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Autore: Nicola Rabbi

Ascoltare con altri occhi, tra Berlino e Napoli

a cura di Emanuela Marasca

“Ad armi pari”. È così che Ivan Dalia, un giovane e talentuoso pianista non vedente, ha voluto intitolare
un evento realizzato circa due anni fa a Napoli. Si trattava di un concerto al buio, per ascoltare con altri occhi. Perché un concerto al buio? “Per ascoltare con altri occhi” rispose in quell’occasione Ivan. “Il buio è una condizione normale per chi non vede, ma assolutamente nuova per chi ascolta; al buio cadono le barriere, si perde la cognizione del tempo. E poi è un modo per uscire dalla schiavitù e dal condizionamento delle immagini che distraggono dalla purezza dell’ascolto”.
Ci siamo incuriositi e abbiamo contattato Ivan Dalia per porgli qualche domanda e saperne di più sulla sua vita, che al momento si districa tra Napoli e Berlino.

Il percorso

Suono da venti anni e in questo tempo la musica è riuscita a darmi confusione, visione nel senso artistico, disciplina, un po’ di saggezza, molta vita, conoscenza, analisi, una motivazione seria per vivere, apertura, bellezza… e poi credo che potrei continuare a lungo…
A dire la verità sono stati i miei genitori a spronarmi a studiare la musica. In un primo momento non volevo, mi sembrava noioso; poi a 11 anni ho sentito una forte esigenza, è stato come se si fosse aperto un mondo e da quel momento ho capito che avrei fatto il musicista.
Non ricordo bene le mie prime lezioni di piano ma ho iniziato sicuramente con la musica classica. Avevo 2 maestri, uno cieco che mi insegnava il solfeggio e un altro vedente, che mi faceva lezioni di strumento.
Ho avuto qualche difficoltà nel trovare dei libri di musica più contemporanea. Tecnicamente ho avuto bisogno di tempo per capire come muovermi sulla tastiera; poi ho incontrato dei musicisti che mi hanno aperto diversi orizzonti ma questo non significa che oggi io sia riuscito a capire tutto, anzi. La più grande difficoltà è nata quando ho incominciato a comporre.
Ho cambiato diversi maestri e mi sono confrontato con differenti pianisti in modo tale da avere un’ampia scelta; dopo un grande momento di crisi all’età di 23 anni, in cui ho pensato di abbandonare il piano, ho iniziato a pensare con la mia testa e ad avere più fiducia in me stesso.
Per quanto riguarda la composizione, il grande problema dei ciechi è scrivere e leggere. Oggi in parte sembra risolto tramite uno strumento magnifico che si chiama computer, ma io purtroppo sono una frana con il computer e questo rappresenta uno dei più grandi problemi della mia vita perché non so usarlo e soprattutto non mi piace.
Oggi sembra che ci siano molte possibilità per i ciechi per la scrittura musicale, ma un grande problema è anche la lettura e credo che questo sia un po’ più difficile da raggiungere. Oggi sono alla ricerca di un assistente fisso che possa leggere e scrivere e spero di trovarlo presto.

L’arte, l’amore e altro ancora…
Marina Abramovic ́ dice che gli amici, le persone più care, devono amare la tua arte e devono sempre darti forza perché uno dei problemi degli artisti è quello di avere alti e bassi, ma molto alti e molto bassi. In questo ritengo di essere stato fortunato, tranne per la questione “donne”: alcune non accettano il secondo posto, forse terzo, e quindi nascono i problemi…ma quando tutto ciò viene accettato significa che l’amore verso di te e la tua arte c’è e in quel momento ti senti ancora più forte.
Quando vado in vacanza devo sempre avere un piano e una tastiera a disposizione, e sapere che almeno ogni due giorni, massimo tre, posso stare da solo e suonare. Anni fa dovevo andare in vacanza con la mia ragazza, lei è greca e volevamo andare a Zante per un mese. Eravamo agli inizi della nostra relazione, io dissi: “Non posso venire se non c’è un piano” e lei rispose: “Ma sei pazzo, come faccio a trovare un pianoforte?”, ma alla fine ebbi la bellissima notizia che l’amico che ci ospitava aveva una sala prove con tastiere, batteria, casse, mixer e a quel punto feci i biglietti ed è stata una delle vacanze più belle: mare stupendo, musica, sole, cibo e bella gente.

Comporre musica per film tra Napoli e Berlino
Nella realizzazione delle colonne sonore mi faccio guidare sicuramente dal regista che mi spiega cosa vuole, cioè il senso, il carattere di cui ha bisogno, e a quel punto ci vuole una buona comunicazione.
L’impatto visivo chiaramente è molto importante nel cinema: infatti i ciechi non possono godere dell’arte multimediale perché non vedono, ma questo nella realizzazione di una colonna sonora è rilevante fino a un certo punto. Il tuo assistente deve spiegarti momento per momento cosa succede, i cambiamenti di camera di facce, tutto, minuto per minuto e a volte anche secondo per secondo, poi sta a te immaginare. Comunque la cosa più importante è capire cosa vuole il regista.
Lavorare tra Napoli e Berlino? Sono due città completamente differenti in tutti i sensi; il pubblico è molto diverso, Napoli poi è la mia città e quando suono lì fra il pubblico vedo l’amore. Per quanto riguarda i repertori, le mie composizioni sono un po’ diverse perché, passando molto tempo al nord, il temperamento cambia e questo si sente anche nella vita e in tutto.
La mia ricerca ora è finalizzata a trovare un punto di incontro con la musica più commerciale, utilizzando sonorità più vicine al rock, alla tecno, drum and bass, con armonie jazz.

Bibliografia
Ivan Dalia nasce a Capua il 3 luglio 1985. Fino all’età di 10 anni vive e cresce a Teverola, un piccolo paese di provincia a pochi chilometri da Napoli. All’età di otto anni inizia a maturare un forte interesse per la musica: dal momento che non ha ancora le idee chiare sullo strumento da scegliere, il padre gli regala un piccolo piano a muro e subito dopo gli trova un maestro di pianoforte.
A 11 anni si trasferisce a Napoli per motivi di studi e ottiene l’ammissione al corso di pianoforte classico presso il Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Si appassiona, anche grazie alla sua insegnante, alla musica antica, ai primi strumenti a tastiera e partecipa a corsi di perfezionamento di clavicembalo e forte piano. All’età di 14 anni dapprima scopre l’improvvisazione, cominciando con la scala pentatonica blues, in seguito resta affascinato dal jazz, dalla musica etnica e dalla musica classica contemporanea.
All’età di 16 anni comincia a esibirsi davanti al pubblico in vari locali della scena napoletana, suonando musica etnica con musicisti italiani e stranieri. Dopo qualche anno inizia a formare i primi gruppi di musica jazz e all’età di 20 anni si esibisce sul palco del festival Marechiaro Jazz, con il grande artista, pietra miliare della storia del jazz, Tootz Tielemans. A 22 anni vince il Primo premio al concorso internazionale per musicisti non vedenti in Russia, dove presenta anche alcune sue composizioni. All’età di 26 anni completa gli studi di piano classico al conservatorio di Napoli con il massimo dei voti. È in questo periodo che, per continuare la sua ricerca pianistica e compositiva, si
trasferisce a Berlino dove continua a lavorare come compositore, scrivendo colonne sonore per video d’arte e musiche per teatro sperimentale.

