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autore: Autore: a cura di Nadia Luppi

Muyeye: a scuola con Le Parole Ritrovate

A pochi kilometri da Malindi, località della costa kenyana ben nota al turismo mondiale e soprattutto a quello italiano, sorge Muyeye, un piccolo villaggio i cui abitanti non hanno beneficiato in alcun modo dei guadagni e degli affari che crescono tra spiagge, alberghi e resort.
A causa della povertà diffusa, della quasi totale assenza di infrastrutture e delle difficili condizioni di vita cui versa la quasi totalità della popolazione, a Muyeye come nel resto del paese il diritto dei giovani a costruirsi un proprio degno futuro è tutt’altro che assicurato. Al di là delle classi primarie l’offerta formativa della scuola pubblica è minima, e i giovani sprovvisti di un sostegno a distanza o di una famiglia benestante alle spalle non proseguono gli studi poiché non possono sostenere i costi di frequenza degli istituti privati presenti sul territorio. Per far fronte a un simile stato di cose nel 2003 il Governo del Presidente Mwai Kibaki ha approvato una legge con la quale si garantiva l’istruzione scolastica gratuita a tutti, corredata da un piano quinquennale tra le cui azioni rientrava anche l’accoglimento di infrastrutture donate da organizzazioni di cooperazione internazionale. Al piano quinquennale del Governo Kenyano fa riferimento anche il progetto di costruzione della nuova scuola professionale di Muyeye – voluta da una rete di partner italiani e locali – che, completa di laboratori, forni per la cottura dell’argilla, di una piccola sartoria e di aule e strumentazioni specifiche, si propone di dare la possibilità ai giovani della zona di imparare a svolgere una professione, costruirsi un futuro e ritagliarsi un ruolo attivo nella comunità d’appartenenza.
Ciò che rende interessante il progetto “Fare assieme la nostra scuola a Muuyeye” è la rete di partner e sostenitori che lo anima, e soprattutto il fatto che il partner di Itake (associazione di volontariato frusinate capofila del progetto) e di Knut (gruppo di insegnanti kenyani grazie al quale è stato possibile individuare con precisione i bisogni della popolazione locale) è il sistema “Parole Ritrovate”, un movimento di utenti, operatori, familiari e cittadini che riunisce numerose ed eterogenee realtà impegnate in tutta Italia nella realizzazione di attività, manifestazioni ed eventi volti a veicolare un’attenzione positiva verso il mondo della salute mentale. La rete di Parole Ritrovate promuove un approccio partecipativo ribattezzato come “Fare assieme”, grazie al quale ognuno è chiamato a esprimere se stesso e le proprie qualità mettendosi in relazione con gli altri, con la comunità, con il mondo. È questa la strategia proposta dalla rete per sconfiggere pregiudizi e stigma sociale che – accresciuti da un contatto carente e difficile tra malattia mentale e società e dalla propensione dei mass media a trattare certe tematiche soltanto nelle pagine di cronaca nera – rappresentano senza dubbio l’ostacolo più evidente all’inclusione sociale di chi soffre di un disagio psichico.
Renzo De Stefani, primario del Servizio di Salute Mentale di Trento e ideatore del sistema Parole Ritrovate così spiega il significato della collaborazione con Itake per il progetto Fare assieme la nostra scuola a Muyeye: “Abbiamo scelto di prendere parte a questa avventura perché se da un lato era evidente la sua utilità e urgenza per la popolazione del villaggio finora sprovvisto di adeguate strutture scolastiche, dall’altra parte ci è sembrata un’ottima opportunità per veicolare un’immagine positiva del mondo della salute mentale e lavorare assieme per un cambiamento di respiro più ampio in questa direzione”.
