge come cruciale il livello gruppale, entro cui essa costituisce interazioni sociali ricorrenti e auspicabilmente positive.
I caratteri identificativi dei contesti lavorativi inclini all’inclusione vengono distinti in:
•    capacità di accoglienza (di inserimento nei tessuti relazionali)
•    reciprocità adattiva (assorbimento delle differenze soggettive)
•    supportività (attivazione di sostegni alle difficoltà individuali)
•    stimolazione/attivazione motivazionale (capacità di stimolare l’apprendimento e la produttività)
•    attitudine del contesto ad apprendere
•    capacità di generare identificazione e senso di appartenenza (“familiarità secondaria”).
La presenza di queste caratteristiche rende il gruppo di lavoro una Zona di Sviluppo Prossimale, entro cui la persona disabile inserita è in grado di apprendere competenze nuove ma rientranti in un orizzonte comprensibile. È inoltre a questo livello che si colloca la “funzione motivante” del gruppo, e in particolare la capacità di attivare nel nuovo inserito motivazioni non solo estrinseche (come i riconoscimenti economici), ma anche intrinseche, che spesso possono compensare un percorso scolastico non soddisfacente e, agganciandosi alla concretezza operativa, riverberarsi positivamente su tutto il gruppo di lavoro.
Le condizioni aziendali concrete facilitanti l’inclusione vengono quindi fatte rientrare nelle tre aree di macro-dimensione socio-culturale, macro-dimensione organizzativa-prestazionale e dimensione fisico-ambientale, ma tenendo conto che il contesto così analizzato va sempre abbinato alle caratteristiche della persona disabile da inserirvi, e che contesti aziendali opposti possono avere una forza inclusiva simile per soggetti con diverse caratteristiche (e viceversa). Ad esempio, un ambiente di lavoro “fordista”, che richiede la ripetizione meccanica di operazioni predefinite, solitamente poco incline a processi integrativi, può risultare più idoneo per una persona con forti limitazioni cognitive, che ha necessità di un contesto ben definito e stabile, rispetto a uno che lascia spazio a “soluzioni aperte”, le quali avrebbero per la stessa persona effetti ansiogeni.
Tra gli esiti più interessanti della ricerca, si segnala la rilevanza per il processo di inclusione da un lato di decisori aziendali “illuminati”, che non risentano di barriere culturali verso la diversità e abbiano al contrario avuto positive esperienze di conoscenza di persone disabili in ambito scolastico, familiare o amicale, e dall’altro del gruppo di lavoro, che assuma su di sé parte del ruolo di mediazione altrimenti demandato al solo tutor aziendale, consentendo cambiamenti reciprocamente adattivi tagliati sulla effettiva dimensione strutturale, operativa e prestazionale della singola azienda. Con queste condizioni, secondo la metafora proposta da Andrea Canevaro, la mediazione si compone di “pietre che affiorano su un corso d’acqua”, che consentono alla persona disabile di passare il guado dell’inserimento appoggiandosi in modo equilibrato su più punti, senza essere costretti a “salti” che espongono al rischio di bagnarsi o cadere.
Un altro elemento importante per un buon inserimento lavorativo è il possesso da parte della persona con disabilità di competenze sociali trasversali, un “saper lavorare” che si può applicare a qualunque contesto di lavoro e che riveste maggior peso di competenze tecnico-prestazionali adeguate, al punto che anche i decisori aziendali intervistati paiono interessati più alle prime che alle seconde; da questo discende, tra l’altro, l’importanza di esperienze di tirocinio formativo in azienda, anche se non orientate a una successiva assunzione.
Per migliorare i contesti lavorativi non sufficientemente inclusivi ed evitare impasse in quelli inclusivi che si trovino ad affrontare le difficoltà legate a un concreto inserimento, sono necessarie azioni differenziate a supporto delle aziende (sensibilizzazione, informazione di base e approfondita, affiancamento in situazione, consulenza tecnica per ausili e adattamenti, monitoraggio di andamento, sostegno psicologico, consulenza), che si estendano prima e oltre la fase dell’inserimento vero e proprio; in questo senso va l’attività di supporto avviata da CSAPSA, Consorzio SIC e Anastasis alcuni anni fa in provincia di Bologna, oggi mantenuta in forma ridotta con il finanziamento del Fondo Regionale Disabili.
Su un piano più generale, la cultura di educazione alla diversità appare decisiva per consentire un’inclusione che, come si è visto, non è tanto frutto di scelte dall’alto quanto di un processo complesso, che coinvolge molteplici soggetti. In specie, molto importante è il ruolo di “volano” che operatori e decisori di aziende dimostratesi capaci di inserimenti positivi possono rivestire nei confronti di altre imprese, che possono altrimenti restare all’oscuro di queste esperienze e considerare l’inserimento lavorativo di persone disabili come una sfida troppo ardua per le loro condizioni operative. Da questa riflessione nasce il progetto del logo “Azienda Solidale”, che intende riconoscere e pubblicizzare le imprese, soprattutto piccole e medie, protagoniste di buone prassi di inclusione di lavoratori svantaggiati, sulla base di un percorso di valutazione gestito da un gruppo di lavoro che unisca pubblico e privato. Il progetto è stato già avviato in Provincia di Bologna, con il conferimento del logo “Azienda Solidale 2010” a 22 imprese il 10 maggio scorso, e c’è l’intenzione di riproporlo su base annuale, con possibilità di estenderlo ad altre Province della Regione Emilia-Romagna, per valorizzare le scelte inclusive che altrimenti non troverebbero adeguata promozione a livello di forze produttive e di opinione pubblica.

3. Un modello da non toccare

Nina Daita è la responsabile dell’Ufficio nazionale Politiche per la Disabilità della CGIL.

Al di là dell’attuale congiuntura economica, che bilancio si può fare della Legge 68 a 10 anni dalla sua entrata in vigore?
Il bilancio non può essere che positivo; siamo in attesa dei nuovi dati, ma l’ultima relazione al Parlamento disponibile parlano di circa 33.000 assunzioni a tempo indeterminato nel biennio 2006-2007, e anche dove gli inserimenti non vanno a buon fine o si compiono tirocini non finalizzati all’assunzione, le persone con disabilità, comunque, riescono ad affacciarsi al mondo del lavoro, facendo esperienze che poi le agevolano nel percorso lavorativo successivo. La mia esperienza è che dove funzionano i servizi di inserimento al lavoro, la legge funziona molto bene.

Nella vostra percezione di sindacato, come ha impattato la crisi sulla condizione occupazionale delle persone con disabilità? In particolare, avete rilevato che siano state espulse per prime dai processi produttivi, o che molte aziende abbiano rinunciato ad assumere dal collocamento mirato per situazioni di crisi?
Non abbiamo dati precisi a disposizione oggi, ma per quel che ho visto le persone disabili sono le prime a essere espulse dal mondo del lavoro, sia per ragioni culturali, che ancora sussistono tra i datori di lavoro, sia perché in genere non hanno una famiglia a carico, e nella scelta tra chi mettere in esubero si tende a salvaguardare chi ha famiglia. Questa tendenza si è accentuata soprattutto nei primi sei mesi del 2010, insieme all’aumento della richiesta di esoneri, che riguarda soprattutto le piccole e medie imprese nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, mentre al Sud, dove gli inserimenti sono in numero minore, ma tendenzialmente più stabili, paradossalmente la crisi ha inciso meno.

Il mondo del lavoro che emergerà dal dopo-crisi, secondo voi, sarà più inclusivo, e quindi più aperto all’inserimento occupazionale delle persone con disabilità, o più selettivo e difficile per le loro esigenze?
È una domanda davvero difficile; noi come sindacato naturalmente promuoviamo l’inclusione in ogni campo, ma soprattutto ci teniamo a non disperdere un modello culturale di integrazione che negli ultimi 20 anni ha portato a grandi risultati, e che, appunto, come modello ha ispirato altre nazioni, come Francia e Germania – giusto ieri un mio collega sindacalista francese mi ha inviato il titolo di un giornale finanziario, “I disabili conquistano il mercato del lavoro”, e questo avviene, sulla base di una legge francese simile alla nostra, salvo la possibilità, in particolari settori di lavoro, di evitare le assunzioni con esosi contributi finalizzati alla formazione professionale delle persone con disabilità.

La nozione di “occupabilità”, e ancor più quella di flexsecurity, diffuse nelle politiche europee, prefigurano un mondo del lavoro in cui sarà difficile tutelare i singoli posti di lavoro e le persone dovranno cambiare spesso impiego. Cosa comporta questo nuovo modello per i lavoratori con disabilità?

È un problema soprattutto per le persone con disabilità intellettive, per le quali sono fondamentali l’accoglienza e la stabilità del contesto di lavoro, e che soffrono quindi ogni cambiamento sia di luogo fisico che di mansione, con la necessità di dover apprendere tutto da capo con tempi più lunghi rispetto alle altre persone e al limite il rischio di sentirsi costretto a rinunciare a lavorare – e non lo dico da una posizione ideologica, ma in base a concrete esperienze che ho incontrato. Un sistema di flexsecurity è invece più adatto per lavoratori con disabilità fisiche o motorie, salvo la necessità di avere ambienti senza barriere e di conservare o ricostruire gli adattamenti tecnici necessari, anche se in generale una persona con disabilità ha probabilmente maggiori difficoltà psicologiche rispetto a una normodotata nell’inserirsi in un nuovo ambiente di lavoro e quindi patisce di più il cambiamento frequente di impiego.

Quali modifiche ritenete di proporre alla legge 68, o in generale al sistema di inserimento lavorativo delle fasce svantaggiate, nel prossimo futuro?

La principale modifica da noi chiesta riguardava il sistema delle convenzioni con inserimento in cooperativa e commesse alla cooperativa stessa, e oggi è recepita nell’attuale articolo 12-bis, che limita questo sistema a casi ben definiti di disabilità grave. Anche alcuni decreti attuativi si potrebbero migliorare, ma come dicevo si tratta comunque di un’ottima legge, che “non va toccata” e che funziona dove i servizi funzionano, come in Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, ma anche in alcuni contesti del Sud come Taranto. Proprio per questo, l’esigenza più importante oggi è garantire una formazione efficace, e adeguatamente finanziata, agli operatori del collocamento mirato, quelli amministrativi dei Centri per l’Impiego e ancor più quelli di mediazione all’inserimento delle ASL. Infine, si potrebbero rafforzare gli incentivi economici anche per le aziende piccolissime e non soggette all’obbligo che decidano di fare assunzioni – in questo caso, ritengo giusto che sia lo Stato ad accollarsi le spese per abbattimento barriere, adattamenti e altre necessità concernenti l’inserimento lavorativo.