Per saperne di più:
www.facebook.com/daliaivan

Missione Roosevelt. Il plotone su sedie a rotelle dei Tony

di Lucia Comignoli

Clifton Circus “Il denaro non comprerà mai la salute, ma starei volentieri su una sedia a rotelle tempestata di diamanti”. Così, citando la scrittrice statunitense Dorothy Parker, tra le più celebrate nel Novecento per l’ironia sarcastica dei suoi provocatori poemetti, i Tony Clifton Circus introducono una delle loro ultime fatiche, la performance Missione Roosevelt, vera e propria invasione di spazi urbani da parte di spettatori su sedia a rotelle (ma non disabili) con cui hanno percorso le strade di diverse città d’Italia e di Francia, seconda patria d’adozione del gruppo.
Nato nel 2001, a omaggio del personaggio anti-comico inventato da Andy Kaufman, quello dei Tony Clifton Circus, all’anagrafe Nicola Danesi de Luca e Jacopo Fulgi, è un esempio di quel Nuovo Teatro che oggi rifiuta di farsi ingabbiare in etichette di genere ma che ama piuttosto ribaltare nei fatti i rapporti di sguardo tra attore e spettatore di pari passo con l’idea di spettacolo, riconducendo così l’opera ad azioni performative extra-quotidiane e inaspettate che riportano al centro l’essere umano in sé e per sé, tra i luoghi che abita (o crede di abitare) e nelle sue relazioni abituali, giocando sull’effetto a sorpresa e sul capovolgimento delle aspettative.
In questo senso il “circo dell’anomalia”, così come loro stessi lo hanno chiamato, è appellativo che non si riferisce alla diversità in senso stretto ma all’etimo della parola, dove anomalo non è ciò che è estraneo ma ciò che è “privo di regola”.
A testimoniarcelo è stata lo scorso settembre l’invasione operata per le strade di Parma di Missione Roosevelt, performance ospite di Insolito Festival, il primo festival estivo della città in collaborazione con Teatro delle Briciole/Fondazione Solares delle Arti.
Il titolo ammicca alla figura di Roosevelt, presidente degli Stati Uniti tra il 1932 e il 1945, il padre del New Deal, il pacchetto di riforme socioeconomiche, cioè, tra cui il Social Security Act, che permise al paese di uscire dalla Depressione degli anni Trenta e di introdurre per la prima volta l’assistenza sanitaria, l’indennità di disoccupazione e di vecchiaia a servizio dei cittadini. Una figura immagine di progresso e cambiamento sociale che tuttavia è anche legata alla disabilità, a causa della poliomielite che lo colpì nella seconda parte della vita e che non amò affatto mettere in mostra. Pochissime infatti sono, ancora oggi, le foto che ritraggono la figura del presidente americano in carrozzina, nonostante l’impegno concreto nella cre-
scita e nel finanziamento che egli dedicò fino alla morte alla creazione di nuove strutture di cura. Acuto stratega e promotore della “Grande Alleanza” con il Regno Unito di Winston Churchill e l’Unione Sovietica di Stalin durante la Seconda Guerra Mondiale, la sua è naturalmente una figura legata anche all’iniziativa militare, conduttore simbolo di equilibrio e di forza,
uno migliori secondo la storia politica made in USA.
Nulla di tutto questo è sfuggito ai Tony Clifton Circus che hanno immaginato e realizzato una vera e propria invasione per i parchi e le strade di Parma, chiedendo agli spettatori più o meno ignari di sedersi su una sedia a rotelle e di condurre insieme un percorso a forza di braccia giocando ai limiti di un’ipotetica esplorazione militare. Una provocazione che nasce
dall’umorismo cinico del gruppo, che tuttavia poco spazio ha lasciato alle pulsioni “guerresche” per addentrarsi piuttosto su quello che il movimento in carrozzina comporta nel semplice attraversamento dello spazio urbano, senza per questo mai nominare lei, la carrozzina per l’appunto, oggetto tabù e qui ridotto a semplice mezzo di trasporto.
Si comincia la marcia suonando il citofono di una casa da cui usciranno tutti e si parte dallo stesso punto; all’inizio ci si confronta con il nuovo ausilio, dai più mai usato, ci si prova a spostare, a spingersi con le ruote, a frenarsi, a regolare la velocità. Poi si parte guidati da Mr e Mrs Roosevelt, in questo caso Jacopo Fulgi e Diane Bonnot, e in fila per uno si seguono le loro indicazioni. Ne segue un percorso urbano tradizionale che tuttavia si rivelerà a prove e a ostacoli nel suo essere tale quale, così come lo ha portato cioè a essere la planimetria della città, con qualche aggiunta qua e là, tra cui salite, percorsi a slalom, obiettivi da raggiungere, il tutto, come si suol dire, in mezzo alla gente che passa.
Potrà capitare allora che qualcuno rimanga indietro o si blocchi ed è lì che il cortocircuito si fa interessante. Perché è quando sopraggiunge la difficoltà che l’azione contatta la reazione dell’altro, come ad esempio un passante che si trova improvvisamente a rispondere a una richiesta d’aiuto da parte di una persona disabile che realmente nemmeno lo è.
Un gioco di ruolo, si potrebbe dire, portato all’estremo, che porta con sé tutto quello che in noi si instaura nella relazione con ciò che percepiamo improvviso, inaspettato e fuori strada, ciò che ci fa inciampare sul tragitto e non ce n’eravamo accorti.
Benché manchi il deficit in senso stretto, l’handicap si presenta comunque in tutta la sua concretezza e lo fa con un pizzico di ferocia in più, sia di fronte allo spettatore su carrozzina che è diventato attore, sia di fronte allo spettatore-passante che si ritrova suo malgrado coinvolto. Ansia, senso d’inadeguatezza e impotenza da un lato, senso di colpa per la coscienza della menzogna in atto dall’altro e, nello stesso tempo, il desiderio furioso di uscire da quella difficoltà.
Nel frattempo Mr e Mrs Roosevelt cantano motivetti e incitano a superare le prove e a raggiungere gli obiettivi; tra i passanti alcuni si godono la scena, altri se ne vanno sdegnati, altri ancora restano attoniti. Il plotone nell’insieme ride e si diverte, di fatto è il protagonista di un gioco, vuole vincere e arrivare alla fine.
Una volta conclusa la gincana e raggiunta la meta si tira il fiato, si esulta e ci si rialza, con un po’ di fatica, dal mezzo ormai divenuto tutt’uno con il corpo tanto ne ha condizionato i movimenti e il raggio d’azione.
Le braccia fanno malissimo e nello stesso tempo è forte la gioia di rimettersi in piedi, di riprendere confidenza con i propri polpacci, piedi e ginocchia.
Sembra che tutto finisca qui, con un bel “ce l’abbiamo fatta”, niente di più. Quel che resta sono solo delle sedie a rotelle immobili e sparse. Ed è qui che fa capolino il “per fortuna”. Perché se prendere le distanze è rassicurante nello stesso tempo all’interno del plotone c’è un senso di fastidio che permane. Lo specchio, il senso di colpa, benché smorzati (o forse alimentati) dall’ironia dei Tony Clifton Circus, li hanno portati molto vicino a qualcosa che hanno sempre ignorato e c’è sempre stato, nei confronti del rapporto con la disabilità su cui non si sono mai soffermati ma soprattutto nei confronti dell’altro da noi che potremmo benissimo essere.
Per capirlo non è servito un convegno o incontro in presenza. È bastata un’azione molto semplice, così come il gruppo l’aveva immaginata: “Vogliamo attraversare uno spazio urbano, fare un percorso e lasciare un segno, una traccia colorata al suolo. Vogliamo condividere con voi il piacere del proibito, il piacere di utilizzare un oggetto tabù. Utilizzare un oggetto per la prima volta, forse solo questo basta, forse solo questo giustifica tutto. La sedia a rotelle è lo strumento e l’oggetto di Missione Roosevelt, il simbolo di tutto ciò che non ci riguarda oggi si fa nostro, la metafora dello svantaggio attraverso la quale conquistare la città. Un’esperienza urbanistica, una performance partecipata in cui il pubblico, accomodato su una sedia a rotelle, si trasforma in un piccolo plotone, una gioiosa macchina da guerra”.
Verso che cosa a noi deciderlo. Loro intanto lo hanno fatto. Con Amore e anche un po’ di Odio. Firmato Tony Clifton Circus.

Per saperne di più:
www.tonycliftoncircus.com
www.solaresdellearti.it

Giochi in Uso: laboratorio di gioco-sport che inizia dal saper fare

a cura di Paola Solfitti, responsabile Progetto Sport per la cooperativa Zanzebia

Da un lungo corso di formazione tenuto dalla Cooperativa Accaparlante di Bologna, finanziato dall’Ambito distrettuale n. 9 Bassa Bresciana Centrale, nasce a Ghedi un gruppo di educatori del progetto Calamaio, che nel 2006 forma l’associazione di promozione sociale Zanzebia.
Nel 2010 l’associazione si trasforma in Cooperativa Zanzebia, che continua a operare nel campo della cultura della disabilità in tutta la provincia di Brescia con il Progetto Calamaio e dal 2011 gestisce un asilo nido con una capacità recettiva di 30 bimbi.
Un altro progetto importante della cooperativa, partito nel 2010, è “Utile e dilettevole – Quando lo sport aiuta la buona vita”.
Anch’esso parte da una necessità manifestata dal nostro territorio, quella di rendere più accessibile la
pratica sportiva, e viene strutturato sulla base della collaudata esperienza della Cooperativa Accaparlante nel campo sport-disabilità. L’intero progetto ha perseguito il fine di stimolare l’offerta di attività sportive indirizzate alle persone con disabilità attraverso azioni di sensibilizzazione, formative e informative per arrivare a costruire nuove e reali occasioni di integrazione sociale di ogni cittadino.
Dal lavoro di mappatura del nostro ambito territoriale e di ricognizione dell’offerta di attività sportive dedicate ai cittadini con disabilità, infatti, è emerso che nessuna associazione sportiva offre opportunità sportive specifiche per le persone disabili, che si trovano costrette a praticare attività motoria solo attraverso i centri diurni specializzati o come fisioterapia, oppure si rivolgono alla città, dove trovano proposte rivolte prevalentemente a soggetti con disabilità fisiche.
Questo percorso ha portato all’individuazione di una realtà sportiva disponibile a sperimentare un progetto pilota. Nasce così “Giochi in Uso: laboratorio di gioco-sport che inizia dal saper fare”, un’attività sportiva sperimentale strutturata in 6 incontri per un gruppo di ragazzi disabili di età compresa fra gli 8 e i 14 anni.
A settembre 2011, l’attività sperimentale si trasforma in un’attività strutturata sull’intero anno seguente. Un educatore (Tristano) della Cooperativa Accaparlante, attraverso un corso di formazione e un lungo percorso di affiancamento, ha condotto due educatori della Cooperativa Zanzebia (Linda e Vanessa) e un allenatore della società sportiva Uso Ghedi (prima Paolo e poi Matteo) ad acquisire autonomia nella gestione dell’attività motoria con i ragazzi disabili. Questo ha consentito al progetto pilota di divenire una prassi consolidata e di diventare potenzialmente reiterabile anche in altre società del
nostro territorio.
Il gruppo di ragazzi di Ghedi e Leno, con disabilità prevalentemente psichiche (ad esempio disturbi dello spettro autistico), che è aumentato fino a 13 ragazzi, si allena tutte le settimane per un’ora e mezza ed è stato inserito progressivamente in questa società sportiva già consolidata, l’Uso Ghedi, che offre l’opportunità di giocare a calcio a bambini e ragazzi di tutti gli ordini scolastici.
Questo laboratorio sportivo settimanale parte dal “saper fare” di ogni bambino per fargli sperimentare il
superamento del limite, attraverso l’acquisizione di competenze sia corporee che relazionali. I risultati sono molto soddisfacenti e hanno permesso a ogni partecipante, in base alle proprie possibilità, di sviluppare capacità a livello sia motorio (coordinamento, concentrazione, resistenza) che relazionale (condivisione delle consegne, lavoro in gruppo, autostima).
Per la quinta annualità, che è partita a ottobre 2014, infatti, il gruppo dei ragazzi dei “Giochi in Uso” parteciperà ad alcune gare provinciali del SOI (Special OlimpicS Italia) nella disciplina dell’atletica leggera. Riteniamo che l’esperienza della “gara” rappresenti un ottimo stimolo per i ragazzi che potranno vivere un’esperienza di gruppo nuova, mostrando le competenze acquisite in questi anni di attività sportiva.
A causa della mancanza di fondi e, in primis, dell’essere venuto meno dal 2013 del finanziamento del- l’Ambito zonale n. 9, molte azioni preventivate dal progetto iniziale, soprattutto un corso di formazione per gli operatori e tecnici delle altre società sportive del territorio, rimangono ancora inagite e sarebbero invece fondamentali per creare un terreno fertile affinché alcuni ragazzi del laboratorio possano cominciare a praticare sport nelle società sportive dei rispettivi paesi.
Un ringraziamento per la salvaguardia del laboratorio sportivo “Giochi in Uso” va alle Amministrazioni comunali di Ghedi e di Leno, che si sono fatte carico del costo di parte dell’attività (una parte è coperta dalle rette dei ragazzi), dopo il venire meno dell’Ambito zonale.
Un altro contributo importante alla buona riuscita del progetto è stata la costante partecipazione volontaria di educatori che hanno coadiuvato nel lavoro (Beppe, Devis e Luca) e di un gruppo di studentesse dell’Istituto di istruzione superiore “Blaise Pascal” di Ghedi (Paola V., Elisa, Paola Z. e Chiara); la loro presenza ha reso possibile un lavoro personalizzato sul singolo bambino, che ha risposto in modo più adeguato alle reali necessità del gruppo.
Un altro punto di forza dei “Giochi in Uso” sono stati i genitori, che hanno creduto nel progetto fin dall’inizio, motivando i loro bambini, ma anche i loro amministratori, ad acquisire consapevolezza dell’importanza del laboratorio.

