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Autore: admin

Lettere al direttore

Caro Claudio,
come è iniziata la settimana? Prima di iniziare con le mie chiacchiere, vorrei dirti che mi è dispiaciuto molto doverti salutare così in fretta, e scomparire dal magico mondo di Marana-thà così rapidamente. Sono di natura malinconica, e da sabato non faccio che parlare di voi!
Veniamo al punto: in allegato ti invio la lettera che ho scritto a Corrado Augias (www.superabile.it/COMMUNITY/Lettere_alla_Redazione/info1340360613.html), per la sua rubrica di letterine de “la Repubblica”. Non ho ricevuto risposta alcuna, e credo che le mie righe non compariranno mai sul giornale. Ma dato che si parlava di Servizio Civile, mi piacerebbe che tu leggessi quel che ho scritto, e mi dicessi se sei ancora convinto che io possa scrivere buone cose!
E poi: ho parlato poco fa col gentile Roberto. Per il Servizio Civile Volontario. Mi ha detto di fare domanda tramite il sito internet di ARCI-Bologna entro fine agosto, di farvi visita al CDH a settembre, entrambe cose che ho intenzione di fare.
Devo rifletterci davvero, anche se so che la domanda non è vincolante.
Forse ti ho già accennato al doppio binario? Da una parte i sogni di cooperazione internazionale, la guerra, i bambini soldato e i diritti umani, ONU, EU e compagnia… E dall’altra la disabilità, come tema su cui riflettere insieme al resto della società, come condizione da prendersi in esame senza pietismi, ma con la consapevolezza che c’è bisogno di cultura, conoscenza, consapevolezza, nonché autoironia e voglia di combattere con parole e fatti, oltre che coi sorrisi. Problema: nel regno della pratica cosa significa? Cosa potrei fare? Sarei davvero in grado di FARE qualcosa al CDH? Come potrei affiancare altri disabili? Come potrei cercare libri sugli scaffali della biblioteca senza impiegarci dalle 6 alle 9 ore per ogni manuale da scovare? Non so, ho tante preoccupazioni. Ma ho tempo per rifletterci, e per chiedere consigli a chi è più saggio di me… Per esempio chiedere consigli al saggio destinatario di questa e-mail!
Bene, spero di ricevere le tue illuminanti riflessioni presto!
Un abbraccio,
Nadia

Carissima Nadia,
della tua visita a Marana-thà ricordo quello che è successo sotto il tiglio, quando Margherita ha chiesto chi poteva dare un’occhiata al bambino e io ho indicato te. Margherita era imbarazzatissima mentre io e te ci siamo messi a ridere.
In quel momento ho apprezzato la tua autoironia.
Mi frulla in testa una domanda: i bambini soldato giocano ai soldatini?
Al di là dell’ironia, mi sembra che tu sia a un bivio: o segui il binario della cooperazione internazionale e investi il tuo tempo per i diritti dei bambini soldato oppure segui il binario che ti porta al CDH e investi il tuo tempo per combattere un’altra battaglia.
Perché in fin dei conti, sempre di combattere si tratta.
Mi spiego meglio.
I bambini soldato giocano con le bombe, i mitra, i fucili e quando giocano a nascondino non devono farsi trovare altrimenti rischiano la vita. Hanno bisogno di qualcuno che insegni loro a fare pace, a combattere un’altra battaglia, quella per i propri diritti: una scuola, una famiglia, un futuro.
Anche a noi del CDH piace giocare e combattere, anzi combattere giocando.
La nostra strategia è la cultura, le nostre bombe sono le animazioni nelle scuole, i nostri mitra sono carichi di documentazione e i nostri fucili sparano informazioni.
E soprattutto noi non giochiamo a nascondino anzi puntiamo sulla visibilità, sulla valorizzazione della diversità…
Se vuoi scoprire cosa c’è da fare… vieni e vedrai.
Bella battuta vero?
A parte gli scherzi, se vieni a trovarci ti raccontiamo come funziona il Servizio Civile da noi così scoprirai che di cose da fare qui ce ne sono tante. Non sarà certo il tuo deficit visivo a limitarti nel fare come non è il mio deficit motorio a limitarmi ad andare in giro per tutta l’Italia.
A proposito, ho un’altra domanda: ma se i bambini soldato giocano ai soldati, giocano con se stessi?
Buon combattimento.

Carissimo Claudio,
ho letto il tuo articolo sulla relazione che diventa melodia.
Mi ha colpito tantissimo perché queste emozioni, questi vissuti li ho assaporati, elaborati e fatti miei in questi anni di iter universitario e come volontaria.
Io sono un’educatrice di comunità, ho fatto per tanti anni le colonie estive con i diversamente abili e queste esperienze mi hanno fatto crescere sia personalmente che professionalmente. L’azione dell’Educatore è caratterizzata dal fatto che deve “vivere con” i tempi in cui si accompagna e convive le esperienze del proprio utente.
La gente con occhi schivi e con timore, dopo averci visto integrati noi in loro e loro in noi, venivano da noi a chiedere, ci volevano conoscere cercando di abbattere quel muro di paura, di diffidenza per entrare così nel “nostro mondo”.
L’educatore come dice la nostra formazione è “una persona avente una professionalità capace di promuovere lo sviluppo delle potenzialità, di crescita personale e di integrazione sociale” attraverso metodi, strumenti e mezzi appropriati soprattutto il “Fare”, “il Saper Fare” e il “Non Fare”. Avere nozioni psicologiche, pedagogiche è molto importante perché permette di capire, aiutare le persone diversamente abili, sapersi relazionare ma anche riuscire a farci entrare nel loro mondo, noi persone normodotate. I loro sentimenti sono più chiari e sinceri dei nostri, presi dal lavoro, dallo studio, dai nostri pensieri alcune volte troppo egoistici.
Non mi potrò mai scordare un giorno, ero a passeggio con la mia amica Alessia avente un deficit fisico e tutti ci guardavano ma non per pietà o per curiosità ma per la serenità che la mia cara amica esprimeva e dava alla gente che le stava intorno, aveva trasformato la sua disabilità in una ricchezza per tutti, per se stessa e soprattutto per le persone care, non era uno stop ma una marcia in più per andare avanti e la sua diversa abilità è stata un insegnamento per tutti. Vorrei ricordarla con affetto grande, purtroppo è scomparsa il 13 agosto 2005.
Importante perciò che l’educatore sia un punto di contatto con il mondo del sociale e gli altri. La curiosità e le domande siano solo l’inizio di un aggancio per vivere la disabilità in maniera nuova e gioiosa.
Cristina De Angelis
Educatrice professionale

Ciao cara Cristina,
che piacere sapere che ti sei trovata in sintonia con la mia melodia.
Hai mai pensato che il termine FARE è composto da due note musicali? FA e RE?
Ma quali caratteristiche ha la melodia del FARE?
È pesante, faticosa, noiosa? Oppure è leggera, vibrante, emozionante?
In sintesi, come dice Adriano Cementano: è lenta o è rock?
Credo sia fondamentale capire la differenza tra queste qualità per poter suonare una melodia piacevole.
Secondo me il FARE è lento quando il sentimento che l’accompagna sfocia nel buonismo, nel pietismo, nel dovere, nel pensare che sei tu quello che educa, quello che sceglie, quello che sa cos’è giusto. Tutti modi di fare che appesantiscono la melodia rendendola sgradevole.
Il FARE diventa rock e quindi si mette realmente in movimento quando smette di essere pura azione e diventa relazione. La melodia rock necessita dello stare, atteggiamento indispensabile per poter creare delle relazioni nelle quali insieme ci si educa, si sceglie e si decide ciò che è giusto. Allora sì che la melodia diventa piacevole, travolgente, affascinante, seducente. Così si crea un contesto dinamico nel quale il FARE, il SAPER FARE e il NON FARE si integrano con lo STARE per formare la nuova melodie dell’integrazione.
Buon rock.
 

Quel che serve è un “handicap ben visibile a occhio nudo”

Un concorso di bellezza in tv. Fin qui niente di strano. Un concorso di bellezza che è un reality show le cui protagoniste sono ragazze disabili. È il grande successo della tv Olandese, capace di raccogliere il 25% dello share televisivo nel 2006. Ma non solo: un format acquistato da altri stati che nel 2007 ne faranno produzioni simili. La prossima annunciata sarà la televisione Britannica, che ha già dato notizia sul “Times” e sulla cui ambita conduzione già si vocifera; poi a seguire quella francese, tedesca e statunitense. Si tratta di “Miss Ability” e a sfilare sono sì ragazze in costume da bagno ma, condizione fondamentale per essere accettate dal programma, “con un handicap visibile a occhio nudo”. Condizione non di poco conto per capire che stiamo parlando di un reality quantomeno originale e curioso. Sono dodici le partecipanti, belle donne e belle ragazze, in carrozzina o con stampelle, che vestono abiti di alta moda e vivono ospiti in alberghi lussuosi e molto costosi, luoghi da favola. Ciascuna di loro è protagonista di un breve cortometraggio nel quale racconta la propria vita per narrare come sono state affrontate, e poi superate, le difficoltà. Una breve messa in scena che rende quasi cinematografica la vita di queste ragazze che devono poi essere votate da un pubblico di spettatori che, sulla base della visione di questi corti, scelgono e selezionano quelle che sono rimaste in gara, fino a proclamarne una come vincitrice assoluta. Il pubblico giudica proprio in base a questi filmati per valutare non solo chi ha raccontato meglio la sua storia ma anche chi si è dimostrata più forte e saggia nell’affrontare le traversie della vita. Opinabile poi se un cortometraggio sia in grado di rendere la forza con la quale una persona affronta e supera le difficoltà della vita. Del resto questo è il mezzo televisivo e questo lo strumento messo nelle mani del pubblico votante, non certo la conoscenza diretta e approfondita delle storie di queste dodici vite di donne disabili.

Il programma però si è rivelato un enorme successo, è stato ampiamente seguito e ha raccolto grandemente il favore del pubblico, nonostante le numerose critiche negative di esperti televisivi e non solo. Accuse di sfruttamento dell’immagine della disabilità a fini esclusivamente commerciali: donne belle ma disabili, utilizzate per fare share. Diverso è lo scopo proclamato dagli autori del programma che, invece, sostengono come obiettivo primario quello di valorizzare al massimo le ragazze per mettere in evidenza il loro entusiasmo e per far entrare la gente comune in contatto con la realtà che un disabile vive ogni giorno. In questa direzione va anche lo slogan del programma che si legge dalla brochure di presentazione: “Non avete mai sentito un fischio contro una donna in carrozzella? Non avete mai ascoltato un buu verso una bambina cieca. Se la risposta è no, questo programma, che rompe le barriere del moralismo e del politicamente corretto, vi mostrerà il modo per mettere fine a tutto questo”. Con questo slogan e con altre motivazioni dunque i produttori si difendono dalle molteplici critiche arrivate da più parti sostenendo appunto che il format del programma protegga l’immagine dei disabili, per far sentire queste persone assolutamente normali. Azzardano i produttori e vanno oltre per motivare il loro intento di voler mostrare l’ottimismo delle persone disabili. “Spesso i disabili sono considerati patetici e sono compatiti da tutti. ‘Miss Ability’ invece mostra che i disabili, a differenza delle persone senza problemi fisici, sono sempre ottimisti. Essi cercano di superare le loro paure, pensano positivo e desiderano essere trattati come tutte le persone di questo mondo”.

Dunque, vediamo: dodici belle donne disabili sfilano in costume in un concorso di bellezza, vivono ospiti negli alberghi più lussuosi e costosi dell’Olanda prima e della Gran Bretagna prossimamente, girano dei cortometraggi per raccontare la propria vita (ma soprattutto per avere il voto del pubblico) e questo è il racconto della loro vita quotidiana, per andare ad abbattere i pregiudizi della gente normale che non conosce la disabilità. Questo in poche parole l’intento dichiarato. Difficile poi trovare fondamento a queste affermazioni soprattutto quando si pensa che la quotidianità è ben altra. E non solo per quelle dodici ragazze che belle sono e disabili pure ma in questo caso è la seconda caratteristica che vince sulla prima. Una quotidianità falsata. Ma questa è la televisione probabilmente, e non le si può certo chiedere di essere reale nonostante la falsa copertura del reality. La realtà, lo sappiamo tutti, è ben altra. L’occhio della telecamera, per quanto sia bravo il regista, per quanto voglia essere osservatore silenzioso, non può essere presenza discreta a cui nessuno dà peso. Un occhio che non guarda ma osserva seppur negli ingranaggi meccanici e ora, digitali: osserva perché interpreta; osserva perché seleziona ciò che si vede da ciò che non si vede e non si fa vedere. Sorgono alcuni leciti dubbi dunque intorno al dichiarato intento di far vedere attraverso lo schermo la vita reale di queste ragazze. Evidentemente poco passa di quella realtà e di quella quotidianità.

Insomma sembra si tratti di un tentativo di spettacolarizzazione della disabilità che probabilmente ha poco a che fare con il reale e che non lavora certo a favore della conoscenza della persona disabile o della disabilità più in generale. Sappiamo come proprio la conoscenza sia un elemento fondamentale per abbattere pregiudizi, per costruire relazioni all’interno della società. Quando conosciamo qualcosa ci fa meno paura e, se ne siamo meno spaventati, ci risulta più facile aprire all’incontro. Questo è vero in generale: si pensi a quando non conosciamo una persona, difficilmente ci sentiremo a nostro agio se non rompiamo il ghiaccio e non cerchiamo di conoscerla. E quell’imbarazzo diminuirà sempre di più man mano che la conoscenza e la relazione si approfondisce. Questo è vero a maggior ragione per tutta una serie di situazioni che spaventano di più perché devianti dalla norma, come può essere la persona disabile che mette a disagio, o l’extracomunitario o il barbone o chiunque sia troppo diverso.
Quello che fa “Miss Ability” però è creare uno spazio piuttosto parallelo che con la realtà dei fatti ha ben poco a che vedere. E sembra quasi un passo indietro rispetto alle conquiste che il mondo della comunicazione di massa aveva, e in parte sta ancora compiendo, nell’ambito della disabilità. Sembra di essere ritornati alla persona disabile come “fenomeno da baraccone” che attira il pubblico e fa share, ma che sembra abbia poco da dire, in realtà. Si dice che uno degli obiettivi di una comunicazione positiva sia il fatto che sia la persona stessa a raccontarsi; è la persona che, disabile o non disabile che sia, assume la responsabilità di ciò che porta sullo schermo, senza andare però a caccia di voti.
Una vita di conquiste che diventa un racconto per raccogliere un voto. Un cortometraggio e un costume da bagno per tenere sul video gli occhi del telespettatore che, con il telefono in mano pronto per votare, sta a guardare incuriosito. E ciò che incuriosisce, checché ne dicano gli autori, non è tanto la vita combattuta di questa gente ma è proprio la stranezza della trovata televisiva e la curiosità di un mondo diverso che entra in scena. Ma questa, cari autori, non è la quotidianità e tanto meno è capace di rendere la normalità di queste dodici belle ragazze, la cui bellezza, che dire se ne voglia, passa certo in secondo piano. Perché in quel contenitore sono prima di tutto delle disabili che possono anche essere miss ma…l’importante è che abbiano “un handicap ben visibile a occhio nudo”.

 

Introduzione di Giovanna di Pasquale

Come l’aria nei polmoni.
Essenziale alla vita, così la comunicazione per tutti gli esseri umani, essenziale al sentirci vivi e capaci di tessere legami significativi e condivisi con il mondo.
La comunicazione è quel ponte che permette di unire la dimensione più interna della persona, originale, intima e la dimensione di incontro con gli altri, di apertura a ciò che, separato da noi, ci mette a confronto con il diverso e il nuovo. E’ un ponte che continuamente ri-attraversato
permette all’identità di strutturarsi in un movimento continuo e flessibile di andate e ritorni.
E’ un ponte posto allo snodo cruciale del rapporto io- mondo, frequentemente messo alla prova da ostacoli di natura diversa, come quello affrontato in questo numero di HP costituito dalla presenza di deficit uditivi che comportano una perdita più o meno accentuata della percezione dei suoni.
E’un ponte che, però, non possiamo rinunciare mai ad attraversare, pur sapendo che per ognuno di
noi questo percorso potrà avere sviluppi diversi, soste e accellerate così volute quanto impreviste.
La soddisfazione di questo bisogno primario è quindi condizione per uno sviluppo il più possibile armonico, sereno di sé e accomuna tutti. Donne e uomini, bambini e adulti, di età e provenienza differenti, persone con disabilità o che sperimentano difficoltà o disagi. L’universalità di poter comunicare, bisogno che si pone fra i primi diritti della persona come singolo essere e come parte della comunità, porta con sé la ricerca e la messa in atto di tutte le possibilità esistenti (saperi, strategie, percorsi, strumenti) capaci di sostenere e ampliare la capacità e l’attitudine comunicativa, nei modi e attraverso i codici possibili per ciascuno.
Ogni persona deve poter avere nel suo percorso di crescita la possibilità di espandere le sue potenzialità comunicative, di sperimentare in modo diretto il significato del termine comunicazione: “rendere comune, far parte ad altri di ciò che è proprio”.
Ogni linguaggio diventa allora l’espressione di un’identità che sedimenta il senso di sé (della propria unicità) nel momento in cui dialoga con l’altro, mette in comune ciò che è proprio riconoscendo la stessa matrice di “esseri sociali”, parte di un tessuto di comune umanità.