La medaglia dell’integrazione Il Messagero di Sant’Antonio, Luglio-Agosto2012

“Mare, mare, mare, ma che voglia di arrivare lì da te…”
Così cantava Luca Carboni qualche anno fa, tanto da far diventare questo ritornello l’inno d’inaugurazione di ogni mia stagione estiva.
Ho un dubbio, che in questa calda estate mi accompagnerà sulle spiagge o perfino in montagna, lo stesso dubbio che perseguiterà milioni di sportivi italiani…Va bene l’abbronzatura, benissimo l’aria pura delle Alpi, ma senza un moderno i-pad c’è il serio rischio di perdersi le bracciate olimpioniche della nuotatrice Pellegrini a Londra , le avventure del calciatore Balotelli e degli Azzurri in Polonia. Per finire la stagione in bellezza, da fine agosto, assisteremo alle paraolimpiadi.
Da vero appassionato non mi perderò un solo secondo di tutti questi eventi. Eppure mi domando…
Siamo sicuri che lo sport favorisca sempre l’integrazione? Non è che in alcuni casi piuttosto porti involontariamente a delle forme di “disintegrazione”?
Una prima considerazione di fondo: lo sport è un fantastico strumento per integrare, ma come tutti gli strumenti va usato correttamente. Sottolineo che sto parlando di sport, non di semplice gioco, e questo presuppone impegno, costanza, perseveranza, rispetto dell’avversario, regole condivise e il conseguimento di un obiettivo finale: la vittoria.
Lo sport, non dimentichiamolo è un’attività di confronto ma anche un’attività agonistica, con tutti i problemi che ne possono derivare.
Per una persona con disabilità le prime difficoltà cominciano direttamente dall’approccio stesso allo sport. Di norma infatti, chi arriva in una polisportiva chiedendo di prendere parte a un’attività agonistica, viene indirizzato verso corsi assimilabili alla fisioterapia, oppure verso attività molto semplici e già collaudate come il basket e l’hockey in carrozzina.
Eppure la parte fondamentale è proprio quella iniziale, in cui all’atleta con disabilità va assegnato un ruolo attivo, capace di valorizzare le sue qualità.
Detto questo, partire dal gioco per costruire lo sport non è uno slogan ma un punto di partenza imprescindibile: cogliere la peculiarità delle varie disabilità, permette di inquadrare il deficit e le potenzialità da sviluppare. Solo in questo modo è possibile modificare o adattare l’attività ludico-sportiva a seconda delle capacità del soggetto coinvolto.
Numerose, per fortuna, sono oggi le esperienze che si muovono in questa direzione.
Recentemente nella trasmissione di Rai Uno “A Sua Immagine” mi sono imbattuto in un’intervista al mio amico Marco Calamai, ex giocatore e allenatore della Fortitudo Bologna, oggi impegnato in una squadra sperimentale di pallacanestro, esempio di sport senza barriere e di vera integrazione.
Lo stesso vale per le attività di baskin (basket integrato), sport da poco nato a Cremona grazie all’Associazione Baskin, dove normodotati e diversamente abili gareggiano insieme con lo stesso obiettivo:vincere.
Anche perché l’obiettivo più grande l’hanno già raggiunto: integrare.
E voi siete sportivi? Il vostro sport integra o disintegra?
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente
 

2. Una buona legge, un’applicazione da migliorare

Carlo Lepri, psicologo e formatore, lavora al “Centro Studi per l’integrazione lavorativa delle persone disabili” della ASL 3 Genovese. È Docente a contratto di Psicologia delle Risorse Umane presso l’Università di Genova, è uno dei “padri” della legge 68 del 1999 e uno dei massimi esperti italiani in materia di inserimento lavorativo delle persone con disabilità. Con Enrico Montobbio ha scritto Lavoro e fasce deboli: strategie e metodi per l’inserimento lavorativo di persone con difficolta cliniche o sociali, uscito in prima edizione nel 1994 (Milano, FrancoAngeli) e successivamente più volte aggiornato, e Chi sarei se potessi essere: la condizione adulta del disabile mentale (Pisa, Edizioni del Cerro, 2000).

Quale è stato il percorso culturale che ha portato dalla logica del collocamento obbligatorio, introdotto nel 1968 con la legge 482, alla legge 68/1999 e al collocamento mirato?
C’è un passaggio fondamentale tra questi due provvedimenti legislativi. La 482 corrisponde all’idea dell’invalido passivo, “di peso”, che non ha risorse, malato, per cui il lavoro diventa una forma di risarcimento che la società si propone di dare, con logica assistenziale e con una incredibile suddivisione nelle varie categorie, che corrisponde alla rincorsa da parte delle vecchie associazioni ad avere ciascuna il suo spazio, e quindi la legge viene utilizzata anche per fini sostanzialmente clientelari. C’è da aggiungere, e di questo spesso ci dimentichiamo, che la 482 vieta espressamente il collocamento lavorativo degli invalidi psichici e intellettivi, e questo elemento risente della rappresentazione dell’invalido fino a quel momento prevalente. Dai “meravigliosi” anni ’70 in poi, a seguito di tutti quei cambiamenti culturali che attraversano la società in senso molto più generale, la disabilità (o l’handicap, come allora si chiamava) smette di essere una disgrazia individuale e comincia a essere un fenomeno che ha delle ragioni sociali profonde: anzi, l’handicap è proprio l’incontro fra la persona in difficoltà e una società che è incapace di accoglierla. Questo cambia completamente la visione delle persone disabili, che anche grazie alla lotta delle associazioni cominciano a pretendere il giusto riconoscimento dei loro diritti – compreso ovviamente il diritto al lavoro, che non è più un’elemosina, ma uno strumento attraverso il quale affermare la propria identità e la propria presenza all’interno della società. Nei trent’anni tra la 482 e la 68 c’è sostanzialmente un cambio di rappresentazione sociale della persona disabile, che passa dall’essere il malato da assistere, curare, riabilitare e qualche volta da segregare, o nel caso della disabilità intellettiva il “poverino”, a una visione che si forma pian piano della persona, con i suoi diritti, i suoi limiti e le sue potenzialità. Questo passaggio diventa possibile anche perché si costruisce un sistema di servizi alla persona, nel nostro Paese in particolare, che sostiene questi processi di integrazione, dalla scuola alla formazione professionale e al lavoro. Dalla metà degli anni ’70 in poi nasce infatti nel nostro Paese un sistema di servizi di mediazione al lavoro che, nonostante la legge 482, mettono le basi per l’affermazione del principio del “collocamento mirato”. La legge 68 in qualche misura raccoglie tutti questi anni di sperimentazione, in cui la persona disabile viene “accompagnata” verso il lavoro cercando l’incontro tra le sue potenzialità, competenze e capacità, e anche i suoi limiti, e un ambiente di lavoro che deve essere da una parte accogliente, ma dall’altra deve rimanere un ambiente dentro cui la persona possa esprimersi produttivamente. In questa logica, l’azienda e la persona disabile diventano protagoniste, e l’azienda smette di essere soggetto che accoglie passivamente, muovendosi invece attivamente per modificare i propri meccanismi e la propria cultura.

Quali erano le aspettative, in termini culturali e pratici, di chi si occupava di inserimento lavorativo di persone con disabilità negli anni immediatamente precedenti e subito dopo l’approvazione della legge, e in che misura sono state soddisfatte in questi dieci anni?
Di proposte di riforma della legge 482 io credo di averne viste almeno una quindicina, quindi c’era un’aspettativa in qualche modo moderata rispetto al fatto che questa nuova legge si facesse davvero; c’è poi stata una serie di “felici concause” per cui questo provvedimento legislativo è poi andato in porto, e nel passaggio dal testo predisposto a quello approvato in dibattito parlamentare si sono persi alcuni elementi, ma la legge ha mantenuto gli aspetti fondamentali intorno ai quali si erano sviluppate le aspettative di operatori e associazioni di disabili. Credo quindi che, tutto sommato, la legge sia stata la normale evoluzione di una sperimentazione che ormai aveva ampiamente dimostrato che l’inserimento lavorativo era una pratica possibile, rispettando ovviamente alcune modalità e metodologie di lavoro. Qualche aspettativa c’era probabilmente dal punto di vista numerico, ossia che l’ingresso della legge avrebbe potuto finalmente trovare lavoro per tutti quelli che erano in attesa: questa credo fosse la speranza segreta – magari non degli operatori più attenti e scafati, perché questi sapevano bene quali sono le difficoltà oggettive nel percorso di incontro tra lavoro e disabilità, però delle associazioni e di alcuni servizi un po’ più distanti dalla pratica del lavoro sul campo sì. Una speranza che è stata parzialmente delusa, e dico “parzialmente” perché i numeri, se confrontati con la 482, sono assolutamente positivi: basta guardare l’evoluzione delle “fotografie” che danno le varie relazioni al Parlamento curate dall’ISFOL negli ultimi anni. Mi pare che la IV relazione in particolare, del 2006-2007, fotografi un trend positivo e che può essere considerato intorno a 1:15 o 1:20, ossia per ogni inserimento che si faceva con la 482, con la 68 siamo tra i 15 e i 20. Tra l’altro, con la 482 il collocamento molto spesso aveva un esito negativo in tempi abbastanza veloci, mentre con la 68 vediamo che i rientri/fallimenti sono piuttosto contenuti. Credo che i prossimi dati non saranno altrettanto positivi, ma questo non sarà da attribuire a un malfunzionamento della legge, quanto piuttosto alla grave crisi occupazionale di questo ultimo anno.