La testimonianza degli educatori
Sono Linda, educatrice e psicomotricista, e mi occupo da quattro anni del progetto “Sportivamente Giocando”. Lo sport con la disabilità viene qui inteso come una forma di gioco regolamentato. Nella relazione con i ragazzi speciali è necessaria l’empatia, soprattutto nei primi incontri dove non si conoscono le personalità dei bambini, che dal momento che vengono inseriti in un nuovo contesto hanno bisogno di un riferimento che riesca ad accogliere e capire le loro esigenze ed emozioni.
L’attività prevede un momento iniziale di accoglienze che dà la possibilità ai ragazzi di sentirsi “protagonisti”, poiché trovano uno spazio in cui condividere le loro emozioni e proporre loro stessi attività di gioco.
I materiali che utilizziamo per l’attività non sempre sono disponibili nella struttura che ci accoglie. Per questo portiamo materiale in nostro possesso, materiali di riciclo che ci permettono di costruire i nostri percorsi di gioco. A ogni incontro i ragazzi manifestano la voglia di partecipare in modo propositivo alle attività, regalandoci grandi soddisfazioni attraverso l’affetto e il sorriso. Durante l’attività i ragazzi comunicano a livello corporeo sia l’entusiasmo, la voglia di cimentarsi in nuove esperienze, sia i momenti di frustrazione. È proprio in questa circostanza che il ragazzo ha bisogno di ricevere il mio sostegno per superare gli ostacoli del gioco attraverso alcune varianti. Tutto ciò permette un miglioramento dell’autostima e delle proprie potenzialità anche al di fuori di questa attività.
(Linda Fezzardi, educatrice Progetto Sport della cooperativa Zanzebia)

Sono Matteo, un giovane laureato in scienze motorie. Rappresento la figura che cura l’aspetto motorio dei ragazzi. Cerco di trasmettere loro informazioni, schemi ed esperienze motorie attraverso esercizi, giochi e sport per arricchire il loro bagaglio motorio e acquisire una maggiore autonomia nei diversi momenti della giornata. L’attività con i ragazzi è molto stimolante perché, nonostante questa venga programmata, tutto viene messo in discussione dalle infinite variabili di risposta che scaturiscono dai ragazzi. Uscire dagli schemi è all’ordine del giorno e questo fa emergere ogni volta la necessità da parte mia di ricercare continuamente informazioni, modalità e mezzi alternativi, a volte fantasiosi, per creare un ambiente ottimale ai ragazzi. Perché, come ho imparato, è l’ambiente circostante che crea e amplifica le disabilità.
(Matteo Zacco, educatore-allenatore del Progetto Sport per la società sportiva Uso Ghedi)

La testimonianza dei genitori
Siamo i genitori di alcuni bambini che frequentano ormai da quattro anni il laboratorio di gioco-sport “Giochi in Uso”. Siamo stati testimoni della sua nascita, co-promotori della sua continuazione e ormai ci sentiamo veramente parte di una grande “famiglia”.
I nostri figli hanno delle disabilità, che rendono per loro difficile affrontare uno sport di squadra: accettare le regole, coordinare i movimenti, capire gli obiettivi, essere competitivi “né troppo né troppo poco”, riuscire a sentirsi protagonisti attivi del gioco, quando questo gioco non è stato pensato per le loro particolarità. Ciò li rende frustrati e rinunciatari. Abbiamo fatto dei tentativi per trovare degli sport “su misura”, ma la proposta che ci viene offerta di solito è quella di un preparatore personale, molto costoso, e non riguarda mail un’attività in squadra con altri bambini. Al di là della competizione, lo sport di squadra ha un forte valore formativo e aggregativo per tutti i bambini, dove si afferma la personalità e il carattere, dove si mette alla prova la propria capacità di interagire con gli altri… Si vede quindi come questa attività ci stia molto a cuore, perché non ne troviamo altre che ci diano la stessa possibilità di rapportarsi gli uni con gli altri “alla pari”, e dove ciascuno può, e deve, dare il massimo con quello che ha.
Abbiamo visto crescere i nostri bambini, fare passi avanti che non ci saremmo mai immaginati, li abbiamo visti riconoscersi come parte di un gruppo di amici che si cercano, che si sostengono, che si divertono. Si divertono! Trovano gratificazione e realizzazione di sé nello svolgimento dell’attività. Eppure, come in tutte le squadre, si litiga, ci si spintona, ci si arrabbia… Ma ogni settimana noi assistiamo quasi increduli al loro entusiasmo alla prospettiva dell’appuntamento della palestra. Hanno già dimenticato le offese, gli spintoni, i torti dati e subìti e non vedono l’ora di ricominciare a gareggiare, segnare punti, colpire quella palla o quel palloncino, farsi una risata, stendersi a terra quei dieci minuti finali per il rilassamento, dove tutti hanno imparato la regola del rispettare il momento di relax degli altri.
Noi genitori continuiamo a non trovare alternative valide a questa attività e pertanto speriamo che si vada avanti, che si riesca a proseguire, a continuare a proporre l’attività di gioco-sport per bambini e ragazzi con disabilità. Speriamo di vedere nuove iscrizioni, e magari la formazione di più squadre; sarebbe bello che realtà simili si diffondessero nel territorio, ci sarebbero diverse squadre che potrebbero affrontarsi in tornei, e magari si potrebbero organizzare squadre differenziate per livello e per età. Crediamo che per favorire questa diffusione debbano attivarsi enti quali la neuropsichiatria, le ASL, i Comuni, per far arrivare alle famiglie l’informazione che questa realtà esiste e funziona. Una mamma che si è aggiunta di recente ha affermato che da almeno 13 anni aspettava un’attività del genere, e solo l’anno scorso ha saputo del progetto.
(Cristina, Pietro, Raffaela, Antonella, Stella)

Per informazioni:
Zanzebia Cooperativa Sociale Onlus
Via G. Falcone 12 – 25016 Ghedi (BS)
tel./fax 030/9031979
cell. 331/30.99.261

Parole extrachiare

di Stefano Toschi

Il tema dell’immigrazione è sempre più in primo piano nel nostro Paese. Esso porta con sé tante implicazioni, sociali, economiche, nel mondo del lavoro, ma, spostando il focus dell’attenzione solo ed esclusivamente sulle persone, vorrei affrontare un argomento che finora è stato poco trattato: il rapporto tra immigrazione e disabilità. Già una decina di anni fa, l’Associazione Beati noi commissionò una ricerca su questa tematica, allora del tutto all’avanguardia.
Emerse, tuttavia, come l’argomento risultasse scarsamente trattato per il fatto che difficilmente il fenomeno migratorio avrebbe potuto riguardare, all’epoca, adulti con disabilità. I pochi anni trascorsi, però, a oggi paiono ormai un’era geologica perché nel frattempo sono cambiate tantissime cose. I migranti non sono più solo giovani uomini in età da lavoro, ma intere famiglie, con anziani a carico (e, si sa, senectus ipsa morbus est) o con bambini piccoli al seguito, sempre più spesso bambini che nascono in Italia. Per i bambini con disabilità si cercano cure migliori nel nostro Paese. Quasi sempre i piccoli sono vittime del pregiudizio e dell’ignoranza nella propria terra d’origine: albini, epilettici, schizofrenici, paralitici, ogni deficit più o meno grave è visto come una maledizione per tutta la comunità, come una caratteristica demoniaca. Il soggetto che manifesta deficit e la sua famiglia, invece di essere accolti e aiutati, vengono spesso allontanati ed emarginati. Non che nella nostra, occidentalissima società le cose vadano molto meglio: tuttavia, per lo meno, il welfare state all’europea rende praticabile un certo tipo di assistenza pubblica. Negli anni mi è capitato di incontrare diversi ragazzi di origine straniera con deficit e le loro mamme. Sì, perché, nella quasi totalità dei casi sono le donne, a qualsiasi categoria sociale appartengano, a farsi carico dell’impegnativo lavoro di cura della prole. Vuoi per reazioni di paura, di rifiuto, vuoi per reale incapacità o per mancanza di fiducia nella società che li accoglie, i padri, spesso, si defilano di fronte a queste difficoltà. Emerge, allora, tutta la forza d’animo di queste madri che combattono per la salute e il benessere dei propri figli. In queste situazioni di doppia fragilità si evidenziano con chiarezza tutte le caratteristiche più significative della condizione di disabilità. Prima di tutto il pregiudizio: la disabilità è vissuta non come una caratteristica dell’individuo, mal che vada come una malattia, ma come risultato dell’essere malvoluti dagli dei, o l’essere oggetto di una maledizione, di un malocchio, di una volontà ultraterrena o, peggio, come il risultato di una colpa compiuta dai genitori, più spesso dalla madre, o come una punizione per l’intera comunità. Da ciò deriva l’isolamento della persona e della famiglia, che non sono sostenuti da una rete solidale, ma abbandonati a se stessi.
L’immigrazione in terra straniera comporta necessariamente il venir meno delle reti solidali di parentela o vicinanza, mettendo a nudo in maniera estremamente evidente la situazione di solitudine che la presenza del deficit porta con sé. Spesso, poi, l’ignoranza di alcune peculiarità antropologiche da parte dei medici, la cattiva comprensione della lingua e l’incapacità di comunicare appieno dall’altra parte rendono molto difficile formulare le diagnosi, facendo perdere tempo prezioso per salvare il salvabile.
Mi raccontò una volta una mamma di come al suo bambino appena nato non fosse stata riconosciuta
in tempo una sofferenza fetale, che se solo fosse stata curata tempestivamente non avrebbe portato con sé danni irreversibili. La neomamma, nordafricana, denunciò ai medici il colorito scuro del suo neonato, ma essi la apostrofarono dicendole che era troppo apprensiva come ogni puerpera e che se suo
figlio era scuro lo doveva, ovviamente, alle proprie origini. La mamma, tuttavia, aveva giustamente rico-
nosciuto che non si trattava di un colorito normale, ma fu l’ignoranza a parlare per quei medici. D’altro canto, le scarse conoscenze linguistiche portano, talvolta, i genitori a non essere in grado di spiegare
correttamente i disturbi e i sintomi manifestati dai loro figli: anche questo rallenta le diagnosi in modo significativo. Da ciò emerge l’importanza della comunicazione, verbale o meno, di fronte alla disabilità, ma anche l’importanza dell’insegnamento della lingua come primo, fondamentale veicolo di integrazione. Ci sono dolori così forti, di fronte alle difficoltà di un figlio, che se, oltretutto, non sai comunicare, non sai come affrontare, non riesci a spiegare, si amplificano a dismisura. Per non parlare di quando il figlio con disabilità nasce proprio nel Paese in cui si è scelto di trasferirsi. Ogni progetto migratorio implica che il Paese di destinazione sia visto come la soluzione, se non a tutti, a gran parte dei propri problemi. Ci si immagina che, trasferendosi, si andrà a stare meglio. Qualora, invece, ci si trovi di fronte alla nascita di un figlio con qualche difficoltà, si vive la situazione come una sorta di doppio tradimento. Si parte per stare meglio e ci si trova ad affrontare una difficoltà non prevista, qualcosa che non dovrebbe mai accadere nell’Eldorado immaginato. Ecco che la presa di coscienza diventa ancora più complessa.
Per non parlare di chi incontra la condizione di disabilità sul lavoro: le morti bianche, altro tema “caldo” dei nostri giorni, gli incidenti sul lavoro, sono tristemente numerosi, specie fra i cittadini immigrati, dal momento che ad essi, più di frequente, viene richiesto di lavorare in situazioni di pericolo, senza adeguati sistemi di sicurezza, spesso in nero, senza garanzie né tutele, per pochi soldi. Si tratta di una vera e propria piaga sociale, difficile da combattere, ma che richiede una grandissima dose di attenzione e impegno da parte dei nostri governanti. Per contro, di fronte a situazioni di duplice difficoltà, si riscoprono o si creano legami sociali insperati, fra immigrati, ma anche fra italiani e non, magari accomunati proprio dalla necessità di assistere un familiare, di lottare per lui. Le reti sociali si consolidano proprio in risposta a questi ostacoli, quasi sempre intorno a qualcuno che trova la forza di reagire. Talvolta sono la fede e la religione a fornire risposte e la capacità, se non di andare avanti, di accettare la situazione. Il conforto lo si trova, talvolta, nelle cose e nelle persone più insperate. La speranza, insieme alla fede, sono un motore di vita e di senso degli accadimenti di essa. Una speranza che, a volte, si fa molto concreta: ad esempio, si ripone fiducia nei progressi della medicina, coltivando la speranza che possa trovare soluzioni adeguate. A volte una diagnosi clinica, per quanto terribile, contiene in sé un germe di speranza, nascosto nella consapevolezza che no, non ci si stava sbagliando sui sintomi di un figlio, che davvero ha qualcosa che non va, che non è colpa sua, che si tratta di una malattia, di un deficit, con un nome proprio, non di un capriccio. Spesso, chiamare le cose col proprio nome aiuta non solo a guardare in faccia la realtà e ad acquisirne consapevolezza, ma anche a poterle affrontare con una sicurezza nuova, quella di chi conosce il nemico da combattere. Anche per questo mi batto da sempre perché la disabilità abbia un nome e un cognome. A ognuno il suo, senza generalizzazioni. Essere ipovedenti o spastici non è equivalente, non si tratta di deficit della stessa natura. Chiamare le cose col loro nome significa conoscerle. Anche la parola extracomunitari proprio perché è generica provoca incomprensioni e pregiudizi. Non si dovrebbe parlare di disabili extracomunitari, ma di quel ragazzo marocchino spastico o di quell’uomo filippino non vedente. Parlare chiaramente e non in modo generico è un grande passo avanti verso la vera accoglienza.

