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Autore: admin

Il pallone è rotondo, il razzismo è quadrato, Superabile, Ottobre 2013

Ma voi siete mai entrati nello stadio più antico d’Italia?
A me è successo giovedì scorso, il 26 settembre, quando ho solcato con le mie ruote la pista dell’Arena Civica di Milano, sorta sotto la bandiera napoleonica e dal 2002 dedicata alla memoria del grande giornalista sportivo Gianni Brera.
Una testimonianza, quella che vi propongo, legata a una giornata storica per il gioco del calcio e per la lotta al razzismo, organizzata nell’ambito del progetto "W il Calcio!", promosso dalla cooperativa sociale Accaparlante e dall’associazione Bandiera Gialla. Un vero e proprio torneo, il primo, intitolato a Arpard Weiz, ebreo ungherese ex allenatore e vincitore con Bologna e Inter di tre scudetti e una coppa internazionale, vittima nel 1944 delle leggi razziali che lo costrinsero all’esilio e uccisero lui e la sua famiglia.
A riprenderne la storia le belle immagini del racconto a fumetti di Matteo Matteucci già autore di "Storie brevi di argomento calcistico".
Così su questo sfondo epico e simbolico si sono sfidate le squadre di "W il Calcio!" e della Camera del Lavoro di Milano/Consiglio Comunale/Radiopopolare in una partita senza esclusione di colpi per due formazioni veramente "inclusive", composte da disabili, giovani e meno giovani, ragazze e stranieri.
Al di là del dignitoso 5 a 2 con cui ne siamo usciti, mentre osservavo la partita, ho riconosciuto un’immagine piuttosto interessante che si può riassumere in una frase: il pallone è rotondo, il razzismo è quadrato.
Se il pallone è avvolgente infatti, cerchio che unisce e che ingloba, il razzismo è pieno di spigoli, divide, inquadra le persone e crea distanze incapaci di incontrarsi…
Interessante, non credete? E voi, siete rotondi o quadrati? Scrivete a caludio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

Corpo, gabbia o specchio? Il messaggero di Sant’Antonio, Ottobre 2013

Vorrei tornare a riflettere su un tema sul quale ultimamente, rispetto al torpore culturale diffuso, sembra essersi risvegliata l’attenzione, scatenando numerosi dibattiti. Mi riferisco alla sessualità e all’affettività delle persone con disabilità. È un argomento delicato e sentito da molti come fondamentale, che negli anni Settanta e Ottanta è uscito per la prima volta allo scoperto e che ha prodotto ricerche, approfondimenti e narrazioni per quel periodo decisamente innovative e destabilizzanti. Tornare a parlarne oggi significa affrontare un nuovo genere di sfida che non va più a soffermarsi sul riconoscimento e l’accettazione del bisogno, ma che vuole spostare ulteriormente i confini del concetto di «differenza» passando dalla rivendicazione del diritto alla sua affermazione.

Mi spiego meglio. Cominciamo intanto con lo sfatare un preconcetto diffuso sul connubio disabilità-sessualità: non esiste una sessualità dei disabili e una sessualità dei normodotati. Esiste «la» sessualità, vocabolo ampio, spesso frainteso e circoscritto alla genitalità. La sessualità, invece, è molto di più, è comunicazione, empatia, relazione e cura di sé. L’immagine che ci ha tormentato per decenni, quella del disabile angelico e immacolato, privo di identità e, di conseguenza, di sessualità, inizia finalmente a stravolgersi. Eppure, quando si incontra una coppia formata da un disabile e da un normodotato, l’associazione di idee più naturale è pensare subito a un rapporto univoco, quello tra assistente-assistito, badante-badato, educatore-educato. Come spesso succede, è questione di immagini, ma è proprio attraverso le immagini – mentali e non – che la cultura si costruisce, muta e solidifica. Nessuno ne è immune, nemmeno la persona con disabilità, ed è proprio su questo terreno che si troverà a vivere e ad affrontare la sua realizzazione. Infatti, «la conoscenza, la visibilità, è davvero la chiave di tutto», come sostiene la psicoterapeuta e sessuologa Priscilla Berardi.

Ma c’è di più. Perché parlare di realizzazione? Perché parlare di sessualità e affettività è parlare di questioni personali in senso stretto, questioni, cioè, che hanno a che fare con l’individualità, l’autostima e la fiducia, con il momento del mostrarsi e del di-mostrarsi. Il corpo dell’altro è sempre un’incognita e ci mette profondamente in discussione perché diverso, soprattutto quando fatica a riconoscersi. Percepire il proprio corpo come rigido e frammentato implica, infatti, il più delle volte non comprenderne del tutto le potenzialità. Addirittura, se ci si ferma alla superficie, può trasformarsi in gabbia. Ma è proprio qui che l’altro può entrare in gioco e il corpo diventare complice, come uno specchio.

La sessualità è materia complessa e affascinante, ricca tanto di suggestioni che di contraddizioni. Mi piacerebbe condividerle con voi i prossimi 8, 9 e 10 novembre al Convegno Erickson di Rimini dove, insieme con la collega giornalista Valeria Alpi, terrò un laboratorio dal titolo, per l’appunto, Il corpo degli altri.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Fossi figo… , Superabile, Settembre 2013

Non mi piace annoiare i miei lettori. Ma i temi del corpo, dell’estetica e della sessualità sono, nel mondo della disabilità (e non solo), argomenti scomodi, delicati e complessi su cui è praticamente impossibile mettere fine alla discussione. L’esperienza concreta è come sempre l’aspetto più interessante.

