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autore: Autore: Alessandro Geria

2. La legge 328 nel disordine dei livelli istituzionali

Alessandro Geria è componente del Coordinamento nazionale del Forum del Terzo settore, responsabile nazionale delle politiche socio-assistenziali della CISL e membro dell’Osservatorio Nazionale sull’attuazione della Legge 328/2000. Ha scritto La legge 328/2000: una sfida ancora aperta (Ediesse, 2006) e Famiglia equità e servizi alla persona (Edizioni Lavoro 2009) 

L’approvazione della legge 328 nel 2000 aveva suscitato grandi aspettative per il miglioramento dei servizi sociali in Italia. A distanza di 11 anni, quale bilancio se ne può dare?

La legge 328 è stata fondamentale nel panorama normativo del nostro Paese, perché ha definito un sistema di interventi e servizi sociali di rango nazionale che superasse molti dei limiti evidenziatisi nella legislazione socio-assistenziale precedente. È cambiato un paradigma rivolto a fasce di bisogno per linee di finanziamento separate, e si è data una fisionomia unitaria alle politiche sociali. 

A 11 anni di distanza, la valutazione non può che essere con chiari e scuri: il processo di influenza sulle politiche è diffuso e prolungato, tanto che ancor oggi Regioni come il Lazio e le Marche stanno riordinando i loro sistemi sulla scia dei principi della 328, ma questo processo, non governato dopo il varo della legge, ha avuto un’applicazione molto differenziata sul territorio nazionale. Se è ormai diffusa una programmazione territoriale attraverso i Piani di Zona, in molte aree prima sconosciuta, non si può dire che il sistema di politiche sociali sia soddisfacente. 

Salvaguardando i principi fondamentali, alcuni passaggi successivi hanno molto ridotto la potenzialità della 328 – anzitutto la riforma costituzionale del 2001, che affidando la competenza esclusiva in materia alle Regioni ha diminuito la capacità operativa e innovativa della riforma, bloccando la programmazione nazionale e la definizione di indirizzi e criteri sulla gestione dei servizi sociali. Negli anni successivi, le difficoltà del bilancio pubblico e la conseguente riduzione della spesa nel welfare hanno costretto entro vincoli di ordinarietà le amministrazioni, a tutti i livelli, e anche l’affermazione di orientamenti politici diversi da quelli che avevano sostenuto la 328 ha contribuito a limitarne la portata. Qualche studioso della materia dice comunque che alcuni limiti nei mezzi concreti di applicazione erano insiti nella legge stessa; probabilmente è vero anche questo, ma i problemi esogeni erano sufficienti a ridurne drasticamente la portata. 

Il riferimento alla legge costituzionale rinvia a processi di decentramento tuttora in corso; questo decentramento, insieme all’innovazione comunque conseguita, è stato capace di generare risparmi nell’erogazione dei servizi, o almeno di contenere le dinamiche di crescita della spesa legate a invecchiamento demografico e nascita di nuovi bisogni?

Con il nuovo assetto istituzionale, gli equilibri immaginati dalla 328 sono sostanzialmente saltati, e non è un caso che molte delle questioni inerenti le politiche socio-assistenziali abbiano ingenerato conflitti istituzionali decisi da sentenze della Corte Costituzionale. Il decentramento, e oggi il federalismo, hanno offuscato un’allocazione chiara delle responsabilità, delle competenze e anche del contributo finanziario al sistema tra i diversi livelli istituzionali. Abbiamo quindi avuto, oltre alle contestazioni normative, un sistema di trasferimenti dallo Stato alle Regioni e ai Comuni senza un preciso quadro di riferimento, che negli anni iniziali di “vacche grasse” ha distratto risorse verso il comparto sanitario in sofferenza o ridotto l’impegno dei livelli istituzionali inferiori. 

Oggi la situazione è rovesciata: da qualche anno la riduzione drastica dei fondi nazionali, in un taglio generale dei trasferimenti centro-periferia, impone a Regioni e Comuni di mettere in campo risorse aggiuntive. Ciò perché il sistema non ha mai definito i LIVEAS, i Livelli Essenziali di Assistenza Sociale da garantire sul territorio nazionale, che devono essere strettamente collegati e armonici con i livelli essenziali in sanità – e su cui l’Osservatorio 328 aveva fatto una precisa proposta. Non avendo identificato quanto spetta ai cittadini in termini di servizi sociali, e non avendo sviluppato una leale collaborazione tra i livelli istituzionali, si sono create una grande divaricazione territoriale e la penalizzazione di alcune aree di bisogno (in particolare le famiglie con disabili e anziani non autosufficienti). 