In fatto di cuore

a cura di Massimiliano Rubbi

Negli ultimi tempi, una volta mi venne la voglia di scrivere al signor Puta, per batter cassa. Alcide si sarebbe incaricato di impostare la lettera col prossimo Papaoutah. La roba da scrivere Alcide la teneva in una piccola scatola di biscotti proprio come quella che avevo visto a Branledore, proprio la stessa. Tutti i sergenti raffermati avevano dunque le stesse abitudini. Ma quando mi vide aprire la sua scatola, Alcide ebbe un gesto che mi sorprese per impedirmelo. Ero imbarazzato. Non sapevo perché me lo proibiva, la rimisi sul tavolo. “Ah! aprila va’!” ha detto infine lui.
“Va’ che non fa’ niente!”. Sùbito sul rovescio del coperchio era incollata la foto di una ragazzina. Solo la testa, un volto proprio dolce davvero con lunghi boccoli, come si portavano a quel tempo. Presi carta e penna e rinchiusi in fretta la scatola. Ero molto imbarazzato dalla mia indiscrezione, ma mi chiedevo tuttavia perché la cosa l’aveva tanto sconvolto.
Immaginai sùbito che si doveva trattare di una creatura sua, di cui aveva evitato di parlarmi fin lì. Non chiedevo altro, ma lo sentivo alle mie spalle che cercava di raccontarmi qualcosa su quella foto, con una strana voce che non gli conoscevo ancora. Farfugliava. Non sapevo più dove mettermi, io. Dovevo proprio aiutarlo a farmi le sue confidenze. Per superare il momento non sapevo più da che parte prenderla.
Sarebbe stata una confidenza penosissima da ascoltare, ero sicuro. Non ci tenevo per niente.
“È niente! lo sentii alla fine. È la figlia di mio fratello… Sono morti tutti e due…”
“I genitori?”
“Sì, i genitori…”
“Chi la tira su, allora? Tua madre?” gli ho chiesto io così, per manifestargli il mio interesse.
“Mia madre, ce l’ho più neanche lei…”
“Allora chi?
“Eh ben io!”.
Sogghignava, l’Alcide cremisi, come se avesse fatto qualcosa di assolutamente sconveniente. Si riprese
in fretta:
“Cioè adesso ti spiego… La faccio educare a Bordeaux dalle Suore… Ma non le Suore dei poveri, mi capisci eh!… Dalle Suore ‘bene’… Siccome sono io che me ne occupo, puoi stare tranquillo. Voglio che le manchi niente! Ginette, si chiama… È una ragazzina molto carina… Come sua madre d’altronde… Lei mi scrive, fa progressi, solo che, sai, una retta così, è cara… Soprattutto adesso che ha dieci anni… Mi piacerebbe che imparasse anche il piano… Cosa ne dici te del piano?… Va bene il piano, eh, per le ragazze?… Credi mica?… E l’inglese? È utile anche l’inglese?… Sai l’inglese te?…”.
Mi son messo a guardarlo molto più da vicino l’Alcide, via via che confessava la colpa di non essere abbastanza generoso, con i suoi baffetti impomatati, le sopracciglia da eccentrico, la pelle calcinata. Il pudico Alcide! Quante ne aveva dovuto fare di economie sulla sua paga striminzita… sui suoi premi d’arruolamento da fame e il piccolo commercio clandestino… per mesi, per anni, in quell’infernale Topo!… Non sapevo cosa rispondergli io, non ero molto competente, ma mi superava talmente in fatto di cuore che diventai tutto rosso… In confronto all’Alcide, non ero che un cafone impotente io, grossolano e fatuo ero… Non si poteva smarronare. Era chiaro.
Non osavo più parlargli, mi sentivo all’improvviso totalmente indegno di parlargli. Io che ancora ieri lo trascuravo e perfino lo disprezzavo un po’, Alcide.
“Non ho avuto fortuna”, proseguiva lui, senza rendersi conto che mi imbarazzava con le sue confidenze.
“Immàginati che due anni fa lei ha avuto la paralisi infantile… Figùrati… Tu sai cos’è la paralisi infanti-
le?”.
Mi spiegò allora che la gamba sinistra della bambina continuava a essere atrofizzata e che seguiva una
cura con l’elettricità a Bordeaux, da uno specialista.
“È una cosa che si guarisce, tu credi?…” si inquietava lui.
Gli assicurai che si aggiustava benissimo, proprio completamente col tempo e l’elettricità. Parlava della
madre che era morta e della malattia della piccola con molte precauzioni. Aveva paura, anche di lonta-
no, di farle del male.
“Sei stato a vederla dopo la malattia?”
“No… ero qui.”
“Ci andrai presto?”
“Credo che non potrò prima di tre anni… Tu capisci, qui faccio un po’ di commercio… Allora questo l’aiuta un po’… Se prendo un congedo adesso, al ritorno il posto sarebbe preso… soprattutto con quell’altra carogna…”.
Così, Alcide aveva fatto domanda per raddoppiare il soggiorno, per farsi sei anni di fila a Topo, invece dei tre, per la nipotina di cui non possedeva che qualche lettera e il ritrattino.
“Quel che mi dispiace” riprese lui quando ci coricammo “è che lei laggiù non ha nessuno per le vacan-
ze… È dura per una bambina…”.
Evidentemente Alcide faceva evoluzioni nel sublime come se fosse casa sua, per così dire con familiarità, dava del tu agli angeli, ’sto ragazzo, e aveva l’aria di niente. Aveva offerto quasi senza un dubbio a una ragazzina vagamente apparentata anni di tortura, l’annichilimento della sua povera vita in quella torrida monotonia, senza condizioni, senza mercanteggiare, senz’altro interesse che quello del suo buon cuore. Offriva a quella ragazzina lontana tanta tenerezza da rifare il mondo intero e questo non si
vedeva.
S’addormentò di colpo, alla luce della candela. Finì che mi alzai per guardare bene i suoi tratti alla luce.
Dormiva come tutti. Aveva l’aria proprio normale.
Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi.
(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte)

Se si dovesse descrivere Céline con un solo aggettivo, quello più utilizzato sarebbe “nichilista” (o più probabilmente “antisemita”, ma lasciamo chiuso questo capitolo). Credo che il brano riportato, al contrario, sia tra i più toccanti di tutta la letteratura del ’900 – e non è l’unico di questo tipo che si trova nella cavalcata tra gli orrori del “secolo breve”, all’insegna di un linguaggio pirotecnico, che è il Voyage. Il fatto è che per lo scrittore francese la grandezza di cuore si trova spesso (ma non necessariamente) in figure di “diversi”, che viste da fuori denotano abbrutimento e vergogna: la prostituta americana Molly, di cui il protagonista Bardamu dice “per la prima volta un essere umano si interessava a me […], si metteva al posto mio e non mi giudicava dal suo, come tutti gli altri”; Bébert, bambino monello nella misera periferia parigina dell’interguerra; e appunto il sergente Alcide, sepolto a Topo, villaggio sperduto di un’Africa coloniale che pare respingere con il suo cli- ma torrido la stessa presenza umana.
Alcide non corrisponde alle apparenze del benefattore dell’umanità: comanda con pugno di ferro la piccola milizia africana della colonia nelle sue (esilaranti) esercitazioni di guerra immaginaria, ha un conto aperto con il suo superiore, il tenente Grappa, e come accennato nel brano arrotonda un magro stipendio con il contrabbando di tabacco e alcol. Il “cuore d’oro” non è visibile a occhio nudo, ma non è nemmeno frutto necessario di una conoscenza più approfondita, emergendo piuttosto come una “apertura dell’essere” improvvisa e casuale, che solo in alcuni casi si palesa nei nostri rapporti con gli altri. Né, d’altro canto, è il “cuore d’oro” in grado di riscattare un’umanità in preda allo sbando morale e materiale, la “tenerezza” non è in realtà capace di “rifare il mondo intero” e forse nemmeno di generare riconoscenza e affetto in chi la riceve – Bardamu, che lascerà Molly per tornare in Francia e con i suoi sforzi di medico non potrà sottrarre Bébert a una morte precoce per febbre tifoidea, lasciando Topo per risalire il Congo rimugina: “può darsi che niente di tutto quello esista ancora, […], che ci sono solo io a ricordarmi ancora di Alcide… Che anche la nipote l’ha dimenticato”.
Nel rileggere questo testo, mi è venuta in mente la frase attribuita al regista Carlo Mazzacurati, da poco scomparso: “Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile.
Sempre”. Céline disapproverebbe di certo l’idea di dare lezioni a qualcuno, ma se ce n’è una che possiamo prendere da lui è di non stancarci di cercare l’umanità in chi ci circonda e in chi incontriamo, anche nei contesti più degradati, nelle persone apparentemente più lontane da noi e addirittura in apparenza più malvagie o aride. Che poi, malvagie e aride magari vai a scoprire che lo sono davvero. Con tutto quello che ha visto Bardamu mica vi regala illusioni da due franchi, però a non provarci nemmeno i primi a diventare malvagi e aridi a questo mondo non sareste voi?