Ce lo dimostrano alcune testimonianze che qualche tempo fa ho raccolto nel dialogo con alcuni colleghi del Centro Documentazione Handicap di Bologna, a cui ho proposto una serie di miei articoli che hanno aperto stimolanti variazioni sul tema. Tra queste l’immagine e la percezione del proprio corpo fino al rapporto con quello dell’altro che ha spinto tutti a ripartire dal proprio vissuto.

Il convegno Erickson di Novembre, come già annunciato, è alle porte e questi saranno senz’altro punti di discussione indispensabili . Senza la conoscenza del proprio corpo infatti è impossibile rapportarsi con quello degli altri, così come avere consapevolezza dei proprio limiti e delle proprie qualità.

Le disabilità e le carte anagrafiche dei miei colleghi sono le più varie. La maggior parte però, ha raccolto e affrontato la sfida di raccontarsi con ironia e sincerità, con tutte le difficoltà del caso, perché parlare del proprio corpo, soprattutto quando è così "diverso" dai canoni mediatici, è comunque un’impresa.

Stefania Baiesi, ad esempio, una delle mie storiche colleghe con disabilità, ci offre una testimonianza che fa proprio al caso nostro.

Le sue considerazioni partono dall’atteggiamento e dalla relazione vissute con l’altro sesso: "Non mi sono mai sentita provocante – scrive Stefania- sono sempre stata convinta di non avere fascino e di conseguenza facevo fatica a rapportarmi con l’altro sesso". Per poi gettare uno sguardo sul proprio aspetto e la propria estetica, dalla difficoltà a accettare il busto, brutto ma necessario per vivere: "…Come accettare un busto che è antiestetico di per sé, come posso non farlo vedere?…" alla ricerca della soluzione "…alla fine ho trovato delle spille che hanno una doppia funzione: chiudono i vestiti, coprono il busto, e sono molto carine!".

"…Da piccola in famiglia- prosegue- mi costringevano a tenere i capelli corti, per una questione di comodità… Il mio primo parrucchiere l’ho conosciuto a più di vent’anni, quando sono andata fuori casa, in una struttura semiresidenziale, dove, per la prima volta, ho avuto l’occasione di scegliere taglio e colore…"

E si potrebbe andare avanti a lungo… Molti gli elementi messi sul piatto, dal diritto/dovere di chiedere (anzi, in certi casi pretendere) una propria autonomia estetica fino all’accettazione di se stessi, attraverso un difficile percorso di crescita e di lavoro sull’autostima.

Personalmente credo che divulgare certe esperienze sia fondamentale, specie per tanti giovani, con disabilità o meno, che stanno scoprendo il proprio corpo e possono capire e immedesimarsi in certe situazioni di vita.

E voi vi sentite provocanti? Come curate il vostro corpo? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Caro Papa ti scrivo, Messaggero di Sant’Antonio, Settembre 2013

Caro papa Francesco, un nome, una garanzia. Sono passati alcuni mesi da quel «Buonasera» con cui hai aperto il tuo pontificato, condiviso fin da subito con tutti. Il verbo «pontificare», d’altronde, significa «costruire ponti», e tu in questi tempi ne hai gettati davvero molti… Non sto qui ora a elencarli tutti, ma ci sono dei gesti che, anche se piccoli, possono diventare rivoluzionari. Anzi, proprio perché piccoli sono emblema di un cambiamento. Parlo di una metamorfosi di pensiero e di cultura della relazione che si misura nei fatti, e non solo nelle parole.

Vorrei ora fermarmi un momento, sospendere il tempo, così come accade quando tu fai arrestare la papamobile per scendere tra la gente, scatenando il panico nelle tue guardie del corpo. Vorrei ricordare, in particolare, quel giorno in cui, nel mezzo della folla, ti sei avvicinato senza esitare a una persona con disabilità e l’hai abbracciata, baciata e sollevata. Un gesto importante, che segna un cambiamento di prospettiva notevole e che, concedimi, prima d’ora non si era mai visto. Hai mostrato che un conto è accarezzare una persona, un conto è sentirne il corpo su di sé, compresi, nel caso della disabilità, i suoi odori e le sue deformità. Significa mettersi nel corpo dell’altro, assumerlo su di sé come il proprio. Certo è un gesto «scandaloso», che arriva a mettere in crisi tutte le nostre sicurezze e che va ben oltre il semplice gesto di carità. Aquesto proposito ricordo anche quando, durante una delle tue omelie, hai detto ai sacerdoti: «Siate pastori con l’odore delle pecore». Ecco, è proprio questo il punto. La Chiesa deve saper annusare l’odore della disabilità, immergersi, mischiarsi e imbrattarsi all’interno di quei contesti che tutela e protegge, ma che non sempre frequenta nell’intimità.

Certo è un odore scomodo, difficile da sostenere, accettare e accogliere. Molto più facile sarebbe allontanarlo, respingerlo o al massimo compatirlo, perché, diciamocelo, è un odore sgradevole. Eppure tu hai lasciato che impregnasse la tua veste, un po’ come il tuo gesto ha fatto nella memoria dei presenti e di quanti lo hanno seguito sullo schermo. Se questo è accaduto è perché la tua azione – il tuo fermarti e sostare – non è stata neutra ma ha provocato movimento, caos, rumore, ha rotto, cioè, uno schema consolidato di rispetto, soggezione e distanza.