“Questo non significa però – precisa lo psichiatra – che il collante del nostro progetto e del legame che vogliamo creare e tener vivo tra Parole Ritrovate e Muyeye debba essere necessariamente la malattia mentale in senso stretto: è vero che un punto fondamentale dell’accordo per la costruzione della scuola verte intorno all’integrazione scolastica di ragazzi che soffrono di un disagio psichico e sulla necessità di porre attenzione a questo aspetto, ma al di là di ciò, vogliamo che sia la vita a farci incontrare… I gruppi che si sono recati a Muyeye durante l’opera di costruzione della scuola, e quelli che vi si recheranno dopo, non partiranno con l’idea di imporre un modello d’integrazione, ma semplicemente andranno in cerca di un incontro, di uno scambio, di un avvicinamento al mondo, tenendo fede ai principi del Fare assieme e a una profonda e volutamente irragionevole fiducia nelle risorse di ognuno e nella possibilità di unirle per cambiare le cose”. Di qui gli sforzi di ogni gruppo per prepararsi alla partenza, per pensare a come sarà l’incontro con chi a Muyeye ci vive, con i bambini e con le loro famiglie, per ideare giochi e attività nelle quali trovarsi e conoscersi. Patrizia, un’utente del Social Point – realtà modenese partner di Parole Ritrovate – prima della sua partenza raccontava elettrizzata: “Adesso con tutto il gruppo stiamo pensando a quali giochi e attività potremmo proporre ai bambini di Muyeye. Chissà, forse giocheremo a calcetto o a pallavolo, e poi pranzeremo e ceneremo insieme, chissà!”.
E mentre a Muyeye la nuova scuola diventava una realtà, in tutta Italia i vari gruppi di Parole Ritrovate erano impegnati a fondo per organizzare iniziative e ideare soluzioni creative per raccogliere insieme i 60mila euro necessari a coprire la quota di partecipazione al progetto e a spesare i viaggi dei propri utenti. Manuela Ciambellini, coordinatrice del Social Point spiega: “Le serate e le iniziative organizzate per pubblicizzare e finanziare il progetto sono state prima di tutto momenti in cui il gruppo di operatori, utenti, famigliari e cittadini si è sentito unito per uno scopo comune, quello stesso scopo che a volte manca e scoraggia gli utenti a uscire dal guscio e a mettersi in gioco nelle relazioni con l’esterno”. Patrizia, che nelle serate di fund raising si occupava insieme ad altri di mixare i dischi, chiarisce sorridendo: “So che stiamo aiutando i bambini di Muyeye a costruirsi un futuro. Se potranno andare a scuola sarà più facile per loro trovare un lavoro, non restare da soli ed essere felici. È per questo che ci impegniamo così tanto”.
Consapevoli della delicatezza che la sfida della partecipazione porta in sé, gli operatori del Fare Assieme hanno accompagnato gli utenti e le loro famiglie attraverso questo progetto, cercando di affrontare e condividere i timori dei genitori: “Alla notizia che sarei partito per l’Africa mia mamma non era proprio tranquilla. Però poi ne abbiamo discusso, e grazie alle voci di mia sorella e di Manuela e degli altri operatori ha compreso anche lei di quale grande opportunità si trattasse… Adesso resta solo la paura dell’aereo” raccontava Luca a poche settimane dalla partenza. “Siamo ben coscienti che in una avventura come questa, dove ripetutamente operatori e utenti sono stati chiamati alla pari a mostrarsi in pubblico con le proprie forze e le proprie debolezze, in occasione delle serate o degli incontri pubblici e più ancora durante i viaggi in Africa, il timore dei propri limiti e del giudizio degli altri avrebbe giocato un ruolo cruciale” afferma Manuela. “È per questo che nel gruppo abbiamo condiviso ogni paura e ogni emozione, cercando di mantenere un buon equilibrio tra il tentativo di evidenziare da un lato la responsabilità e l’importanza del singolo contributo ed evitando dall’altro di far pesare eccessivamente un’assenza, una rinuncia, una piccola defaillance”.
È la dimensione dell’incontro e del cambiamento possibile che anima questo piccolo ma interessante progetto, l’idea di rendere migliore il mondo e dimostrarne di esserne capaci nonostante i propri limiti, nonostante quegli stessi pregiudizi di cui si rincorre il superamento. E ancora l’idea di solidarietà internazionale come incontro e arricchimento reciproco, come opportunità di crescita per tutti grazie all’intreccio di diversità, peculiarità, storie e risorse che insieme possono portare a un miglioramento della società e di chi ci si trova a vivere o a lottare per viverci.