L’equivoco come punto di vista: l’arte di Edward Gorey

di Roberto Parmeggiani

Edward Gorey era un tipo strano.
Non solo perché assisteva agli spettacoli di balletto classico vestito con una pelliccia e le scarpe da tennis.
Non solo perché viveva con decine di gatti che avevano libero accesso a ogni zona della casa.
Non solo per la sua capacità di coniugare la grande letteratura con la passione per le serie televisive più
popolari.
L’artista e illustratore americano era strano soprattutto perché estraneo alle convenzioni del suo tempo, libero quanto schivo di fronte a una società che ha criticato con ironia nelle sue infinite opere.
Ho conosciuto Edward Gorey mentre passeggiavo, qualche anno fa, tra gli stand della Fiera del libro per ragazzi di Bologna. La casa editrice Logos stava lanciando il volume Raffinati enigmi: l’arte di Edward Gorey di Karen Wilkin. Quando ho visto il libro sul tavolo sono stato immediatamente attratto dal segno di questo artista, sottili tratti di penna nera attraverso i quali delinea paesaggi e personaggi che vanno al di là di ogni logica.
Di fronte a una domanda sull’interpretazione del suo lavoro, l’artista risponde così: “Sono convinto che
ognuno ci veda quello che vuole ma, se si desidera trovare un significato, si può. Ogni tanto, arriva qualcuno che mi dice: ‘Ehi, ho capito di cosa parlava il tuo libro’. E io rispondo: ‘Ah, sì?’. E ascolto le teorie più strane. In quel caso penso: ‘Se è questo che ci vuoi vedere, per me va bene’”.
(Karen Wilkin, Raffinati enigmi: l’arte di Edward Gorey, Modena, Logos, 2011, p. 35).

Perfetta sintesi della sua cifra artistica, Edward Gorey disegna e scrive, perché prima di tutto si ritiene uno scrittore, senza preoccuparsi del giudizio o della visione degli altri. Narra un mondo vissuto da strani personaggi, spesso inquietanti e macabri, cui accadono eventi particolarmente tragici ma che producono nel lettore una risata. Nulla di morboso, semplicemente l’autore ci porta a guardare alla nostra condizione umana in modo ironico e divertito.
Due libri, su tutti, sono tra i miei preferiti: L’ospite equivoco del 1957 (Adelphi edizioni, 2004) e I piccoli di Gashlycrumb o Dopo la gita del 1963 (Adelphi edizioni, 2013).
Il primo racconta di uno strano animale con la sciarpa e le scarpe da tennis che compare una notte davanti alla villa di una ricca famiglia dall’aspetto vittoriano. Entrato in casa, non dimostra nessun interesse ad andarsene e attua comportamenti strani come mangiare i piatti, gettare l’argenteria nel laghetto o camminare in sonnambula per i corridoi. Nessuno sa chi sia, da dove sia venuto o perché. Non sembra pericoloso, semplicemente è difficile comprenderlo fino in fondo, dare un senso ai suoi gesti, chiuderlo dentro uno dei nostri schemi.
Il secondo, invece, è un classico abbecedario nel quale ogni lettera dell’alfabeto è l’iniziale del nome
di un bambino o di una bambina di cui scopriamo il modo in cui muore. Surreale, quanto ironico: G per
George, che sparì sotto una stuoia, N per Neville, an- noiato da crepare o R è per Rhoda, imprudente col cerino.
Edward Gorey non scrive e non disegna per bambini, almeno così lui sostiene, ma molte delle sue illustrazioni hanno come protagonista il mondo dell’infanzia, archetipo del mondo di tutti, da cui tutti veniamo e cui tutti, continuamente, facciamo riferimento. Le paure dei bambini, come le paure originarie e le inquietudini che tutti ci accomunano.
Ne L’ospite equivoco, ad esempio, ciò è molto chiaro. Questo strano personaggio a forma di animale entra nella vita della famiglia e lì resta come se nulla fosse.
Ed è proprio in questa apparente normalità che sta l’inquietudine: la difficoltà, per la famiglia protagonista del libro, di comprendere come una cosa tanto normale possa essere strana, mentre, per il lettore, la difficoltà di capire come una cosa tanto strana possa essere normale. Grande metafora della vita e, in particolare, della vita di chi si trova a relazionarsi con il diverso, con l’estraneo, con l’equivoco.
Equivoco, in effetti, significa “prestarsi a essere inteso in più modi” e non è sempre equivoca la realtà, soprattutto quella muova, estranea, diversa? Non sono sempre equivoche le relazioni con l’altro che proviamo a categorizzare, capire, incastrare in uno schema predefinito? Non è equivoco anche quello che noi stessi sentiamo e che troppo spesso eleviamo a unica verità?
Ecco, l’inquietudine di Edwar Gorey dovrebbe diventare una sorta di strumento di valutazione a partire dal quale criticare i nostri comportamenti, le nostre relazioni, perfino il nostro reale livello di integrazione, liberandoci dalla troppa sicurezza di avere interpretato in modo giusto la realtà vissuta.
Il libro La bicicletta Epipletica (Adelphi Edizioni, 2005) si apre con una frase: “Era il giorno dopo martedì e prima di mercoledì”. Ecco, trasformo il prologo in conclusione, perfetta sintesi dell’arte di Gorey, del suo pensiero surrealista, della sua capacità di raccontare il mondo sociale e culturale dal suo punto di vista, leggermente inquietante ma molto divertente.

Viaggi-Miraggi. Itinerari tra immaginario, attese e possibilità

a cura di Mario Fulgaro

Nell’immaginario onirico di ognuno il viaggio rappresenta sempre un coacervo di impressioni, sensazioni, ricordi, speranze e molto ancora. È proprio su questo “molto ancora” che chi si appresta a intraprendere un breve o lungo tour per il mondo investe quanto di più proprio e personale ha nell’animo. Il viaggio può rivelarsi spiazzante o finire per confermare le aspettative della partenza ma è pur sempre un salto nel vuoto che può renderci, anche se per un tempo limitato, protagonisti della nostra storia e delle nostre esperienze. Queste le premesse del laboratorio “Viaggi-Miraggi. Il viaggio tra immaginario, attese e possibilità”, condotto e partecipato dagli animatori con disabilità e gli educatori del Progetto Calamaio. Chi ne ha fatto parte è stato coinvolto in una vera e propria partenza immaginaria, un preambolo esplorativo a partire dall’etimologia originaria del valore-viaggio con tutti gli annessi e connessi, il viaggio come viatico tanto per cominciare, ciò che riguarda “la via del cammino”. Evasione, ricerca, divertimento, voglia di mettersi alla prova in un contesto nuovo, parole chiave e punti di partenza che ci hanno portato a confrontarci più da vicino con le nostre avventure, insieme alle difficoltà più concrete di chi in valigia porta con sé anche la propria disabilità. Scelta la nostra destinazione, abbiamo così preparato i bagagli, imparato a conoscere i mezzi di trasporto, inscenato un vero e proprio check-in, finché al ritorno non abbiamo confrontato le conquiste dell’immaginario con quelle della realtà e ne sono venute fuori delle belle!
Un vero e proprio diario di viaggio è quello che ora raccontiamo per brevi estratti, tra sorprese, piccole autonomie raggiunte, ausili creativi, sport, nuove amicizie e prove superate. Perché se è vero che viaggiare è anche cambiare, cambiare è cominciare a superare una distanza per mezzo dell’immaginazione. È stata la prima estate in cui ho trascorso una vacanza completamente da solo, senza cioè la presenza dei miei genitori. All’inizio ero molto spaventato, non conoscevo gli educatori del gruppo con cui sarei partito e avevo paura che non fossero in grado di occuparsi di me, di lavarmi, di mettermi a letto… Un giorno però, poco prima di partire, uno di loro è venuto a casa mia, proprio per conoscermi, e questo ha rassicurato molto sia me che la mia famiglia. Così sono partito per Igea Marina e ho chiesto a mia mamma di non chiamarmi per tutta la settimana; pur avendo il cellulare con me volevo infatti essere io a scegliere quando chiamarla, e così ho fatto. In quel luogo è andato tutto bene e ho scoperto che è possibile conoscere persone nuove e simpatiche anche al di fuori del CDH e avere così una vita personale più mia, che non sia solo a casa o al lavoro.
In spiaggia ho fatto per la prima volta il bagno. All’inizio ero teso ma ho usato il salvagente. Un po’ più facile è stato andare all’Acquario di Cattolica dove ho visto i delfini. Una sera invece sono stato anche in
un disco-pub, dove ho incontrato due mie colleghe con disabilità, Tiziana e Stefania. Che sorpresa! Sono stato contento di vederle e mi sono fermato a salutarle. Il penultimo giorno infine ho cominciato a essere un po’ triste… Non volevo più tornare a casa!

Così, al rientro, ho convinto i miei genitori a ripetere l’esperienza per il prossimo anno e, perché no, a prolungarla. Invece di stare via una settimana, proverò a stare via due! (Diego)

Io e la mia famiglia trascorriamo da sempre le vacanze estive in Croazia, in un campeggio che si trova all’interno del giardino di una pensione. Abbiamo la nostra roulotte e ci troviamo nelle vicinanze del mare. Di solito per salire o per scendere dalla roulotte c’è un gradino da superare e questo finora ha implicato per me la necessità di essere presa in braccio da mio padre, perché io da sola non riesco a scendere o a salire il gradino; in più lui è l’unico che se la sente di reggere il mio peso, senza contare che, essendo lo spazio per passare dalla porta piccolo, avevo sempre bisogno di lui per entrare più volte al giorno nella roulotte. Mio padre tuttavia è una persona creativa e dopo la mia nascita ha costruito degli ausili per migliorare la nostra qualità della vita. Così quest’anno è nato anche il mio nuovo ausilio, “lo scivolo per la roulotte”, che è formato da tre parti. Una parte è fissa, attaccata alla roulotte, d’alluminio e pieghevole, in modo da fare spazio intorno quando non la si usa. Al fianco della roulotte ci sono altri due scivoli, sempre in alluminio (così non si rovinano), lì posizionati per salire o per scendere. Entrambe le parti sono molto leggere da spostare.
L’ultimo pezzo, quello forte, è una sedia di plastica con i piedi dritti, sotto cui sono state aggiunte quattro ruote con i freni e una cinghia, per passare dalla porta senza fatica e in sicurezza. È un ausilio semplice che chiunque può usare perché alleggerisce di molto il mio peso e aiuta la mobilità, il che mi rende così più libera e autonoma in diverse occasioni, come quando, ad esempio, vengono a trovarmi gli amici. Questo implica più libertà per tutti e la possibilità di non dipendere unicamente dalla forza fisica di mio padre. (Tatiana)

Destinazione Igea Marina e Alicante, entrambe esaltanti. A Igea, in particolare, sono rimasto entusiasta, nonostante fossi partito molto stanco, demoralizzato e ansioso. Sono arrivato là a luglio, nel bel mezzo di una rassegna cinematografica, durante la quale ho visto un film che mi è piaciuto molto, The Odd Life of Timothy Green, cui è seguito un dibattito in piazza, in cui anch’io ho fatto un intervento che ha strabiliato tutti, compresi i relatori. Lo dico perché alla fine della serata mi hanno invitato il giorno dopo a partecipare alla seconda parte della rassegna, per discutere sul film non più come spettatore ma come relatore. È stata una grande soddisfazione! Ovviamente ho parlato anche del mio lavoro, dei temi che trattiamo, non lontani da quelli di cui si discuteva nella rassegna. Ho poi concluso la mia partecipazione con un’analisi più accurata e personale del film. Ne è seguito un lungo applauso!
Se dovessi tuttavia definire in due parole la vacanza direi: “tanta amicizia e tanto pesce”.
Ho fatto diversi giri per il paese con il motorino elettrico, da solo, con più autonomia, mi sentivo meglio
fisicamente, mentre altre volte mi spostavo in compagnia. Quest’anno ho conosciuto molte nuove persone, alcune le conoscevo già, altre le ho conosciute direttamente sul posto. Ho fatto fisioterapia nell’acqua di mare e, oltre alla fisioterapista, ad aiutarmi c’erano anche i bagnini. Pur non tralasciando le cure ho così spaziato tra spiaggia, ristoranti e discoteche… Ero partito sensibilissimo e sono tornato entusiasta. Ero finalmente protagonista della mia vita.
(Mario)