Comunicare con chi?
Come scrive Enrica Répaci nel sito www.arcipelagosordita.it, “Il processo comunicativo non è mai un’escursione solitaria…la comunicazione umana ha sempre un carattere dialogico”
Se questo è il punto fermo, diventa importante domandarsi e domandare cosa la comunicazione deve garantire alla persona, qualunque sia la sua condizione e il suo contesto di vita.
Facciamo nostra una riflessione proposta da Andrea Canevaro all’interno del quadro della ricerca di indicatori di qualità per la vita delle persone con disabilità, in cui trova uno spazio specifico l’attenzione agli aspetti e alle competenze comunicativi. Per sviluppare una prospettiva inclusiva c’è bisogno di uno cultura dello scambio e dell’incontro.
Riprendendo il concetto di Habermas inclusione – qui non significa accaparramento assimilatorio, né chiusura contro il diverso. Inclusione dell’altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti. Il dialogo, l’incontro, la comunicazione devono poter permettere ad ognuno di muoversi nei confini non solo estesi ma anche in continua evoluzione del mondo in cui vive, dalla cerchia più vicina e familiare a quelle più distanti e meno sperimentate.
La competenza comunicativa per la prospettiva inclusiva è legata alla possibilità di sviluppare una
propria autonomia, dentro dei vincoli mobili propri di ogni linguaggio e di permettere, però, di vivere questa autonomia nel contesto allargato, nella “normale” quotidianità.
Per le persone che vivono delle limitazioni rispetto al modo prevalente della comunicazione uditivo-vocale c’è da affrontare un doppio percorso: trovare il proprio modo di comunicare, che in alcuni casi potrà anche sviluppare un originale mix di codici verbali, visivi o gestuali; trovare insomma la propria “voce” consapevoli che “una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci” (I.Calvino, Un re in ascolto)e condividere il più possibile lo stesso codice di comunicazione della comunità allargata.
Il processo di integrazione e di inclusione lavora sulla costruzione di legami; ogni scelta, ogni percorso che si va a delineare deve tendere ad assicurare che vi sia comunicazione circolare fra la persona e suo contesto, che sia resa possibile la reciprocità nell’incontro fra la persona e il mondo.

Ogni persona ha il suo passo, ogni persona ha una storia

Se la comunicazione è un ponte, ogni persona ha il suo passo nell’attraversarlo.
Questo è ancora più evidente nel caso della presenza di deficit uditivo in quanto ciascuna persona è un caso individuale, ogni tipo di sordità è differente. Come affermava più di settant’anni fa Vygoskij (Fondamenti di difettologia, Bulzoni, Roma 1986) “il bambino non percepisce direttamente il proprio deficit: percepisce le difficoltà che gli derivano dal deficit”. Vive l’handicap quando il deficit incontra situazioni, contesti, persone che amplificano e sottolineano le difficoltà derivanti da quel deficit.
Così come le situazioni di sordità possono essere molto differenti (per causa, grado, epoca di insorgenza), così le difficoltà che nascono dall’incontro persona e ambiente possono essere ridotte, anche di molto o presentarsi in modo estremamente accentuato e pesante
Questi sviluppi diversi sono testimoniate dalle storie delle persone che, pur condividendo la natura del deficit uditivo, non è possibile ricondurre ad una sola categoria: tante sono le variabili in gioco, il contesto, la storia familiare, le attitudini.
Questa eterogeneità ci mette direttamente a confronto con la considerazione primaria che la persona con deficit non è il suo deficit; questo aspetto esiste va accettato così come vanno considerate le limitazioni che comporta ma tutto ciò non deve impedire di avere una visione a tutto tondo di quel bambino, di quella bambina, una visione globale di quell’uomo, di quella donna. E non solo per un ragionamento di tipo etico nei confronti del riconoscimento della dimensione unitaria della persona ma anche per esercitare quell’atteggiamento scientifico che riconosce nell’ascolto e nell’osservazione diretti dell’individuo una fonte irrinunciabile e preziosa di conoscenza.
L’obiettivo diventa allora quello di mettere insieme un quadro organico di elementi conoscitivi, informazioni non solo sulla persona ma a partire dalla persona e dal suo ambiente per costruire un percorso a misura, cadenzato sul passo più adeguato che renda maggiormente agevole il cammino.
Per questo motivo sembrano talvolta irragionevoli e distanti certi dibattiti su linee contrapposte quando l’ascolto delle persone e delle strade che vengono percorse rilancia un’esigenza di comprensione profonda per tutto ciò che le persone stesse hanno rivendicato come utile per il proprio sviluppo, per la possibilità di un’autonomia, per la realizzazione di un dialogo con gli altri.
Comprensione e rispetto anche di quelle posizioni che possono sembrare distanti dalle nostre ma che trovano ragioni e senso nel quadro delle storie di vita e dei contesti sociali e storici.
Le esperienze e le riflessioni che trovano spazio in questo numero, sono accomunate proprio da questo atteggiamento e cercano di tenere la barra della loro navigazione ferma intorno al punto centrale:quello di costruire per e con le persone con disabilità un presente pieno e una dimensione di futuro aperta che contrasti i destini segnati e predefiniti che tanti hanno subito.

 

Il saggio indiano

Un giorno, un pensatore indiano fece la seguente domanda ai suoi discepoli:
"Perchè le persone gridano quando sono arrabbiate?"
"Gridano perchè perdono la calma" rispose uno di loro.
"Ma perchè alzare la voce se la persona sta di fronte a noi?"
chiese nuovamente il saggio.
"Beh, gridiamo perchè desideriamo che l’altra persona ci ascolti" replicò un altro discepolo.
Il maestro tornò a domandare:
"Ma non è proprio possibile parlargli a voce bassa?"
Varie altre risposte furono date ma nessuna convinse il vecchio maestro.
"Non sapete proprio dirmi perchè si grida contro un’altra persona quando si è arrabbiati?
Il fatto è che quando due persone sono arrabbiate i loro cuori si allontanano molto. Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare. Quanto più arrabbiati sono, tanto più forte dovranno gridare per sentirsi l’uno con l’altro.
D’altra parte, che succede quando due persone sono innamorate? Loro non gridano, parlano soavemente e dolcemente. E perchè? Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra le loro anime è breve. A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano, solamente sussurrano.
E quando l’amore è più intenso non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi. I loro cuori si intendono.
E’ questo quello che accade ai cuori di due persone che si amano, si avvicinano."
Il vecchio saggio concluse dicendo:
"Quando voi avrete l’occasione di discutere con qualcuno, non permettete che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che li possano distanziare ancor di più, perché prima o poi arriverà un giorno in cui la distanza sarà tale che non incontreranno mai più la strada per tornare."

( tratto da Dentro di noi. Parlano i lettori di Tiziano Terzani, Milano, Tea 2006 )
 

Insegnare, verbo al plurale di Paola Magi

Sono un’insegnante di Storia dell’Arte. Nel corso degli ultimi dieci anni ho lavorato nei licei artistici della Lombardia, e mi è accaduto di avere in classe alunni con difficoltà di vario genere, fisiche o psichiche. Vorrei parlare, in particolare, della mia esperienza rispetto a quelli con handicap uditivo.
Ne ho avuti, in tutto, cinque, nel corso degli anni: due maschi e tre femmine, e ho seguito ciascuno di essi per la durata di un anno scolastico.
Tutti avevano una protesi auricolare, e tutti seguivano un metodo oralista, ma in realtà ciascuno di essi presentava caratteristiche molto diverse, sia in rapporto allo studio e alla relazione col docente, che al confronto con i compagni di classe.

Le storie
Chiamerò, per comodità, con nomi fittizi i ragazzi:
1-Luca, 2-Giovanni, 3-Erica, 4-Nadia, 5-Susanna.
Luca era perfettamente autonomo: quasi non mi accorgevo del suo problema. Aveva una buona pronuncia, badava lui stesso a mettersi al primo banco; probabilmente aveva un buon residuo uditivo, perché seguiva le lezioni e non ho dovuto utilizzare strategie particolari per coinvolgerlo. Non aveva insegnante di sostegno, almeno non nelle mie ore.
Giovanni, al contrario, aveva tanti e gravi problemi. Il suo handicap infatti non era solo uditivo ma anche cognitivo; la difficoltà di accettazione dei suoi problemi da parte della famiglia lo avevano reso un soggetto difficile da inserire nel gruppo classe e soprattutto da avvicinare alla espressione verbale, alla concettualizzazione e all’apprendimento.
Erica era in piena crisi adolescenziale: molto autonoma, con una pronuncia piuttosto buona, non accettava il suo handicap. Rifiutava l’insegnante di sostegno, che pure le era stato assegnato, stava sempre seduta in fondo all’aula, e si rifugiava nel rapporto con le sue amiche, con cui parlava in continuazione. Era come se sfidasse il mondo a ogni passo, senza avere davvero la forza di reggere questa sfida. La famiglia era presente, positiva, con un buon grado di accettazione del problema della figlia; la classe però non era particolarmente unita.
Nadia era di famiglia benestante, i genitori, separati, provvedevano con dovizia di mezzi alla figlia; ma in realtà la ragazza sembrava un po’ abbandonata a se stessa. Era come se desse per scontato che tutto le sarebbe arrivato, senza impegno né sforzo da parte sua. Arrivava sempre in ritardo, pur abitando vicino a alla scuola, poi sedeva in disparte, isolandosi rispetto alla classe.
Susanna era una ragazzina timida e dolce, molto ben organizzata tecnicamente: appena arrivavo in classe, mi dava subito il registratore, e mi faceva mettere il microfono collegato al suo apparecchio auricolare; voleva sempre avere accanto l’insegnante di sostegno, alla quale si affidava molto. La sua caratteristica era quella di avere sviluppato un rapporto di estrema fiducia verso le figure adulte, mentre invece, rispetto ai coetanei, risultava piuttosto isolata. Non la vedevo quasi mai parlare con i suoi compagni.

Aspettative, problemi, necessità diversi
Nei confronti di questi alunni, non ho adottato comportamenti standardizzati: infatti ciascuno di essi aveva aspettative, problemi e necessità diversi.
Nel caso di Luca ho fatto davvero poco: non aveva bisogno di strategie ad hoc. Semplicemente, badavo a restare sempre ben visibile quando spiegavo.
Nei confronti di Giovanni, al contrario, ho cercato in tutti i modi di creare le condizioni perché potesse seguire le spiegazioni. Anche lui, inizialmente, rifiutava l’insegnante di sostegno.
Ripetendo l’anno, si era ritrovato in una classe nuova, con compagni nuovi che lo avevano accettato, e con i quali ha stabilito dei rapporti di complicità e di comunicazione, per quanto elementare, molto importante per lui, tanto che ha cominciato a parlare. Male, in modo quasi incomprensibile, ma parlava. Essendo stato sempre iper-seguito e iper-protetto, però, non aveva alcuna autonomia rispetto all’attività scolastica. Si sedeva sempre in seconda fila, e stava a leggere fumetti o a guardare giornaletti illustrati mentre l’insegnante di sostegno prendeva appunti.
Da subito ho preso l’abitudine di piazzarmi di fronte a lui, durante la spiegazione. Gli facevo aprire il libro, gli indicavo le immagini e le didascalie, ogni tanto gli facevo scrivere qualche parola a matita sul libro. Cercavo sempre di cogliere il suo sguardo, e quando lo vedevo distrarsi gli lanciavo un piccolo richiamo, riportandolo a seguire il discorso. Alla fine dell’ora, spesso dedicavo gli ultimi minuti a riepilogare con lui le cose dette, mentre i compagni ascoltavano, profittando anche loro di questo piccolo riassunto finale. Cercavo sempre di coinvolgerlo, anche in modo minimo, per esempio facendogli leggere le didascalie delle immagini ad alta voce, o facendogli esprimere piccole osservazioni sulle opere che stavamo analizzando. Storia dell’Arte gli piaceva molto, per via delle immagini che riusciva a controllare bene, e perché il suo acuto senso di osservazione gli permetteva di cogliere dettagli che sfuggivano ai suoi compagni.
Erica si chiudeva come un riccio nella sua corazza di lottatrice solitaria, e tutto quello che potevo fare era accettare la sfida: non le ho fatto sconti. Con lei, era inutile cercare di avvicinarsi, almeno nel momento della lezione; poteva se mai capitare di scambiare qualche parola nei corridoi all’intervallo, in compagnia delle sue inseparabili compagne. In classe, sembrava sempre pronta a drizzare gli aculei. E’ per lei che ho iniziato a pensare a un incontro con Martina Gerosa, quello che poi è maturato nel progetto Comunic-abilità. Purtroppo Erica non è riuscita a usufruirne: infatti è fuggita, ha cambiato scuola.
Con Nadia ho messo a punto alcune strategie che si sono rivelate utili. Poiché i ragazzi erano pochi, e l’aula lo permetteva, li facevo sedere tutti in un’unica fila, di fronte alla cattedra; quando Nadia arrivava, come sempre in ritardo, doveva inserirsi anche lei fra i compagni. Le ho dato una piccola responsabilità: d’accordo con la collega di sostegno, che poi a casa trascriveva la registrazione, all’inizio delle mie lezioni Nadia doveva andare in sala professori a prendere il registratore e portarmelo in classe. Anche con lei, niente sconti: Nadia aveva bisogno di scoprire la gioia di conquistarsi da sola i suoi successi, e soprattutto di capire che ci si aspettava qualcosa da lei. La collega di sostegno, d’intesa con me, aveva accettato di non portare mai fuori dalla classe Nadia, durante le mie lezioni, tranne che in alcuni momenti concordati, per attività di ripasso nelle quali venivano sempre coinvolti anche altri alunni. Durante le spiegazioni cercavo sempre di mantenere con lei un contatto di sguardi, e mi assicuravo, come del resto con gli altri ragazzi non udenti, che potesse guardarmi bene in faccia mentre parlavo. Direi che Nadia, alla fine, è quella che ha avuto i risultati migliori: si è ben inserita nel gruppo classe, si è messa a studiare con un certo impegno.
Susanna: con lei non ho dovuto fare sforzi particolari per farle seguire le lezioni, era perfettamente in grado di cavarsela da sola. Piuttosto, ho cercato il modo per inserirla nel gruppo, ma devo dire che purtroppo la classe non era particolarmente favorevole: molto eterogenea, con parecchi elementi fortemente inclini all’indisciplina, divisa in gruppetti ostili fra loro. Con lei ho cercato di conversare a tu per tu, ma erano conversazioni faticose, in cui mi trovavo a fare continuamente domande che ottenevano risposte monosillabiche. Susanna, con il suo carattere dolce e sereno, è riuscita, alla fine, ad allacciare qualche relazione di amicizia con alcune sue compagne. In questa classe, come anche in quella di Giovanni, ho cercato di stimolare gli alunni all’aiuto reciproco, promuovendo il tutoring, ovvero riconoscendo un bonus di punteggio aggiuntivo a chi riusciva a far raggiungere la sufficienza a un compagno in difficoltà. Questa strategia ha consentito di creare un’atmosfera più collaborativa fra i ragazzi, e la stessa Susanna ha potuto rivelarsi una presenza positiva per tutti: le sue lezioni registrate e le relative trascrizioni ad opera della collega di sostegno sono servite anche ai suoi compagni, e questo ha fornito a Susanna un certo prestigio agli occhi degli altri.