Detto questo, la 328 è riuscita a rendere più efficiente il sistema? Anche tenendo conto dell’impossibilità di intervenire sulle modalità organizzative, passate subito a Regioni e Comuni, gli elementi di razionalizzazione che la legge aveva in sé non sono stati governati né accompagnati dal livello centrale, sicché abbiamo alcune situazioni virtuose e altre difficili. Leggendo la spesa sociale dei Comuni fornita dall’ISTAT, che rappresenta solo una piccola porzione del sistema informativo sociale previsto dalla 328, si dimostra che solo il 25% di essa è gestita in forma associata. Bacini di utenza più ampi consentirebbero economie di scala per organizzare servizi che non sono più quelli di una volta, quando per i cittadini di un piccolo Comune era sufficiente un trasferimento monetario o un servizio semplice. Oggi servono scale diverse per poter affrontare la complessità della domanda, e anche l’integrazione con la filiera sanitaria sulla quale la 328 aveva molto insistito.

Il complesso sistema di governance previsto dalla 328 dà adito all’impressione che ogni livello imponga i propri costi amministrativi e di progetto, e che perciò le risorse destinate alla fornitura materiale dei servizi risultino molto inferiori a quelle erogate in partenza. Quanto è fondata questa impressione? E quanto incidono in questo l’opacità delle competenze e le sovrapposizioni di ruoli?

Un sistema come quello delle politiche sociali si fonda necessariamente sulla corresponsabilizzazione dei vari livelli istituzionali, non dei rapporti tesissimi che ci sono stati tra di loro; c’è la necessità quindi di una riforma che “rimetta in ordine” i livelli istituzionali. Se ci focalizziamo sulle persone e le famiglie che devono usufruire dei servizi, dobbiamo dire che i diversi elementi del sistema spesso non hanno uno stesso punto di vista, e di conseguenza la persona viene “spezzettata” nei suoi bisogni complessivi a seconda delle filiere istituzionali alle quali fa riferimento. Stato e INPS per le prestazioni economiche, Regioni per la sanità, Enti Locali per il sociale, operano su uno stesso bisogno con riferimenti diversi, e gli interventi possono sovrapporsi o lasciare “buchi”.

A proposito del rapporto tra trasferimenti monetari e servizi reali: in questi anni misure del primo tipo sono state attivate anche dalle Regioni, ad esempio con l’assegno di cura. Ci si è complessivamente spostati verso una maggiore rilevanza dei trasferimenti monetari, con cui magari le famiglie possono poi comprare sul mercato servizi reali?

Anche se finora ho messo in evidenza i “lati oscuri” dell’applicazione della 328, i dati ci dicono che complessivamente dal suo varo c’è stato uno sviluppo dei servizi, in termini di copertura della platea di riferimento e di diffusione sul territorio nazionale, per l’impulso della legge e per alcune iniziative successive come il Piano Straordinario Nidi del 2007 e il Fondo nazionale per la non autosufficienza. Non so però se in prospettiva si riuscirà a reggere, con i tagli che si stanno operando su un sistema di welfare già sottofinanziato rispetto a Paesi analoghi al nostro in Europa: lo stimolo più diretto dato alle Pubbliche Amministrazioni è contenere i costi o dilazionare i pagamenti, per cui chi eroga i servizi deve confrontarsi sempre più con gare al massimo ribasso o soffrire un insopportabile ritardo nei pagamenti.

Come se ne esce? Con lo spirito della 328: superando la separazione fra i livelli istituzionali e utilizzando le maggiori risorse derivanti da questa nuova coesione, evitando la risposta di basso profilo del taglio indiscriminato. Ciò richiederebbe però una forte capacità politica dei governi a tutti i livelli, che crei e sostenga un’alleanza con le forze sociali per identificare le priorità e rendere gli strumenti più efficaci ed efficienti, favorendo i servizi e intercettando la spesa privata delle famiglie in un mercato dei servizi deregolamentato o addirittura al nero. Gli strumenti di sostegno alla domanda, come gli assegni servizi, devono inserirsi in un contesto di presa in carico, individualizzazione dei percorsi e sostegno alla scelta da parte delle famiglie, con i livelli essenziali come punto ineludibile. 