È proprio ciò che accade quando si fa integrazione: si genera baccano, disordine, si percepiscono nuove vite e nuove presenze. Perché l’integrazione non è mai statica, è sempre dinamica. E tu, con il tuo esserti messo in gioco, hai dato l’esempio. Un ritorno alle origini al quale, come il Francesco di cui porti il nome ci insegna, la Comunità deve continuare ad aspirare. Credo sia questa, in fondo, la vera scommessa del nuovo millennio: una Chiesa che torni a comunicare e condividere con il popolo le proprie origini, senza avere paura di annusare tutti gli odori, anche i più pungenti.
Detto questo, ora purtroppo il mio spazio è finito e non posso aggiungere altro, se non rivolgerti il mio più sentito grazie per i tuoi gesti rivoluzionari che spero si moltiplicheranno. Ciao.

E voi di quali gesti rivoluzionari siete stati protagonisti? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo Facebook.

 

Figli delle stelle, Superabile, Luglio 2013

"Siamo fatti dello stesso materiale di cui sono fatte le stelle". Poesia o verità scientifica? Bisognerebbe chiederlo all’astrofisica Margherita Hack, fiore all’occhiello della ricerca italiana, che di questa ormai celebre frase ha fatto la sua firma.

Una frase che mi è tornata in mente in queste sere d’estate, ora che la magica notte di San Lorenzo si avvicina e il mondo se ne sta con il naso all’insù, aspettando di scorgere la scia di qualche stella cadente a cui affidare i desideri più segreti o facendo a gara a chi ne vede prima e di più. Margherita, che oggi dal suo cielo ci guarda, l’ho incontrata qualche anno fa sul palco del Politeama di Prato, con lei e il dottor Marco Armellini ospite dell’incontro "La mia buona stella", condotto dal giornalista Federico Taddia e promosso dall’Associazione Il Geranio. Ma che cosa c’entrano, vi chiederete, le stelle e l’Universo con la disabilità?

Ha a che fare con il concetto e l’esperienza del limite, con la sua scoperta e la sua condizione in sé e per sé.

L’Universo, ci raccontava infatti Margherita, è illimitato mentre la disabilità, aggiungo io, è limitata.

Su questo abbiamo duettato per due ore di fronte a cinquecento ragazzi, gli studenti della Provincia di Prato, esplorando i confini e le contaminazioni tra scienza e quotidianità per scorgerne similitudini inaspettate.

La disabilità infatti ci pone sempre a confronto diretto con limiti non solo immaginari ma fisici e concreti e allo stesso tempo con un altro concetto che con l’Universo ha molto a che fare…Sto parlando dell’ignoto , di ciò, ovvero, che ci appare lontano, sconosciuto e inaspettato. Eppure, pensateci, l’ignoto è anche un concetto estremamente affascinante che implica immaginazione, scoperta e la capacità di lasciarsi andare. Ci vuole coraggio per gettarsi in quello che a prima vista può apparire un buco nero senza uscita ma quando lo facciamo ci scopriamo senza forza di gravità, proprio come gli astronauti in missione nello spazio.

Bisogna guardare in alto, alle stelle per conoscere l’immensità di noi stessi e dell’altro. E voi, quanto guarderete le stelle in queste notti d’agosto? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

 

Bes o non bes? Questo è il problema?, Superabile, Luglio 2013

Scuole chiuse, dibattiti aperti.
Per la gioia di molti studenti anche per quest’anno è andata. La scuola è finita, rimane qualche maturando alle prese con gli orali, poi i nostri ragazzi penseranno a godersi questa caldissima estate. Ancora una volta ci troviamo a tirare le somme, a fare considerazioni. Lo scorso settembre avevo scritto alcune riflessioni sulla drammatica situazione economica della scuola pubblica italiana, proponendo la creatività come strumento anticrisi.
Ora a far discutere c’è una novità importante. Con la circolare n.8 del 6 marzo scorso sono arrivate indicazioni concrete per l’attuazione della direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali, i cosiddetti “BES”.
La direttiva riguarda chiaramente gli alunni con disabilità ma non solo, i “BES” comprendono persone in situazioni di difficoltà eterogenee, dallo svantaggio linguistico a quello culturale o sociale. Qui si è già aperto un confronto. In molti temono che il provvedimento porterà ad un sostanziale taglio degli insegnanti di sostegno tanto che l’acronimo “BES” è già stato trasformato da alcuni in “bisogna eliminare il sostegno”.
Scuole chiuse dunque, ma dibattiti più che mai aperti.
La prima impressione che mi ha dato la circolare è buona. Ma aspetto a fare delle valutazioni, troppe volte ho scritto e parlato della centralità, dell’importanza vitale che ha il ruolo dell’insegnante di sostegno nel percorso educativo e formativo degli alunni con disabilità. La definizione stessa di “insegnante di sostegno” andrebbe a mio parere rivista, indicatrice com’è di una differenza che troppo spesso finisce per escludere insegnante e alunno disabile dai percorsi e dalla vita della classe, di cui finisce per fare parallelamente parte. Non è su questo principio che, negli anni Settanta, prese avvio la Legge sull’integrazione.
Gli addetti ai lavori sono più che mai divisi. Carlo Scataglini, professore dell’università dell’Aquila ed insegnante di sostegno, ha addirittura lanciato una petizione per bloccare gli effetti della riforma.
Altri esperti come Salvatore Nocera, vice presidente della FISH, e Dario Ianes, professore e fondatore del centro studi Erickson, sono invece fiduciosi sulla qualità e la forza inclusiva della direttiva.
La stessa Erickson, come ogni biennio, dall’8 al 10 novembre organizzerà a Rimini il consueto importante convegno sull’integrazione scolastica. Parteciperemo anche noi del Centro Documentazione Handicap con un workshop, e sarà l’occasione per guardarci in faccia e discutere liberamente, tra le tante, la questione BES.
In attesa della prova del nove, che avremo a settembre con l’avvio dell’anno scolastico, mi piacerebbe conoscere la vostra posizione…
Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