Una didattica migliore per tutti
Da queste esperienze ho tratto alcune osservazioni.
La prima è che, per un ragazzo con difficoltà uditive, gli alleati naturali sono i suoi compagni. Possono aiutarlo sul piano pratico, a prendere appunti per esempio; ma la cosa più significativa, per un ragazzo in età adolescenziale, è la spinta alla comunicazione che gli può venire offerta dai suoi coetanei. Per questo motivo è molto utile stimolare il più possibile l’istinto alla solidarietà, attraverso strategie plurime, fra le quali ho riscontrato avere buon successo quelle di tutoring.
Un ottimo risultato possono offrirlo anche altre iniziative di sensibilizzazione ai problemi della diversità, come quella dell’incontro con Claudio Imprudente organizzata al Liceo di Brera.
Una seconda osservazione è che l’insegnante di sostegno non va considerato, come invece di fatto spesso accade, una sorta di accessorio personale per il ragazzo, ma un consulente che può aiutare il docente curricolare a stabilire le opportune modalità di approccio e di comportamento nei confronti della classe, oltre che nei confronti dell’alunno con disabilità. Per me, le colleghe di sostegno sono state un punto di riferimento prezioso, con loro ho messo a fuoco i vari problemi e definito le opportune strategie. La loro competenza e la loro esperienza mi hanno fornito indicazioni fondamentali per ottenere dei buoni risultati; il fine era, paradossalmente, quello di renderle ‘inutili’ per il ragazzo disabile, creando le condizioni per la sua autonomia. Abbiamo sempre cercato di sottolineare come la loro presenza fosse ‘per la classe’. A tale scopo, ho offerto ai colleghi di sostegno l’opportunità di tenere una o più lezioni su argomenti di loro competenza disciplinare, relazionati al contenuto della programmazione di Storia dell’Arte in corso di svolgimento. Questo è servito sia a rendere chiaro agli allievi che un insegnante di sostegno è un docente a tutti gli effetti, sia a stabilire un rapporto più confidenziale e collaborativo fra docente di sostegno e docente curricolare; oltre naturalmente ad avere una ricaduta positiva sull’attività didattica in sé, fornendo occasioni di approccio multidisciplinare agli argomenti affrontati.
In relazione alla precedente osservazione, ho trovato molto positiva la strategia di mantenere sempre le attività di ripasso, gestite dai colleghi di sostegno nella loro aula, come attività di gruppo, fruibili da tutti gli allievi in difficoltà. Questo ha permesso infatti agli alunni con disabilità di restare sempre a contatto con i compagni, agli occhi dei quali acquisivano anche una sorta di prestigio dovuto al fatto di essere visti come la fonte di una risorsa supplementare che altrimenti la classe non avrebbe potuto avere.
Un’ultima osservazione è che la presenza di un allievo in difficoltà può creare, con opportune strategie e adeguati accorgimenti da parte degli insegnanti, un clima di coesione e di solidarietà tutto particolare, e molto positivo per tutti.

Docente di storia dell’arte

 

 

La filosofia sui banchi del liceo artistico di Isabella D’Isola

Dopo moltissimi anni trascorsi nei licei classici, da due mi trovo ad insegnare Filosofia in un liceo artistico.
Le ricadute didattiche di tale cambiamento sono state molteplici: tuttora avverto la precarietà della fase di sperimentazione che sto mettendo in atto e che mi auguro però possa portare alla soluzione di alcuni dei problemi che elencherò fra poco. Devo aggiungere che la constatazione della trasformazione generale dei giovani, accelerata negli ultimi tempi, mi aveva già indotto una riflessione sull’insegnamento tradizionale della filosofia e sui suoi limiti.
La filosofia appare agli studenti come la disciplina più aliena dal contesto socio- culturale attuale, poiché i suoi oggetti richiedono l’attenzione prolungata, la pazienza, la lentezza, la curiosità verso l’universale, la dimensione logico- razionale, la coerenza del discorso, la terminologia specifica, la dimensione astratta, la logica della ricerca continua: tutte caratteristiche "fuori moda"; a ciò si aggiunga il carattere di totale "inutilità" della filosofia rispetto ai parametri attuali di considerazione dell’utile, per cui ciò che si fa, lo si fa per ottenere subito qualcosa: ovvero soldi, potere e visibilità. Sembra che il sapere per il sapere, di aristotelica memoria, sia definitivamente tramontato.
La questione metodologica è la conseguenza di quanto sopra esposto: è ovvio che in un contesto culturale così mutato non possano più valere le pratiche didattiche che ci hanno fin qui guidato. La lezione frontale, la lenta e paziente lettura e interpretazione in classe dei passi antologici, la simulazione di contraddittori su questioni teoriche non risultano né attraenti né efficaci, al fine di far acquisire una mentalità filosofica.
Al problema generale di trasformazione dell’universo giovanile si aggiunge in questo caso la specificità del liceo artistico, al cui interno si trova un numero cospicuo di giovani audiolesi, in alcuni casi anche con deficit cognitivi.
Che fare? Prima di proporre delle soluzioni, elencherei i problemi ritenuti più importanti:
• la mancanza di una formazione culturale in cui sia centrale la conoscenza della società e della cultura greca ( ciò riguarda sia la filosofia antica sia altri momenti della storia della disciplina: basti pensare a Nietzsche e Heidegger);
• una subordinazione della parola e della scrittura rispetto alla rappresentazione grafica, pittorica, scultorea ecc;
• il privilegiamento nella cultura giovanile del senso della vista ( in subordine l’udito- la musica), che impronta le relazioni con gli altri e col mondo secondo la logica della " visione", del" mostrarsi", dell’ "apparire" ( tale modalità coinvolge non solo gli studenti del liceo artistico ma tutti i giovani in generale). La pratica del consumismo, come ricorda Z. Bauman, non è una questione di collezionare e accumulare cose. E’ essenzialmente una questione di accumulare sensazioni, la cui fonte è soprattutto di ordine visivo. Nel mondo contemporaneo, il passaggio da una dimensione etica ad una dimensione estetica nel modo di intendere la vita e i rapporti con gli altri si configura fin dall’infanzia.
• l’utilizzo ininterrotto del mezzo televisivo che, per sua natura, satura la mente con le immagini, fa concentrare l’attenzione su ciò che si vede, declassando la parola: la stessa velocità con cui le notizie sono date impedisce la ricezione non solo di tutte le informazioni ma anche della possibilità di rielaborarle;
Da ciò discendono almeno tre conseguenze:
1) l’assenza di un’educazione alla lettura e all’ approfondimento, il difficilissimo rapporto con il manuale, l’equivoco che possa bastare ripetere la parola dell’insegnante, spesso mal compresa e trascritta confusamente. Sembra che, nell’epoca dell’informatica, si sia inopinatamente ritornati alla trasmissione orale del sapere e al suo apprendimento mnemonico e passivo, come accadeva nelle scholae medievali;
2) l’incapacità di accettare i tempi lunghi della ricerca, del progetto portato avanti con pazienza, forza di volontà, determinazione. La dimensione del tempo il cui flusso è rapidissimo e che si atomizza nell’ attimo, nell’istante, è quella dominante e collegata alla necessità del piacere istantaneo (e non procrastinabile) e alla soddisfazione dell’attimo.
3) la difficoltà di svolgere un attivo processo di ricerca e di scrittura individuali, a causa dell’uso, anche dissennato, di internet in cui le soluzioni sono preconfezionate.

La didattica laboratoriale di filosofia
In base all’analisi sinteticamente esposta ho ritenuto necessario sottoporre all’attenzione degli studenti la didattica laboratoriale che, in questa prima fase di sperimentazione, ho proposto- e non imposto- come modello di lavoro filosofico. La didattica laboratoriale, in estrema sintesi, stimola il passaggio dal sapere al saper fare al saper essere; possiede inoltre le seguenti caratteristiche: rende gli studenti protagonisti attivi del processo di apprendimento e stimola in loro l’atteggiamento critico, oltre che favorire il processo di soggettivazione a partire dalle peculiarità di ciascuno. Lo studente, protagonista del processo cognitivo, accetta la progettualità della ricerca e la fatica che comporta.
Questo è il motivo principale per cui ho caldeggiato la rappresentazione visiva di alcuni momenti della filosofia antica e moderna, lasciando ai singoli la scelta del mezzo e degli strumenti della rappresentazione. La dimensione della rappresentazione unisce il mondo degli studenti senza handicap con quello di coloro che lo possiedono, avvantaggiando gli uni e gli altri: perciò non mi sento di tenere nettamente separate le due riflessioni (inoltre non ho le competenze per esprimermi sull’handicap); essi condividono anche lo stesso contesto socio-culturale..
Gli allievi hanno, ad esempio, raffigurato le cosmogonie presocratiche, i miti platonici, l’universo aristotelico, alcuni dialoghi di Platone come il Critone, La nuova Atlantide di Bacone sia utilizzando varie tecniche – pittoriche, grafiche ( elaborazione di fumetti)- sia avvalendosi di materiali diversi per fare delle strutture cartonate colorate – contenenti oggetti, a loro volta manufatti- sia costruendo plastici. Per la composizione di alcune immagini hanno utilizzato anche il computer. Sollecitati a rivelare le loro abilità manuali e artistiche in un ambito non usuale, i ragazzi hanno dato il meglio di sé. Alcuni di loro hanno realizzato dipinti e oggetti che si riferivano a problematiche bioetiche.
I ragazzi hanno mostrato di saper ricostruire un momento della filosofia, a partire dalla descrizione di ciò che avevano realizzato, molto meglio di quanto non avessero fatto precedentemente senza la mediazione della rappresentazione. Le raffigurazioni sono state fonte di molteplici discussioni individuali e collettive, poiché la loro scorrettezza, pur nel rispetto delle libertà dell’ "artista", denunciava una mancata comprensione del filosofo.
Si è creato nelle classi un clima di maggiore serenità e collaborazione, oltre che di "gara" per il primato dell’opera artistico- filosofica migliore.
Mi pare che la logica della visione, in questo caso, sia utilizzata proficuamente, coniugandosi, platonicamente, con una visione anche interiore. Dare forma a concetti e immagini di altri, vissuti duemilacinquecento anni addietro, è un buon esercizio contro al superficialità.
Il Laboratorio di Filosofia, presente a scuola e gestito dagli studenti medesimi, ha proposto, per l’anno scolastico 2007-08, che tale metodologia di insegnamento delle filosofia sia utilizzata per le nuove classi terze, e sia organizzata in modo tale da poter realizzare, a fine anno, una mostra sulla rappresentazione visiva della filosofia antica. Gli studenti ritengono che, nel giro di tre anni, possa essere coinvolta tutta la storia della disciplina, o meglio, quella parte di essa rappresentabile.
Gli allievi audilesi, coinvolti nella nuova metodologia didattica, hanno cominciato a mostrare un qualche interesse per la filosofia , che è sembrata loro meno astratta perché rappresentabile. Nella logica di programmi individualizzati, credo che possa essere esperito tale percorso, poiché, non privilegiando la parola, che per tali allievi è molto problematica, consente loro di acquisire sia alcuni dei messaggi filosofici più significativi sia la forma mentis dell’interrogazione sul mondo, che è propria della filosofia. E’ ovvio che, con tale metodologia, non sono più necessarie le tradizionali forme di verifica: il prodotto artistico è l’oggetto della verifica.

La didattica laboratoriale sopra esposta non è aliena da contraddizioni e problemi.
Tre sono forse quelli più importanti:
1)è possibile rispettare la natura della filosofia pur trasponendola- traducendola in un ambito- struttura che possiede una organizzazione epistemologica radicalmente diversa, rispetto alla quale, anzi, non pochi filosofi, fra essi Platone ed Aristotele, Kant, Hegel ecc., hanno espresso un parere negativo, in relazione alla impossibilità di conoscere il mondo attraverso l’arte?
2) Non tutta la filosofia è rappresentabile e non è corretto tradurla in immagini.
3) Per elaborare una rappresentazione è necessario conoscere adeguatamente i testi filosofici e quindi i concetti: la raffigurazione visiva non esclude, anzi sollecita la lettura diretta degli autori, che diventa però finalizzata alla rappresentazione delle tesi sostenute, e quindi più accettabile da parte degli studenti. Dal punto di vista metodologico tale pratica non può essere integralmente sostitutiva di quella tradizionale: può diventarlo solo per gli studenti rispetto ai quali, come i sordi profondi (che, ad esempio, non conoscono il linguaggio dei segni) è necessario un percorso individualizzato e non finalizzato al diploma.

Docente di Filosofia e Storia presso il liceo Artistico di Brera (Milano)
 

Comunic-abilità Uno di Paola Magi

Il progetto Comunic-abilità è nato da un’esperienza di stretta collaborazione fra insegnanti curricolari e di sostegno, nel Liceo Artistico di Brera a Milano. Si era presentata l’esigenza di attuare una qualche forma di sensibilizzazione al problema della diversità comunicativa, in relazione alla presenza, in alcune classi, di alunni con problemi di sordità che avevano, in vario grado, difficoltà nell’accettare la propria situazione e nel relazionarsi con la classe. Inoltre si voleva trovare un modo per coinvolgere nell’azione di sensibilizzazione anche i docenti della scuola, visto che nei licei artistici la presenza di alunni con questo tipo di disabilità è piuttosto frequente. Per questo le docenti promotrici dell’iniziativa si sono rivolte all’architetto Martina Gerosa, che per la sua grande esperienza nell’ambito di tali problematiche era parsa una figura significativa, in grado di fornire sia una consulenza approfondita ai docenti, che un esempio di superamento delle proprie difficoltà fisiche e psicologiche agli alunni disabili. Martina Gerosa ha però messo a fuoco l’opportunità di evitare di puntare troppo direttamente sull’argomento ‘sordità’, e di affrontare invece una questione più generale e diffusa nelle sue varie forme: il tema della diversità.
Ecco che il progetto ha preso consistenza: e il personaggio perfetto per rendere tangibile la questione ma anche la possibilità di aggirarla vittoriosamente è stato individuato in Claudio Imprudente. La gravità delle sue menomazioni fisiche è talmente visibile e forte che non avrebbe prodotto un effetto di identificazione diretta in nessuno dei nostri alunni sordi, ma allo stesso tempo l’afasia di Imprudente sarebbe stata l’immagine amplificata e ingigantita della difficoltà di comunicare che è il tratto comune a tutti i ragazzi con menomazioni uditive.
L’incontro con Imprudente ha prodotto un forte impatto sui ragazzi, anche se questo non ha dato risultati immediatamente percepibili: gli adolescenti, a differenza dei bambini delle scuole elementari, hanno un modo tendenzialmente introverso di relazionarsi con le proprie emozioni. A volte, la stessa ritrosia a parlare di un’esperienza particolarmente forte può essere correttamente interpretata come il segno di quanto questa esperienza si sia incisa in profondità nella mente dei ragazzi.
In seguito all’incontro, alcuni alunni hanno scritto a Claudio, cercando una relazione individuale con lui; in altri allievi, si è potuta notare un’accentuazione della solidarietà verso i compagni disabili, che si è espressa in vari modi, dal cameratismo sportivo all’aiuto nel lavoro scolastico, alla semplice ma evidente accettazione dei compagni diversamente abili nel gruppo classe.
La partecipazione della Provincia di Milano e dell’azienda Linear al finanziamento dell’iniziativa ha reso possibile documentare l’incontro con un video, un estratto del quale è stato inserito anche nel sito ufficiale del Liceo di Brera. In una fase successiva del progetto è stato possibile verificare come anche la proiezione del video, condotta con la presentazione e il commento dell’architetto Gerosa, si sia rivelata un ottimo strumento di sensibilizzazione per i ragazzi. Tale esperienza è stata realizzata per adesso in una sola classe, con risultati molto soddisfacenti, tanto che verrà sicuramente riproposta anche in altre classi nel corso del prossimo anno scolastico.

Docente di Storia dell’Arte

Il progetto COMUNIC_ABILITA’, che ha l’obiettivo di sostenere forme di sensibilizzazione al problema della diversità comunicativa,è stato realizzato presso il Liceo Artistico di Brera Milano nell’a.s 2006/2007.
L’iniziativa è stata possibile anche grazie al supporto della dirigente Eleonora Cammareri e di Ombretta Fortunati, delegata alla Partecipazione e Tutela dei diritti delle persone con disabilità della Provincia di Milano"
 

Il gruppo come luogo di inclusione e strumento di lavoro

All’interno di un festeggiamento come quello di novembre 2006 in occasione dei 20 anni del Progetto Calamaio, diverse erano le nostre intenzioni e i nostri desideri.
Oltre a fare realmente festa con le persone, con le storie, con le idee realizzate e in fase di realizzazione, era nostra intenzione fare anche una ricognizione di quelli che per noi e per la nostra storia rappresentano i punti imprescindibili e fondamentali della nostra modalità operativa. Non solo quindi un punto sulle idee e su come sono evolute in questi anni, ma anche sugli strumenti e sulle modalità che utilizziamo quando entriamo a scuola.
Non poteva quindi mancare una riflessione e una esperienza legata all’idea di gruppo come strumento privilegiato di lavoro e luogo di esperienza di relazioni.