Le istituzioni hanno saputo coinvolgere il Terzo Settore nella progettazione di un sistema di servizi a risorse calanti? E come hanno risposto Terzo Settore e associazionismo, che giocano spesso un doppio ruolo potenzialmente ambiguo di rappresentanza sociale e di erogazione di servizi?

La sussidiarietà orizzontale è un principio che la 328 ha esplicitato in maniera molto innovativa, perché le organizzazioni sociali sono i soggetti che meglio possono rispondere al bisogno espresso dalle persone e dalle famiglie. Ciò non toglie che la sussidiarietà debba essere legata a un welfare universale, che garantisce diritti, e a una regia politica, senza deresponsabilizzazioni, dei livelli istituzionali. Di conseguenza, il welfare territoriale è un terreno su cui la condivisione con le organizzazioni sociali rappresenta un valore aggiunto, purché la partnership con le istituzioni si sviluppi non sulla mera erogazione, quanto sulle scelte strategiche che vanno oltre la contingenza quotidiana. Il Terzo Settore va considerato non solo come soggetto di gestione esternalizzata a minor costo, ma anche come attore da associare alla sfida della progettazione degli interventi, il che depotenzia alcune possibili torsioni degli interventi e dei servizi sul territorio, a volte legati più a chi li offre che alla loro domanda.

Il Forum del Terzo Settore ha già al suo interno una tensione verso la sintesi tra diverse istanze, e forse è finora mancata un’azione dei soggetti associativi della cooperazione e del volontariato come luoghi di rappresentanza più ampia, per fare una sintesi sociale prima di arrivare a quella istituzionale. Onestamente, dopo una prima fase in cui i Piani di Zona erano molto partecipati e vedevano grande slancio, nel tempo c’è stato un rattrappimento, mentre la partecipazione resta un elemento determinante.

Con i Piani di Zona si è riusciti a orientare i servizi verso prossimità e prevenzione, per ridurre l’impatto di soluzioni più intensive e “istituzionalizzanti” come quelle residenziali, e così contribuire all’efficienza economica del sistema?

Il giudizio è molto condizionato dalla differenziazione che c’è nel territorio nazionale, e anche nella stessa Regione tra diversi ambiti di zona. Tuttavia, una maggiore consapevolezza della preferibilità di un intervento preventivo di tipo domiciliare rispetto a uno istituzionalizzante si è abbastanza diffusa in tutte le aree di bisogno. Questa cultura è entrata nei Piani di Zona, ed è stata favorita dall’orientamento del Fondo nazionale per la non autosufficienza (che peraltro non abbiamo più…) a organizzare l’accesso ai servizi privilegiando interventi domiciliari. L’impulso alla deistituzionalizzazione è del resto molto risalente nel tempo, ma oggi assume caratteristiche peculiari, legate non solo al risparmio ma anche agli effettivi vantaggi, per la persona in situazione di bisogno, del mantenimento delle relazioni primarie con la sua famiglia.

Le incertezze che hanno contraddistinto il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali, con variazioni ogni anno su tempi di erogazione e importi e negli ultimi anni la sua “spoliazione” e la ricostituzione di fondi su singole aree di bisogno, hanno però enfatizzato negli amministratori locali l’appiattimento sull’esistente. Si sono quindi rafforzati gli interventi tradizionali o le forme tradizionali di erogazione dei servizi, e adesso, con una riduzione così importante delle risorse in una situazione di crisi diffusa, c’è il rischio che le famiglie, non reggendo più l’onere, siano costrette esse stesse a chiedere risposte più istituzionalizzanti e inevitabilmente più costose.

In risposta ai tagli, tra gli amministratori locali può crescere anche l’impulso a sostituire lavoro di cura retribuito con volontariato. Riscontrate questa tendenza? E come incide ciò sulle prospettive degli operatori di cura e del sistema?