Cambia l’aria in ospedale, Il messaggero di Sant’Antonio, Giugno 2013

Si sta avvicinando un periodo critico per il mondo della disabilità. Il sole e l’afa accompagnano le nostre ultime lunghe giornate di lavoro mentre, tra un sudore e l’altro, ci perdiamo a sognare un bel tuffo in acque salate… Insomma, l’estate tanto attesa è finalmente alle porte. Ma allora, vi chiederete, qual è il problema? Non sono forse le vacanze il tempo dello svago, del divertimento e del meritato riposo? Dipende. Anche in vacanza purtroppo non mancano i fattori di rischio, soprattutto quando si parla di disabilità. D’estate la logica della lentezza diventa infatti più pervasiva, e a prendersi una pausa sono spesso anche i nostri servizi, che finiscono in genere per subire un certo rallentamento. Provate a pensare che cosa succede, per esempio, quando, a ferragosto, un disabile si trova ricoverato in un ospedale cittadino o di una qualche località turistica. Di solito in questi casi si tocca ferro…

 

Dal momento che il problema è conosciuto, c’è chi ha provato a fornire una soluzione interessante. È l’ospedale Gemelli di Roma che, insieme alla Cooperativa Spes contra Spem, ha promosso un’iniziativa davvero importante. Mi riferisco alla Carta dei diritti delle persone con disabilità in ospedale, su cui, lo avrete già letto e sentito, si è speso un vivace dibattito. Una vera e propria novità, non solo in termini legislativi ma anche culturali, a partire da un problema concreto: che rischi ci sono se il personale ospedaliero si rivela impreparato all’accoglienza della persona con disabilità? A essere coinvolte sono tutte le figure professionali, dal medico al paramedico fino agli operatori sociosanitari. Il problema esiste: lo dico per esperienza. Anche a me è capitato di entrare in ospedale per sottopormi a un intervento. Non appena mi videro, i dottori optarono per rinviare l’operazione, non essendo preparati a gestire «una simile situazione», che non era la malattia in sé, ma il mio deficit motorio e le sue probabili ripercussioni. Da lì un’interminabile serie di richieste e nuovi accertamenti.

 

Al di là delle legittime preoccupazioni, l’assunto alla base era il solito: più grave è la disabilità, più grave sarà la sofferenza. A fare la differenza è stato l’aiuto della persona che mi ha accompagnato e sostenuto durante tutto il periodo del ricovero, un prezioso tramite che mi ha permesso di comunicare direttamente con il personale ospedaliero. Solo con la sua collaborazione ho potuto rendermi conto della situazione e partecipare alle sue possibili vie d’uscita. È ciò di cui parla con chiarezza anche l’art. 12 della Carta, che concerne proprio la presenza accanto alla persona con disabilità di un familiare, oltre al diritto di ricevere un trattamento personalizzato che tenga conto delle abitudini del singolo. Un’adeguata formazione degli addetti potrà sicuramente aumentare la qualità dell’accoglienza della persona disabile in ospedale, trasformando così anche la sofferenza in un’inattesa opportunità comunicativa. Creare una Carta dei diritti è come aprire una finestra. Cambia l’aria. E voi, siete mai stati ricoverati?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook. 

Gli urti della vita, Il messaggero di Sant’Antonio, Maggio 2013

Un ritornello celebre, quello di Luca Carboni e della sua Ci vuole un fisico bestiale. Uno di quei ritornelli da cantare sotto la doccia e che recita: «Resistere agli urti della vita». Una frase che ora ci chiama a riflettere sulla triste vicenda di Oscar Pistorius, prima protagonista di sfide olimpioniche e sociali d’esempio per tutti e ora comparsa fissa nella cronaca nera delle pagine dei principali giornali.
Non voglio in questa sede ripercorrere o entrare nel merito del gesto di cui Pistorius è accusato, mi interessa piuttosto ragionare con voi sull’eco culturale di questa storia drammatica. Tra le tante lettere che ho ricevuto, lettere di delusione e rammarico per il crollo di un mito tanto amato, ce n’è stata una in particolare che ha catturato la mia attenzione. Elena, l’autrice della lettera, invita a soffermarci su un concetto importante: la responsabilità del mito. Una responsabilità, a ben vedere, che il mito non ha scelto, ma che gli è stata attribuita dal pubblico, fomentata da immaginari collettivi in virtù, talvolta, dei propri desideri di rivalsa e riscatto.