… Sto conducendo un corso di formazione rivolto a educatori, animatori e insegnanti.
Siamo disposti in cerchio. Abbiamo fatto un bel gioco di conoscenza, ci siamo scaldati creando un clima familiare e positivo. Anch’io mi sono presentata e soprattutto ho raccontato il mio ruolo all’interno del Centro Documentazione Handicap di Bologna: coordino il Progetto Calamaio. Entro nel merito dei contenuti, degli obbiettivi, della metodologia di lavoro. Racconto qualche aneddoto simpatico e divertente che faccia capire qualcosa della quotidianità di chi vive e fa vivere il progetto. Un corsista mi chiede approfondimenti in merito agli strumenti utilizzati dalla équipe degli animatori. Sono pronta a elencare: fiabe, canzoni, giochi di ruolo… Ma subito mi fermo. Sono ancora con la mente agli aneddoti appena condivisi, al clima di alcuni momenti più o meno divertenti e piacevoli vissuti con i miei colleghi e decido di spendere questo momento per raccontare del più importante fra gli strumenti del nostro progetto, uno strumento che non si potrebbe mai sostituire con altri, uno strumento che è fondamentale sia dentro al Centro Documentazione Handicap, nei momenti di preparazione e programmazione dei percorsi a scuola, sia dentro la scuola, durante gli incontri con i bambini, i ragazzi, gli insegnanti.
Si tratta del gruppo, il gruppo degli animatori, ma anche il gruppo che ci ospita, i destinatari dei nostri interventi. Sono le relazioni che nascono e crescono dentro ai diversi gruppi in cui ci troviamo a lavorare…

Il gruppo di lavoro
Il primo gruppo su cui ci troviamo a lavorare e a investire energie e risorse è lo stesso gruppo di animatori del Progetto Calamaio. Un gruppo di persone, di professionisti al cui interno si trovano le differenze, le difficoltà, i deficit e gli handicap che da molti anni rappresentano i contenuti del nostro lavoro.
Il gruppo Calamaio ha in sé due anime e due facce.
La prima è rappresentata dal gruppo di animatori – diversamente abili e “normodotati gravi e meno gravi” – che quotidianamente si ritrova nel luogo di lavoro – la bellissima e coloratissima stanza del Calamaio all’interno del Centro Documentazione Handicap di Bologna – e che con un ritmo sempre serrato lavora per la realizzazione del progetto. Ognuno ha abilità personalissime e interessi particolari da cui si prende spunto per definire le mansioni e i ruoli. Mansioni e ruoli che si integrano fra loro e rendono possibile l’espressione di un gruppo tanto variegato e tanto complesso.
Ma fare parte del gruppo Calamaio non significa soltanto progettare, programmare, fare cose, realizzare idee, contattare persone. Fare parte di un gruppo come il nostro significa anche, e prima di ogni altra cosa, mettersi in gioco su un piano personale. Comporta mettere in gioco e spesso anche in discussione un proprio modo di essere, con se stessi e con gli altri; analizzare, avere consapevolezza e essere disposti a rivedere il proprio modo di mettersi in relazione, la propria percezione di sé e delle altre persone, le proprie difficoltà e la propria disponibilità e capacità a superarle, lasciando entrare gli altri in dinamiche a volte piuttosto personali e intime.
Tutto questo non solo e non tanto perché crediamo che in un gruppo di lavoro le relazioni, il livello di condivisione e il benessere siano importanti, ma soprattutto perché tutto ciò rappresenta il materiale di lavoro che portiamo ai bambini e ai ragazzi di tutte le scuole che ci accolgono. Se non facciamo “palestra” di relazioni – e spesso relazioni difficili, dove è presente un deficit e quindi svariati handicap che a noi piace tradurre come difficoltà – come possiamo “convincere” i ragazzi della validità dei nostri argomenti?
Siamo credibili agli occhi dei ragazzi perché quello che portiamo loro altro non è che il risultato di un confronto costante tra noi, di una esperienza in continua crescita di relazioni tra le differenze.
Tutto questo è strettamente legato all’altra faccia del Calamaio: il gruppo educativo. Alcuni degli animatori del gruppo svolgono anche una funzione educativa nei confronti di alcuni animatori diversabili, facendo coincidere così un’attività lavorativa con un percorso di conoscenza e crescita per entrambi. Il percorso di accettazione e consapevolezza della propria condizione di disabilità diventa fine e mezzo allo stesso tempo di un lavoro per sé e per i destinatari dei nostri incontri.
La realtà lavorativa del Calamaio diventa così occasione per fare emergere e valorizzare le proprie reali abilità e interessi, trasformandoli in competenze professionali. Il gruppo di lavoro e le relazioni diventano una base di esperienza delle proprie abilità e delle proprie competenze per spendere il proprio ruolo professionale dentro e fuori il Centro Documentazione Handicap.

Il gruppo classe
La modalità operativa del Progetto Calamaio si riferisce a una concezione di uomo, di persona che sottolinea gli aspetti di “sanità” rispetto a quelli di patologia e che di conseguenza si ripropone di rinforzare le aree positive della persona, facendo leva su quelle caratteristiche considerate come più tipicamente umane come la consapevolezza, la libertà, la creatività, la socialità, ecc. Ed è proprio in questo contesto che il gruppo diventa un luogo in cui questi aspetti possono essere più facilmente attivati e potenziati; strumenti particolari che ricorrono alla corporeità, all’uso della creatività, della fantasia, ecc.
Tutto questo permette di lavorare e sperimentare all’interno di un clima piacevole, accogliente e rispettoso dove ognuno è in grado di esprimere le proprie potenzialità senza il timore del giudizio e delle aspettative degli altri. Solo a queste condizioni è possibile aprirsi alla possibilità di nuove modalità relazionali.

 

Comunic-abilità Due di Giulia Boriani

Il Primo Liceo Artistico Statale di Brera, (a cui sono iscritti 13 alunni D.V.A), si è attivato attraverso la realizzazione del progetto “Comunic – abilità” che ha interessato alcuni docenti curricolari, due docenti di sostegno, tra cui la sottoscritta e le classi all’interno delle quali sono presenti alunni con certificazione di disabilità, in prevalenza, ma non unicamente, con diagnosi di ipoacusia.
L’incontro, nel mese di novembre, con Claudio Imprudente, è stato importante occasione di riflessione per tutti.
Le modalità con le quali è stato gestito si sono rivelate davvero interessanti.
Non si è trattato di una conferenza che, forse, avrebbe sortito effetti relativamente significativi, ma di un autentico confronto di natura esperienziale, non teorica.
Claudio ha cercato la vicinanza fisica dei ragazzi, li ha coinvolti nell’utilizzo della lavagna trasparente di cui necessita per comunicare, ha sapientemente messo in gioco la sua persona e i suoi limiti, con quel senso dello humour che lo caratterizza, perché da loro, e non da lui, fosse partorita quell’unica grande massima che costituisce il cuore dell’integrazione: sono i contesti, non gli uomini, ad essere fonte di svantaggio, ad essere “handicappanti”.

All’incontro erano presenti 6 classi, 2 relatori, tra cui Martina Gerosa – presente anche nella seconda fase del progetto in classe – e una dozzina di docenti.
Le classi si sono disposte nell’aula magna dell’Istituto Cattaneo, secondo la dislocazione delle sedie e cioè frontalmente rispetto al palco, occupando, però le file più lontane, dalla metà della sala verso il fondo.
Questo atteggiamento è tipico degli adolescenti quando sono chiamati a partecipare ad incontri/conferenze organizzati dalla scuola ed é imputabile ad un pre – giudizio riguardante il presunto scarso appeal delle iniziative didattiche.
A ciò si è aggiunto, a mio avviso, un certo imbarazzo rispetto alla tematica trattata o alla persona di Claudio con la conseguente paura di essere coinvolti, a qualche titolo, nello svolgimento dell’incontro.
Dopo una fase introduttiva, Claudio si è presentato ai ragazzi, piuttosto sbigottiti dall’utilizzo della lavagnetta trasparente e da quell’umorismo che riusciva a scorrere nel canale di una comunicazione apparentemente assai ostica.
Imprudente ha cavalcato l’onda di quella curiosità per richiedere maggiore partecipazione: lo ha fatto semplicemente chiedendo la vicinanza fisica, invitando le classi ad avanzare nelle file. Solo qualche ragazzo ha risposto, però.
E’ stato Claudio, allora, a porsi al centro della platea, nel corridoio centrale e ad invitare alcuni ragazzi a “giocare” a fare gli interpreti, utilizzando l’Etran.
Da questo momento in poi l’imbarazzo ha lasciato il posto ad un reale interesse e ad una atmosfera di serena e calda partecipazione.

A distanza di circa un mese Martina Gerosa e alcuni docenti coinvolti nel progetto, tra cui la sottoscritta, si sono incontrati per valutare, tra le altre cose, se proporre le riprese effettuate dell’incontro in una classe non inizialmente prevista nel progetto, classe in cui sono docente di sostegno.
Non eravamo certi che un filmato potesse garantire lo stesso risultato, tolto l’elemento di interazione reale così importante, ma abbiamo pensato che, con la mediazione di Martina, sarebbe stata comunque un’iniziativa interessante.
La classe non è stata, volontariamente, preparata alla visione. Un’introduzione teorica alla tematica della diversabilità avrebbe, a nostro avviso, ridotto l’impatto emotivo che l’incontro, anche nella traduzione filmica, conserva.
Martina, nel mese di maggio, si è presentata ai ragazzi attraverso la propria storia personale e hai poi proiettato il filmato, alla fine del quale Le sono state poste diverse domande, sulla vita di Claudio e sulle sue modalità comunicative.
Forse è mancato, per limiti di tempo, un momento, “a freddo”, successivo, in cui confrontarsi su quanto emerso, ma non dubito di predisporlo nel prossimo anno scolastico, vista l’ottima accoglienza riscontrata.
Un’esperienza da ripetere.

Docente di sostegno
 

Il bambino cerca una relazione autentica per una piena relazione di Enrica Répaci

La diagnosi medica di sordità grave, profonda o totale, congenita o acquisita nella primissima infanzia, introduce bambino e famiglia in un mondo nuovo, pieno di incognite che per gli adulti sono quasi sempre angoscianti. Il piccolo è ignaro della sua condizione. La scarsa incidenza statistica di questo fenomeno (un bambino su mille) ed un dibattito spesso solo fra “esperti”, molto frequentemente in disaccordo tra loro sui percorsi abilitativi e riabilitativi, impedisce alla gran parte della popolazione di conoscere realmente gli effetti della sordità nella sua variegata composizione. Così ancora oggi sono radicati forti pregiudizi e vi è una grande ignoranza sul mondo dei bambini e degli adulti con sordità.
E’ risaputo che la sordità grave – profonda impedisce lo sviluppo “spontaneo” della lingua parlata ma lo svantaggio uditivo può essere compensato, ed a volte con risultati sorprendenti, grazie all’utilizzo di apparecchi acustici e, quando necessita, di un impianto cocleare, così che il bambino può collegarsi anche all’ambiente sonoro arricchendo il suo mondo percettivo. Questi mezzi, tecnologicamente sempre più sofisticati, sono un grande aiuto ma da soli non bastano. E’ necessaria e indispensabile l’azione degli adulti, tutti quelli che sono nella comunicazione con il bambino, che in veste di mediatori devono accompagnarlo nella scoperta di nuove sensazioni anche sonore, educandolo all’ascolto attento e partecipe in una relazione affettiva serena e rispettosa della sua diversità. Il bambino ha necessità assoluta, per la sua sopravvivenza sociale, di un mediatore di fiducia che lo accompagni in questa avventura fino a quando non avrà sviluppato una sufficiente capacità di muoversi e di essere autonomo nella comunicazione. Ha bisogno di adulti che si prendano cura di lui, che vogliano dedicarsi a lui, con amore, pazienza e attenzione per le sue necessità, che gli offrano tutto il tempo necessario per imparare a fare da solo. Ha bisogno di un ambiente creativo per sviluppare la sua creatività. Da solo non può, isolato non può ma può farcela nella rete delle relazioni affettivamente significative. Il bambino neonato da solo non esiste. “Bisogna essere in due per ballare la danza della vita”. La madre è il suo primo ambiente, caldo e rassicurante e poi alla nascita, ancora tutt’uno con lei, ma non più solo suo. Ora può incontrare anche gli altri che lo hanno atteso: il padre, i familiari, parenti e amici e più avanti gli estranei, la comunità sociale allargata. Finché sta in braccio a sua madre non avrà nulla da temere ma per sua natura il bambino è orientato a diventare adulto, ad evolvere verso l’indipendenza e l’autonomia, a realizzare il “suo” progetto di vita che non coincide necessariamente con quello che la madre o il padre hanno immaginato per lui o per lei, magari nei dettagli. Lui o Lei, viene a soddisfare il suo personale progetto e chiede di trovare risposte ai suoi bisogni. Bisogni inizialmente simili per tutti i neonati: amore, sicurezza, ascolto paziente, vicinanza costante della madre, latte materno, rispetto per i suoi ritmi fisiologici, gesti cauti, calore e quiete ma qualche volta questo bambino arriva inatteso, inaspettato, a volte è anche abbandonato. Sarà allora la comunità sociale con la rete dei suoi servizi ad accoglierlo.

Dalle braccia della madre verso il mondo
E dunque un modello di bambino non è possibile. Troppo diversi tra loro i bambini, si impongono fin da subito con la loro specifica individualità, ultrasensibili agli scambi con i loro partners. “L’incredibile signor bebé” cerca una relazione autentica che gli possa garantire un pieno sviluppo. Per crescere ha bisogno di scendere dalle braccia della madre, sapendo però di poterci tornare ogni volta che ne avrà bisogno. In posizione a quattro zampe, in un campo ancora ristretto, comincia ad esercitare i movimenti di esplorazione di sé, dell’ambiente e con l’ambiente finché in piedi eretto sulle sue gambe potrà guardare un orizzonte più vasto e muoversi alla scoperta del mondo: ora è in grado di aprire le porte ed entrare / uscire dai diversi ambienti. In questo staccarsi dalla “zona protetta” della madre, la voce di lei che può raggiungerlo anche a distanza, diventa elemento di sicurezza, il filo che li tiene uniti, e lui stesso con la sua voce sa di poterla chiamare per il suo ritorno. La voce deve potergli giungere ma se non arriva alle sue orecchie a causa di un ridotto campo dinamico uditivo? Che succede? Sentirà il bisogno di avere la madre tutta per sé, avrà bisogno della sua presenza fisica costante e rassicurante almeno fino a che non avrà maturato in sé quella fiducia sufficiente a fargli muovere i passi da solo. Ha bisogno di una “mamma protesi”. E avrà pure bisogno di apparecchi acustici per poter “restare in contatto”, pur nella distanza fisica, e sviluppare reti di collegamento sonoro, per vivere e partecipare alla comunicazione imparando progressivamente a servirsi anche dei segnali sonori ed avvicinarsi gradualmente alla lingua materna e progressivamente al codice sociale della sua comunità. “Restare in contatto”, “ricollegarsi l’uno all’altra” reciprocamente, per riprendere il dialogo là dove era stato interrotto, con fiducia, speranza, continuità e impegno.
“L’audiogramma è il mio marchio d’identità originario” – mi ha detto un’amica, perché con quello lei è nata per la seconda volta al mondo quando la diagnosi ha confermato la sua grave-profonda sordità ma il mondo è andato incontro a lei e ha saputo nuovamente accoglierla nel contesto della comunicazione ed oggi può raccontare la sua esperienza ed, insieme a lei, tanti altri che pur affetti da sordità vivono pienamente la loro vita.