Come hanno funzionato in questi anni da un lato le prassi locali di integrazione, e dall’altro la vigilanza sul sistema degli obblighi imposti alle aziende?
Dobbiamo dire che c’è, come sempre in Italia, un’applicazione “a macchia di leopardo” della 68, che formalmente è vigente in tutto il Paese, ma in cui, in realtà, ciò che fa la differenza è come il sistema dei servizi per il collocamento e socio-sanitari riesce a costruire relazioni e strumenti di lavoro con il sistema produttivo nelle varie realtà. Laddove i Centri per l’Impiego riescono in modo non burocratico-amministrativo a recuperare rapporti con i servizi socio-sanitari, educativi e formativi del territorio, e insieme costruiscono una rete che si interfaccia con il sistema produttivo, i risultati sono secondo me eccellenti. In questo momento abbiamo una visione un po’ falsata dalla crisi economica e occupazionale che stiamo vivendo, ma se potessimo fare la tara a questo aspetto vedremmo che ci sono alcune regioni che da questo punto di vista stanno funzionando in modo veramente eccellente. Non credo quindi che il problema sia tanto una inapplicazione della legge perché “le aziende fanno le furbe”, ma che laddove la legge non viene applicata, o fa fatica a essere applicata, è perché non si costruiscono rapporti e relazioni tra chi la gestisce, quindi le Province insieme ai servizi, e le imprese. È chiaro che le imprese cercano di ottenere sempre il massimo nella relazione con l’esterno, e quindi anche rispetto all’obbligo, ma vedo che laddove c’è un rapporto non burocratico, ma di reale servizio alle imprese – andare in azienda, capire quali sono i problemi che essa pone, ragionare insieme sulle varie figure professionali che potrebbero essere inserite, e naturalmente dall’altra parte lavorare con le persone disabili per sviluppare competenze e profili professionali –, l’obbligo è ampiamente rispettato e senza neanche troppa fatica.

Con il D. Lgs. 276/2003 è stata introdotta la possibilità di assolvere l’obbligo tramite commesse a cooperative, con una esclusione del successivo inserimento diretto in azienda molto contestato all’epoca dalle associazioni di categoria. Quanto è forte oggi la tentazione di creare un mercato del lavoro duale per le persone disabili, escluse dalle aziende profit e “riversate” solo in imprese a carattere sociale?
Su questo ho un’idea abbastanza precisa: questo approccio viene da un famoso accordo rispetto al tema dell’inserimento delle persone disabili sottoscritto dalle parti sociali a Treviso nel 1996, che nasconde un grosso rischio, la costruzione di un percorso differenziato, e che però secondo me ha sempre avuto il difetto di essere un po’ “ideologico”, perché in realtà non ha mai funzionato. C’è stato uno sforzo legislativo e politico notevolissimo in tutti questi anni, dei vari governi, delle associazioni datoriali e anche di alcune associazioni cooperativiste che erano molto interessate a questo tipo di soluzione, cui però poi non ha corrisposto una effettiva attuazione di questo percorso dal punto di vista numerico. In alcune realtà l’opportunità di assolvere l’obbligo in cooperativa è stata colta secondo me nel modo giusto, facendo degli accordi molto seri e molto severi e utilizzando questo strumento per le persone che hanno davvero una disabilità così complessa e articolata che immaginare l’inserimento in un’azienda ordinaria potrebbe dare qualche elemento di preoccupazione, mentre l’inserimento in un’azienda con un’organizzazione del lavoro più semplice e ritmi produttivi meno intensi può essere invece interessante. Mi pare che se le aziende fossero state davvero interessate avrebbero probabilmente spinto di più verso questa direzione, mentre è rimasta una modalità cui nessuno ha rinunciato ma molto circoscritta, che se utilizzata con grande attenzione e serietà può anche dare qualche risposta, se invece utilizzata in modo troppo “allegro” e superficiale può creare situazioni pericolose – ma mi pare appunto che questo, per fortuna, non sia accaduto.

Nella normativa europea, la categoria di lavoratore disabile, già abbinata nella Legge 68 a orfani e vedove per causa di servizio, si sovrappone in diversi casi a quella di “lavoratore svantaggiato”, che ha una estensione piuttosto vasta (includendo ad esempio i disoccupati di lungo periodo). Per favorire il collocamento del lavoratore disabile è più opportuno mantenerne la specificità giuridica o farlo rientrare in una platea più vasta di potenziali beneficiari di agevolazioni?
La mia idea su questo è un po’ controcorrente (ha tolto “ma vi sono affezionato): la dimensione che i regolamenti europei prevedono sullo svantaggio, che mi pare comporti 13 o 14 tipologie se non di più – per cui è svantaggiato chi perde il lavoro e dopo due anni non ne ha trovato un altro, o il dirigente disoccupato –, mi pare veramente molto pericolosa come modalità di approccio. Ovviamente non voglio dire che anche per queste persone non possano essere immaginate politiche attive del lavoro che facilitino l’inserimento, ma mettere all’interno di un contenitore così ampio le persone disabili, che hanno all’origine delle loro difficoltà una menomazione, certificata tra l’altro dal punto di vista medico-legale (ad esempio, nel nostro Paese occorre avere almeno il 45% di invalidità), è discriminante, perché significa farle “correre” con altre categorie che hanno altri problemi ma anche altre potenzialità. La tendenza europea è dire: “non si fanno discriminazioni, tutti i cittadini che hanno bisogno hanno bisogno”, invece io credo che sia utile fare una discriminazione per dare una maggiore attenzione, con l’obbligo per le aziende e percorsi tutelati per le persone disabili, cui occorrono progetti e strumenti adeguati ai loro bisogni, mentre per altre categorie occorrono politiche attive meno forti, di tipo formativo o informativo o di semplice incontro tra domanda e offerta, sostegni che possono essere dati entro le normali politiche del lavoro di una amministrazione. Io quindi rimango dell’idea che debba esere chiaramente individuata la disabilità, e anche le cause bio-psico-sociali che hanno portato alla situazione di disabilità di una persona, in modo da poterla aiutare in modo specifico.

Il gruppo di lavoro sul tema della Conferenza Nazionale Disabilità di Torino nel 2009 ha evidenziato come il coinvolgimento di tutte le parti sociali nell’attuazione della normativa crei una burocratizzazione a volte eccessiva. Uno snellimento delle procedure è a suo avviso auspicabile o rischia di creare “scorciatoie” che favorirebbero svuotamenti della normativa?
Francamente non mi pare di cogliere nella mia esperienza tutta questa burocratizzazione. Il coinvolgimento delle parti sociali è comunque sempre auspicabile, ma queste si coinvolgono su un protocollo di intesa o un documento di avvio, poi le cose funzionano anche con una loro autonomia. Certamente ci possono essere amministrazioni, mi riferisco in particolare a quelle provinciali e ai loro assessorati alle politiche del lavoro che hanno il compito di gestire la 68 attraverso i Centri per l’Impiego, con atteggiamenti in alcuni casi molto burocratici, perché magari c’è la tradizione di affrontare l’inserimento lavorativo come fosse l’asfaltatura di una strada, ma in altri casi le amministrazioni utilizzano in modo molto snello gli strumenti burocratici che la legge 68 prevede, come le convenzioni o il Comitato Tecnico, un gruppo di lavoro che può essere fondato appunto in termini molto burocratici o snelli. Io non credo insomma che ci sia in generale il pericolo di una burocratizzazione, c’è nelle situazioni in cui una cultura burocratica è predominante.

Lo stesso gruppo di lavoro propone di prendere esempio dalle buone prassi locali per un’evoluzione normativa che “nel prevedere un sistema di controlli serio ed efficace, non abbia come involontaria conseguenza la penalizzazione di tutti gli attori per punire i pochi che commettono irregolarità”. C’è da attendersi in futuro una deregulation sostanziale, magari sotto l’impatto della crisi occupazionale?

Mi pare che qui ci sia un tema abbastanza importante, ossia il perseguire le aziende inadempienti, il sistema di controllo. Il sistema delle sanzioni che la legge 68 prevede, e che, secondo me molto opportunamente, sono delegate al Ministero del Lavoro – e non alle Province, che debbono solo segnalare –, è sempre stato abbastanza ambiguo. I Ministri del Lavoro che si sono succeduti hanno a mio avviso avuto sempre un atteggiamento “morbido” nei confronti delle aziende, cercando di non essere troppo punitivi e non mettere in piedi un sistema persecutorio nei confronti delle imprese. Non so se questa sia una scelta “ideologica”, ma a me interessa dire che con le punizioni non si va da nessuna parte: quello che funziona è semmai un sistema di premi nei confronti delle aziende, e ci sono molte realtà nel nostro Paese che si sono inventate sistemi premianti per le imprese che partecipano con particolare attenzione ai progetti di inserimento lavorativo. Secondo me quella è la strada, e le punizioni possono essere l’extrema ratio di fronte a situazioni smaccatamente inadempienti, ma possono partire solo dopo che a livello tecnico si sono provati tutti gli strumenti per convincere un’azienda a mettersi in regola. Ad esempio, qui a Genova abbiamo un certo numero di aziende che chiedono l’esonero dall’inserimento per una serie di motivi, in particolare la pericolosità dell’ambiente di lavoro. Se si fosse avuto un atteggiamento burocratico, si sarebbe potuto dire di sì o di no, o chiedere dei documenti cartacei, in modo più o meno punitivo. L’atteggiamento che si è scelto è stato invece di andare in ogni azienda che ha chiesto l’esonero con tecnici e operatori dell’inserimento lavorativo, fare incontri per vedere le condizioni reali e i problemi, e discuterne per capire come uscirne: in quasi tutte le aziende qualche inserimento è stato comunque fatto, perché si è visto che le situazioni non erano poi così pericolose o che le aziende avevano una rappresentazione della persona disabile non corrispondente alla realtà, e quando è stato concesso l’esonero lo si è fatto con un accordo, sulla base di una conoscenza approfondita. Le sanzioni quindi non sono l’elemento che fa vincere le persone disabili nei loro diritti; certo in situazioni estreme ci vogliono anche quelle, ma ciò che occorre veramente è che gli operatori alzino il sedere dalla sedia, vadano in azienda e si diano da fare.