Per ulteriori informazioni:
Le Parole Ritrovate
www.leparoleritrovate.com
Social Point Modena:
e-mail: socialpoint@volontariamo.it

La comunità che riabilita: l’esperienza dei Fisioterapisti Senza Frontiere

Come intervenire sui deficit fisici in Paesi dove la disabilità è affrontata con strumenti sanitari ma anche antropologici e culturali molto diversi dai nostri? Abbiamo intervistato il dottor Enrico Ferrucci, Presidente della sezione emiliana del gruppo di coordinamento “Fisioterapisti Senza Frontiere”, fondato a Bologna nel 1997 con l’intento di veicolare e condividere le esperienze di fisioterapisti che avevano preso parte a progetti di cooperazione internazionale in Paesi in Via di Sviluppo e ragionare sulle diverse modalità d’intervento possibili.

Al centro del vostro metodo di lavoro si collocano i principi della Riabilitazione su Base Comunitaria – consapevolezza, autodeterminazione e costruzione dell’intervento riabilitativo intorno a comunità e soggetto disabile, che ne costituiscono i due imprescindibili punti chiave. Pensate che siano principi applicabili in ogni settore e in ogni luogo o contesto del mondo?
Posto che non esistono principi e modelli applicabili ovunque, e che in ogni contesto occorre fare opportune valutazioni e scegliere via via le strategie d’intervento migliori, è indubbio che questo tipo di approccio risponde in modo efficace a esigenze ben precise riscontrabili nella maggior parte dei PVS.
Mi riferisco da un lato alla povertà diffusa, alla scarsità di servizi sanitari e di operatori professionalmente preparati a gestire la domanda di cure, e infine alla mancanza di mezzi di trasporto e di vie di comunicazione che colleghino i villaggi e i piccoli centri abitati alle poche strutture mediche esistenti.
In contesti simili è indispensabile fare affidamento sulle risorse interne presenti nelle comunità di base, quali il villaggio o il nucleo familiare. In questo senso, concepire l’intervento riabilitativo come un affare della comunità e non una sfida del singolo apre nuove possibilità di inclusione e benessere per il destinatario dell’intervento rendendo più partecipato il suo percorso di recupero, mentre offre alla comunità – intesa come rete familiare o villaggio – l’opportunità di stabilire un contatto con la persona disabile, individuando anche possibili relazioni di aiuto.

Quindi è necessario dare alle comunità gli strumenti tecnici e culturali per potersi attivare nel percorso riabilitativo del soggetto disabile. Diventano cruciali attività di formazione, di trasferimento di competenze e capacità…
Si tratta infatti di uno dei punti chiave della teoria della RBC. Nelle attività di formazione di questo tipo ci si rende ben conto di come piccoli accorgimenti, l’utilizzo di personale con formazione di base, tecnologie a basso costo, possano in realtà produrre dei grandi cambiamenti.
Vorrei chiarire che in questi “percorsi formativi” non si considera la disabilità solo in prospettiva medico-sanitaria, ma si affrontano vari aspetti della questione. Si tratta di un approccio olistico, globale, che riserva grande importanza alla partecipazione del disabile alla vita di comunità non come un peso, ma come una risorsa. Di conseguenza, in una simile cornice di intervento i malati, i disabili e le loro famiglie si sentono meno stigmatizzati, la comunità può offrire loro un sostegno, e si creano di continuo opportunità di confronto e formazione. Sono i membri delle comunità che, acquisite le competenze necessarie, diventano parte attiva nella stesura dei progetti di cui sono destinatari, formulando in modo sempre più preciso richieste di intervento che non sono ancora in grado di soddisfare e per le quali si rimettono agli attori internazionali.