Ritrovare la propria personalissima voce
Ma quanti riescono ad accogliere la diversità?
Gli apparecchi acustici o l’impianto cocleare non annullano la sordità. Cessano la loro funzione non appena tolti o spenti, per questo è importante sapere che il bambino dovrà imparare a stare al mondo, maturando “l’integrazione di sé”, con e senza protesi, e saremo noi adulti con il nostro comportamento e i nostri atteggiamenti, a permettergli di potersi riconoscere in questa duplice modalità di esistere che è specificamente sua. Lui potrà restare sempre in ascolto se vuole, perché, seppur sordo, sente con gli occhi, con la mente, con l’anima. E se figlio di sordi segnanti troverà nei segni la sua prima lingua materna perché quello che il bambino va sviluppando è infatti “il linguaggio” nella comunicazione, linguaggio come facoltà di creare e usare simboli. Simboli che diventano segni attraverso la convenzione sociale: segni della lingua orale espressi con la voce, suoni di linguaggio specifici di ogni lingua, ritmi, intonazioni, parole, discorsi oppure segni della lingua segnata, espressi nel silenzio con i movimenti codificati e le loro articolazioni.
La scelta dell’una o dell’altra lingua o di entrambe sarà in funzione delle necessità specifiche di ogni bambino e del suo contesto di vita ma la comunicazione dovrà essere sempre resa possibile in un reciproco adattamento.
In una comunità costituita esclusivamente da persone “sorde”, il bambino con sordità non avrebbe nessuna difficoltà a svilupparsi come soggetto comunicante potendo egli acquisire la modalità “a segni” che gli verrebbe direttamente trasmessa dall’ambiente, in primis dal suo ambiente familiare. Anche figli “udenti” di genitori sordi segnanti imparano ad utilizzare segni per comunicare prima ancora delle parole espresse con la voce.
Nella comunità umana prevale però una stragrande maggioranza di persone dove l’udito dominante ha facilitato nel corso dei millenni l’instaurarsi privilegiato di una modalità di comunicazione uditivo – vocale – linguistica, orale e scritta.
Per partecipare alla vita sociale e culturale e sentirsi parte di un contesto sociale occorre conoscere e parlare la stessa lingua, condividere lo stesso codice di comunicazione.
Gli adulti “sordi” della comunità segnante sanno bene quanto sia importante il loro “bilinguismo” (Lingua Parlata e Scritta e Lingua dei Segni).
Noi tutti sappiamo bene quanto sia utile, a volte indispensabile, conoscere più lingue oltre quella materna.
Ogni bambino che nasce ha una sua propria voce che lo caratterizza e lo distingue ed è predisposto geneticamente e biologicamente a svilupparla. Anche il bambino con sordità grave che fino a sei – otto mesi di vita si esprime anche con la sua voce. E pure l’adulto con sordità congenita può ritrovare la sua voce: voce in me, fuori da me, non distaccata da me, come emerge da diverse testimonianze. La sordità
non è che un modo diverso di sentire e di udire e la percezione della voce è possibile e timbrare la propria voce anche.

Il metodo di Zora Drezancic: la voce e le strutture musicali
La voce di conversazione ha un’intensità di circa 65 dB SPL ( Livello di Pressione Sonora) a un metro di distanza con valori minimi di 40 dB ( Decibel) per la voce sussurrata e di 80 dB per la voce urlata. Il suono prodotto dalle corde vocali è un suono complesso costituito da una frequenza iniziale, detta fondamentale, e da una serie di “armoniche” di intensità decrescente. La fondamentale per gli uomini è compresa tra 80 e 150 Hz, per le donne tra 150 e 300 Hz, per i bambini tra 250 e 450 Hz. I bambini con le sordità più gravi conservano queste cosiddette “basse frequenze” per lungo tempo sottovalutate.
E’ la fonazione l’onda portante su cui si inserisce l’articolazione sonorizzata che permette la discriminazione dei suoni della lingua.
Il bambino che fa il suo ingresso nel mondo è già predisposto all’ascolto della voce materna, voce che gli è familiare fin da quando era nel suo grembo e che ancora può ricevere, nella vicinanza, pur se la diagnosi ha confermato una sordità grave profonda. L’esperienza conferma la possibilità di molti bambini di ricevere la voce ad orecchio nudo e beneficiare così di un’amplificazione attraverso la via naturale.
Zora Drezancic*, con il suo lavoro, frutto di una ricerca iniziata negli anni ’60, ha dimostrato la bontà del suo “metodo creativo, stimolativo, riabilitativo per la comunicazione orale e scritta, con le strutture musicali”. Molti bambini hanno beneficiato delle sue proposte ed hanno sviluppato una comunicazione creativa e intelligibile e sono oggi adulti ben integrati.
La voce utilizzata nel primo programma del metodo è inizialmente quella cantata e modulata, ricca e abbondante di armonici e di informazioni acustiche. Il bambino inoltre possiede quello che Pinker ha definito “l’istinto del linguaggio” e già Chomsky aveva teorizzato che il cervello del bambino è predisposto all’apprendimento del linguaggio e che l’apprendimento linguistico è influenzato dal linguaggio che il bambino sente intorno a sé. Ora sappiamo che la ricerca più recente (neuroscienze) ha confermato la teoria: le lingue differiscono fra di loro nella forma esterna ma condividono in profondità una struttura comune. L’acquisizione del linguaggio avviene sotto una guida biologicamente determinata. Occorre rispettare quindi il bambino nella sua naturale organizzazione psico-neuro-fisiologica offrendogli le proposte più adeguate. I programmi del metodo Drezancic sono stati creati proprio in questa direzione.
Sappiamo sempre più chiaramente inoltre quanto il neonato sia sapiente e possieda moltissime abilità. I contributi della ricerca scientifica ci consentono oggi di migliorare il nostro approccio nella risoluzione dei problemi della comunicazione. Genitori e operatori possono così partecipare allo sviluppo del bambino con maggiore consapevolezza ed acquisire strumenti di osservazione e valutazione per individuare sempre più precocemente eventuali problemi. La ricerca in campo neuro – psicologico richiama l’attenzione sugli effetti della stimolazione linguistica e sullo sviluppo delle vie nervose che
hanno un’importanza fondamentale nei primi anni di vita del bambino. Aspetti innati e ambiente sono già al lavoro persino prima che il bambino sia nato preparandolo per il suo ingresso nel mondo ma il fatto che il bambino sia attento ai suoni non implica che più suoni ci sono meglio è. Se eccessivamente stimolati i bambini chiudono gli occhi e si isolano dal mondo esterno. E’ necessario trovare sempre un equilibrio fra il rispetto delle capacità e possibilità del bambino e l’impulso di offrire un numero sempre maggiore di stimoli.

Le straordinarie competenze del neonato
E’ importante allora conoscere quali siano le straordinarie competenze del neonato:
è dimostrato che reagisce al suono della voce e, fra le altre, preferisce quella materna. La madre è avvantaggiata nel catturare l’attenzione del neonato con la sua voce e comunque il neonato preferisce sentire una qualunque voce ma non restare nel silenzio.
È anche sensibile ai ritmi ed alle intonazioni della sua lingua, differenziandola da altre.
Entro gli otto – dieci mesi concentra l’attenzione sui suoni specifici della lingua madre e perde gradualmente la capacità di riconoscere i suoni di altre lingue. Alla nascita è pronto ad apprendere ogni lingua che sente.
Predisposto all’interazione sociale, deve imparare a comunicare attraverso il linguaggio e ad usarlo nel suo contesto trovando nell’ambiente esseri umani che parleranno con lui e si prenderanno cura di lui.
Oltre a riconoscere le voci:
? è predisposto anche al contatto faccia a faccia e appena nato, già dopo i primi minuti, mostra un’alta sensibilità al volto umano e dopo il primo mese focalizza l’attenzione sugli occhi quasi sapesse che gli occhi sono una finestra sull’anima. E sappiamo quanto questo sia importante nella comunicazione e soprattutto nella comunicazione con chi è affetto da sordità.
? Entro le prime tre settimane sa fare un largo sorriso e sembra sorridere con gli occhi in particolare quando sente delle voci.
? A circa due mesi aumenta il tempo in cui il bambino è vigile e utilizza il sorriso a scopi sociali, inizia a emettere suoni e a stabilire un contatto visivo sempre maggiore con noi.

Il bambino è un essere sociale
Mano a mano che il bambino coordina tutti questi comportamenti e li rivolge a noi, ci sentiamo davvero in compagnia di un essere sociale. Quando il neonato collega la bocca e le parole che provengono da essa? Non sorprende se gli adulti sono assaliti da disagio quando bocca e voce non sono sincronizzate ma è sorprendente scoprire che a sole dieci settimane di vita un neonato distoglie lo sguardo quando non c’è questa corrispondenza. Sa dunque coordinare vista e udito, interagisce nel dialogo, sente e si esprime, dapprima attraverso il pianto. Nell’interazione sociale, riconosciuto come essere sociale fin da subito, è coinvolto ed è attivo nel dialogo comunicativo: faccia a faccia – occhi con occhi – sorriso con sorriso. Può imitare espressioni facciali e suoni vocali, impara a rispettare l’alternanza dei turni, impara a stare nella relazione. Non fa tutto questo da solo ma sempre insieme all’adulto che si prende cura di lui e che cerca di coinvolgerlo nella conversazione parlandogli molto in un modo particolare, con quelle modifiche che solitamente apportiamo al nostro modo di esprimerci quando ci troviamo di fronte un bambino che ancora non parla ma anche con persone di lingua diversa e persino con animali e piante (baby talk, motherese, linguaggio su misura per il bambino piccolo): allunghiamo le vocali, accentuiamo le variazioni nell’altezza della voce, usiamo frasi più brevi e pause più lunghe e nette fra le parole, il tutto con una grande carica emotiva. “Il silenzio non è d’oro” per lo sviluppo della capacità linguistica. Il bambino vocalizza e la ricerca ha dimostrato che a quattro mesi la sua vocalizzazione aumenta se l’adulto lo guarda negli occhi. Inizia la fase della lallazione, in un gioco continuo di scoperta della sua voce, dei ritmi e delle intonazioni. Anche il bambino con sordità passa attraverso questa fase ma non ricevendo un sufficiente feed back la interrompe e questo è uno dei motivi per cui la madre comincerà a sviluppare dubbi, a sospettare che qualcosa non funzioni nella loro relazione anche se l’udito non è ancora preso in considerazione. Ascoltando, ascoltandosi ed esercitandosi nella produzione dei suoni della lingua sviluppa inizialmente un suo gergo, fatto di catene di suoni caratterizzate da ritmi e intonazioni tipici della lingua materna, come se stesse parlando, ma quello che dice è comprensibile solo da parte della madre e delle persone a lui familiari. Il suo apparato vocale non è quello dell’adulto in versione ridotta. Verso la fine del primo anno la cavità orale si allunga e si allarga e il bambino inizia a incorporare le strutture sonore a cui è esposto come se le sillabe prodotte durante la fase del balbettio fossero le intelaiature create per accogliere ciò che presto diventerà un repertorio di parole vere: le parole che gli diciamo, ripetute nel contesto delle azioni abituali, azioni ben strutturate, costituiscono i semi che porteranno alla fioritura linguistica e anche quando le parole saranno apparse continuerà ad esercitarsi con la lallazione. Il bambino è dunque un essere attivo e in continua esplorazione dell’ambiente. Un’altra scoperta interessante: il bambino è inizialmente in grado di apprendere la relazione arbitraria fra una parola e l’oggetto, l’azione, l’evento, solo se il nome viene pronunciato mentre l’oggetto si muove, nell’ambito di un rapporto di coordinazione prevedibile: sentire una parola e contemporaneamente vedere il movimento del referente; e finché non impara a riconoscere la relazione arbitraria fra parole e oggetti ha bisogno che ci sia questa stretta coordinazione che successivamente non sarà più necessaria.

Nuove parole e modi per aiutare i genitori a comprendere
Ancora una volta c’è bisogno di sincronia e ancora una volta il bambino ci segnala qual è la strada per andargli incontro. Il bambino impara, ricorda e fissa nella memoria le sue esperienze. E’ un eccezionale ricercatore di regolarità, con una capacità innata di trovare un senso al rumore che lo circonda e di trovare intorno a sé coloro che possono assicurare la sua sopravvivenza. Entro il primo anno di vita indica con il dito, cominciando ad utilizzare segnali comunicativi con intenzionalità, realizza un contatto visivo, aspetta una risposta dall’altro, persevera se fallisce aggiungendo o modificando segnali, scopre che c’è un nesso causale fra comunicazione e realizzazione di un evento e impara a prendere l’iniziativa. Dal caos all’ordine, attraverso l’analisi delle piccole differenze, una volta trovato il modo per organizzare la musica, difficilmente potrà ignorarlo.
Quando i genitori si rivolgono al medico perché sospettano una disfunzione uditiva e ricevono la diagnosi di sordità, manifestano una reazione che può essere definita come catastrofica ma si possono individuare dei fattori che contribuiscano a strutturare il trauma vissuto dalla famiglia e dall’ambiente e a favorire risposte adattive?
La parola “sordo”, per chi non ha esperienza e conoscenza del fenomeno, è all’inizio sentita così carica di significati negativi che non è possibile capire a che cosa veramente si riferisca. Guardando un neonato o un bambino piccolo come un essere in evoluzione, con tutte le straordinarie competenze che già possiede, il rischio è di stigmatizzarlo in una categoria, è di “definirlo” in anticipo, bloccando ogni speranza di cambiamento e ipotizzando per lui un progetto a senso unico, proposto da altri e non con i suoi genitori, che non tiene conto della sua persona, della sua individualità. Accanto all’osservazione e alla verifica della funzionalità uditiva, così come oggi è effettuata, con toni puri, artificiali, non sarebbe opportuno promuovere l’osservazione del bambino nella sua globalità di funzionamento in modo da restituire una diagnosi completa e funzionale? Che evidenzi sì le disfunzioni ma che soprattutto metta in risalto le funzionalità e le potenzialità di sviluppo da cui potranno emergere le diverse abilità del bambino? Ogni bambino è così diverso da un altro, con la sua storia personale, con la sua particolare famiglia, con la sua situazione di sordità, che può non essere l’unica disfunzione e allora, quale diagnosi?
Si potrebbero trovare nuove parole e nuovi modi per avvicinare i genitori alla comprensione di un evento che all’improvviso scatena nella loro vita sentimenti di solitudine, incapacità, impotenza, rabbia, angoscia come tutti gli eventi che ci sconvolgono la vita e che nella vita ciascuno di noi prima o poi affronta. La comunicazione con il bambino rischia di interrompersi. Bisogna trovare un nuovo punto d’incontro, alla giusta distanza, da cui ripartire. Bisogna fidarsi di altri, estranei alla famiglia, che da qui in avanti entreranno nel cuore della loro intimità. I genitori non possono essere lasciati soli ad elaborare questo evento, non si possono dare loro illusioni né offrire soluzioni miracolistiche ma nemmeno lasciarli senza speranza quasi che la diagnosi sia una sentenza e una condanna. I genitori sono l’elemento forte, stabile nel tempo, che può garantire al bambino il suo pieno sviluppo. Devono diventare i suoi migliori alleati e per farlo hanno bisogno di incontrare altri che sappiano contenerli entrambi così potranno diventare partners competenti. In un progetto di vita predisposto con la famiglia, fattori importanti di cui è indispensabile tenere conto sono:
? le doti genetiche e individuali del bambino
? le modalità di accudimento / cura e le risorse ambientali
? l’età della comparsa dell’evento
? le modalità e la qualità del lavoro riabilitativo

La plasticità del SNC – Sistema Nervoso Centrale – nell’infanzia è da tempo confermata:
? le funzioni cerebrali possono essere modificate da una sistematica riabilitazione cognitiva
? crescita cerebrale e modificazione dei circuiti neuronali si verificano in relazione alle stimolazioni ambientali

Oggi: il tempo delle diverse abilità
Inoltre: c’è una nuova cultura della disabilità che si sta diffondendo, cultura delle potenzialità, delle diverse abilità. Conoscenze scientifiche, tecnologia, riabilitazioni pur differenti, integrazione scolastica e sociale con i coetanei e impegno di tanti genitori, anche professionisti, che si sono dedicati ai loro figli, hanno dato in questi anni esiti incoraggianti.
Le diverse abilità sono comparse: bambini ormai diventati uomini e donne hanno maturato la loro integrazione e ce lo testimoniano con la loro vita. Rappresentano la generazione che ha beneficiato degli ausili protesici, della riabilitazione precoce, della cura in famiglia, di un’educazione orientata allo sviluppo delle autonomie. E ci sono anche molti non più giovani che pur in assenza di ausili protesici, ma grazie ad un’intensa opera educativa, abilitativa e formativa, hanno raggiunto la loro autonomia nella comunicazione.
Il bambino ha bisogno di nutrimento per crescere e svilupparsi globalmente nella sua individualità che è unica, nella sua diversità che gli appartiene e lo caratterizza. Fin dai primi mesi di vita, è competente: osserviamolo, ascoltiamo quello che ci dice, come si racconta, come sta ma non facciamolo a pezzi. Lui ha bisogno di sentirsi integro e integrato. Gli adulti che si prendono cura di lui nell’imparare a conoscerlo gli daranno quella fiducia di base senza la quale chiunque di noi si sentirebbe perso e frammentato.
Un giovane mi ha detto: “ per comprendere la conversazione ho bisogno di guardare in faccia l’altro e che l’altro mi guardi. Quando dico a qualcuno che ho un grave deficit dell’udito e per questo gli suggerisco “per favore mi guardi dritto in faccia in modo che possa vedere quello che sta dicendo”, la prima volta succede sempre una cosa che ora so fin troppo bene: le parole che ho detto vengono ignorate, cancellate, per il semplice motivo che le ho dette, mi sono espresso con una voce chiara e quanto ho detto era chiaramente intelligibile.”
La sua abilità di parola maschera un fatto inalterabile: la capacità di pronunciare un discorso articolato non implica la corretta ricezione uditiva delle parole dell’altro.
Così può anche succedere e succede che qualcuno dubiti della sua sordità e ogni volta dobbiamo ricominciare a spiegare questo complesso fenomeno ed i suoi effetti collaterali.

psicologa, autrice del sito “arcipelago sordità” è vicina al mondo della diversità e della diversabilità, dei bambini, dei giovani e delle famiglie oltre che degli adulti, compresi quelli della comunità dei sordi segnanti.