Sulla base di quali linee si dovrà, o si potrà, mettere mano alla Legge 68 nel diverso mercato del lavoro del dopo-crisi?
La 68 così com’è, a parte questo momento drammatico che stiamo vivendo, complessivamente funziona abbastanza bene, ma certamente consente ampi spazi di manovra alle aziende per scegliersi le persone più idonee all’interno delle liste degli iscritti del collocamento mirato con le chiamate nominative. A questo c’è da aggiungere che, proprio perché la legge funziona, le persone si iscrivono “alla grande” al collocamento mirato, per cui per ogni persona che viene collocata ce ne sono almeno 3 o 4 nuove che si stanno iscrivendo, e l’aumento considerevole del numero degli iscritti rafforza la facilità per l’azienda nel trovare la persona disabile che risponde al meglio alle sue esigenze. Vedo quindi come problematico, anche se abbastanza inevitabile, il fatto che le persone con una disabilità più complessa rischiano di rimanere fuori dal meccanismo – e mi riferisco a persone con disabilità psichica oppure plurima, con doppia o tripla diagnosi. Io credo quindi che rispetto al problema della disabilità complessa occorrerà pensare a utilizzare strumenti nuovi, come i progetti che nel gergo dei servizi si chiamano “di tipo socio-occupazionale”. Di norma si tratta di progetti di inserimento lavorativo che non comportano l’assunzione da parte dell’azienda della persona disabile che rimane in carico al sistema dei servizi. Io credo che questi progetti, che in alcune zone del Paese vengono visti e applicati in una dimensione “assistenziale”, debbano essere “nobilitati” e forniti di un senso e di un significato, perché nella mia esperienza ho visto come essi rispondono realmente ai bisogni delle persone riuscendo a tenere in conto, allo stesso tempo, le esigenze aziendali. Naturalmente qui sorgono delicati problemi, poiché progetti di questo genere non possono essere applicati in modo generalizzato, ma debbono essere rigidamente riservati a quelle persone che altrimenti non avrebbero nessuna chance di inserimento al lavoro, e occorrerebbe anzi capire come coinvolgere di più in essi le aziende, che oggi danno semplicemente ospitalità alla persona mentre l’ente locale o i servizi danno la borsa di lavoro economica; su questi meccanismi bisognerebbe lavorare di più per trovare mediazioni che vadano incontro ai bisogni di queste persone. Si tratta di persone che hanno caratteristiche tali da non riuscire a reggere  un lavoro a tempo pieno, che si affaticano più facilmente – e magari qualche volta hanno bisogno di rimanere a casa per necessità particolari. Di questa categoria di persone sostanzialmente in tutti questi anni si è occupato il mondo della cooperazione sociale, ma io credo non si possa chiedere alle cooperative sociali di essere l’unica risposta ai bisogni di queste persone. Ma al di là della legge ciò che sarà determinante nei prossimi anni sarà il rafforzamento del sistema dei servizi a livello locale, perché  è evidente che sono vincenti quelle realtà che riescono a creare sinergie tra politiche del lavoro, politiche sociali e politiche educative. Il progetto di vita di una persona disabile dovrebbe prevedere che il suo rapporto con il lavoro possa cominciare nei tempi giusti con le esperienze di alternanza scuola/lavoro per poi proseguire, con il sostegno di servizi, attraverso gli strumenti formativi che sono oggi a disposizione per potersi concludere con l’utilizzo della legge 68. Mi sembra però che i segnali che arrivano non siano tanto quelli di uno sforzo per mantenere e potenziare il sistema dei servizi pubblici, quanto piuttosto quelli di uno smantellamento dello stato sociale. Forse sarebbe utile che qualcuno sapesse che una persona disabile inserita, oltre a vedere rispettati i suoi diritti di cittadinanza, costa, durante il suo percorso di avvicinamento al lavoro, 20 volte meno di quanto costerebbe in un circuito assistenziale.

Con Calimero aumenta il Pil, Superabile, Luglio 2012

Come recitava l’Olandesina a Calimero nel noto Carosello degli anni Sessanta: “Siamo alle solite…”.  Nonostante quest’anno scolastico si sia chiuso con nuove e gravi difficoltà, dall’attentato di Brindisi al terremoto in Emilia Romagna, restano ancora in ballo vecchi e irrisolti quesiti. Tra questi l’ormai storica e annosa domanda: la disabilità è una risorsa o un peso per la collettività?
La scuola è ovviamente la prima cartina tornasole della risposta, come sempre emanazione diretta degli sguardi pubblici e politici che la dirigono e sostanziano. Da questo punto di vista, tuttavia, la situazione attuale è piuttosto schizofrenica.
Benché ogni giorno, infatti, riceva numerose lettere da parte di insegnanti di sostegno capaci di mettere la disabilità al centro del gruppo classe, i segnali che l’informazione ci fornisce vanno spesso in direzione diametralmente opposta.
Parlo di questo non solo rispetto alla riduzione del corpo docente, ma a tutte quelle risorse economiche che permettono di mettere in campo, dentro e fuori la scuola, progettualità innovative e durature.
Tutto ciò è risultato del solito pregiudizio: il contributo della persona disabile è antieconomico. Si fa ancora fatica a riconoscere cioè quelle che sono le potenzialità che anche chi ha un deficit può mettere in campo, dimenticandosi, ad esempio, del suo concorso fondamentale all’aumento e alla stabilità del Pil. Un disabile che il più delle volte ha bisogno di un aiuto esterno o di essere affiancato è già infatti di per sé un ufficio di collocamento vivente.
Insieme a questo si sottovaluta poi come il miglioramento della qualità della vita di una persona in situazione di handicap possa di fatto influire su quello generale. Vi faccio un esempio semplice. Quando siete al bar e avete bisogno di recarvi alla toilette, preferite entrare in un bagno largo ottanta centimetri o in uno largo tre metri? Disabili o non, la risposta è ovviamente la stessa: un bagno accogliente migliora la vita e la comodità di tutti.
Nonostante i grandi passi avanti, merito della legge sull’integrazione, sembra oggi che la crisi ci costringa un po’ a indietreggiare, a ripercorrere e a portare avanti diritti che si speravano ormai dati per scontati e acquisiti.
In tempi come questi dunque, credo che oltre a manifestare sia necessario riorganizzarsi, a cominciare dall’interno dell’istituzione scolastica e dai suoi insegnanti, che dovranno così ricominciare a impegnarsi di persona su questi fronti oltre che in un’ottica alternativa di rete. La scuola, insomma, ci pare abbia bisogno di una ripulita per tornare a parlare con più forza dei suoi temi.
Chissà, forse ha ragione il nostro Calimero piccolo e nero…bisognerebbe dare ascolto alla bella Olandesina e trovare la giusta tinozza in cui immergersi. Come fare?
Ci vorrebbe proprio un nuovo detersivo o forse basterebbe un nuovo ammorbidente….Che ne dite? Voi cosa consigliate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.
Io, intanto, con questo caldo, vado alla ricerca della bella Olandesina…

Claudio Imprudente

 

1. Introduzione

Per un bizzarro scherzo della storia, il decennale dell’approvazione e dell’attuazione della Legge 68 del 12 marzo 1999, pietra miliare per l’inserimento lavorativo delle persone disabili nel nostro Paese, cade nei mesi in cui si dispiega la più terribile crisi economica e occupazionale dal 1929.
Migliaia di aziende che chiudono, altrettante se non di più costrette a ricorrere ad ammortizzatori sociali di lungo periodo e comunque con la prospettiva di non ritornare, nemmeno nel medio termine, ai precedenti volumi di produzione, e naturalmente centinaia di migliaia di lavoratori licenziati o in cassa integrazione. Di fronte a questo vero e proprio sconvolgimento di un intero sistema economico, sembra difficile non considerare l’ultimo dei problemi l’occupazione delle persone con disabilità, incapaci di garantire tout court un adeguato livello di produttività individuale – nonché, secondo fonti di governo molto autorevoli, ostacolo in sé alla competitività del Paese per il loro numero, reale o fittizio che sia. In un mondo economico frutto di una nuova divisione internazionale del lavoro, e per questo più selettivo, l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, salvo forse alcune eccezioni molto particolari, diventerebbe quindi un ricordo, legato a un passato di piena occupazione (peraltro di estensione storica molto breve!) in cui il Welfare State tendeva alla coesione e integrazione sociale anche a discapito della produttività immediata.
Oppure no. La disabilità, tanto più quanto è più grave, può essere considerata come il paradigma estremo, e per questo più illuminante, dei limiti del nostro modello economico e lavorativo. Nel senso più ovvio (ma non poi così ovvio in sé), a chiunque può prospettarsi una disabilità acquisita nel corso della propria vita lavorativa; anche se questo caso non si verifica concretamente, l’effetto proiettivo del “cosa mi succederebbe (sul lavoro) se” agisce comunque sulla sfera psicologica ed emotiva della persona, in termini di investimento sulla dimensione lavorativa entro la propria vita e di giudizio sulla qualità del proprio contesto di lavoro. In un secondo campo, il contatto diretto sul luogo di lavoro con la persona disabile, oltre a spazzare via molti pregiudizi basati sulla non-conoscenza, mette in evidenza i meccanismi adattivi, in termini sia tecnico-fisici che relazionali, che il lavoratore svantaggiato richiede necessariamente per un pieno inserimento lavorativo, ma che sono presenti in forma meno appariscente in tutti i contesti di lavoro e per tutti i suoi membri, incrinando le pretese di “standardizzazione” e di “fungibilità” che le filosofie aziendali possono promuovere all’interno dei medesimi contesti. Infine, in un senso più ampio, l’integrazione lavorativa vista come elemento di realizzazione personale per la persona con disabilità, fuori da ogni logica sia risarcitoria che assistenziale, mette in crisi il concetto di “condizioni di mercato”, in base a cui la persona disabile sarebbe semplicemente incollocabile e appunto da risarcire/assistere – ma con questo mina alla base l’idea che, in ambito economico e non solo, ci si possa muovere esclusivamente nei limiti di “ciò che decide il mercato”. Non è allora eccessivo affermare che l’integrazione nel lavoro delle persone con disabilità solleva problemi che la filosofia del sistema produttivo attuale non può risolvere, ciò che, specie in un momento di crisi economica come quello presente, potrebbe contribuire in modo significativo a spostarne e ridefinirne i confini.
In questa prospettiva, l’inquadramento dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, lungi dall’essere questione meramente tecnica e riservata agli addetti ai lavori, abbraccia tutte le dimensioni economiche, dall’assetto produttivo complessivo alla “microfisica del posto di lavoro” determinata dalle relazioni nei singoli contesti, e travalica l’analisi di una singola disposizione giuridica pur importante come la Legge 68. La presente monografia, che non può avere alcuna pretesa di esaustività su un tema così ampio se visto da tale angolazione, prende dunque le mosse da questa indagine sulla “68”, che riguarda tanto la norma quanto la prassi delle politiche pubbliche per l’inserimento lavorativo in Italia, per poi spostarsi su una ricerca che ha coinvolto alcuni contesti aziendali specifici di Bologna e dintorni, e tornare infine a un livello macro interpellando esperti non direttamente afferenti al discorso sull’handicap a proposito degli aspetti tecnologici, economici e filosofici che l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità chiama in causa. I lettori più attenti noteranno che la dialettica tra le diverse posizioni a volte sfocia in contraddizione più o meno aperta, a partire dalle distinzioni, insite probabilmente in ogni concezione dei processi di mutamento sociale, tra massimalismo e riformismo e tra cambiamento spontaneo/deterministico e necessità di azione concreta: non ritengo questo un problema, ma anzi il segnale che guardando con occhi diversi a questo tema si apre un terreno sconosciuto, capace di accogliere proposte e soluzioni diverse tra loro e pertanto ancor più interessante.
Questa monografia si compone quasi esclusivamente di interviste, sicché, giusto per non nascondermi, concludo che a mio avviso la “mano invisibile” ha dimostrato di essere molto più portata al gesto del comando e dell’esclusione, o eventualmente dell’elemosina, rispetto a quello del mutuo sostegno. Di conseguenza, per avere domani una società più inclusiva nella dimensione lavorativa, occorre ripensare oggi a tale dimensione e contribuire attivamente a mutarla su una scala complessiva e internazionale, in particolare contrastando la riduzione del lavoro a merce del tutto analoga agli altri fattori di produzione, sulla scorta di quanto hanno già teorizzato importanti sociologi ed economisti anche in Italia. In questo senso, e non in altri, può essere interpretata una locuzione sempre più diffusa e che altrimenti rischia di ridursi a semplice mantra di vuota auto-convinzione: la “crisi come opportunità”.