La mia è stata una vacanza di sport e avventura: qualche giorno in Trentino con mia mamma e poi a Sestriere, in Piemonte, con tutta la famiglia. In Trentino ci sono arrivata in treno con l’aiuto, alla partenza, degli assistenti della stazione di Bologna mentre a Sestriere siamo andati con la macchina. In entrambi i posti ho provato nuovi sport e anche nuove attrezzature, come la trike e la buggy bike, delle bici a quattro ruote praticamente, con dei manubri molto particolari, fatte per percorrere le strade di montagna in cui potevo stare seduta. Potevo manovrare la buggy anche autonomamente. Ho stretto nuove amicizie e mi sono divertita. Devo dire però che, durante quel periodo e al ritorno, ho ripensato al nostro laboratorio sul viaggio… Mi è piaciuto molto. E se ne sono accorti anche i miei genitori. Prima di partire, infatti, ho voluto fare la valigia da sola. Al ritorno poi, quando ho sentito quello che è successo a Diego e agli altri miei colleghi, mi è venuta voglia di fare la stessa cosa; così ho chiesto a mia mamma, mio padre e mio fratello di partecipare l’anno prossimo a una vacanza organizzata, senza di loro. Hanno accettato. Sarebbe la prima volta e non vedo l’ora!
(Danae)

Per informazioni:
emanuela@accaparlante.it
lucia.cominoli@accaparlante.it

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente, claudio@accaparlante.it

Carissimo Claudio,
seguo sempre le tue rubriche. Mi è piaciuto moltissimo il cartone animato Oltre le barriere che hai citato. L’ho trovato molto interessante sia come insegnante che come mamma di una bimba con disabilità e ho scelto di proporlo ai miei alunni della scuola primaria.
Invece, a proposito di uno dei tuoi ultimi articoli, Il custode di castelli, mi permetto di aggiungere che
mia figlia, sulla spiaggia, più che fare la custode fa “la distruttrice di castelli”… Non ne sopravvive nessuno al suo passaggio! E allora?
Grazie! Ciao
Francesca Ferraris

Cara Francesca,
sono contento che tu abbia apprezzato il mio consiglio e soprattutto che sia stato condiviso con i tuoi studenti. Oltre le barriere è la storia dell’amicizia nata tra i banchi di scuola tra una bambina e il nuovo compagno con disabilità che non riesce a muovere nessuna parte del corpo, eccetto i suoi occhi. Un corto animato nato in Spagna, che, nella sua semplicità, rappresenta un bell’esempio di come i più piccoli (e non solo loro) possano mettere in atto le strategie della creatività e della fiducia, avviando così un percorso di relazione che andrà ben oltre il contesto scolastico.
Un aspetto, quello dell’“oltre”, molto importante, di cui ogni insegnante dovrebbe farsi trampolino di lancio. Mi piacerebbe, ora che il rischio della patologizzazione è sempre in agguato e il potere della scuola meno forte di prima, che il ruolo dell’educatore-insegnante tornasse a farsi un po’ bambino e favorire così quei processi d’integrazione spontanea che nascono a partire dallo sguardo e, perché no, anche dal caso. Solo così la sua didattica potrà dirsi libera e inclusiva e soprattutto avere una ricaduta sulla realtà Non dimentichiamo infatti che i bambini, disabili e non, dalla scuola finiranno per uscire e quello che faranno dipenderà anche da quello che avranno o non avranno imparato in termini di confronto con l’alterità e di messa in gioco di sé. Lavorare nelle scuole da sempre vuol dire lavorare per formare, lavorare per il futuro della persona in modo stimolante e autonomo.
Oltre le barriere costituisce un ottimo spunto per le insegnanti che vogliono scommettere sul futuro, per
questo vi consiglio ancora vivamente di portarlo nelle vostre classi. Per quanto riguarda invece le avventure della tua “distruttrice di castelli”, ti invito a leggere qui sotto la mia risposta a un’altra mamma come te.
Grazie per il tuo impegno e buona vita!

Claudio carissimo,
da tempo non ti scrivo. Ma il pensiero vive nel cuore e non è una frase fatta…
La tua riflessione su Il custode di castelli di quest’estate ha toccato tutte le mie corde. Il custode dei castelli di sabbia e la sua mamma protagonista, tenace, forte, coraggiosa, la tua, nonostante le tantissime amarezze dovute ingoiare, che ti ha reso persona sensibile, acuta, ironica, amante
della vita così come ti è stata donata. Io non ho mai costruito castelli al mare, né sono rimasta a custodirli. Ho viaggiato purtroppo per troppi ospedali, troppi… Ho costruito però altri castelli, disfatti e rifatti a seconda delle esigenze, con ponte levatoio e senza, con il fossato di protezione e senza. I miei 65 anni hanno “altri castelli”, a volte fragili, più di quelli di sabbia, altre volte così forti che nessuna burrasca li abbatte.
Ti penso e con tutti i tuoi lettori ti auguro di scrivere in lunga estensione pagine così belle. Così tue e così “nostre”.
Un caro abbraccio,
Olga

Cara Olga,
è sempre un piacere leggere le vostre risposte, le vostre esperienze.
Quella de Il custode di castelli, lo immaginerai, è una riflessione a me particolarmente cara, non solo perché racconto un episodio della mia infanzia e ripercorro le sfide di mia mamma, ma anche perché penso che i castelli di sabbia, di fatto, non finiscano mai. I castelli nascono sempre su territori di confine, sul limite cioè su cui campeggiano anche i nostri sogni, desideri, fantasie e avventure.
La spiaggia e la riva, in fondo, cosa sono? Un limite tra la terra e il mare, un confine tra i nostri limiti e
quelli della gente, oggi come allora.
Il limite è un luogo dove vivere le nostre progettualità e qui sta la sfida: non scappare dal limite ma trasformarlo in futuro.
Più ci spingiamo sui confini del limite, più saremo in grado di costruire nuovi castelli, che non sono il
punto d’arrivo, il rifugio per sfuggire dalla realtà ma progettualità in divenire, fatte per essere di volta in
volta distrutte, ricostruite e abitate.
I castelli si costruiscono insieme, si condividono con altri, ognuno con il suo compito, come quello, ad esempio, di farsi da improvvisati a provetti custodi.
C’è anche chi, come mi scrive Francesca, mamma di una bimba con disabilità, i castelli li distrugge al
suo passaggio. E allora?
E allora ben venga! Perché l’importante non sono le mura dei castelli ma i ponti levatoi, ponti che per-
mettono il passaggio tra il dentro e il fuori, tra l’esterno e l’interno di noi stessi.
Che dire allora? Gettate a terra i ponti levatoi e uscite!

 

Diverso non “stona”: buone prassi di musica inclusiva nella scuola

di Marina Penzo, insegnante di sostegno-musicista

Pinocchio andò a scuola. Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro scuola un burattino! Fu una risata che non finiva più. Chi gli faceva uno scherzo, chi un altro: chi gli levava il berretto di mano; chi gli tirava il giubbottino di dietro; chi si provava a fargli con l’inchiostro due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli dei fili ai piedi e alle mani, per farlo ballare…
(Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio)

In questi anni di esperienza professionale in qualità di insegnante di sostegno nella scuola secondaria di
primo grado, sin da subito mi sono resa conto di quanto avere una formazione musicale e specifiche
competenze nella didattica della musica permetta con maggiore facilità di aprire la porta di ambienti d’insieme inclusivi delle differenze psicofisiche e culturali. Allo stesso tempo, lavorare con la musica consente un vissuto di soddisfazione e la piena realizzazione come educatore e formatore, acquisendo il giusto grado di autorevolezza agli occhi di tutti. Prenderne coscienza significherebbe per i tanti insegnanti di sostegno-musicisti (e in Italia sono moltissimi!) impegnarsi con passione “sul campo” per dimostrare quanto la musica svolga un ruolo importante non solo sullo sviluppo mentale e fisico, ma anche sulle relazioni sociali e sul loro apprendimento; la ricerca, infatti, conferma che praticare in gruppo la musica incoraggia i partecipanti a mantenere l’attenzione verso l’altro, con una percezione uditiva e visiva costante delle interazioni collettive. Il fare musica insieme quindi crea legami sociali, induce l’emergere di uno stato emozionale comune e un senso di fiducia reciproca tra i partecipanti.
Ma affinché il concetto di integrazione scolastica e sociale non rimanga mero principio garantito dalla legislazione italiana, bisogna trovare la volontà di percorrere un cammino verso l’inclusione che, per mezzo dei suoni e della musica, consenta di incontrare, ma soprattutto “frequentare”, le diversità fino a ridurre la distanza tra le persone, abbattendo le barriere alla partecipazione e all’apprendimento di tutti, sviluppando il senso di appartenenza alla comunità.
Posso dire con assoluta certezza che tutto ciò è reso possibile a scuola solo dal coinvolgimento, oltre che
dell’insegnante di sostegno, di tutti gli altri colleghi disciplinari, modificando sostanzialmente la didattica della classe per mezzo di attività musicali laboratoriali a valenza transdisciplinare.
Diviene inoltre di cruciale importanza moltiplicare e diffondere, adattandole a nuovi contesti, le buone
pratiche di musica inclusiva osservate e validate nel nostro Paese, sia dai referenti della ricerca psico-pedagogica sui temi della musica e dell’integrazione, sia nel lavoro sul campo degli insegnanti e operatori del settore. Bisogna insomma parlarne senza mai stancarsi, affinché vengano messe a sistema in ogni realtà territoriale.
E la preziosa “occasione” mi è stata concessa in una sorta di “crescendo rossiniano” dalla rivista “Musica Domani” nella rubrica Musica per l’inclusione (articoli contenuti nei numeri 167-giugno 2013 e 168-169 settembre-dicembre 2013), dal 9° Convegno Internazionale “La Qualità dell’integrazione scolastica e sociale” (selezione della Direzione Scientifica del Centro Studi Erickson e presentazione quali “buone prassi”), dal recente Seminario nazionale di formazione Musiche inclusive presso il MIUR di Roma (presentazione nella sezione poster), e ora dalla rivista “HP-Accaparlante” nella rubrica Controtempo.
Nella speranza di riuscire a “contagiare” altri colleghi e invogliarli a impegnarsi nella progettazione di percorsi che permettano di rendere piacevole ed efficace il processo di formazione di ognuno e la realizzazione di tutti, docenti e ragazzi insieme, vi racconto due percorsi da me coordinati di composizione musicale e multimediale condotti in prospettiva inclusiva.
Proverò a riassumerli in modo schematico, ma vi invito a contattarmi per qualsiasi chiarimento e volontà di approfondimento.
Premessa: a partire dalla scuola che vede convivere assieme allievi dotati di abilità tra loro differenti, è possibile affrontare e vincere i pregiudizi sulla diversità e sulla disabilità.
Le fondamenta: sostenere il ruolo del gruppo classe nel processo di inclusione; impiegare la personale formazione musicale nella progettazione e realizzazione dei percorsi; coinvolgimento dell’intero team di classe e di tutti i ragazzi (compresi quelli “certificati”); ricercare e costruire un contesto scolastico “fertile” e recettivo; volontà di condivisione con l’esterno.
Realizzazione: s.m.s. “G.G. Felissent” – Treviso, classi seconde, A.S. 2008-09 Together is possible e
A.S. 2010-11 Diverso non “stona”.
Durata: circa tre mesi cadauno.
In comune: prerequisiti, obiettivi, strategie per l’attuazione.
Intento: trovare spazi comuni di partecipazione e di apprendimento; sviscerare e modificare stereotipi e luoghi comuni sulla diversità; avviare con le persone con bisogni educativi speciali rapporti di sostegno basati sulla reciprocità.
Strategie per l’attuazione: proporre dibattiti/discussioni su temi quali il rispetto dell’altro, la diversità, l’amicizia; utilizzare varie proposte stimolo (libri, film, ascolti, interviste); incoraggiare a esprimere il proprio punto di vista e condividerlo con la classe; valorizzare conoscenze, abilità, competenze, creatività dei ragazzi.
Fasi di lavoro: in entrambi i casi nella prima fase approfondimento del tema “diversità” (modalità multidisciplinare di ricerca-azione finalizzata a sradicare paure e preconcetti dei ragazzi); successivamente alla luce dei tanti stimoli, approfondimenti, lavori di gruppo intrapresi rielaborazione, co-costruzione creativa (alunni, docenti, esperti) di quanto vissuto per mezzo dei suoni e della musica.