È chiaro che di modelli c’è sempre bisogno: ci permettono di andare avanti e di accompagnare i nostri sogni e le nostre battaglie quotidiane. Ma, il caso Pistorius lo insegna, i modelli non sono infallibili. Lo scarto, continua Elena, è proprio qui. Una vicenda del genere, pur essendo tragica, si inscrive purtroppo nell’ambito della normalità. Perché di titanio, Pistorius ha solo le gambe. Le persone diversamente abili non sono per forza migliori dei normodotati, ed è giusto che sia così.
L’essere dei leader, mi chiedo a questo punto, può rivelarsi alla lunga un peso insostenibile? Se il personaggio si libera della propria facciata, di lui che cosa resta? Si potrebbe fare questo stesso discorso per molti altri, come la giovane Beatrice Vio, detta Bebe, priva dei quattro arti e osannata da tutti a prodigio della scherma, la quale, in fondo, è solo una ragazza comune che un giorno, proprio come chiunque altro, potrebbe improvvisamente e dolorosamente scoprirsi tale.

Sopportare questo ruolo non è affatto facile. Bisogna davvero, come cantava Luca Carboni, avere un fisico bestiale e imparare a dosare le forze, altrimenti si rischia di soccombere, una sensazione che, nel mio piccolo, provo anch’io in tante situazioni. Nelle attività scolastiche, nei convegni, nelle interviste, sento il «dovere» di ponderare i miei atteggiamenti, di sbagliare il meno possibile per il ruolo che rivesto. Riconosco che alcune volte fatico a gestire questa pressione.
Il rischio, con la disabilità, è sempre lo stesso: o sei uno storpio da buttare giù dalla Rupe Tarpea o sei quasi una divinità.
Lo sapevano bene i Greci, che ci hanno regalato due esempi perfetti, Edipo, zoppo e bandito dalla nascita in previsione della sua colpa incestuosa, e Tiresia, l’indovino cieco portatore della verità del Fato. L’importante, al solito, è non estremizzare. Il confine è sottile, quasi invisibile, ma c’è ed è palpabile.

E voi, vi sentite più eroi tragici o più indovini?

 

Tutta mia la città, Superabile, Aprile 2013

Come può un disabile grave divertirsi con i Lego? Io non ho mai avuto problemi. Ricordo ancora con gioia la soddisfazione immensa di costruire case, negozi, strade e rotonde piene di segnali nella mia personale piattaforma cittadina, grande due metri per due. Quanto tempo passato a immaginare e a inventare, mattone su mattone, gli edifici della mia città! Ora vi chiederete come un bambino con tetraparesi spastica potesse essere un tanto abile architetto, ingegnere e costruttore.

Basta poco con un pizzico di fantasia, sbuzzo artistico e un po’ di manovalanza! A comporre la mia impresa edile c’erano infatti le operose manine dei miei più cari amici che partecipavano al gioco, seguendo le mie direttive e aggiungendo, di volta in volta, qualcosa di proprio.

Ma perché vi sto raccontando tutto questo? Per parlarvi di un’iniziativa molto interessante, segnalata, tra gli altri, anche dal mio amico Franco Bomprezzi sul blog Gli invisibili.

Si tratta di Orsoazzuro.it, uno store on line pensato per il commercio e la vendita di giochi per bambini con disabilità. Giochi creativi e utili a tutti, dal design accattivante, adatti ai "bisogni speciali" di ognuno di noi.

All’interno anche un blog, curato da Federica Dosi, una delle ideatrici del portale, che fornisce suggerimenti e consigli a famiglie e curiosi sugli acquisti più indicati. Simpatica proposta è anche la Gift Card, un buono acquisto e una soluzione alternativa che non ci obbliga a rivolgerci necessariamente ai genitori quando vogliamo fare un regalo originale ai nostri piccoli amici.

Il gioco è fatto per essere giocato, non è né terapia né ausilio, è puro divertimento, libertà, comunicazione e sfogo creativo, oltre che un’importante occasione per fare gruppo e crescere insieme.

Poter poi accedere on line a questo bel "paese dei balocchi" rappresenta un’altra piccola ma non trascurabile novità, considerato che la maggior parte dei giochi per bambini con deficit è oggi ancora concentrata in negozi specializzati o nei sanitari. L’Orso azzurro è proprio una bella occasione, per tornare bambini, sognare e lasciarsi andare.

Per saperne di più vi consiglio di andare a visitarlo mentre io continuo a costruire la mia città.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mio profilo di facebook.

 

Corri fratello! Superabile, Aprile 2013

Sono venuto a conoscenza dell’incredibile storia dei due fratellini statunitensi, Conner e Cayden Long solo alcuni giorni fa, grazie a un bell’articolo del mio amico Claudio Arrigoni, pubblicato sul blog Invisibili del Corriere della Sera. Ho pensato alle numerose iniziative, proposte e impegni che in questi ultimi anni abbiamo speso sul tema dei siblings, fratelli e sorelle di persone con disabilità.

Soprattutto mi è tornata in mente una vivace corrispondenza, tenuta lo scorso anno con un lettore, un insegnante di sostegno, a proposito del Team Hoyt, esperienza sportiva che molto si avvicina al Team Long, la squadra per l’appunto dei giovanissimi Conner e Cayden.

La loro storia di siblings è quasi commovente, basta guardarli nella foto che li ritrae al traguardo, per capire con quale soddisfazione e divertimento i due piccoli abbiano affrontato insieme l’impresa (il triathlon è davvero uno sport durissimo!). Una sfida nutrita dall’amore, che rende palese un rapporto empatico forte e superfluo e retorico qualsiasi altro discorso su bontà d’animo e altruismo.