Il rovescio della medaglia di un tale approccio consiste però nell’atteggiamento prevenuto e ostile che la comunità potrebbe mettere in campo. Come vi confrontate con pregiudizi e stereotipi culturali?
Il coinvolgimento della comunità è di per sé una questione molto complessa, di fronte alla quale è necessario approcciarsi consapevolmente. Nel corso delle nostre esperienze abbiamo potuto notare che in linea generale la chiarezza e la trasparenza sui nostri intenti hanno sempre effetti positivi.
Prima di tutto, per coinvolgere l’intera comunità, dobbiamo individuare al suo interno le persone più sensibili ai messaggi di prevenzione e di integrazione che vogliamo diffondere. Stabilendo una relazione con chi è disposto all’incontro, possiamo capire meglio la complessità del contesto e instaurare dei meccanismi di trasformazione, evitando errori e azioni controproducenti.
Pregiudizi e stigmatizzazioni non sono mai eterni, e ritengo sia effettivamente possibile modificare l’immaginario collettivo con l’evidenza dei fatti. Un paraplegico che va su un deltaplano o una ex bambina soldato che organizza un corso di cucina combattono sul piano dei fatti il pregiudizio.
Con questo non intendo sottovalutare l’importanza degli stereotipi culturali. Al contrario se ne consideriamo seriamente la portata, ogni pregiudizio ci suggerisce sempre un possibile approccio per smentirlo.

Per coinvolgere attivamente la comunità e intercettarne più facilmente le risorse, la teoria della RBC suggerisce di conciliare competenze scientifiche occidentali e metodi di guarigione tradizionali. In virtù di questo continuo tentativo di conciliazione cambia in qualche modo anche il rapporto del medico col suo sapere?
Certamente la prospettiva cambia molto. Non possiamo trascurare il fatto che ciascuna cura dipende in maniera decisiva anche dal contesto culturale in cui viene somministrata. Qualsiasi patologia è connotata da risvolti antropologicamente molto distanti dai nostri, e la cura o il processo riabilitativo non possono non tener conto di tutte queste differenze di contesto. I metodi tradizionali non sono da trascurare, ma da integrare. Anche quando assistiamo – e accade spesso – a pratiche inaccettabili per la nostra comunità scientifica non possiamo limitarci a rigettarle: in quei casi siamo chiamati da un lato a riconoscere che certe tecniche mettono palesemente a rischio la salute e dall’altro siamo tenuti a considerarne la valenza sociale cercando di stimolare una riflessione collettiva in proposito, e integrare ove possibile la scienza medica occidentale con le pratiche tradizionali.
Questo perché se pensiamo di avere delle conoscenze utili in campo sanitario, non possiamo imporle dall’alto, ma siamo obbligati a veicolarle e proporle utilizzando percorsi di cura e idee di corpo, di malattia e di guarigione il più possibile condivisi.

Chi ha lavorato nel settore della cooperazione internazionale sa bene che il bilancio costi/benefici e i calcoli di sostenibilità sono una parte fondamentale di ogni progetto. In senso metaforico, qual è il prezzo di un progetto costruito sui principi della RBC?
Premetto innanzitutto che l’esperienza di FSF rivela come la quantità di denaro investita non è di per sé elemento garante di qualità.
Facciamo un esempio. Un progetto che preveda la costruzione di un centro di riabilitazione riccamente attrezzato e la formazione di dieci specialisti con adeguate competenze, si accolla anche il rischio che questi dieci decidano, una volta formati, di aprirsi uno studio privato aumentando i propri guadagni, ma non contribuendo al progetto originale. Viceversa, poiché le strutture sanitarie utili a un progetto di RBC sono meno sofisticate, la strumentazione e la formazione degli operatori sono meno onerose e presentano un rischio di dispersione molto ridotto.
Infine la RBC ha sicuramente il vantaggio di una maggiore sostenibilità a lungo termine, anche nel momento in cui gli aiuti stranieri cessano. Abbiamo detto più volte che si tratta di un approccio che implica l’attivazione delle risorse già presenti nelle comunità locali, si assiste a un positivo cambiamento nel modo di considerare la disabilità e la malattia, nel quale si creano anche i presupposti per le campagne di prevenzione: si instaura in questo modo un meccanismo di trasmissione delle competenze alle comunità, le quali possono svincolarsi da rapporti di dipendenza dagli aiuti internazionali.

Un punto debole di questa teoria della RBC?
Non si tratta di un punto debole di questo specifico approccio, ma piuttosto di un sentimento condiviso da chi opera in contesti di povertà: si ha la percezione che tutto questo non basti.