Together is possible

Occasione: rapporto “difficile” della classe con la compagna “certificata” con grave ritardo cognitivo e scarsa autonomia personale e sociale; partecipazione al Concorso Regionale per il Veneto sulla Convenzione Internazionale dei Diritti delle Persone con Disabilità.
Prodotto finale: i ragazzi hanno rielaborato il tema della diversità attraverso una loro canzone, ideando un testo per spiegare l’iniziale paura nei confronti del “diverso”, la progressiva presa di coscienza che ognuno ha delle potenzialità da mettere in gioco e della reciprocità della vera amicizia. Abbiamo deciso di arrangiare l’orecchiabile e accattivante Happy Phantom di Tori Amos per gli strumenti che i ragazzi sapevano suonare (flauto dolce soprano e contralto, pianoforte, violino, violoncello, percussioni), modificandone il testo con la tecnica della parodia. Infine abbiamo fatto le riprese video dell’esecuzione dove alcuni ragazzi suonavano e altri cantavano, e stabilito il montaggio decidendo di sottolineare il testo attraverso il passaggio progressivo dal bianco e nero al colore e di alternare le riprese in diretta nella strofa ad alcune animazioni con le parole del testo sincro-
nizzate con la musica nel ritornello.
Risultati: a seguito dell’intervento didattico, è aumentata la serenità con cui l’alunna ha vissuto la vi-
ta scolastica contestualmente alla disponibilità dei compagni nei suoi confronti, e alla volontà di interagire e condividere con lei esperienze formative. Vissuto di soddisfazione dell’insegnante di sostegno e riconoscimento delle sue competenze da parte degli altri colleghi. Grande soddisfazione di tutti per il primo premio assoluto al Concorso Regionale.

Diverso non “stona”
Occasione:
volontà di diffondere nella scuola la modalità inclusiva sperimentata coinvolgendo più alunni e colleghi; partecipazione al Concorso Nazionale “Andiamo incontro al diverso”; partecipazione al Concorso “Mygiffoni”.
Prodotto finale: questa volta i ragazzi si sono impegnati nell’ideazione e realizzazione di un cortometraggio, creando un soggetto dove si “parla” di diversità non tanto tramite le parole quanto per mezzo dei suoni e della musica. Abbiamo quindi costruito la sceneggiatura e chiesto l’aiuto di un giovane regista che ha assistito e guidato tecnicamente i ragazzi nell’ideazione e realizzazione dello storyboard. Il brano musicale Allegretto in Do maggiore di Diabelli è stato adattato e arrangiato nella versione classica (solo per flauti soprani e contralti) e “diversa” (con l’impiego di gesti-suoni, strumenti a piccola percussione di differente provenienza, flauto dolce “smontato” e suonato in modo non convenzionale) perché lo potessero eseguire senza problemi soprattutto i ragazzi con gravi problemi di movimento e deambulazione, ritardo nello sviluppo psico-fisico, difficoltà comunicative e relazionali. Abbiamo quindi registrato e mixato l’audio (con la collaborazione di un amico sound designer) e infine realizzato le riprese video (a cura degli esperti). Per ultimo, ma non meno importante, abbiamo lavorato alla realizzazione del video del backstage montato da un’alunna che documentasse, per mezzo di foto di scena e brevi filmati, l’intero percorso intrapreso con i ragazzi nelle sue fasi salienti.
Il cortometraggio è visibile all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=BbLw1dOz2rc.
Risultati: partecipazione entusiasta di tutti gli alunni con disabilità delle classi coinvolte. Ragazzi, docenti esperti si sono spesi con generosità, impegno ed entusiasmo, senza mai lamentarsi delle ore di lavoro oltre ogni previsione per raggiungere risultati eccellenti; concessione del patrocinio del Comune di Treviso; primi posti nelle preferenze del pubblico d’Italia al Concorso “Mygiffoni”.
Attualmente, il percorso è in fase di realizzazione presso s.m.s. “A. Martini” di Treviso dove mi trovo a lavorare da due anni; stiamo freneticamente lavorando con i ragazzi per riuscire a costruire qualcosa di altrettanto originale, gratificante e (speriamo) “dirompente” per mezzo dei suoni e della musica. Di sicuro, anche questa volta cercheremo di trasmettere il messaggio che Together is possible e soprattutto Diverso non “stona”!

Per informazioni:
marinapenzo@alice.it

C’era una volta un pezzo di legno. Gli Amici di Luca incontrano Babilonia Teatri

di Lucia Cominoli

Dopo il debutto nel dicembre 2012 al Teatro Storchi di Modena, la tournée di Pinocchio, lo spettacolo realizzato dalla compagnia veronese Babilonia Teatri con gli attori usciti dal coma dell’Associazione Gli Amici di Luca e della Casa dei Risvegli di Bologna, non si è più fermata. Sarà per il riconoscimento ricevuto nel 2013 con il Premio ANCT, rilasciato dall’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, o forse perché, attingendo con immediatezza ai riferimenti più comuni della favola di Collodi, il gruppo ha saputo così sondare tra le pieghe e le contraddizioni tutte umane del burattino di legno, insieme alla voce di ben tre “pinocchi” (Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli) che, reduci da quel lungo risveglio che segue la stasi, desiderano ora vivere, essere e amare al centro di un mondo che sembra non riconoscerli più ma che al contempo ancora li scruta, desidera e insegue. Ne abbiamo discusso con Fulvio De Nigris, direttore del Centro Studi per la Ricerca sul Coma e fondatore de Gli Amici di Luca e il regista di Babilonia Teatri Enrico Castellari.

“Babilonia Teatri incontra Gli Amici di Luca. Gli Amici di Luca incontrano Babilonia Teatri. Un incontro. Uno scontro. Un crocevia. Un matrimonio di necessità”. Così avete definito l’inizio del vostro percorso… Cosa c’era prima?
Fulvio De Nigris: Un laboratorio teatrale, attivo alla Casa dei Risvegli dal 2003, che nel corso di questi
anni ha dato vita a sei spettacoli, coinvolgendo come attori gli ospiti dell’unità ospedaliera, con la partecipazione di volontari e professionisti che avevano già prodotto delle innovazioni nell’ambito del teatro legato alla disabilità, come Vincenzo Toma e Antonio Viganò, e che oggi è affidato agli operatori teatrali Stefano Masotti e Alessandra Cortesi con il coordinamento pedagogico di Laura Trevisani. Inoltre, fin dalle origini, è sempre stata stretta la collaborazione con il Dams di Bologna in particolare con Cristina Valenti, docente di Storia del Nuovo Teatro, che ci ha messo in contatto con i Babilonia Teatri, una compagnia oggi molto nota nel circuito teatrale che ha permesso alla nostra di raggiungere un’ulteriore crescita, una risonanza e un’eco mai raggiunte prima, importantissime per noi in un’ottica di contatto con l’esterno, come portare fuori lo spettacolo dalla struttura in tournée, un’occasione sempre straordinaria per gli attori dal punto di vista sia relazionale che professionale.
Enrico Castellani: Noi non avevamo mai lavorato con la disabilità in senso proprio; quando Cristina Valenti ci ha contattato non conoscevamo Gli amici di Luca, sono stati completamente una novità, così come non sapevamo nulla di coma. Allo stesso tempo ci siamo presentati loro senza alcuna perplessità, semplicemente con la volontà di andare incontro a delle persone che eravamo curiosi di conoscere, persone la cui vita si è trasformata a causa di quest’esperienza, un’esperienza, quella del coma, che ha portato loro dei danni a livello fisico, psicologico o comportamentale, a un handicap acquisito, una mentalità diversa rispetto alle persone che ho conosciuto con handicap dalla nascita. Noi ci siamo presentati provando a chiedere loro perché facevano teatro e ci hanno risposto che, a causa dell’handicap, la società li aveva messi da una parte, il teatro era il solo modo per rientrarci. La loro onestà e il valore assolutamente primario che attribuivano al teatro è stata per noi un’illuminazione e una folgorazione insieme, da lì è partita la riflessione per poter costruire uno spettscolo che potesse circuitare nei teatri, ossia nei luoghi che abitualmente frequentiamo, senza porla nell’ambito del cosiddetto “teatro sociale”, proprio perché tutto questo aveva un valore per loro assolutamente vitale.

Pinocchio è una delle figure per tradizione più associate alla disabilità… Perché riproporla ancora?
Fulvio De Nigris: È stata una scelta di Enrico e Valeria Raimondi, i registi, che noi abbiamo subito condiviso nei modi e negli intenti…
Enrico Castellani: In realtà Pinocchio doveva essere una dedica all’infanzia, il primo di una serie di spettacoli sulle età della vita. Quando abbiamo incontrato Gli Amici di Luca però quello che era ancora un contenitore vuoto si è improvvisamente riempito di senso. Pinocchio è infatti un corpo che come il loro da burattino si trasforma in corpo in carne e ossa. C’è poi un’altra ragione: Pinocchio è un romanzo di formazione e una fiaba che appartiene all’immaginario collettivo di noi tutti, tutti cioè capiamo subito di cosa sta parlando Pinocchio, a quali personaggi, luoghi e fatti si riferisce. Qui abbiamo innestato i loro vissuti spostandoli su un terreno di metafora, e così la Fata Turchina è diventata il desiderio di una fidanzata (l’affettività e la sessualità è infatti assolutamente centrale nelle loro vite) e il bisogno di evasione, che da una parte ricercano e da una parte li riporta ai bisogni della vita precedente, ci ha condotti nel Paese dei Balocchi. Pinocchio diventa una spalla che può permettere loro di procedere, di raccontarsi.