Non mancano tuttavia, a mio parere, alcune piccole ambiguità…

Per questo accennavo prima al Team Hoyt e al mio vecchio trascorso "epistolare". Mi si chiedeva un parere sull’utilità di questo sport (anche in questo caso competizioni di triathlon e maratone) allora praticato con impegno dal giovane Rick, ragazzo con disabilità e da suo padre. Prima di rispondere mi informai un po’ di più e quando mi imbattei in internet nel loro video espressi delle perplessità, tanto per cominciare sul filmato stesso, costruito con un pietismo all’americana decisamente eccessivo.

Mi chiedevo allora quale fosse il compito di Rick, che, senza un’idea creativa, rischiava di rivestire un ruolo passivo, trascinato unicamente nella corsa dalla forza del padre. Solo se Rick avesse avuto la possibilità con qualche ausilio di dirigere quella corsa, risposi al mio lettore, ci saremmo davvero trovati di fronte a qualcosa di interessante, capace di andare oltre al puro atto liberatorio.

Sono questi rischi purtroppo molto diffusi, anche quando le esperienze partono da totale buona fede.

Certo è che la foto di Conner e Cayden rende difficile ogni polemica osservazione… la loro è gioia pura, è fratellanza nel senso più alto del termine. E voi cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

 

Oltre il buio, verso la luce , Il messaggero di Sant’Antonio, Aprile 2013

Alcune volte è difficile rappresentare un sentimento o un momento importante con un’immagine. Ad esempio, se penso alla bontà mi viene in mente una colomba bianca, se penso all’amore immagino un cuore rosso che palpita, quando penso alla solitudine vedo un anziano, seduto da solo nell’angolo di un bar. Potrei continuare all’infinito. A ogni concetto corrisponde un’immagine. In questo periodo pasquale il pensiero è andato spesso a Gesù, alla sua passione e, di conseguenza, alla sua risurrezione. Da qui ho maturato il mio sguardo. Mi sono accorto che, mentre la crocifissione rappresenta un’immagine nota, ben visibile e consolidata, la risurrezione manca quasi totalmente di iconografia. Provate, per esempio, a chiedere a un bambino di rappresentare il momento della crocifissione. Si susseguiranno le consuete simbologie, la croce e la sofferenza. Ora fate lo stesso con la parola «risurrezione». Vedrete che ognuno spenderà una propria visione, una propria riflessione o una propria idea, il più delle volte personalissima e originale. Nel mio immaginario c’è una pietra che rotola via e lascia passare un raggio di luce, come suggerito dal Vangelo di Giovanni (20,11-18). In fondo, ognuno ha le proprie pietre da smuovere, pietre grandi o piccole, lisce o ruvide, più o meno pesanti. Pietre che impediscono di guardare oltre ai semplici colori del nostro buio, come tra l’altro cantava Roberto Vecchioni.

Pochi giorni fa ho ricevuto la lettera di un amico. Mi segnalava la storia semplice di un uomo che sta riscoprendo la luce, dopo aver visto il buio. Il caotico buio del coma, in cui era precipitato a seguito di un incidente. Vi lascio alcune sue significative parole. «Buona vita, è quella che sto cercando adesso. E in parte ho ritrovato, o meglio, sto riscoprendo. Mi sono fermato in un momento della mia vita nel quale andava tutto bene: una bella famiglia, un buon lavoro, una bella casa, una vita piena. Poi all’improvviso mi ha risvegliato una voce che spiegava quello che era successo. La voce di mia moglie, l’unica che ricordo. Io ero nel buio, non vedevo, non parlavo, non sentivo il mio corpo. Solo nero e non capivo. Dopo qualche tempo il buio è diventato grigio, il grigio si è trasformato in ombre, le ombre sono diventate forme sfocate».
In questo caso la pietra è rotolata via e la luce è rientrata. Ma non serve un coma per parlare di pietre. Ognuno di noi, infatti, ha una pietra da smuovere, a volte un vero e proprio macigno. Ognuno prima o poi deve fare i conti col passato o col presente, che finiscono per condizionarci oppure, nell’ipotesi migliore, per rimetterci in gioco e spronarci a nuova vita. Credo che per tutti sia possibile uscire dalle proprie perdite di coscienza, dai propri sonni, recuperare e abbandonarsi a quei sentimenti originari e primigeni come l’amore e la fiducia.

Basta trovare qualcosa o qualcuno per cui valga la pena farlo.
E voi, che cosa ne pensate? Raccontatemi le vostre pietre e le vostre risurrezioni. Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Il peso specifico della cultura, Superabile, Marzo 2013

Sono sempre felice quando vengo a sapere che, nonostante le difficoltà economiche attuali, c’è ancora chi si impegna a far cultura. Il 22 marzo, con mio grande piacere, sono stato invitato a Sagliano Micca (Biella) per partecipare con un mio contributo all’inaugurazione di una biblioteca specializzata sulla disabilità e sul terzo settore in generale.

La Biblioteca della Cooperativa Domus Laetitiae è un servizio che si prefigge di contribuire alla promozione della crescita culturale e dello sviluppo sociale sul tema della disabilità e del disagio. Dispone di quasi tremila volumi, che toccano diversi ambiti, dalla cooperazione al counseling, dallo sport alla legislazione e all’integrazione scolastica. Un’iniziativa che mi rende entusiasta perché riconosco l’importanza che possono rivestire la documentazione e l’informazione proveniente da poli culturali di livello, che contribuiscono ad una conoscenza reale dell’educazione alla diversità.