Deistituzionalizzazione in Serbia: la specificità del contesto e la cooperazione italiana

Quando si parla di integrazione delle persone disabili e del loro diritto a non restare per forza imprigionate in una segregazione che nega diritti a chi la subisce e impoverisce la comunità che la impone, ci si accorge che le azioni politiche e l’organizzazione dei servizi sociali variano in modo profondo a seconda del contesto, e che spesso benessere economico e politiche d’inclusione non viaggiano di pari passo. Così i confini tra Nord e Sud si fanno ancora più labili, smettono di essere muri tra progresso e sottosviluppo, e divengono semplicemente punti di vista, prospettive che si incontrano, si contaminano, si migliorano vicendevolmente.
In Serbia, repubblica balcanica di certo non ascrivibile al concetto di Sud del mondo, è in atto una riforma del welfare, incentivata anche dalle pressioni dei donors e dalla necessità di adeguarsi a disposizioni e standard internazionali, che prevede un cammino di deistituzionalizzazione nel quale, attraverso azioni di rafforzamento dei servizi sociali, si vuole incoraggiare la permanenza dei minori disabili in famiglia, e la loro partecipazione alla vita sociale.
Per meglio percorrere la strada dell’inclusione, Belgrado ha chiesto l’aiuto della cooperazione italiana, che avrà il compito di intercettare le forti energie in fermento nella società civile, per far sì che anche l’apparato istituzionale, tradizionalmente meno disposto al nuovo, si faccia promotore di un cambiamento di prospettiva che dovrà tradursi in azioni integrate, a livello locale e nazionale, organizzativo e politico, sociale e culturale.
E anche in questo progetto si fa ampiamente riferimento alla necessità di valorizzare le risorse esistenti in seno alla comunità, riconoscendo nuovamente valore alla dimensione locale, che prende senso in virtù delle relazioni e delle reti di solidarietà che la animano.
Per meglio comprendere l’importanza di un simile impegno e per svelare le sfide che porta con sé, ne abbiamo parlato con Cristina Roccella, Consulente di politiche di protezione sociale per la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, che ha avuto il compito di dare il via al progetto “Support to the deinstitutionalisation of children, in particular those with disabilities, in the Republic of Serbia” realizzando il Convegno iniziale svoltosi a Belgrado a fine marzo, al quale hanno preso parte anche Claudio Imprudente, presidente del Centro Documentazione Handicap, Luca Baldassarre, presidente della Coop Accaparlante e Roberto Parmeggiani, educatore del Progetto Calamaio.

Per chi vive in Italia, o in altri contesti nei quali l’integrazione è un diritto, se non proprio una realtà a tutti gli effetti, è difficile immaginare cosa stia dietro il termine istituzionalizzazione. Può aiutarci a capire?
Premesso che in Serbia il percorso per un riconoscimento legislativo del minore come titolare di diritti la cui lesione costituisce un crimine non è ancora stato portato a compimento, ad oggi non esiste nemmeno un sistema di monitoraggio attendibile sulla presenza e sulle condizioni di vita di bambini disabili. Tuttavia basandosi sulle stime delle organizzazioni internazionali, i pochi dati disponibili dimostrano che al momento la maggior parte dei minori con disabilità è affidata a famiglie, mentre solo una parte ridotta vive negli istituti. Non c’è nessun obbligo di ricovero dei minori, ma è indubbio che l’istituzionalizzazione sia tuttora considerata la prima possibilità con cui lo Stato può farsi carico dei minori che non hanno una famiglia in grado di prendersene cura.
In ogni caso – e sono le loro mamme a sostenerlo – fin da quando nascono questi bambini sono isolati dagli altri perché considerati malati. Viene loro negato l’accesso alla scuola regolare, e anche le scuole speciali si riservano il diritto di appellarsi alla presunta “ineducabilità” di quelli giudicati troppo gravi. Esiste una proposta di legge che potrebbe cambiare questa situazione, ma non è ancora stata approvata.
In un simile contesto l’istituzionalizzazione, che spesso riflette il fallimento di sistemi familiari non sufficientemente sostenuti, rafforza lo stigma sociale e completa quel percorso di progressivo isolamento che vive la maggior parte delle persone disabili.
Ci sono stati casi in cui si è tentato di “aprire le porte” degli istituti alla comunità, ma il solo fatto che si tratti di strutture geograficamente isolate spesso non aiuta. L’istituto, dove lavoreremo principalmente con il progetto finanziato dal Governo Italiano, si trova in cima a una collina ed è circondato da boschi…
Di positivo c’è che la riforma del welfare sta creando le condizioni per una presa di coscienza collettiva del diritto di ognuno alla vita nella propria comunità e all’accesso ai servizi, che iniziano a essere concepiti non solo come erogatori di sussidi economici ma anche come realtà costruite intorno alla relazione d’aiuto.