Zora Drezancic – membro Comitato Scientifico del “Polo Bozzo”, Università di Genova, Dipartimento di scienze antropologiche
http://www.polobozzo.it/index.php
 

Giocare insieme, crescere insieme, comunicare insieme di Giovanna di Pasquale

Una conversazione con Dora Diaferio, Beatrice Vitale, Giada Poluzzi coordinatrice ed educatrici dei laboratori attivati dalla Fondazione Gualandi nella sede di Bologna.
Dora, presenza professionale competente svolge anche un ruolo di collegamento con la storia passata in quanto fa parte delle Suore della piccola missione per i sordomuti, una congregazione fondata dal sacerdote bolognese venerabile Don Giuseppe Gualandi, nella seconda metà dell’ottocento.
Beatrice è l’educatrice che si occupa in specifico del laboratorio GIOCARE CON LE PAROLE, Laboratorio per bambini dai 3 ai 12 anni con difficoltà uditivo-linguistiche
Giada segue le attività del centro di attività AMICI IN COMUNICAZIONE per ragazzi e ragazze dai 14 ai 17 anni.

“Le attività hanno avuto inizio nel 2003, con un laboratorio per i bambini dai tre ai dodici anni, “Giocare con le parole”. In quello stesso anno partiva un corso di informatica ISDL, dopo un anno è partito anche il laboratorio “Amici in comunicazione”, rivolto ad un gruppo di adolescenti (dai 14 ai 17 anni) poi le richieste sono state anche di ragazzi un po’ più piccoli e, al momento, anche di ragazzi un po’ più grandi. All’inizio c’è stato anche un corso di italiano per adulti che ha fatto fatica ad ingranare per le esigenze diverse, per cui non ha avuto seguito.
Al momento i corsi di informatica per la patente europea sono periodici mentre sono diventati stabili i due laboratori.

Giocare con le parole

Dora :“Giocare con le parole” è un laboratorio che ha l’obiettivo di migliorare le competenze comunicative e linguistiche attraverso il gioco per cui non facciamo logopedia, non facciamo scuola, non facciamo esercitazioni linguistiche ma cerchiamo di creare un contesto comunicativo, la motivazione giusta al comunicare attraverso il gioco. La fascia di età cui ci rivolgiamo è molto ampia per cui c’è una proposta che fa da filo conduttore e poi delle attività diverse per piccolo gruppo distinte, oltre che dall’età anche dal livello comunicativo presente.
Il gruppo dei bambini non è mai stato molto numeroso, i primi due anni è stato costituito da sette – otto bambini, figli sia di genitori udenti che di genitori sordi. Bambini quindi che normalmente sono esposti alla lingua dei segni e bambini che non conoscono la lingua dei segni. Noi rispetto a questo punto specifico ci siamo sempre posti nella posizione di chi dice usiamo lo strumento che ci permette di entrare in comunicazione con il bambino per cui se c’è un bambino che utilizza la LIS allora c’è in riferimento qualcuno fra noi che conosce meglio la LIS. Per noi la LIS è sempre stata uno strumento, uno strumento in più per raggiungere l’obiettivo della comunicazione linguistica verbale”

Beatrice: “La LIS non è lo strumento primario, è uno strumento come gli altri che può affiancare il nostro modo principale di accostarci ai bambini che è attraverso il gioco e la relazione. Quello che soprattutto cerchiamo di fare è creare un ambiente comunicativo in cui i bambini siano motivati a comunicare fra loro e con noi attraverso lo strumento che probabilmente è più famigliare a loro, il gioco, appunto. Coesistono quindi sia la parola che il segno, certe volte niente segno ma più parola e più gioco”.”

Dora “Attualmente c’è un piccolo gruppo di bambini di quattro bambini. Solo una bambina utilizza la LIS, è una bambina che ha altre tipi di difficoltà cognitive oltre la sordità. Questo le comporta una grande difficoltà nella produzione verbale per cui c’è stata una scelta verso questo modo comunicativo. Gli altri bambini, figli di udenti, parlano tutti.”
Per molti genitori sordi è sufficiente la lingua dei segni perché il bambino cresca integro nella comprensione e nella competenza comunicativa, l’importante è che ci sia una persona che attraverso i segni gli faccia capire e il problema è risolto. Ma non è così quando si trova con gli altri bambini, quando vive e vuole vivere in un contesto di scambio che vada oltre il capire cosa è stato detto perché c’è qualcuno che me lo segna. Questo non basta per i piccoli, non basta per i grandi.”

Beatrice “Per quanto riguarda le attività abbiamo fatto la scelta di partire dalle esigenze dei bambini, dalle osservazioni del gioco libero abbiamo cercato di vedere da che cosa erano più attratti per proporre attività stimolanti che potessero interessare, proprio per stimolare un comunicazione, farli entrare in comunicazione fra di loro e con noi. Da quello che possiamo notare nel bambino nascono blocchi di attività flessibili che possono prendere una strada o un’altra perché se il nostro obiettivo è chiaro poi nello specifico delle attività c’è molta attenzione a seguire gli sviluppi e le indicazioni che emergono dalle risposte dei bambini. L’anno scorso ad esempio c’è stata una macro attività che ha occupato la prima parte dell’anno, il “fare la spesa”. C’era un ambiente predisposto, chi faceva il negoziante, chi comprava, quindi una distribuzione di ruoli che favoriva la comunicazione. Questa attività si è sviluppata verso un lavoro con gli alimenti veri, la preparazione di alimenti, prima per gioco poi realmente attraverso il rispetto delle sequenze per preparare un piatto. In contemporanea abbiamo portato avanti il lavoro sulle storie, a partire dalla proposta delle storie a cartoni animati di Pingu, che ha uno stile immediato, non ha parole e si basa molto sulle espressioni. Sono storie semplici, con i bambini abbiamo lavorato per distinguere le sequenze, dare dei nomi a quello che stava succedendo, visualizzare attraverso il fumetto cioè attraverso il supporto grafico alle parole.”

Dora: “L’utilizzo di più strumenti è uno dei punti forti delle attività, l’attenzione che cerchiamo di avere è proprio questa, l’utilizzo di più codici che permettano il più possibile la comprensione. Il raggiungimento dell’obiettivo della competenza linguistica è basato sulla comprensione. Ad esempio il gioco del fare la spesa non è basato su una ripetizione meccanica di parole o frasi ma è legato alla comprensione di quello che succede in quel momento, al contesto, alla comprensione di ruoli diversi, per cui abbiamo visto i bambini diventare creativi aggiungendo del loro alla frase di apertura del gioco“Che cosa vuoi?” proprio perché avevano compreso che cosa c’era da fare. E così anche nella storia, l’utilizzo di codici diversi a partire dal filmato proposto permette di mettersi dentro la storia e di modificare, aggiungendo del proprio, realtà nuove legate alla propria esperienza. Quando ciò avviene capisci che c’è stato un salto verso la comprensione. Per fare questo c’è bisogno di un lavoro preciso: per primo la riduzione per sequenze del filmato iniziale selezionando le immagini significative di cui vengono creati i sottotitoli (per ora i cartoni animati non sono sottotitolati, per questo lo facciamo noi). Questo perché ci sia un abbinamento il più possibile precoce fra parola ed immagine. Dopo l’immagine del filmato si passa alla produzione di loro immagini attraverso il disegno. Poi il racconto di quello che si è visto e disegnato. Quindi compresenza di codice visivo, grafico, verbale”.

Bea: “Un altro strumento per raccontare è dato dalla drammatizzazione della storia con personaggi costruiti da loro, riescono a raccontarla mettendosi nei panni dei personaggi e da questo racconto nascono nuove storie. Attraverso l’utilizzo di più codici si facilita la comprensione”.

I bambini

Bea: “Questo per i nostri bambini è un luogo, come ha raccontato una mamma in una lettera pubblicata sulla nostra rivista Effeta, “dove ci sono altri bimbi con le orecchie”. Per noi è importante che i bambini non si riconoscano sempre come i “diversi” ma abbiano un luogo dove trovare degli altri bambini che loro sentono come uguali”.

Dora: “Ricordo che il giorno di inizio del laboratorio una bambina ha notato come prima cosa che anche un altro bambino aveva le protesi come lei. C’è questa identificazione che li aiuta.Vengono qui volentieri direi per due motivi: perché giocano e perché capiscono. Giocano e capiscono quello che fanno. Non è una ripetizione meccanica quella che viene chiesta, anche il gioco può diventare una ripetizione meccanica se non c’è la comprensione e quindi può perdere tutto il gusto e il piacere del giocare. I bambini vengono e aspettano durante la settimana il momento di venire qui. Noi ci siamo fatte l’idea che sia proprio perché capiscono quello che fanno e si sentono partecipi.
Il momento in cui i bambini diventano creativi è il momento che ci fa capire che la comprensione c’è stata, anche nel lavoro su Pingu ad un certo punto i bambini non hanno più riproposto la storia e le sequenze ma l’hanno ampliata, mettendocisi dentro, cambiandola, aggiungendo realtà nuove a partire dalla esperienza di vita concreta. Se un bambino non sta ripetendo meccanicamente, ha colto e quindi è in grado di produrre inserendo del nuovo. La competenza linguistica è anche questo produrre autonomamente, in prima persona. Un altro aspetto è quando riescono a trasferire quello che hanno imparato qui in un altro ambiente.

La famiglie

Dora “Le famiglie che portano qui i loro bimbi non possono pensare di farne a meno perché li vedono contenti. Sono genitori che dicono:”Quando escono di qui sono contenti e con la voglia di raccontare quello che hanno fatto e con la voglia di tornare”. Così come i bambini si identificano tra loro così i genitori trovano un confronto. Portare i bambini qui significa anche incontrarsi in modo informale, trovare sostegno, avviare rapporti amichevoli che continuano anche fuori.
Se i bambini che frequentano sono motivati e contenti, abbiamo più difficoltà per l’accesso di nuovi. La spiegazione che ci viene anche dai servizi è che i bambini sono molto oberati dopo la scuola: la logopedia, la piscina…tante famiglie fanno fatica a fare entrare anche questo. Per come vediamo noi i bambini che partecipano al laboratorio ci piacerebbe molto che questa occasione si diffondesse e si raccordasse con il resto delle opportunità. Noi le energie ce le stiamo mettendo ma non è così semplice e scontato. E più per i genitori sordi che per quelli udenti”

Il collegamento con l’esterno

Dora “Il collegamento con l’esterno è avvenuto per un paio di anni attraverso il rapporto con le scuole, con le classi dei bambini che frequentavano il laboratorio. Le classi venivano qui per fare delle attività analoghe a quelle portate avanti nel laboratorio con il coinvolgimento quindi dei compagni di classe; poi c’è stato anche il ritorno di questi compagni di classe che sono rimasti colpiti da un luogo bello dove giocare. Aver condiviso un’esperienza attraverso qualcosa di coinvolgente e bello anche per loro è stato importante. C’è stato anche lo scambio per cui i nostri bambini sono andati nelle classi venute qui, e anche questo è un modo di lavorare che va rafforzato.
E’ estremamente positivo per i bambini che hanno la percezione che quello che vivono qui è possibile anche fuori, nella scuola e che i compagni possono essere resi partecipi di quello che vivono qui.
Da parte nostra il contatto con l’esterno avviene attraverso il rapporto continuo con i genitori, i logopedisti, i neuropsichiatri. Tenere i fili di questa rete non è facile ma ce lo siamo imposto, non volevamo proporci come un’alternativa alla riabilitazione o alla scuola, la soluzione magica di tutti problemi dei bambini sordi. C’è in noi la consapevolezza che il percorso di crescita prevede diversi attori, più riusciamo a raccordarci tra di noi presentando un percorso il più possibile unitario più il bambino sarà avvantaggiato. Non è scontato, non è semplice ma è il raccordo quello che cerchiamo di portare avanti anche attraverso la partecipazione dei gruppi operativi dei bambini e ragazzi.”

Amici in Comunic-Azione

Dora: “Questo laboratorio è nato da una richiesta esplicita di alcuni genitori, i cui ragazzi frequentavano la terza media. I genitori hanno presentato questa esigenza a partire dal fatto che a quattordici anni la logopedia si interrompe, a parte alcuni casi. Dopo essere cresciuti con dei punti di riferimento, perché la logopedista diventa punto di riferimento e anche di incontro con altri bambini e ragazzi, si rischia di sentirsi molto isolati. Anche a scuola nonostante la presenza dell’insegnante di sostegno e dell’assistente alla comunicazione, l’integrazione non è così scontata.
Questi genitori hanno visto i loro figli disorientati, soprattutto dopo la scuola nel tempo delle attività extrascolastiche.
Allora ci siamo messe a pensare a una possibilità di incontro, così importante per questa fase di costruzione dell’identità adolescente e anche per il confronto con il gruppo dei pari. Sono esigenze che valgono per tutti, sentite con maggior forza per chi ha problemi nella comunicazione.
Il laboratorio è partito con un contatto porta a porta a partire da chi ne aveva fatto richiesta con un gruppetto di sei, adesso sono raddoppiati. Cresciuti e raddoppiati di numero”.

Giada: “All’inizio nonostante avessero tra i tredici- quattordici anni a noi sembrava ne avessero dieci-undici. Difatti noi proponevamo ancora attività piuttosto infantili e da parte loro c’era una reazione entusiastica, forse anche perché erano attività che non avevano mai fatto da nessun altra parte come le attività sportive che loro non praticavano. Oggi le distanze sono diminuiti e sono degli adolescenti a tutti gli effetti e le loro richieste lo dimostrano. Oggi è importante il gruppo, le loro idee, le loro parole e se prima quello che dicevamo noi era preso per oro colato oggi non è più così e questo è ovviamente positivo anche se per noi è più impegnativo trovare il modo di entrare in relazione con loro, ma questo capita con tutti gli adolescenti. Sono ragazzi sordi che hanno gli interessi, le problematiche, le pulsioni di tutti gli adolescenti.
Anche la dimensione affettivo sessuale che adesso è esplosa ci ha portato a calibrare le attività nella direzione che potesse ancora coinvolgerli.
Le attività nascono non dal cappello magico ma cercando di osservarli per impostare un’attività che possa andare bene per loro. Se il primo anno abbiamo lavorato tanto sulle emozioni, perché potessero comunicare ciò che era difficile dire con le parole (cosa è la paura, cosa è la gioia) poi siamo passati ad un lavoro sul corpo che permettesse anche di riflettere insieme sull’affettività e sulla sessualità. Quest’anno abbiamo impostato il laboratorio sulle professioni perché ormai stanno arrivando alla fine delle superiori e si cominciano a chiedere cosa fare per il dopo. E’ molto importante dare un ventaglio di idee, di possibilità proprio perché sui mestieri hanno idee spesso stereotipate che prevedono l’adeguamento alla professione del padre o della madre.
Abbiamo fatto anche vacanze insieme. La prima vacanza è stata tutta una scoperta, tutti facevano a gara per fare i turni per preparare da mangiare, lavare i piatti è stato un condividere una casa comune. Quest’anno insieme alla Ausl abbiamo fatto un progetto che si è svolto in un paese del nostro Appennino, Montecreto, in cui l’idea non era solo quella di vivere insieme ma di fare anche qualcosa per la comunità che ci ospitava. Aprire il gruppo verso attività di servizio, cosa non semplice per degli adolescenti “