W Il calcio!, Superabile, Giugno 2012

A tutti noi durante la nostra infanzia è stata fatta una domanda, banale, imbarazzante e spesso inutile: “Vuoi più bene alla mamma o al papà?”.
Bene, la stessa domanda mi è tornata in mente alcune sere fa, quando, seduto comodamente davanti alla tv, mi gustavo Ucraina-Svezia valevole per il campionato europeo in Polonia ed Ucrania.
Un amico seduto accanto a me, conoscendo la mia folle passione per i colori rossoneri, mi ha infatti chiesto “Claudio, preferisci Shevchenko o Ibrahimovic?”.
Ecco, appunto, un’altra domanda banale, imbarazzante e di difficile giudizio. La risposta fu la stessa di quarant’anni fa: “Voglio più bene alla nonna”. Ovvero, amo tutti e due allo stesso modo!
Forse la battuta più azzeccata sarebbe stata “W il calcio!”. La sfida europea a tinte rossonere è infatti l’ennesima testimonianza del perché, nonostante tutto, continuiamo ad amare il gioco più bello del mondo.
A questo proposito, alcuni giorni fa, è stato dato il fischio d’inizio ad un nuovo progetto, chiamato semplicemente “W il calcio!”, una collaborazione nata tra la Cooperativa “Accaparlante” e l’Associazione “Bandiera gialla” per riscoprire la magia, l’universalità e la bellezza del gioco del calcio.
L’idea è affascinante, utilizzare come sfondo integratore lo sport più amato dagli italiani, così come afferma il mio amico Andrea Canevaro. Reputo che unire calcio e disabilità possa essere un’idea vincente ed integrante, essendo lo sport patrimonio di tutti. Il progetto è in questo senso ampio e in divenire, il calcio è utilizzato nello specifico anche come metafora della vita, per i tanti valori che si porta dietro, nonostante i continui scandali che lo circondano. Lo spirito di squadra, la collaborazione, il superamento delle difficoltà, lo “sporcarsi le mani”, la crescita della stima in se stessi e negli altri sono valori indispensabili nel calcio come nel quotidiano.
Significativa è una frase di Eric Cantona, ex campione francese del Manchester United, che alla domanda su quale fosse stato il momento più bello della sua carriera rispose “non fu un gol ma il passaggio ad un compagno”. E se quel compagno- gli chiesero- avesse sbagliato il gol?
“Non importa. Bisogna avere fiducia nei compagni di squadra, fidarsi”, ha risposto Cantona. Questo è il calcio, questa è la vita.
Speriamo che questa frase sia di buon auspicio anche per i nostri azzurri ora impegnati nel campionato europeo…
Che dire ancora? Forza azzurri! Anzi, “W il calcio!”
E ora tocca a voi… Volete più bene a Dino Zoff o a Gigi Buffon?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

Belle e impossibili, Superabile, Giugno 2012

Alcuni giorni fa cercavo pace nel giardino di Maranà-tha, per stigmatizzare l’ansia da nuove scosse, controllando con frenesia il mio lap-top in attesa di news.
Fortunatamente la scossa in cui mi sono imbattuto non era frutto dell’ennesimo movimento tellurico, ma nasceva dalla cultura che cambia, e che spesso ha il potere di scuotere le nostre prospettive.
È il caso di una nuova docu-fiction sulla disabilità, più nello specifico sul concetto di estetica e sul percorso di emancipazione di alcune donne in sedia a rotelle.
Ecco alcuni stralci dell’articolo che Anna Lupini di repubblica.it ha pubblicato, per illustrarvi meglio di cosa si tratta: Push Girls, la nuova docu-serie racconta la vita di cinque donne sexy, desiderabili, allegre. Con un dettaglio: hanno perso l’uso delle gambe. E raccontano in tv, come mai prima, come hanno superato l’ostacolo. Prodotta da Gay Rosenthal, la docu-serie traccia un ritratto di cinque donne bellissime e dinamiche, che per incidente o malattia hanno perso l’uso delle gambe. "Uno sguardo realistico e senza censure su cosa significa essere sexy e ambiziose e vivere su una sedia a rotelle a Hollywood", recita il claim della trasmissione bandendo ogni falso pudore.
In questo caso, però, sorprende il punto di vista di queste signore che affrontano la vita a testa alta, ma anche scoprire quanto sia vero quello che affermano le "push girls", ovvero che più che la sedia a rotelle si nota la forza di chi ci vive sopra.
Prima di tutto sono soddisfatto. Soddisfatto, perché in un momento economicamente difficile come quello che stiamo vivendo ora, è positivo sapere che si investe su prodotti nuovi, soprattutto su argomenti delicati e spesso un po’ tenuti al margine come quello della disabilità.
La mia perplessità, a dire il vero, è tuttavia più sui contenuti che ci apprestiamo a vedere.
Le serie prodotte ad Hollywood mostrano spesso stili di vita troppo lontani dai nostri: donne meravigliose, macchine costose, abiti di lusso e posti incantevoli. Ci mettono di fronte a situazioni che vorremmo emulare, ma, essendo le distanze eccessive tra la fiction e quello che ci circonda, finiscono solo per illudere, creando in chi li guarda miti irraggiungibili.
Speriamo che questa nuova serie, così scomoda e provocatoria sia più attinente alla realtà, volta semplicemente a mostrare che la vita, anche in carrozzina, va sempre vissuta a testa alta, e che, con caparbietà e fiducia c’è la possibilità, come ripeto spesso, di trasformare una sfiga in un’avvincente sfida.
Voi cosa ne pensate?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo facebook.

Claudio Imprudente
 

Bibliografia

AA.VV.
Tecnologia e handicap. Comunicare, apprendere e lavorare senza barriere
Roma, Editoriale Aesse, 2000

AA.VV.
Società dell’informazione e persone disabili. Dal rischio di inclusione ai percorsi di integrazione
Milano, Guerini e Associati, 2003

Pierluigi Ridolfi (a cura di)
I disabili nella società dell’informazione. Norme e tecnologie
Milano, FrancoAngeli, 2002

Viviana Bussadori, Nicola Rabbi
“Spazi sintetici. Nuove sensazioni”
Pubblicato su “HP-Accaparlante” n. 30, 1994

Viviana Bussadori, Nicola Rabbi
“Telematici sentimentali. L’handicap in rete”
Pubblicato su “HP-Accaparlante” n. 38, 1995

Franco Carlini
Chips & Salsa. Storie e culture del mondo digitale
Roma, Manifestolibri, 1995

Franco Carlini
Internet, Pinocchio e il Gendarme. Le prospettive della democrazia in rete
Roma, Manifestolibri, 1996

Franco Carlini
Divergenze digitali. Conflitti, soggetti e tecnologie della terza internet
Roma, Manifestolibri, 2002

Lorenzo De Carli
Internet. Memoria e oblio
Torino, Bollati Boringhieri, 1997

Carlo Giacobini, Nicola Rabbi
L’handicap in rete. Breve storia di telematica sociale per la disabilità
Bologna, Prometeo, 1999

Gubitosa C. , Marcandalli E., Marescotti A.
Telematica per la Pace. Cooperazione, diritti umani, ecologia
Milano, Apogeo, 1996

Pierre Lévy
L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio
Milano, Feltrinelli, 1996

Nicola Rabbi
Disabili 1.0. Servizi, relazioni sociali, barriere: internet per i disabili
Pubblicato su “HP-Accaparlante” n. 1, 2005

Sherry Turkle
La vita sullo schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di internet
Milano, Apogeo, 1997

Libro Bianco, 2003
Tecnologie per la disabilità: una società senza esclusi
Commissione interministeriale sullo sviluppo e l’impiego delle tecnologie dell’informazione per le categorie deboli

Linee guida 2009 per l’accessibilità dei contenuti Web (WCAG) 2.0 
www.w3.org/Translations/WCAG20-it/Overview.html