Quindi a fronte di leggi e istituzioni ancorate a posizioni che a noi possono sembrare superate, qual è l’atteggiamento della società civile rispetto a temi quali la diversità, la disabilità, l’inclusione sociale, la deistituzionalizzazione?
Si tratta certamente di un panorama complesso e difficile da delineare. In Serbia, come altrove, persiste un atteggiamento diffuso che tende a giudicare il mondo e la società attraverso categorie e standard di riferimento piuttosto rigidi, in base ai quali ognuno acquisisce o meno la possibilità di prendere parte ai vari aspetti della vita collettiva. Di conseguenza la diversità viene spesso accolta con diffidenza, a volte con compassione o accondiscendenza, e solo più raramente come una risorsa.
Questo non ha impedito però che la società civile o parte di essa potesse cogliere l’urgenza e la necessità di valori quali l’inclusione sociale dei disabili e il processo di deistituzionalizzazione, nonostante si trattasse in qualche modo di tematiche calate dall’alto, sollecitate dagli interventi dei donors, e non necessariamente prodotte da una riflessione collettiva.
E come di frequente accade, è stato ben più evidente e rapido il cambiamento di prospettiva generatosi nella società civile rispetto a ciò che è accaduto all’interno delle più rigide strutture istituzionali che faticano ancora a far propria un’alternativa allo status quo.

Quali sono i punti di forza dell’esperienza di cooperazione italiana che possono arricchire il processo di riforma in atto in Serbia?
Innanzitutto vorrei ricordare che la Cooperazione Italiana ha già sostenuto diversi progetti di inclusione sociale e deistituzionalizzazione in vari paesi, nati sulla base di traguardi raggiunti in Italia. Nonostante alcuni punti oscuri, nel nostro Paese è stato realizzato un sistema di protezione sociale che reputo tra i meglio strutturati tra tutti quelli che ho avuto modo di conoscere nella mia esperienza lavorativa.
Inoltre, anche se so che potrebbe sembrare paradossale, trovo che l’imperfezione del nostro modello sia ciò che lo rende adatto all’interazione con Paesi che ancora sono agli inizi del cammino, e che troverebbero difficoltà ben maggiori nel confronto con sistemi “perfetti” e troppo costosi, come quelli nordeuropei. Da quest’imperfezione nasce l’invito alla creatività e alla flessibilità necessarie a individuare le soluzioni più adatte a ogni contesto.
A mio parere il punto di forza della modalità di cooperazione italiana, che a volte viene interpretato come un modus operandi approssimativo, ma è invece frutto di scelte precise, è proprio la determinazione a non voler proporre modelli, linee guida, o format specifici come soluzione ai problemi individuati insieme alle controparti. L’intenzione è quella di porsi in un confronto alla pari con altre realtà che stanno compiendo il loro percorso di ricerca, per mettere in comune idee, risorse e buone prassi, con la volontà di raggiungere un risultato interamente originale, frutto della contaminazione di più punti di vista, che si riveli occasione di crescita per entrambe le parti.
In questo modo, anche principi largamente condivisibili come quelli contenuti nelle Convenzioni internazionali sui diritti dei minori o sui diritti delle persone disabili, ma che spesso sembrano destinati a restare sradicati dalla realtà. Con queste modalità, invece, possono trovare una declinazione originale e partecipata che permette di articolare concretamente la messa in pratica.