Beatrice. “Nel laboratorio “Amici in comunicazione” c’è anche il momento dedicato ai compiti, che precedeva l’attività. E’ una sorta di affiancamento che ha l’obiettivo di renderli il più possibile autonomi, cosa molto difficile. In questo momento viene fuori anche il loro rapporto problematico con la scuola: in classe loro capiscono davvero quello che fanno? Attraverso i compiti abbiamo avuto la possibilità di collegarci con la scuola per capire meglio quello che davvero fanno, quello che comprendono realmente, quali strumenti poter offrire loro, in che modo semplificare i testi e ancora, quali testi? Da qui sono nati anche incontri con gli insegnanti per capire cosa si poteva fare insieme, alcuni andati a buon fine altri un po’ meno perché si trovano resistenze o prese di posizione rigide. Quest’anno abbiamo sentito l’esigenza di far partire un corso di italiano facoltativo rivolto sempre ai ragazzi del laboratorio e organizzato per piccolissimi gruppi. E’ un’esigenza nata da loro, in particolare da un ragazzino che aveva una grande paura di svolgere il tema e ci ha chiesto aiuto. Siamo partiti con un incontro alla settimana in cui abbiamo affrontato l’italiano in modo non scolastico e con un approccio diverso dalla logopedia. Abbiamo usato articoli di riviste, testi letterari, conversazioni. Recependo la loro risposta è partito anche un lavoro sui e con i libri: scegliere dei libri adatti a loro con testi semplici ma storie a loro vicine per dare proprio la possibilità di leggere e di identificarsi nelle storie, cosa che questi ragazzini fanno molta fatica a fare”. Per loro il libro tante volte è uno strumento non fruibile e c’è il rischio concreto di un’esclusione anche dalla parola scritta.
Non possiamo generalizzare ma i ragazzi che incontriamo noi hanno queste particolari difficoltà proprio perché un testo che per loro potrebbe essere accessibile lo giudicano troppo infantile, da bambini e lo rifiutano, un testo i cui contenuti sono adatti alla loro età è troppo difficile. Il nostro lavoro è stato proprio quello almeno di incuriosirli al libro, appassionarli alle storie, questo ha significato fare un lavoro di preparazione considerevole perché l’incontro tra loro e i libri fosse possibile”


LA FONDAZIONE GUALANDI

La Fondazione Gualandi a favore dei sordi è un ente privato nato il 1 gennaio 2003 dalla trasformazione dell’Istituto Gualandi per sordomuti e sordomute, fondato a Bologna nel 1850.
La Fondazione si ispira ai valori etici e cristiani che erano fondamentali nell’impegno dell’Istituto Gualandi e si propone di promuovere o sostenere, senza fini di lucro, attività di formazione, formazione continua, supporto all’integrazione scolastica di persone sorde, sostegno alle famiglie, direttamente o in collaborazione con enti, associazioni e organizzazioni che operano senza fini di lucro.
La Fondazione sostiene l’accoglienza di persone anziane sorde e sole.
La sede della Fondazione è in Via Nosadella 51/a 40123 Bologna – e.mail: direzione@fondazionegualandi.it Tel 051.3399506 Fax 051.6447918

 

Evoluzione degli apparecchi acustici di Michele Ricchetti

Il “cornetto”
I primi aiuti all’udito sono stati forniti dalle mani, infatti accostandole al padiglione uditivo in modo da prolungarne la sua curvatura si ottiene un maggior “effetto imbuto”, cioè più segnale acustico entra nel padiglione e quindi più energia si ha a disposizione per far muovere il timpano e gli ossicini, il che porta a sentire meglio. Dopo questo primo passo si è passati al “cornetto” un vero e proprio imbuto che permetteva maggiori performance. Questi sistemi non amplificano del segnale ma permettono di captare semplicemente più segnale.

L’apparecchio a scatola
Con l’avvento delle protesi a scatola incomincia l’era elettronica degli apparecchi acustici. Questi apparecchi, come quelli che li seguiranno, sono formati da tre componenti principali: microfono, “elettronica di amplificazione” e ricevitore. Il microfono serve a convertire i suoni in elettricità, che viene così utilizzata come segnale di ingresso dall’elettronica di amplificazione che lo amplifica, ad esempio, fino a 1 milione di volte (60db), infine il segnale amplificato viene fornito al ricevitore, che è una cassa acustica, che riconverte il segnale elettrico in suono. Il suono così amplificato viene portato all’interno del canale uditivo.
Gli apparecchi a scatola incominciano ad essere sviluppati negli anni ’60, la tecnologia in quegli anni non permetteva una elevata miniaturizzazione dei componenti, quindi le loro dimensioni non erano trascurabili: il microfono era posizionato, insieme all’elettronica di amplificazione e alle batterie in una scatola, dalle dimensioni simili a un “moderno” walkman a cassette. Il segnale elettrico tramite filo veniva portato all’orecchio dove era posizionata una capsula magnetica che convertiva il segnale in suono, come succede nelle moderne cuffiette. Questo tipo di apparecchio aveva lo svantaggio delle dimensioni e delle limitate possibilità di regolazione, era solo un potente amplificatore, di cui si poteva regolare solo il volume.

L’apparecchio retroauricolare
A metà degli anni ‘70 lo sviluppo dell’elettronica porta alla costruzione degli apparecchi retroauricolari. I retroauricolari sono formati da due parti, la prima è quella posta dietro al padiglione auricolare dove è inserita tutta l’elettronica. La seconda parte è invece la chiocciola, che viene costruita su misura partendo dalla forma del condotto acustico, al suo interno ha inserito un tubicino che collegato alla parte elettronica porta il suono nel condotto acustico. La parte contenente l’elettronica e la pila ha una forma a “banana” che ben si adatta al retro del padiglione auricolare ed è di un colore simile alla pelle.
Con questo tipo di protesi si incominciano a vedere i benefici dell’elettronica, seppur ancora analogica, in quanto si possono trovare su questi dispositivi controlli per modellare la curva di risposta, in modo da adattarli più finemente al portatore. In questi apparecchi possiamo trovare filtri tagli-suoni acuti e tagli-suoni bassi oltre che la regolazione MPO (Massima Potenza di Uscita).
L’elettronica che è all’interno si è modificata seguendo lo sviluppo: all’inizio elettronica analogica, poi elettronica analogica programmata ed infine digitale.
La forma retroauricolare è rimasta inalterata fino alla fine degli anni ‘90, negli ultimi anni le varie case costruttrici hanno prodotto apparecchi di dimensioni più piccole, in modo da renderle meno visibili.

Lo sviluppo dell’elettronica
A questo punto è necessario parlare dell’evoluzione dei componenti degli apparecchi, in particolare dell’elettronica, in quanto microfoni e ricevitori non hanno avuto grandi evoluzioni.
L’elettronica analogica è un tipo di elettronica che permette di elaborare (ossia amplificare, filtrare) i segnali in tempo reale, ma, al crescere della complessità dell’elaborazione, la dimensione del circuito cresce in modo esponenziale.
Con gli anni ‘90 inizia una nuova era, quella del computer, e quindi anche gli apparecchi acustici si adeguano ai tempi: nascono i primi apparecchi con elettronica analogica ma programmabili tramite computer. Questi apparecchi al contrario degli apparecchi analogici non vengono regolati con cacciaviti dall’audioprotesista, bensì tramite un computer, questo non fornisce tuttavia nuove funzionalità all’elaborazione del segnale ma semplifica le regolazioni e rende ripetibile la regolazione.
Con il nuovo millennio invece inizia l’era digitale, per cui l’elaborazione del segnale diventa digitale. In questo caso il segnale analogico, fornito dai microfoni, viene convertito in digitale e tramite un piccolo computer viene elaborato in modo molto più complesso rispetto al caso analogico, ad esempio viene analizzato se nel segnale sono presenti rumori molesti o fischi, che, se vengono riconosciuti, vengono attenuati.
Negli apparecchi acustici analogici potevamo avere 3 o 4 parametri di controllo per adattare l’apparecchio alla perdita acustica della persona, con gli apparecchi programmabili questi parametri possono arrivare a 10, infine con gli apparecchi digitali i parametri hanno ormai superato il centinaio, e questo permette una regolazione fine, il che presuppone una elevata preparazione del tecnico audioprotesista.

L’apparecchio endoauricolare
Negli anni ‘80 i produttori riescono, grazie alla crescente miniaturizzazione dei circuiti elettronici, a creare apparecchi da inserire all’interno dell’orecchio, i cosiddetti “endoauricolari”. Questi apparecchi oltre all’indubbio vantaggio estetico hanno una ulteriore prerogativa, di avere il microfono all’interno del padiglione uditivo quindi in una posizione più naturale. Nel retroauricolare il microfono è posto in cima al guscio che sta dietro all’orecchio: questa posizione porta il microfono ad essere più sensibile al vento e a perdere l’informazione della provenienza del segnale. L’endoauricolare così come il retroauricolare è stato da prima completamente analogico, poi programmabile ed infine digitale.
A partire dagli anni ’90 in Italia sono apparsi apparecchi endoauricolari adatti ad affrontare anche sordità profonde.
Negli ultimi due anni si stanno affacciando altri due tipi di apparecchi acustici i “RITE” e gli “OpenFitting”. I RITE (…) sono apparecchi che fondono i concetti dell’endoauricolare e del retroauricolare, i secondi invece sono apparecchi più piccoli di un tradizionale retroauricolari, ma con un piccolo tubicino (non una chiocciola) che porta il suono nel condotto uditivo.
Alla fine degli anni ‘90, si è sviluppata la tecnica dell’impianto cocleare per risolvere il problema della sordità. Questo tipo di soluzione è totalmente diverso dagli strumenti tecnologici illustrati precedentemente, in quanto necessita di un intervento chirurgico. Durante tale intervento la coclea viene forata per far passare un filamento costituito da più elettrodi. Sotto la cute del cranio viene collocato un circuito che si occupa di captare i comandi provenienti dall’unità esterna. Nell’unità esterna sono presenti il microfono e il processore digitale e un circuito di trasmissione alla sezione sottocute.

Gli ausili
Gli ausili sono accessori destinati a completare gli apparecchi acustici o l’impianto. Possono essere dei trasmettitori in radiofrequenza che, collegati all’apparecchio acustico, permettono alla persona di sentire da un microfono posto anche a qualche decina di metri dalla persona. Altro ausilio è la cosiddetta bobina, questo componente permette di sentire attraverso un campo magnetico generato ad hoc, per esempio in un teatro per seguire meglio lo spettacolo o tramite la normale cornetta del telefono per fare una conversazione con minore difficoltà. Altri ausili, più attuali, possono essere gli adattatori bluetooth che convertono l’apparecchio in un auricolare bluetooth.
 

Sguardi sul mondo: i film e il gusto di conoscere di Andrea Rossi Besio

Andrea ha 13 anni, frequenta la terza media e ha molte passioni: mare, judo, calcio, snowboard.

“Mi piacciono tantissimo anche la geografia e il cinema”.

E’ un viaggiatore entusiasta, riflessivo, curioso e con lo stesso spirito segue la trama di ogni film.

“Preferisco guardare i DVD perché ci sono i sottotitoli. Ne ho tantissimi, li tengo nella mia stanza, divisi per genere e registi. Se un film è italiano cerco anche di ascoltare le parole e guardare le labbra ma moltissimi film sono stranieri. I sottotitoli sono meravigliosi. A volte in televisione sono pieni di errori o mancano troppe parole. Forse li scrivono persone stanche. Invece nei DVD sono perfetti. Quando ero piccolo avevo tante videocassette di cartoni animati ma potevo solo immaginare le storie. Ora so tutto quello che succede”.

I piccoli endoauricolari ad alta tecnologia che Andrea usa da quando aveva un anno e mezzo gli hanno permesso di cimentarsi in ogni genere di sport, lo hanno aiutato a sentirsi a proprio agio ad avere una vita di relazione sempre più serena.
Da qualche anno il mondo del cinema gli sta offrendo occasioni di riflessione, apprendimento, comprensione che arricchiscono la sua personalità, la sua cultura, il senso dell’umorismo e la consapevolezza di quanto siano vari i rapporti umani.
Da quando ha iniziato questo viaggio così stimolante è più disinvolto nelle varie situazioni, più pronto a capire, sicuro di sé e consapevole dei propri mezzi.
Questa opportunità dovrebbe essere offerta a tutti gli adolescenti e ancor più ai ragazzi sordi che nella frenesia e confusione del quotidiano hanno difficoltà a cogliere il senso di discussioni e situazioni.
Il tempo, nonostante i compiti e gli impegni sportivi, si può trovare anche tutti i giorni.

“Io non ho la PlayStation. Ci gioco a casa di amici. In cambio i miei genitori mi comprano tanti DVD. La prima volta li guardiamo insieme. Poi a me piace rivederli e fare la collezione, per questo non li affittiamo”.

La spesa si può contenere molto approfittando delle offerte che nei megastore propongono i film più famosi a rotazione. DVD da 30 euro, con un po’ di pazienza, diventano reperibili a 7.

“A scuola studio inglese e spagnolo. Se conosco bene i sottotitoli di un film provo a mettere quelli stranieri così imparo. Certe volte i film mi hanno aiutato a prendere bei votivi storia, epica e letteratura! Ad esempio ho visto l’ODISSEA, la VITA DI LEONARDO DA VINCI, DON CHISCIOTTE. Così imparo più cose che leggendo solo i libri e non faccio fatica. A volte invece i film tratti da romanzi o storie vere mi fanno venire voglia di leggere quei libri. Ad esempio, dopo aver visto i film, ho letto IL DIARIO DI ANNA FRANK e IO NON HO PAURA”.

Il cinema, per Andrea, è anche puro divertimento.

“Quando ho fatto troppi compiti poi scelgo solo film comici perchè mi fanno riposare. Mi piacciono Stanlio e Ollio, Charlot e film divertentissimi come UN PESCE DI NOME WANDA, LA STRANA COPPIA, A QUALCUNO PIACE CALDO, FANTOZZI, i film di CARLO VERDONE, di ADRIANO CELENTANO, IL MIO GROSSO GRASSO MATRIMONIO GRECO”.

Molti film che Andrea ha visto mostrano come l’adolescenza sia un periodo emotivamente complesso e impegnativo ma di grandi opportunità per tutti, udenti e non.
Non è l’udito a dare la felicità, non è la sordità a toglierla.
Importanti sono l’autostima, l’intraprendenza, l’amore per le proprie passioni.

ALCUNI I FILM CONSIGLIATI DA ANDREA PER I SUOI COETANEI:

RAGAZZO DI CALABRIA
BILLY ELLIOT
SOGNANDO BECKHAM
il tema del contrasto tra figli che hanno una vera e propria vocazione ( il ragazzo calabrese per la corsa, Billy per la danza, la ragazza di origine indiana per il calcio) e vengono inizialmente contrastati dai genitori.

IL RAGAZZO DAI CAPELLI VERDI
L’UOMO SENZA VOLTO
INDOVINA CHI VIENE A CENA
sul tema del razzismo e dell’esclusione

LES CHORISTES
SCOPRENDO FORRESTER
ABOUT A BOY
CAPITANI CORAGGIOSI
OVOSODO
i riti di passaggio all’adolescenza, problematiche di definizione del sé e l’importanza di figure di riferimento

 

L’uomo ha due dimensioni: esperienze e problemi degli immigrati con disabilità

In genere, quando si parla di “doppia disabilità” si intende, se non quella legata a una doppia menomazione sensoriale (come la sordo-cecità), la situazione di una donna con disabilità, soggetta a una discriminazione multipla per il proprio genere e per il proprio handicap. Tuttavia, seguendo questa linea concettuale si possono costruire molteplici doppie discriminazioni, collegando la disabilità a una qualsiasi delle altre condizioni oggetto di stigma sociale. Quel che potrebbe apparire solo un esercizio stilistico, venato di sadismo e comunque di cattivo gusto, è invece una chiave interpretativa necessaria per comprendere le esigenze e le difficoltà delle persone immigrate in situazione di handicap. Gli stranieri con disabilità sono d’altronde una fascia delle società avanzate ormai tutt’altro che marginale e destinata a crescere, per l’afflusso di persone in fuga da conflitti che generano menomazioni di guerra, ma soprattutto per l’invecchiamento e la conseguente perdita di autonomie degli appartenenti alle prime generazioni di immigrati, giunti in Europa in età lavorativa fin dagli anni ’60 (specie nelle nazioni investite dalla decolonizzazione) e che oggi, naturalmente, non intendono affrontare la vecchiaia nelle loro nazioni di origine, senza per questo poter necessariamente contare su una piena integrazione sociale e civile nel paese “di elezione”.