8. Funes, o della memoria

Questo scritto di Borges è stato composto molto prima dell’avvento di internet però l’autore, come anche in un altro racconto (La biblioteca di Babele), dà spunto a diverse riflessioni che riguardano la rete. In questo caso siamo partiti dal semplice accostamento tra il tema del nostro lavoro – disabilità e internet – con la situazione del racconto; Funes è un ragazzo di campagna che, in seguito a un incidente, diventa disabile acquisendo però una memoria pressoché perfetta.
La memoria perfetta per Funes è un’esperienza così totale che a mala pena si accorge della sua infermità. Anzi, solo dopo che è a letto, paralizzato e non fa niente, gli sembra di essersi veramente risvegliato, di aver iniziato a usare per la prima volta i propri sensi. La sua capacità di ricordare è così perfetta che un semplice frammento di tempo si dilata nel ricordo a dismisura: ma come si può e che senso ha raccontare un ricordo di pochi istanti in diverse ore? Che fare di questa mole impressionante di dati? E per Funes, chiuso nella sua stanza in penombra, in uno stato di sogno “ricordante” che senso, che valore ha?
La rete in effetti può garantire una registrazione abbastanza completa di quello che accade, i dati si moltiplicano a dismisura ma questo accrescimento può risolversi sia in un’opportunità che in una occasione persa per una persona disabile, anzi per ogni persona.
[…] Il mio primo ricordo di Funes è assai netto. Lo vedo in una sera di marzo o febbraio del 1884. Mio padre, quell’anno, m’aveva portato in villeggiatura a Fray Bentos. Stavo tornando con mio cugino Bernando Haedo dalla tenuta di San Francisco. Tornavamo cantando, a cavallo, e questa non era la sola ragione della mia felicità. Dopo una giornata soffocante, una enorme tempesta colore ardesia aveva oscurato il cielo. L’incitava il vento da sud, già impazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una stretta che affondava tra due altissimi marciapiedi di mattoni. D’un colpo si era fatto buio; udii in alto passi rapidi, quasi segreti; alzai gli occhi e vidi un ragazzo che correva per lo stretto e rovinato marciapiede come su uno stretto e rovinato muro. Ricordo le sue scarpe di corda; ricordo, contro la già sterminata nuvolaglia, la sua sigaretta e il suo volto duro. Bernando gli gridò, imprevedutamente: – Che ore sono, Ireneo? – Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: – Mancano quattro minuti alle 8, ragazzo Bernando Juan Francisco –. La voce era acuta, burlesca.
Sono così distratto che questo dialogo non avrebbe attirato la mia attenzione se non ve l’avesse richiamata mio cugino, cui stimolavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell’altro.
Mi disse che il ragazzo della stradetta era un certo Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di sapere sempre l’ora, come un orologio. Aggiunse che era figlio d’una stiratrice del paese, Marìa Clementina Funes, e che suo padre, secondo alcuni, era un inglese O’Connor, medico agli stabilimenti; secondo altri, un ranchero del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.
Le estati dell’85 e dell’86 le passammo a Montevideo. Nell’87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, com’è naturale, di tutti quelli che conoscevo, e da ultimo, del “cronometrico Funes”. Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta San Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l’impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l’unica volta che l’avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; la disgrazia, nel racconto di mio cugino Bernando, aveva molto d’un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si muoveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o sua una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avvicinassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto di simulare che il colpo che l’aveva fulminato fosse stato benefico… Due volte lo vidi dietro all’inferriata, che grossamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santonina.
[…] Nel rancho ben tenuto fui ricevuto dalla madre di Funes. Mi disse che Ireneo era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, poiché soleva passare le ore morte senza accendere la candela. Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C’era una pergola; l’oscurità poté sembrarmi totale. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel patio di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili; poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi che erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia. L’argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum.
Senza il minimo cambiamento di voce, Ireneo mi disse di entrare. Stava sulla branda, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all’alba; credo di rammentare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente di umidità. Mi sedetti; ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.
Giungo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurre le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi venne dicendo. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; lascio al lettore d’immaginare i frastagliati periodi che m’incantarono quella notte.
Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito: Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonie, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m’ascoltò). Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e più banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.
Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata di un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche ecc. Poteva ricostruire i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: – Ho più ricordi io da solo, di quanti ne avranno avuti tutti gli uomini messi insieme, da che mondo è mondo –. Anche disse: – I miei sogni, sono come la vostra veglia –. E anche: – La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti –. Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva in cielo.
[…] Mi disse che verso il 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemilatredici diceva (per esempio) Maximo Perez; in luogo di settemilaquattordici, La Ferrovia; altri numeri erano Luis Meliàn Lafinur, Olimar, zolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustìn de Vedia. In luogo di cinquecento, diceva nove. A ogni parola corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molti complicati… Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 365 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non è possibile con i “numeri” Il Negro Timoteo o Mantello di carne. Funes non mi sentì o non volle sentirmi.
Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes, aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita e immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
I due progetti che ho detto (un vocabolario indefinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di comprendere come il simbolo generico cane potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Ireneo, nel suo povero sobborgo sud-americano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era il più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire. Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente.
Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel modo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.
Il chiarore esistente dell’alba entrò per il patio di terra.
Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1886; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l’Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) durerebbe nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.
Ireneo Funes morì nel 1889, d’una congestione polmonare.
(*) Jorge Luis Borges, Finzioni, Torino, Einaudi, 1995

7. L’uso della rete da parte dei disabili

Non è certamente facile dare una risposta di tipo generale alla domanda che sta dietro al titolo di questo articolo, ma lo abbiamo fatto ugualmente dando la parola a tre persone disabili che usano la rete in un modo approfondito già da tempo e che svolgono lavori di tipo intellettuale. Un punto di visto privilegiato quindi, che non può essere la voce della maggioranza delle persone disabili, ma che indica sicuramente un uso preciso della rete che si proietta nel futuro.

“Un circolo virtuoso che mi dà lavoro a ciclo continuo”
Claudio Imprudente, autore di numerosi libri sul tema della cultura e i diritti dei disabili.
Ho un ricordo ben preciso di quando ho utilizzato la posta elettronica per la prima volta; perché prima facevo un centinaio di telefonate al giorno, poi tutto è cambiato; nel 2001 ho spedito le mie prime e-mail e probabilmente la persona che mi ha fatto vedere come farlo è stato Ivan, l’informatico della nostra associazione.
In effetti la mia vita ha avuto una accelerazione non indifferente, è stato un passaggio molto importante e se penso alla mia storia personale è stato importante tanto quanto passare dalla tavola orizzontale a questa verticale: mi spiego meglio, prima per comunicare, dato che non parlo, usavo le mani che toccavano delle lettere su una tavola posta su un piano, poi ho visto che indicare le lettere con gli occhi utilizzando una tavola trasparente era un modo molto più efficace per comunicare. Così è stato anche per l’utilizzo del web. Avevo capito che era uno strumento molto valido per raggiungere le altre persone, superava i miei problemi di mobilità in senso fisico e mi permetteva anche di avere più relazioni. Anche le mie attività lavorative sono aumentate.
Mi ricordo che all’epoca avevo un pallino in testa, quello di andare in televisione ma credo che ho intuito che internet avrebbe sostituito la televisione. Questo mi ha diminuito l’ansia di trovare un programma televisivo che mi accogliesse.
Dal principio ho usato Google per fare delle ricerche, soprattutto quando ho incominciato la collaborazione con Superabile (www.superabile.it); per questo sito dell’Inail che tratta di informazione sulla disabilità, dovevo curare una rubrica settimanale di rassegna stampa; dovevo trovare tre articoli che mi colpissero e fare un commento con uno stile ironico. Ho incominciato a chiedere alle varie agenzie di stampa di inviarmi gli aggiornamenti, tramite e-mail. Ovviamente altri suggerimenti mi provenivano anche da e-mail provenienti da fonti diverse.
Ho iniziato a usare le mailing list praticamente da subito per diffondere quello che scrivevo; davo un certo tipo di informazione, non quella privata, ma di interesse generale. Ho questo stile da sempre, non uso questi strumenti per tenere una sorta di diario personale ma come informazione pubblica e commento. Invece il 90 per cento delle persone che conosco e che utilizzano la rete, mi dicono i loro fatti privati.
L’esperienza del blog è sta più difficile; la mia idea era quella di sostituire la mailing list con il blog ma il gruppo di lavoro, la mia associazione, mi ha chiesto di creare e animare un blog a più voci e questa esperienza stenta ancora adesso a decollare pienamente.
Facebook invece, che utilizzo da due anni, è stato lo strumento ideale per fare una cosa più personale; anche in questo caso ho voluto usare il mezzo non privatamente, come uno “sfogatoio”, ma ho cercato di farlo diventare un mezzo per la diffusione delle mie attività lavorative; in Facebook infatti metto i miei articoli e aspetto i commenti degli “amici” che sono quasi 3 mila. Ho creato un circolo virtuoso che mi dà lavoro a ciclo continuo, cioè scrivo un articolo e aspetto i commenti, poi dai commenti scrivo un altro articolo oppure un libro.
Oramai sto collegato diverse ore al giorno su internet, sia a casa che al lavoro.
Come uso privato internet non ha molto significato per me; a parte alcuni compagni di scuola che ho ritrovato tramite Facebook.
In futuro vorrei che internet diventasse uno strumento che ti permette una sempre maggiore visibilità; faccio un esempio: organizzo un incontro a Brescia e tutte le scuole di quella provincia hanno la possibilità di collegarsi in tempo reale a quell’evento.

“Come staccare la spina dal mondo”
Fabrizio Galavotti, critico cinematografico per conto del sito di informazione sociale BandieraGialla (www.bandieragialla.it) e giocatore nella squadra Rangers Bologna di hockey su carrozzina elettrica.
Per me la rete internet è diventata fondamentale, ci passo molto tempo, ho incominciato a usarla alla fine degli anni ’90 a scuola, dato che ho fatto un indirizzo per perito informatico.
Agli inizi la connessione era lenta e non ho avvertito subito i vantaggi; da quando ho avuto l’adsl a casa e in seguito altre connessioni veloci, è diventata più importante.
Dati i miei interessi, guardavo i siti sportivi e cercavo informazioni su Google.
Come programmi, ricordo, usavo le chat, come Msn Messenger e Skype, per riprendere contatto con persone che già conoscevo o anche per conoscerne di nuove.
In chat non ho mai conosciuto persone che poi sono diventate mie amiche. Ho consolidato vecchie amicizie ma gli incontri sulla rete non si sono mai tradotti in incontri reali.
Uso normalmente anche la community di Libero dove chatto e carico fotografie. Per i miei hobby seguo i siti che trattano di sport, l’hockey e basket.
Adesso lo uso soprattutto per lavoro e quindi ho tutta una serie di link di siti che trattano di cinema e li uso per documentarmi e approfondire i film o anche ascoltare interviste; prima usavo i giornali di carta ma naturalmente mi assicuravano fonti di informazione minori e poi si dovevano comprare.
Attraverso Facebook, che uso dal 2008, ho conosciuto uno sceneggiatore che si occupa di temi sociali con cui ho allacciato anche rapporti di lavoro. Non uso Facebook a fini ludici ma soprattutto per chattare.
Tramite internet faccio anche altre cose più pratiche come ricaricare il telefono, scaricare la musica comprandola, a volte faccio degli acquisti mediante la carta di credito postale ricaricabile. Scarico anche parecchi film.
Certo è che adesso senza internet la mia vita sarebbe diversa, internet mi permette molte cose, mi sentirei perso se non ci fosse, sarebbe come staccare la spina dal mondo.
Mi serve per passare il tempo; al giorno passo diverse ore di fronte al computer collegato a internet. Penso che in futuro sarà sempre più semplice usare la rete.