La pressione sulle organizzazioni di volontariato, affinché assumano la gestione di servizi anche molto complessi, esiste, e rischia di essere un investimento sbagliato tanto per le istituzioni quanto per le associazioni di volontariato, sottoposte a un’alterazione della loro natura fondata su attività gratuite, libere e spontanee. L’utilizzo del volontariato in supplenza di lavoro retribuito è un problema delicato e complesso, denunciato anche dalle reti europee del settore, e deve essere affrontato dando al volontariato un ruolo che nell’esperienza italiana ha sempre avuto: quello di interventi innovativi e integrativi del sistema di servizi erogati dalle istituzioni o da soggetti professionalizzati, anche del non profit. In questa linea di indirizzo le organizzazioni di volontariato non devono partecipare alle gare d’appalto (nonostante le recenti interpretazioni normative in tal senso), ponendosi sulle spalle un onere di supplenza che a volte, in via straordinaria, hanno dovuto assumere, ma che non si può immaginare di caricare in pianta stabile su di loro solo per ridurre i costi del sistema.

Il volontariato ha un valore aggiunto soprattutto laddove c’è la necessità di un intervento a forte relazionalità, e su questo piano deve collocarsi, altrimenti rischiamo di stressare i volontari e le organizzazioni, inducendoli a comportamenti difformi dal principio di gratuità. Ritorniamo così alla necessità di ricomporre un’armonia tra istituzioni e soggetti del Terzo Settore e del volontariato, identificando gli ambiti e i servizi che ognuno è adeguato a sostenere.

La riduzione di risorse al welfare è una tendenza in corso da anni, ma finora i servizi non hanno subito chiusure drammatiche, né è venuta meno la coesione sociale. Esistono ancora margini per razionalizzare le spese e le strutture di governance del welfare, o si è al punto in cui l’equilibrio finora mantenuto rischia di saltare?

La coesione sociale in Italia ha retto per vari motivi: non ci sono stati tagli sul capitolo degli ammortizzatori sociali, che anzi hanno visto forti investimenti per garantire almeno un reddito ai capifamiglia adulti occupati; le famiglie hanno sostenuto la disoccupazione dei giovani espulsi dal mercato del lavoro; nonostante il rientro dalla spesa di alcune Regioni, il complesso delle risorse in sanità è stabile. È il comparto socio-assistenziale che più ha sofferto dei tagli, soprattutto nella parte legata ai servizi territoriali, mentre crescevano al contrario i trasferimenti economici nazionali, in particolare le pensioni di invalidità e le indennità di accompagnamento.

Il sistema di welfare resta quindi abbastanza in equilibrio, ma dovremmo fare sì che esso entri a far parte delle politiche di sviluppo economico del nostro Paese. La coesione sociale, è ormai risaputo, non rappresenta una subordinata dello sviluppo, su cui investire una volta che questo sia elevato e consenta di destinarle risorse, ma una condizione da creare per poter sostenere una crescita equilibrata. Se assumendo questa prospettiva analizziamo le dinamiche demografiche del nostro Paese, con i bisogni di assistenza in allargamento, il mutamento dei profili familiari e un’occupazione femminile molto ridotta, è chiaro che va fatto un investimento strategico nella conciliazione famiglia/lavoro e nel settore dei servizi. Non possiamo perciò ragionare solo di tagli, quanto di una riforma del settore dei servizi alla persona che li consideri elementi fondamentali dello sviluppo e della tenuta delle famiglie. Già oggi, ad esempio, è di tutta evidenza la condizione di sofferenza delle famiglie che assistono persone disabili o non autosufficienti, tanto più nelle Regioni con piani di rientro in sanità. La delega fiscale e assistenziale presentata dal Governo Berlusconi partiva invece dal presupposto, smentito dai fatti, che vi fosse un eccesso di spesa e sprechi (enfatizzando il fenomeno dei falsi invalidi) tanto da poter fare cassa per circa 20 miliardi. 

Resta la necessità di ripensare il sistema, partendo però dai dati di realtà, investendo sui servizi alla persona e definendo alcune priorità tra cui certamente quella della disabilità e non autosufficienza. L’orientamento del Governo Monti non è chiaro: se da un lato si è positivamente sterilizzata l’immediata necessità di reperire risorse dall’assistenza per raggiungere il pareggio di bilancio, si è introdotta una prospettiva di selettività, intervenendo sulla riforma dell’Isee, per tutte le agevolazioni fiscali e le provvidenze assistenziali, la quale, connessa a una manovra che grava sui redditi medi e medio-bassi, rischia di incidere ancor più pesantemente sui bilanci delle famiglie con carichi assistenziali.