Da più di trent’anni a Bologna (precisamente dal 1981) grazie alla biblioteca del nostro Centro Documentazione Handicap garantiamo un servizio ai cittadini e promuoviamo un’ottica "diversa", una prospettiva nuova. Nel nostro territorio i risultati sono tangibili. Un processo lento ma continuo, che, anche grazie al nostro contributo, vede una conoscenza più approfondita e meno stereotipata del mondo della disabilità.

Sfogliare un libro è come aprire una finestra in una stanza chiusa. Cambia l’aria e, soprattutto, cambia il contesto. Buona lettura a tutti! Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

 

Heidi e Klara, un mondo di storie, Il messaggero di Sant’Antonio, Marzo 2013

Ve la ricordate la piccola Heidi? Sì, proprio lei, la celebre bambina orfana allevata dal nonno tra le montagne svizzere, protagonista del cartone animato degli anni Settanta che ha tormentato la mia adolescenza insieme con l’omonimo romanzo di Johanna Spyri. Qualche mese fa, mentre mi trovavo a Belluno, circondato dalle Dolomiti, mi è tornata in mente proprio lei. Partecipando infatti a un incontro con gli studenti delle scuole cittadine per parlare di relazione e cultura dell’integrazione, ho pensato che Heidi è esempio lampante in tale ambito. Lo si vede bene nel suo rapporto con Klara, la ragazza in carrozzina con la quale la bambina instaura un rapporto d’amicizia affettuoso, ma fin troppo edulcorato.

La vera novità, però, è che quel giorno tra il pubblico, ad ascoltarmi, c’era anche un’altra Klara, anche se poco mitteleuropea. K. è una undicenne marocchina affetta da tetraparesi spastica. Come me comunica, con convinzione ed energia, attraverso la sua tavoletta di plexiglass.
Il nostro incontro, e successivo dialogo, mi hanno subito messo di fronte a una domanda più estesa e complessa, che oggi chiama l’educazione a un confronto sempre più serrato e frequente: se Klara e Heidi fossero nate in Oriente, in Asia o in Africa, che ne sarebbe stato di loro? Che ruolo giocano azione e relazione in contesti in cui la disabilità è più diffusa che in Occidente e meno tutelata, benché, talvolta, paradossalmente più rispettata? I dati emersi nel 2011 dal primo Rapporto mondiale sulla disabilità, condotto da Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e Banca Mondiale, parlano piuttosto chiaro. Il benessere delle persone con disabilità è direttamente proporzionale alla stabilità economica e alle condizioni di vita complessive dei Paesi d’origine. Non è certo una novità, ma fa sempre un certo effetto leggere che «i disabili hanno condizioni di vita pessime – dalla carenza di cibo, alle abitazioni povere fino alla mancanza di accesso all’acqua potabile – rispetto alle persone normodotate».

Si dice che il disagio economico non sia mai la causa primaria, che le ragioni siano quasi sempre da imputare ad altri ordini di fattori: culturali, religiosi e via dicendo. Eppure, dietro, c’è sempre un tutto che si tiene, un meccanismo causa-effetto difficile da arginare: la lotta alla sopravvivenza, la guerra dei poveri. Quando le risorse sono poche, come sempre, si tende al risparmio, a procedere, cioè, con l’eliminazione dello scomodo e del superfluo.

Per l’impiego di forze, personale e strutture che richiede intorno a sé, il disabile, si sa, è già per sua natura scomodo. Inoltre, è pure superfluo perché, almeno in apparenza, non può essere inserito nel ciclo produttivo. È come fare un salto indietro di cinquant’anni e ripartire da zero, ricominciare dai diritti senza dimenticare però che, come diceva il drammaturgo Bertolt Brecht, «prima c’è la pancia, poi la morale». In altre parole, e ideologie poco condivisibili a parte, ciò significa che il rispetto della qualità della vita va di pari passo con la vita stessa.
Capisco che il discorso è molto ampio, difficile da affrontare nel piccolo spazio «diversa-mente». Mi piacerebbe approfondire ancora l’argomento, ci torneremo sopra prossimamente. E voi cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

 

Pronto? C’è un dottore? Superabile, Marzo 2013

Lo scorso 7 marzo nella nostra bella capitale il famoso Ospedale Gemelli ha promosso insieme alla Cooperativa Spes contra Spem, un’iniziativa davvero interessante. Sto parlando della Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in Ospedale, su cui, lo avrete letto e sentito, si è già speso un vivace dibattito. Io purtroppo non ho potuto presenziare all’incontro di lancio ma ho detto la mia in una lettera in risposta a uno degli organizzatori, Nicola Panocchia, che mi aveva gentilmente invitato a partecipare. Ve la ripropongo qui:

"Caro Nicola, ho dedicato del tempo alla lettura della Carta dei Diritti delle Persone con Disabilità in ospedale e mi son trovato d’accordo su diversi punti, in particolare l’Articolo 12, che concerne la presenza accanto alla persona con disabilità di un familiare, il diritto di ricevere un trattamento personalizzato che tenga conto di quelle che sono le abitudini della persona in questione. Altro punto essenziale è la formazione del personale medico, paramedico, infermieristico e quello OSS. L’esperienza infatti mi insegna che molto spesso queste persone "addette ai lavori" non hanno mai "toccato con mano" reali situazioni di handicap.