Communication breakdown
La condizione delle persone immigrate con disabilità nella UE non risulta essere mai stata oggetto di studi a livello generale, e anche a livello di singole nazioni le analisi sembrano ben poche. Tra queste, lo studio di Keri Roberts e Jennifer Harris dell’Università di York, pubblicato nel maggio 2002 e dedicato alle persone disabili nelle comunità di rifugiati e richiedenti asilo in Gran Bretagna. Lo studio parte dalla considerazione che “la presenza di persone disabili nelle comunità di rifugiati e richiedenti asilo in Gran Bretagna è abitualmente trascurata, e informazioni sulle loro esperienze particolari sono raramente disponibili”, benché si stimino circa 26.500 persone in tale condizione. Le ricercatrici, dopo aver individuato un campione di 38 persone disabili di varie età ed etnie e di 18 operatori dei servizi sociali, li hanno intervistati per individuare i principali problemi fronteggiati da chi unisce la condizione di migrante (con i traumi peculiari legati all’origine della condizione di asilo politico) a quella di disabile.
Una delle questioni principali riguarda non la qualità dei servizi sociali erogati, quanto l’accesso agli stessi. Le barriere linguistiche, a cui in alcuni casi si aggiungono deficit relativi alla comunicazione, rendono difficile per le persone immigrate con disabilità avere conoscenza dei diritti legati alla propria condizione. Lo studio riferisce il caso estremo di un uomo giunto nel Regno Unito dal Vietnam, che solo dopo oltre 20 anni di permanenza è venuto a conoscenza del proprio diritto alla DLA (Disability Living Allowance), una indennità erogata fino ai 65 anni a chi ha una disabilità grave e che può giungere fino all’equivalente di circa 670 € mensili, che costituisce il principale supporto finanziario erogato alle persone disabili. Le difficoltà linguistiche sono ulteriormente aggravate dall’isolamento in cui molto spesso queste persone vivono, per barriere più culturali che fisiche, legate alla vergogna per l’origine traumatica delle menomazioni (non di rado provocate da torture) e all’assenza di una comunità etnicamente omogenea su cui contare. Per le donne c’è poi una sofferenza peculiare per le difficoltà nella cura dei figli dovute alla disabilità – o, ancor peggio, alla separazione forzata dai figli stessi, rimasti nelle nazioni da cui esse sono fuggite. Alcune situazioni sono decisamente deteriorate, se un intervistato arriva al punto di dichiarare: “Per essere onesti, se la situazione nel mio paese fosse cambiata non rimarrei qui 5 minuti di più”.
La presenza di bisogni non soddisfatti e in alcuni casi nemmeno espressi viene confermata dalle interviste agli operatori dei servizi. Ad esempio, i richiedenti asilo devono essere ospitati solo temporaneamente, per una settimana circa, nel luogo in cui si rivolgono all’autorità britannica, per poi essere sistemati più stabilmente in aree “disperse” lontane dalla zona di Londra (dove molti richiedenti arrivano, e dove sono più vicini a servizi e comunità etniche di appartenenza). La sistemazione avviene d’ufficio, senza scelta dei richiedenti; questi talvolta si oppongono al trasferimento, rimanendo a lungo in sistemazioni di emergenza, talvolta accettano il trasferimento ma, specie se hanno difficoltà motorie, si ritrovano abbandonati a se stessi senza la possibilità di avere assistenti personali per muoversi; altre volte, invece, il trasferimento avviene senza particolari difficoltà, ma anche senza avvisare i servizi sociali locali, che vengono a conoscenza della necessità di dover prendere in carico una persona con bisogni anche molto particolari solo quando la persona stessa si presenta nelle loro sedi. In generale, sembrano mancare procedure consolidate per l’attività congiunta di operatori dei servizi di asilo e dei servizi sociali, ossia delle due dimensioni di disagio che si congiungono nell’immigrato con disabilità, la cui cura coordinata, necessaria per il suo benessere effettivo, dipende di fatto dalla bontà delle relazioni reciproche e dall’impegno personale degli operatori coinvolti. Contro tale collaborazione remano da un lato i budget limitati, dall’altro l’ignoranza da parte degli operatori di un ambito dei diritti connessi all’altro ambito. Si delinea di conseguenza il rischio di una “medicalizzazione spinta” delle difficoltà degli utenti, che in questo modo riceverebbero dai servizi sanitari quello che i servizi sociali, per vari motivi, non possono dare loro – ma ha davvero senso dare un aiuto sbagliato piuttosto che nessun aiuto?
Il quadro piuttosto fosco delineato da Roberts e Harris per i servizi inglesi è legato anche allo status giuridico ambiguo dei richiedenti asilo. Questi, finché la loro domanda non è accolta, hanno accesso generalmente gratuito alle cure mediche pubbliche, ma con l’istituzione del NASS (National Asylum Support Service), nel 1999-2000, sono stati esclusi da quasi tutti i servizi sociali, sostituiti appunto dai servizi del NASS, generalmente solo finanziari e che prescindono dalle condizioni dei richiedenti asilo. Solo con l’ottenimento dello status di rifugiato viene raggiunta una sostanziale eguaglianza con i cittadini britannici. D’altronde, in molti paesi europei tutti gli immigrati non comunitari si ritrovano in situazioni simili, con la garanzia delle sole cure mediche urgenti ed esclusi dall’accesso a numerose prestazioni sociali riservate ai cittadini comunitari.

La non-discriminazione come principio generale
Problemi molto simili emergono dall’esperienza finlandese, come raccontataci da Hannaleena Pölkki, coordinatrice di HILMA, il centro di supporto agli immigrati del Finnish Disability Forum [l’intervista completa è disponibile su www.accaparlante.it)]. Come ribadisce Pölkki, “una delle principali difficoltà tra gli immigrati disabili è la mancanza di conoscenza o la mancanza di accesso alla conoscenza. Il sistema di sicurezza sociale è molto complicato (e il linguaggio ufficiale usato a proposito di questi problemi è piuttosto difficile). […] Ciò è ancor più impegnativo per le persone con disabilità, dato che esse sono spesso più in carico ai servizi pubblici di altri”. Torna anche il problema del supporto alle famiglie con minori (in cui la quota di immigrati è crescente), anche se emerge un’ulteriore difficoltà: “Le famiglie di origine immigrata sono molte volte più riluttanti ad accettare sostegno esterno nella loro vita quotidiana rispetto alla famiglie finlandesi; in questi casi altre forme di sostegno dovrebbero essere considerate”.
Per affrontare le sfide imposte dalle nuove esigenze sociali, Pölkki sostiene la necessità di superare l’attuale divisione di strutture e logiche tra servizi all’immigrazione e servizi alla disabilità: “Dovremmo spostarci da strutture basate sui settori verso strutture o politiche più olistiche […] Per assicurare che i servizi di welfare raggiungano davvero più persone possibile, si dovrebbe tener conto di identità multiple in tutti i settori delle politiche sociali”. Questa attenzione, più che la soluzione specifica per singoli sottogruppi sociali, dovrebbe diventare un’impostazione politica universale, specie a livello di Unione Europea: “Poiché i gruppi di multipla minoranza possono essere piuttosto piccoli a livello nazionale, è più efficace cooperare e innalzare il livello di consapevolezza a proposito di discriminazione e identità multiple in generale”. In linea con queste indicazioni è la necessità di non appoggiarsi su pregiudizi legati alle diverse origini etniche delle persone nel valutare la loro percezione della disabilità: “Due persone dello stesso paese e religione possono vedere la disabilità in modi molto diversi. Di conseguenza, esiste il rischio che le categorie ‘ufficiali’ delle percezioni influenzino il comportamento di autorità e ONG, dal momento che esse presumono che un cliente pensi e agisca in un certo modo”.
Nella costruzione di un nuovo sistema di protezione sociale “multidimensionale”, un ruolo fondamentale hanno le associazioni e le ONG. Al momento, tuttavia, queste ultime risultano poco preparate ai problemi specifici delle persone migranti in situazione di handicap. Da un lato, emerge un problema economico: “Molte ONG attive devono sopravvivere con risorse finanziarie molto ristrette, il che ovviamente incide sulla ampiezza e qualità delle azioni”. Dall’altro, l’attuale organizzazione delle associazioni per singoli settori inficia la loro capacità di trattare problemi a più dimensioni: “Molte associazioni di immigrati in Finlandia sono ancora organizzate piuttosto debolmente o non hanno sufficienti risorse per concentrarsi sulla questione disabilità [mentre] le associazioni della disabilità sono piuttosto forti in Finlandia. Comunque, le questioni dell’immigrazione sono ancora abbastanza nuove per esse e mancano conoscenza, strumenti e risorse”. Ne deriva la necessità di maggiore ricerca, anche a livello accademico, e scambio di informazioni. In questo senso va il progetto, attualmente in fase iniziale, di una rete informativa tra le associazioni che si occupano di immigrazione e disabilità, a partire da Finlandia, Svezia e Danimarca e con il supporto dell’European Disability Forum. Anche Pölkki comunque ammette che “nel centro formiamo le associazioni di disabili su questioni migratorie e buone pratiche, ma siamo ancora all’inizio del nostro lavoro”.

Revisioni strutturali
La struttura dei sistemi di welfare europei si è sempre basata su una divisione per settori: l’ufficio stranieri, l’ufficio disabili, l’ufficio case popolari… Questa suddivisione è nata dalla crescente complessità degli strumenti utilizzati per ogni tipologia di utenza, in base a una logica della “divisione del lavoro” che, in termini socio-economici, avrebbe portato a un “vantaggio competitivo” nel trattamento delle problematiche di ogni settore. Si potrebbe discutere quanto questa evoluzione storica abbia risposto e risponda a competenze realmente distinte, e quanto alla complicazione e burocratizzazione delle norme di gestione interne al sistema stesso, ma non è questo il principale difetto che imponga ripensamenti. Più sostanziale è la critica secondo cui la divisione del lavoro risponde all’esigenza di produrre beni sempre più differenti tra loro, mentre il prodotto del sistema di welfare è il benessere complessivo dell’utente; questo, pur rimanendo lo stesso utente (certo, gli può venire la schizofrenia girando decine di uffici, come capitava a Asterix e Obelix in una loro avventura…), tende ad avere più esigenze strettamente collegate tra loro. L’assetto attuale vede invece l’immigrato con disabilità trattato dai servizi talora come extra-comunitario, talora come disabile, con una rete tra gli operatori ancora carente e quindi una segmentazione innaturale delle sue esigenze.
Di fronte al mutare delle condizioni sociali, e in particolare all’aumento nelle società occidentali di immigrati che vivono, oltre a quelli legati alla propria origine, bisogni finora “tipici” delle popolazioni autoctone, occorre dunque una revisione sistemica, e di conseguenza con tempi paragonabili a quelli in cui si è costituita l’assistenza sociale odierna – anche se, dato che i sistemi di welfare europei risalgono agli anni ’40 del XX secolo, è lecito augurarsi un processo un po’ più veloce.
 

Una scuola, due lingue: l’integrazione dei bambini sordi nella scuola comune

( Fonte: Scheda sintetizzata da www.piemonte.istruzione.it/scuola-settimana/cossato.shtml )

A partire dall’a.s. 1994/95 presso la Scuola dell’Infanzia Statale di Cossato Centro e presso la scuola primaria di Cossato Capoluogo è in atto un progetto di bilinguismo "Lingua Italiana dei Segni (LIS)
Lingua Italiana" per l’integrazione dei bambini sordi nella scuola comune.
Dal 2002/03 il progetto è proseguito nella scuola secondaria di primo grado "Leonardo da Vinci" di Cossato, in rete con la Direzione Didattica.
Il progetto è finanziato con un Accordo di Programma che coinvolge la Provincia di Biella, la Regione Piemonte, il Comune di Cossato, il Consorzio dei Comuni Biellesi, il Comune di Biella, il CISSABO, l’IRIS, l’ASL 12, e con un protocollo di Intesa con la Fondazione Cassa di
Risparmio di Biella.
Il progetto si propone di integrare i bambini sordi nella scuola"comune", formando un gruppo di alunni sordi (vi è la necessità che i sordi stiano con altri sordi) che acquisiscono la LIS come lingua
naturale + alunni udenti che impiegano la LIS come seconda lingua il più precocemente possibile (cioè partendo dalla scuola dell’infanzia) con l’apporto di operatori esperti in LIS (interpreti e docenti LIS).
Gli alunni sordi frequentano regolarmente la scuola per l’intero orario (8 ore giornaliere nella scuola dell’infanzia e nella scuola elementare; tempo prolungato nella scuola media).
Nella scuola dell’infanzia i bambini sordi formano, con altri bambini udenti, un gruppo omogeneo per età; con tale gruppo, oltre alle normali maestre, operano l’insegnante di sostegno, l’educatore sordo e l’interprete LIS.
Il gruppo di bambini sordi più udenti (col supporto delle figure specializzate) partecipa ai normali "laboratori" previsti dall’organizzazione didattica della scuola e, per circa un’ora al
giorno, al "laboratorio di LIS" (inteso come laboratorio di seconda lingua per i bambini udenti e di lingua naturale per i bambini sordi) con la guida dell’educatore sordo.
Nella scuola elementare e nella scuola media gli alunni sordi, insieme con i compagni udenti, seguono le normali lezioni con il supporto dell’interprete, dell’insegnante di sostegno e del docente LIS.
In orari stabiliti, tutti gli alunni frequentano il "laboratorio di LIS"con la guida del docente LIS.
Il bilinguismo favorisce l’integrazione degli alunni sordi con quelli udenti: infatti, comunicando con due lingue diverse, c’è la possibilità di un completo scambio di conoscenze. E’ in pratica un doppio canale di informazioni che passa attraverso la LIS e la Lingua Italiana.
Gli alunni sordi e gli alunni udenti imparano naturalmente e usano
quotidianamente la LIS per comunicare fra loro, con l’aiuto
dell’interprete o dell’insegnante di sostegno.
Gli alunni sordi seguono le normali attività scolastiche, come i compagni udenti. Le attività con gli alunni sordi sono svolte privilegiando la comunicazione visiva, basandosi sulla cultura delle
immagini che risulta fondamentale nello sviluppo del bambino.
Le attività sono programmate settimanalmente da tutti i docenti insieme con gli operatori esperti e gli interpreti; il progetto è verificato periodicamente con il servizio di logopedia di Biella; il progetto stesso è inoltre supportato dalla consulenza del C.N.R e dal Mason Perkins Deafness Fund.
Dall’a.s. 1999/2000 è iniziato un progetto di verifica e monitoraggio sistematico delle competenze raggiunte dai bambini sordi e udenti nella Lingua dei Segni. Dall’anno 2000/01 è anche
iniziato un progetto di verifica e monitoraggio degli aspetti psicosociali e relazionali fra bambini sordi e udenti.

Insegnanti
Le insegnanti curricolari attuano le metodologie e l’organizzazione progettata nell’ambito della programmazione educativa e didattica, e si dedicano prevalentemente all’intervento educativo e didattico rivolto a tutti i bambini, udenti e sordi. Tutte le insegnanti hanno frequentato o
frequentano appositi corsi di LIS organizzati annualmente dalla scuola.
Viene inoltre mantenuto un confronto continuo con le logopediste e il gruppo di lavoro sia sull’impostazione delle attività didattiche, sia sulle difficoltà che la situazione comunicativa può porre. L’insegnante di sostegno svolge il ruolo di mediazione fra la comunicazione verbale
del gruppo degli udenti e le esigenze dei bambini sordi, affiancando
costantemente la figura dell’operatore docente LIS e dell’interprete.

Interprete LIS
Questa figura ha il compito prevalente di tradurre agli alunni sordi quanto viene detto dalle insegnanti. Funge inoltre da supporto linguistico per le insegnanti curricolari e di sostegno. Altro ruolo molto importante è quello di fornire agli adulti udenti un modello di corrette modalità di total comunication in un ambiente misto di sordi e udenti.

Educatore docente sordo
Nella scuola dell’infanzia (educatore sordo) questa figura ha una
triplice funzione:
essere presente durante le attività didattiche della mattinata come adulto sordo che utilizza e propone a tutti i bambini, e in particolare ai bambini sordi, la LIS. In questo modo i bambini sordi sono inseriti in un tipo di comunicazione per loro accessibile e possono ricevere tutte le informazioni riguardo le attività svolte. Gli altri bambini hanno la possibilità di riferirsi anche a questa lingua per loro nuova. Precedentemente le insegnanti hanno comunicato all’operatore sordo i contenuti delle attività tramite la mediazione dell’insegnante di sostegno dell’interprete, permettendogli di inserirsi positivamente nel contesto delle attività medesime;
Curare il laboratorio di apprendimento della LIS frequentato dal gruppo misto (alunni sordi + udenti);
Fungere da insegnante di LIS per le insegnanti nei corsi di aggiornamento e formazione.

Nella scuola elementare e nella scuola media:
Gestire il laboratorio di apprendimento della LIS frequentato dal gruppo misto (alunni sordi + udenti);
Svolgere il ruolo di referente linguistico per gli insegnanti;
Fungere da insegnante di LIS per le insegnanti nei corsi di aggiornamento e formazione.

La scuola: Direzione Didattica di Cossato
Piazza Angiono, 24
13836 Cossato (Biella)
Tel: 015 93019 Fax: 015 9840126
email: d.d.cossato@libero.it <mailto:d.d.cossato@libero.it

Scheda sintetizzata da www.piemonte.istruzione.it/scuola_settimana/cossato.shtml

Per approfondire: "UNA SCUOLA, DUE LINGUE – L’esperienza di bilinguismo della scuola dell’Infanzia ed Elementare di Cossato" FrancoAngeli Milano, nell’ambito della collana "Scienza della formazione").