I quattro tipi di network sociali
Francesco Levantini, lavora in Ibm dal 1985 e si occupa principalmente di divulgare le nuove tecnologie nel mondo delle aziende.
Ho incontrato internet nel 1985 quando era limitata alle grandi aziende e alle Università; il primo incontro è stato con l’e-mail che è uno strumento altamente produttivo e che mi ha permesso come non vedente di avere già a disposizione documenti leggibili dalla sintesi vocale.
Poi sono apparsi i libri digitalizzati che i non vedenti si scambiavano e i giornali pubblicati sul web.
Poi ho cominciato a utilizzare le chat, i forum…
Nel mondo relazionale preferisco il mondo degli atomi, quello fisico insomma; dal punto di vista relazionale non è cambiato molto, dato che io preferisco incontrare le persone realmente e non in rete. Io uso i social network come strumento per portare la mia scrivania di lavoro all’esterno ma poi le relazioni si fanno nei pub, nei locali in una cena assieme.
Internet è uno strumento importante per un disabile perché regala parecchio tempo operativo.
Per il futuro io penso a un internet “for thing”, l’internet delle cose ovvero la domotica; vedo anche sparire il computer che si diffonderà nei vari oggetti, mi immagino che anche il televisore e gli altri elettrodomestici si uniranno alla rete.
Oggi quando il computer non si connette a internet ho quasi la sensazione che si sia rotto visto che quello che faccio è quasi tutto on line.
Se a un tratto non avessi più internet sarebbe una seccatura non avere le informazioni digitalizzate, mentre per le conoscenze in senso lato come relazioni, rapporti di lavoro, opportunità, date dalla rete, dai social network, difficilmente potrei fare a meno.
Io suddivido i social network in 4 tipi a secondo dell’uso che ne faccio: 1) Facebook è simile al cortile di casa, uso questo strumento come una sorta di e-mail permanente, ho a che fare con amici che mi conoscono che sanno che sono non vedente, è un rapporto che porta nel mondo digitale gli stessi meccanismi del mondo reale; 2) in Linkedin invece non ti proponi come persona fisica ma per la capacità che hai di proporti per le tue conoscenze; qui le persone con cui lavoro non sanno della mia disabilità. Linkedin in questo modo amplia la partecipazione; 3) Second Life è interessante come laboratorio per provare a costruire nuove personalità (e nuove persone) e per vedere l’impatto che ha sulla gente. Qui una persona disabile può provare diverse cose; 4) Twitter, infine è il social network che permette di creare i gruppi di osservazione su determinati temi e per la disabilità non è uno strumento interessante, è solo uno strumento di informazione.

6. Maneggiare con cura: l’informazione medico-scientifica

Intervista a Eugenio Santoro, responsabile del Laboratorio di Informatica Medica dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”. Autore del volume Web 2.0 e Medicina: come social network, podcast, wiki e blog trasformano la comunicazione, l’assistenza e la formazione in sanità (Roma, Il Pensiero Scientifico Editore, 2009.)

Che tipo di informazione medico-scientifica è rintracciabile su internet?
Su internet si possono trovare numerose informazioni: da quelle relative al trattamento di una patologia ai consigli su come prevenirla o su come gestirla e affrontarla; dalle informazioni riguardanti i centri dove è possibile curarsi o richiedere assistenza, a quelle che illustrano le possibili interazioni tra terapie farmacologiche e i loro possibili effetti collaterali; dalle informazioni sulle sperimentazioni cliniche in corso in una data area medica a quelle che permettono di venire a conoscenza dei progressi scientifici più recenti.
Spesso poi, chi naviga in internet non trova solo informazioni, ma anche servizi di “teleconsulto” nei quali l’utente, dopo aver esposto i suoi problemi sanitari, riceve un parere medico. È un genere di servizio che non deve essere confuso con la “telediagnosi” (pratica peraltro osteggiata dallo stesso Ordine dei Medici), ma piuttosto inteso come possibile strumento di “monitoraggio” della propria salute, da completare con un incontro con il proprio medico.

Quali sono gli strumenti più idonei per ricercare questo tipo di informazione in un panorama web come quello attuale?
Nel cercare una informazione di tipo medico partirei dai siti web delle società scientifiche. Queste hanno infatti ormai da tempo previsto sui propri siti web delle sezioni appositamente pensate per il cittadino, dove, in un contesto scientificamente attendibile, si può trovare la maggior parte delle informazioni di cui si ha bisogno. Anche i siti web delle associazioni di pazienti fanno ormai concorrenza, in termini di completezza, aggiornamento e utilità delle informazioni presentate,  a quelli professionali usati dai medici. Non bisogna infine dimenticare i siti istituzionali (come per esempio quelli sviluppati dal Ministero della Salute o dall’Istituto Superiore di Sanità) o i portali scientifici che, sebbene siano frutto di iniziative commerciali “for profit”, spesso offrono (gratuitamente) servizi e informazioni di indubbia utilità. Un altro strumento per consentire ai cittadini di muoversi tra i siti web medici affidabili sono i siti web appartenenti alla famiglia X.CARE che abbiamo sviluppato presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” nel corso di questi anni in varie aree mediche tra le quali la cardiologia, l’oncologia, la terapia del dolore, la gastroenterologia e la pneumologia. Si tratta di una sorta di “pagine gialle” dei migliori siti web selezionati e commentati dal personale del nostro istituto attraverso rigidi criteri di selezione adottati a livello internazionale e che prendono in esame la loro affidabilità e la continuità del loro aggiornamento.
Tuttavia non si può ignorare il fatto che lo strumento più frequentemente impiegato per cercare informazioni mediche in internet sia Google. Se da un lato è possibile che tra primi i risultati offerti da Google compaiano le pagine web provenienti dai siti web con caratteristiche simili a quelle appena enunciate, dall’altra non è da escludere che i link rimandino verso fonti di informazioni non certificate. Lo stesso discorso vale per Wikipedia, la nota enciclopedia collaborativa che, anche in italiano, ospita numerose voci di tipo medico. I suoi contenuti, frutto della collaborazione tra più persone, non necessariamente esperte del settore, potrebbero infatti essere incompleti o addirittura contenere delle imprecisioni. È per questo motivo che gli stessi responsabili del progetto Wikipedia suggeriscono agli utenti (con un apposito “disclaimer”) di non impiegare l’enciclopedia come fonte primaria e di confrontarne i contenuti con altre fonti.

Che precauzioni bisogna prendere prima di affidarsi a notizie reperite in rete e quali criteri adottare per verificare la loro attendibilità?
È importante che il cittadino impari a sviluppare il suo spirito critico quando legge una notizia o accede a una fonte di informazione in internet, anziché subirla in modo passivo. Sul portale di un nostro progetto chiamato Partecipasalute, frutto della collaborazione tra l’Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri, l’agenzia di giornalismo Zadig e il Centro Cochrane Italiano, forniamo una serie di strumenti che suggeriscono cosa bisogna chiedersi quando si legge una notizia sulla salute, come interpretare notizie, numeri, dati, implicazioni cliniche e conflitti d’interesse, e come si fa a riconoscere se una fonte è affidabile. In riferimento a quest’ultimo punto, suggeriamo di verificare che i siti Internet dedicati alla salute che il cittadino si ritrova a visitare contengano alcune fondamentali informazioni tra cui il nome dell’autore del contributo, la data della sua creazione e le fonti di informazioni alle quali l’autore si è ispirato, oltre alle indicazioni sulla eventuale fonte di finanziamento del sito web che ospita tale contributo e sul suo proprietario.

Qual è il contributo che la gente può dare a questa informazione? Stiamo parlando degli stessi malati o dei loro famigliari, oltre ai medici e agli scienziati?
I cittadini e i pazienti che oggi navigano in internet non vogliono solo sentire la voce dell’esperto, ma desiderano fortemente un confronto con altre persone che si trovano nelle stesse condizioni, che soffrono delle stesse patologie, che hanno affrontato esperienze simili a quelle che loro (o i propri famigliari) sono costretti ad affrontare. È la cosiddetta “saggezza della folla” (una delle teorie alla base del fenomeno del web 2.0) di cui parlo nel mio volume, che offre ai pazienti maggiori possibilità di acquisire conoscenze, fare scelte consapevoli che riguardano la propria salute, e, per usare una espressone oggi di moda, accrescere il proprio “empowerment”.
Il confronto avviene attraverso l’impiego dei blog, dei social network, dei wiki, dei forum, e di tutte quelle applicazioni “socializzanti” che hanno il pregio di aggregare persone in base ai loro specifici interessi. D’altra parte ricerche condotte negli Stati Uniti indicano che ormai tali strumenti sono tra i preferiti dai cittadini quando si tratta di cercare in rete informazioni sanitarie, superati solo dai motori di ricerca generalisti come Google e dai portali sanitari.

Nel caso di una persona disabile, quale dovrebbe essere il suo atteggiamento verso le informazioni medico-scientifiche raccolte on line?

Valgono tutte le precauzioni che si dovrebbero prendere quando si accede a qualunque materiale medico scientifico e che ho precedentemente esposto. A quelle aggiungerei il suggerimento di verificarle ogni volta con un operatore sanitario specializzato (il medico, lo specialista, il fisioterapista, ecc.) per evitare di incorrere in possibili “bufale”.

Potrebbe raccontarci il caso di clamorose bufale di notizie pseudoscientifiche prese dalla rete e viceversa di informazioni preziose sparse in rete?

Per quanto riguarda le bufale, è sufficiente pensare a tutti quei siti che promuovono l’uso e la vendita di pseudo farmaci  presentati come “il rimedio” alla cura di numerose malattie, comprese quelle particolarmente invalidanti come il tumore allo stadio avanzato.
Tra quelle sparse in rete, si annidano comunque preziose informazioni che difficilmente si potrebbero reperire attraverso le vie tradizionali. Penso per esempio alle informazioni su sperimentazioni cliniche in corso alle quali un paziente, magari con patologie rare, potrebbe prendere parte, oppure a quei servizi on line che informano i cittadini sulla disponibilità in una data struttura sanitaria degli strumenti per eseguire specifiche indagini diagnostiche o analisi mediche.

Ci può citare una serie di siti web che offrono dei servizi di informazione medico-scientifica di qualità?
Numerosi sono gli esempi nel mondo anglosassone. Dal portale Medlineplus (www.medlineplus.gov), il sito web istituzionale americano per il cittadino che offre informazioni sulla prevenzione, diagnosi e cura delle principali malattie, all’omologo portale inglese realizzato dal National Health Service (il Ministero della Salute inglese) e chiamato NHS Choices (www.nhs.uk).
Per quanto riguarda l’Italia, oltre ai siti web del Ministero della Salute (www.ministerosalute.it) e dell’Istituto Superiodi Sanità (www.iss.it), si possono citare portali come Dica33 (www.dica33.it),
Yahoo! Salute (http://it.health.yahoo.net), Partecipasalute  e quelli delle principali società scientifiche italiane.
Per quanto riguarda l’area riguardante la disabilità segnalerei il portale Disabili.com (www.disabili.com) e quelli delle principali associazioni di volontariato che operano in questa area, che possono essere raggiunti attraverso il link www.asphi.it/Link/LinksAss.htm.