Per capire meglio di cosa sto parlando vorrei raccontarti brevemente qualcosa circa l’intervento che ho subito nel maggio del 2010. Dopo vari accertamenti la specialista mi fece ricoverare presso una struttura, un fiore all’occhiello della medicina bolognese. Fino a quel momento nessuno dell’equipe medica, di cui ci saremmo avvalsi, aveva avuto il piacere di incontrarmi. Non appena mi videro i dottori optarono per rinviare l’intervento, non essendo preparati a gestire "una simile situazione", che non era la malattia in sé, ma il mio deficit motorio e le sue probabili ripercussioni. Da lì un’interminabile serie di richieste, "nuovi" accertamenti, in cui mi chiedevano una valutazione neurologica (come puoi immaginare negli anni Sessanta non c’è stato nessun neurologo alla mia nascita che abbia detto a mia madre di cosa avrei sofferto, ma è stata lei col tempo a farmi, se così si può dire, una diagnosi, intuendo cioè la mia capacità di intendere e volere). Alla visita ha fatto seguito un elettroencefalogramma. Infine ce n’è stata un ulteriore per verificare la mia capacità respiratoria. Un incontro decisivo, quest’ultimo, (a parte la domanda "Lei fuma?" – cosa che io non potrei mai riuscire a fare) per capire se in caso di intubazione, dopo l’intervento, avrei potuto riprendere a respirare autonomamente o se sarei rimasto come si suole dire "attaccato alla macchina". Indubbiamente questa era per tutti la maggiore preoccupazione. Ho dovuto aspettare tre mesi perché l’ospedale mi richiamasse e potessi procedere all’intervento. Devo dire, tuttavia, che il personale medico e infermieristico e quello OSS, è stato sin dal principio molto attento alle mie esigenze, premuroso tanto nei miei confronti che in quelli della persona che in tutti quei giorni mi è stata accanto.

Non è un dato da trascurare. Avere al mio fianco una persona di cui mi fidavo ha permesso infatti che la comunicazione con i dottori fosse stata sempre alla pari, facilitata dalla presenza di un interlocutore che ben conosceva e poteva spiegare con cognizione di causa le possibili posizioni del mio corpo, dalle visite infermieristiche all’igiene personale. Ma non è finita qui. Prima dell’intervento c’è stata anche la trafila burocratica…La firma del mio procuratore, in cui confermavo la mia volontà di procedere all’intervento, nonché quella della persona che ho citato, testimone dei rischi e delle eventuali complicazioni. Torno a ripetere che si trattava di un intervento di routine per l’ospedale, che normalmente si sarebbe concluso in day hospital. Arrivato il fatidico giorno, ecco poi che insieme a me, in sala operatoria ho trovato ad attendermi circa una ventina di persone tra dottori e tirocinanti…. Anche se all’inizio tutta questa folla mi ha fatto un po’ sorridere devo dire che mi ha anche rassicurato, e mi ha fatto piacere che potesse diventare un momento formativo per i futuri E.R.

Insomma, nonostante tutto una bella sensazione, accresciuta dal fatto di permettere alla persona che mi aveva accompagnato fino a quel momento di essere presente e assistermi durante l’intervento, così che la comunicazione fra me e il personale ospedaliero non fosse mai interrotta, a favore della loro e della mia serenità. Questo è quanto ritenevo utile comunicarti, una testimonianza personale e concreta, che spero ti sia d’aiuto circa il bel lavoro che andrete a fare".

Si parla sempre di barriere architettoniche, io con voi parlo spesso di quelle culturali. Eppure l’esperienza ci insegna che ci sono anche quelle sanitarie. Vi è mai capitato di incontrarle?

Scrivete claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)

 

Stelle in polvere, Superabile, Marzo 2013

"Il fatto è che troppo spesso abbiamo dimenticato che erano solo le sue gambe ad essere fatte di titanio, il suo corpo, il suo cuore, la sua anima, non erano fatti di metallo indistruttibile. Tutti abbiamo sempre dimenticato che lui è un ragazzo normale, e purtroppo anche una vicenda così tragica entra nell’ambito della "normalità". Quanti casi purtroppo simili a questo si sentono ogni giorno… Le persone diversamente abili non sono per forza migliori dei normodotati, ed è giusto così."

Questo è solo uno stralcio di una delle decine di mail che mi sono giunte sul "caso Pistorius". Lettere indignate, di rabbia, di tristezza e di sgomento, persone normodotate e con disabilità che avevano "adottato" un mito, ora ridotto completamente in frantumi. Il caso è indubbiamente terribile, e sinceramente fa male a tutti, al mondo dello sport, al mondo della disabilità e in primis, non dimentichiamolo, a Reeva Steenkamp e ai suoi affetti. Non ci soffermeremo sulla tragedia in sé, anche perché ogni giorno escono nuove notizie, sviluppi veri e falsi. Quello che mi interessa sono le conseguenze culturali di tale gesto.

Un mito, dunque. L’uomo che aveva superato il limite della disabilità, che, pur senza gambe, qualche mese fa aveva sfidato gli uomini più veloci del mondo nella vetrina londinese. Mi domando se non sia proprio qui il fulcro. Non intendo fare un’analisi psicologica, non ne sono capace, mi chiedo solo se, dopo aver sfidato e oltrepassato il confine del riscatto della disabilità, non sia stato in grado di gestire e riconoscere a sé stesso che un limite esiste sempre, per tutti, folgorato da quello che mi sembra un delirio di onnipotenza.

Quanto pesa la responsabilità di essere dei leader? L’onere di essere degli esempi, di essere sempre perfetti, è così duro da gestire?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook. (Claudio Imprudente)