E in futuro che cosa ci si può aspettare dalla rete? Quali sviluppi per l’informazione medico-scientifica e come ne potranno beneficiare le persone disabili?
Per il futuro penso a un uso, anche in Italia, più frequente e ragionato di blog, social network e social media che porteranno, a mio avviso, un duplice beneficio ai malati e, in particolare, alle persone disabili. Da una parte la possibilità da parte di queste persone di aggregarsi in reti sociali per esprimere il proprio parere e fare sentire in modo più deciso la loro posizione. Penso, per esempio, all’esperienza del portale PatientsLikeMe (www.patientslikeme.com) attraverso cui pazienti americani che soffrono di malattie neurologiche particolarmente invalidanti (come la Sclerosi Laterale Amiotrofica oppure la Sclerosi Multipla) possono scambiarsi esperienze, dati e suggerimenti per combatterle o per conviverci. Dall’altra, la possibilità da parte dei malati di poter ricevere più velocemente aggiornamenti grazie all’adozione da parte dei principali produttori di informazione medico-scientifica (organizzazioni istituzionali, società scientifiche, associazioni di pazienti) dei cosiddetti “social media” (tra cui YouTube, Twitter e Facebook), capaci di diffondere sulla rete e sui social network i propri contenuti.
Grazie all’uso di questi strumenti il ruolo dei malati sarà sempre più decisivo anche nella valutazione delle prestazioni sanitarie e delle strutture ove queste vengono fornite. E’ quanto, per esempio, già oggi possono fare i cittadini inglesi attraverso il portale NHS Choices (www.nhs.uk), sul quale, oltre a trovare gli “indicatori di performance” di una struttura sanitaria sul territorio inglese, possono consultare i giudizi che, su quella stessa struttura, sono stati forniti dai cittadini attraverso il medesimo portale.

5. L’informazione sulla disabilità al tempo di internet

Carlo Gubitosa è un giornalista e attivista per i diritti umani e la libera informazione, che dagli inizi degli anni ’90 si occupa di informazione on line; ha pubblicato vari libri tra cui Italian Crackdown – BBS amatoriali, volontari telematici, censure e sequestri nell’Italia degli anni ’90 (Milano, Apogeonline, 1999) e Hacker, scienziati e pionieri. Storia sociale del ciberspazio e della comunicazione elettronica (Viterbo, Stampa Alternativa, 2007).
Franco Bomprezzi è un giornalista e disabile; attualmente lavora come free lance a Milano ed è un esperto di comunicazione sociale. Ha scritto i romanzi La contea dei ruotanti (Padova, Il Prato, 1999), Io sono così (Padova, Il Prato, 2003) e Handicap power (Lucca, LibertàEdizioni, 2008).
Abbiamo rivolto ai due giornalisti alcune domande su come i disabili usano internet e in particolare su come è cambiata l’informazione a proposito di disabilità con l’avvento delle nuove tecnologie del comunicare.

In qualità di giornalista e di disabile che usa in modo costante la rete, che cosa ha significato per te l’uso di internet?
Bombrezzi: Moltissimo, direi tutto. Oggi non riesco neppure a immaginare il mio lavoro senza internet. Innanzitutto, banalmente, l’uso sempre più soddisfacente dei grandi motori di ricerca consente di trovare notizie, fonti, confrontare opinioni, rintracciare documenti utili. Da persona con disabilità la rete aggiunge la comodità del telelavoro, quando possibile.

La rete permettendo la moltiplicazione dei canali rende possibile anche un’informazione individualizzata, di nicchia e per temi specifici: questa evoluzione ha portato a dei reali cambiamenti positivi per quanto riguarda l’informazione sulla disabilità?
Gubitosa: Direi di più: ha portato a cambiamenti positivi per quanto riguarda l’informazione DEI disabili, che grazie alle nuove tecnologie hanno l’occasione di produrre e condividere informazioni come mai prima d’ora. Nel 2000 ho effettuato un lavoro di inchiesta e di approfondimento su questi temi che ha dato vita a un progetto multimediale ancora on line all’indirizzo. Sono rimasto sorpreso scoprendo che per usare un computer basta anche solo la lingua, il soffio o la possibilità di premere un singolo pedale o interruttore. Anche in questo ambito vale un discorso generale: la migliore informazione è quella prodotta da chi ha esperienza diretta dei temi trattati. E quindi l’informazione migliore sulla disabilità è quella che proviene dai disabili. Basti guardare al lavoro immenso di giornalisti come Franco Bomprezzi, o al premio “Ilaria Alpi” vinto dal disabile Franco Civelli nella sezione “telestreet”, con un video di inchiesta/denuncia in cui descriveva le barriere architettoniche della sua città.
Bombrezzi: Certamente. Ha portato una maggiore consapevolezza degli strumenti a disposizione, dagli ausili tecnologici alle opportunità di viaggio, dalla rete delle associazioni alla documentazione legislativa; non c’è campo nel quale i canali del web non abbiano offerto strumenti nuovi e in larga misura validi.

E i disabili stanno usando questo strumento per informare l’opinione pubblica e per veder riconosciuti i propri diritti?
Gubitosa: Prima ancora che come strumenti di attivismo, credo che la produzione di contenuti da parte dei disabili sia un indispensabile strumento di espressione, una forma per esercitare quel diritto alla comunicazione spesso rivendicato nella sua sola forma passiva (ricevere informazioni corrette) ma sempre più praticato nella sua forma attiva e riflessiva (informaRE e informarSI). A partire da questo, è indubbio che oggi in rete è molto più facile denunciare le situazioni in cui la disabilità si trasforma in handicap per negligenza altrui, come insegna il caso di Fabio Pavone, il giovane abruzzese affetto da distrofia che ha denunciato in rete la mancata copertura mutualistica di un costoso mouse pilotato con le labbra che gli permette di comunicare [abbiamo trattato di questo caso anche in una rubrica di Bandieragialla.it, che trovate pubblicata a questo indirizzo, www.bandieragialla.it/node/6370 n.d.r.]. In altri tempi il caso di Fabio sarebbe passato inosservato, ma il suo utilizzo intelligente della rete come cassa di risonanza gli ha permesso di ottenere visibilità su un dato cruciale per molte persone nelle sue stesse condizioni, e il tutto agendo come singolo cittadino, senza dover passare per l’intermediazione di gruppi o associazioni.
Bombrezzi: In parte sì, in parte no. Sicuramente alcune realtà organizzate sono state in grado di utilizzare la rete per informare e formare l’opinione pubblica. Ma il limite è rappresentato dalla nicchia, ossia dalla difficoltà di arrivare, anche sul web, ai media generalisti di larga diffusione, dove sarebbe indispensabile incidere efficacemente e tempestivamente.

I disabili in Italia hanno una buona formazione sul tema dell’uso delle nuove tecnologie?
Gubitosa: Sarebbe corretto dire che hanno una buona AUTOformazione, visto che né i percorsi scolastici ufficiali, né le strutture di assistenza, né tantomeno le istituzioni o il ministero del welfare hanno dimostrato in questi anni una particolare attenzione per l’accessibilità delle tecnologie. In Italia siamo riusciti a produrre la legge Stanca che ha portato solo confusione nel settore, mentre sarebbe bastata una legge di una riga che richiedesse il rispetto degli standard internazionali di accessibilità già ottimamente definiti e codificati.
Bombrezzi: Credo che ci sia una formazione a macchia di leopardo sul territorio nazionale. Bene al Nord, e in parte al Centro, i problemi nascono al Sud anche per le difficoltà nell’estendere le linee a banda larga in territori non sorretti adeguatamente dal punto di vista economico e infrastrutturale.

Quali sono in rete alcuni esempi validi per te di buona comunicazione on line?
Gubitosa:
Tra i più recenti potrei citare “Crisi TV” http://crisitv.wordpress.com/ dove una community di precari mette insieme testi, approfondimenti e materiali multimediali per affrontare la crisi in modo informato e consapevole, e sostenere le battaglie per il diritto al lavoro. C’è poi la rivista antimafia catanese Ucuntu, lo storico portale pacifista www.peacelink.it e l’esperimento di giornalismo satirico che stiamo realizzando su dove una satira che non fa solo ridere incontra un’informazione che fa anche sorridere.
Bombrezzi: Vi sono parecchie esperienze in rete di buona comunicazione come il portale disabili.com (www.disabili.com), il portale interattivo di Vita (www.vita.it) ma adesso anche molti blog, e la trasformazione in atto con il social network sta ulteriormente fornendo strumenti validi, interessanti, creativi.

Che cosa manca invece ancora in rete, cosa vorresti realizzare sul tema della comunicazione e la disabilità sul web se ne avessi la possibilità?
Gubitosa:
Mancano dei servizi che permettano di vivere meglio il proprio territorio, un motore di ricerca finalizzato al vivere quotidiano dove si possa cercare la struttura senza barriere architettoniche ma anche il gruppo d’acquisto solidale per organizzare la propria spesa con intelligenza e sobrietà (anche i disabili devono mangiare, e anche loro storcono spesso il naso davanti a OGM e pesticidi), l’officina onesta per riparare carrozzine elettriche, la libreria di quartiere che vende testi braille e tutti quei piccoli servizi che messi insieme determinano la qualità della vita.
Bombrezzi: Vorrei aumentare l’interattività. Perciò mi piacerebbe una web tv efficiente gestita direttamente dal mondo delle persone con disabilità, con una specie di YouTube specifico, per testimoniare in tempo reale barriere, difficoltà, ma anche buoni esempi, attività artistiche, sport, letture, insomma tutto ciò che fa normalità di vita.

E se questo desiderio fosse libero e non legato alla disabilità cosa vorresti vedere o fare in rete?
Gubitosa: Vorrei vedere che cosa accadrebbe se venisse legalizzata la copia privata senza scopo di lucro, che ha come unico obiettivo la condivisione della conoscenza e la trasformazione di internet nella più grande biblioteca della storia umana.
Bombrezzi: Fare libera informazione, competente e attendibile. A volte il web è autoreferenziale ed esagerato, come una volta erano le prime televisioni locali. Mi piacerebbe lavorare a un progetto serio di informazione di qualità, non ideologico, non legato a vecchie testate.

Per contattare gli autori:
Carlo Gubitosa: c.gubitosa@peacelink.it
Franco Bomprezzi: franco.bomprezzi@gmail.com