Lo spettacolo è stato preceduto da una lunga fase laboratoriale. Come siete arrivati a scegliere Paolo, Luigi e Riccardo e a sviluppare con loro la drammaturgia e la regia?
Fulvio De Nigris: Inizialmente hanno seguito il percorso tutti gli attori e i volontari del gruppo, io compreso
Enrico Castellani: Sì, la prima fase si è sviluppato nell’arco di sei-otto mesi con l’intera compagnia. Abbiamo poi chiesto loro, al di là delle personalità, chi fosse disponibile ad affrontare un periodo di prove costante per cinque residenze di sette giorni e un’intera tournée. Ovviamente tutto questo è stato dettato anche dal proprio tipo di vita, dal lavoro e dalle famiglie, di certo non abbiamo fatto provini, come del resto non facciamo mai, è stata una scelta, insomma, legata a fattori contingenti. Sicuramente non abbiamo fatto provini, cosa che per altro non facciamo mai. Per quanto riguarda la drammaturgia direi che un testo vero e proprio non esiste, esistono degli appuntamenti fissi ma è un testo a braccio in cui ci sono dei temi che vengono svolti direttamente sulla scena, la maggior parte dello spettacolo è infatti un’improvvisazione vera e propria. Ogni sera la mia voce fuori campo guida gli attori, gli argomenti trattati cambiano ogni volta e io continuo a spostare le domande, cerchiamo di essere spontanei sul palco, perché è questa la loro ricchezza, non avrebbe avuto senso costringerli o ingabbiarli in qualcosa di precostituito. Tutti gli argomenti che portiamo sono nati comunque dal lavoro di improvvisazione che abbiamo sviluppato nelle prove noi e loro assieme. Come regista ho cercato di mettermi in ascolto per metterli a loro volta a proprio agio.

Pensate di aver dato vita a un lavoro molto diverso dai precedenti?
Il tentativo è stato quello di mantenere cifre nostre come un particolare uso della musica e un procedimento a quadri che alla fine una storia vera e propria non la racconta… Cerchiamo di volta in volta di trovare la formula che più riesce a veicolare i contenuti che desideriamo condividere e questa che ho descritto ci sembrava la più consona.

Cosa hanno provato Gli Amici di Luca alla prima dello spettacolo?
Fulvio De Nigris: Al di là della prima a Modena è stato emozionante vedere entrare il pubblico dall’esterno per assistere allo spettacolo dentro la struttura. È la prova di come un luogo di cura può sviluppare percorsi artistici, così come è accaduto con l’incontro con il nostro testimonial Bergonzoni. Teatro e musica sono per noi strumenti di sensibilizzazione. Tutto ciò ha certo a che fare con il teatro impropriamente definito “sociale”, solo che ci sono attori che nel loro complesso non hanno nulla da invidiare agli altri.

Quanto peso sta avendo il supporto di un pubblico così esteso nella crescita personale e riabilitativa dei protagonisti?
Enrico Castellari: Questa è una domanda che continuiamo a porci anche noi. Di sicuro emerge da parte del pubblico una grande necessità di confrontarsi con questi temi e queste persone. Noi per primi non le frequentiamo generalmente nella nostra vita; quasi sempre sono persone che hanno una vita a parte rispetto alla società, nel momento in cui il pubblico le incontra è come se anche lui soddisfasse un bisogno. Per questo il nostro tentativo è stato volto a permettere agli attori che sono sul palco di raccontarsi e di essere se stessi, di poter dire in qualche modo che “ci sono” e di farlo a tutto tondo. Al di là delle implicazioni delle loro esperienze di coma, sono persone che normalmente non avrei mai incontrato da nessuna parte, la loro condizione e il teatro ci hanno permesso di farlo su un terreno sospeso dove è possibile incontrarsi prima di tutto come esseri umani.
Per quanto riguarda gli attori, invece, direi che l’esperienza di tournée li sta rendendo entusiasti. Un giorno a una replica dello spettacolo ci hanno chiesto se sarebbe stato possibile fare una doppia, date le moltissime richieste, e loro hanno risposto che erano pronti a farne dieci! L’incontro con il pubblico li carica di un’energia enorme che vorrebbero non finisse mai. Quando poi hanno ricevuto il Premio ANCT, volavano letteralmente tra le nuvole…
Fulvio De Nigris: Insieme a loro c’è sempre anche Stefano Masotti, teatrante e psicologo che fa un po’
da paracadute all’esperienza.
Enrico Castellani: Sì, Stefano è una persona di grandissima sensibilità con cui anche noi abbiamo instaurato una forte complicità.

Ora che Pinocchio è diventato grande, che intenzioni ha?
Fulvio De Nigris: Ci interessa proseguire nella direzione di una crescita teatrale di apertura all’esterno; lo abbiamo fatto anche con l’ITC Teatro di San Lazzaro, con “Il Paese delle Meraviglie e altre storie” in scena lo scorso 7 ottobre 2013 all’Arena del Sole di Bologna per la giornata nazionale dei risvegli.
Enrico Castellani: Sicuramente siamo felici di proseguire quest’esperienza…
Fulvio De Nigris: Il coma, dice sempre uno dei nostri attori, è come la macchina dei Flintstones, un veicolo senza motore, devi mettere fuori gambe e piedi per farla camminare…

Per saperne di più:
www.babiloniateatri.it
www.amicidiluca.it
www.casadeirisvegli.it

Il Sitting Volley: uno sport inclusivo e socializzante

di Morgan e Maria

Fernando Morganelli (Morgan) è allenatore di Sitting Volley. Maria De Rosa è atleta del Sitting. Per seguire le loro avventure su Facebook: “Villanova SL Volley Consorzio Vip” e “Sitting Volleyball Bologna”. Per contatti: www.villanovavolley.com.

Il Sitting Volley è uno sport nato in Olanda nel 1956/57. Consiste in una speciale versione della pallavolo, giocata stando seduti a terra e con la rete più bassa. La regola principale prevede che il giocatore che tocca il pallone debba avere i glutei a contatto con il pavimento. Il Sitting Volley è uno sportparalimpico dal 1980, ma in Italia è stato scoperto solamente nel 2012, in occasione delle Paralimpiadi di Londra.

Cos’è il Sitting Volley visto da fuori? (Prospettiva di chi lo sta scoprendo)
Per la sua particolarità, il Sitting Volley ha la caratteristica di favorire l’integrazione delle persone con disabilità. Può infatti essere praticato, senza distinzioni, da diverse “categorie” di atleti con disabilità (amputati, paraplegici, cerebrolesi, poliomelitici, ecc.), nonché da soggetti normodotati. Inoltre, la pratica di tale disciplina non richiede l’utilizzo di strumenti specifici, a volte notevolmente costosi e non sempre acquisibili dall’aspirante giocatore. Occorrono soltanto una palla, una rete e un’azione fi-
sica svolta mantenendo i glutei a terra. La pratica di tale disciplina consente di cogliere il significato
dei termini “socializzazione” e “integrazione”, oltre che di recepire gli aspetti sportivi della disciplina, dando a tutti pari opportunità all’interno dello svolgimento del gioco. Consente di sostenere il superamento della diversità, l’accettazione dei propri e altrui limiti riconoscendo capacità e potenzialità di compagni e avversari, incoraggiando il rispetto per se stessi e per gli altri. Essendo ancora in una fase
iniziale, le principali difficoltà si incontrano per quando riguarda il coinvolgimento degli atleti, siano essi normodotati o con disabilità. L’atleta normodotato fa tendenzialmente fatica a cimentarsi in una disciplina innovativa, mentre il potenziale atleta con disabilità spesso non trova la forza per mettersi in gioco. Il numero esiguo degli atleti, nonché il fatto che nella maggior parte dei casi trattasi di persone adulte che lavorano, influiscono negativamente sulla continuità e sulla possibilità di strutturare sedute di allenamento specifiche. Il metodo principalmente utilizzato per cercare di superare queste difficoltà consiste soprattutto nel proporre dimostrazioni di Sitting Volley in giro per il Paese, a volte con l’aiuto di personaggi famosi come ex campioni di pallavolo, particolarmente attenti e sensibili verso le potenzialità sociali di questo sport. Venendo agli aspetti più tecnici, occorre anzitutto dire che il campo di Sitting Volley è di metri 10×6, divisi da una rete; la rete è alta 1,15 metri per squadre maschili, 1,05 metri per squadre femminili e 1,10 metri per squadre miste. Il giocatore che tocca la palla deve avere una parte del corpo, che va dai glutei alle spalle, a contatto con la superficie di gioco. Il giocatore in battuta può avere le gambe dentro il campo, a condizione che i glutei siano oltre la linea di battuta nel momento in cui tocca la palla. L’attacco dei giocatori di seconda linea è regolare se, al momento del contatto con la palla, il giocatore si trova con i glutei dietro la linea di attacco. A differenza della pallavolo tradizionale, si può murare la battuta avversaria.

Cos’è il Sitting Volley visto da dentro? (Prospettiva di chi lo ha già scoperto)
In qualità di società organizzatrice-capofila delle varie Feste dello Sport di Castenaso, ci è stata offerta la possibilità di inserirvi delle attività a maggiore ricaduta sociale; nello specifico, c’era stato proposto di inserire una partita di basket in carrozzina.
Pur essendo stata prevista per ben due volte, a causa di svariati motivi non si è mai avuta la possibilità di dare concretezza a tale proposta. Casualmente mi sono imbattuto nel Sitting Volley, sport ancora sconosciuto in Italia ma ben radicato all’estero. Fin da subito ho intuito la sua enorme potenzialità da un punto di vista sociale, in quanto fenomenale veicolo di inclusione sociale per gli atleti con disabilità. Conseguenza naturale è stata la decisione di avviare questa disciplina, presentando il relativo progetto prima al Consiglio Direttivo della mia società – ASD Villanova S. Lazzaro Pallavolo VIP – e poi al Consiglio Direttivo del Consorzio VIP. Il progetto ha ricevuto il benestare di entrambi i Consigli Direttivi; pur apprezzando il progetto, vi è stata qualche perplessità in merito alle concrete possibilità di attuazione e sviluppo. Ho iniziato coinvolgendo dirigenti, allenatori e atleti sia della ASD Villanova, sia delle altre società aderenti al Consorzio VIP; ad essi si sono affiancati dei ragazzi c.d. “certificati”, che hanno proseguito nell’avventura e sono tuttora in forza alla squadra. Il primo obiettivo è stato riuscire a organizzare una partita dimostrativa di Sitting Volley in occasione della Festa dello Sport di Castenaso del maggio 2010. Questa dimostrazione è stata il “la” che ha dato vita a tante attività di promozione del Sitting Volley, sia attraverso internet (Facebook, Youtube), sia attraverso manifestazioni e tornei in giro per l’Italia. Di conseguenza, è parallelamente cresciuto l’interesse e il relativo consenso da parte dei Dirigenti VIP, che non fanno mancare il loro supporto alle varie attività.

Cos’è il Sitting Volley visto da
dentro? (Prospettiva di chi lo pratica)
Il mio incontro con il Sitting Volley risale all’aprile 2011 ed è avvenuto in occasione di un mio ricovero presso il Centro Protesi INAIL di Vigorso di Budrio (BO). Infatti, grazie a una convenzione con il CIP, gli ospiti del Centro venivano accompagnati, ogni giovedì sera, al Palazzetto dello Sport di Castenaso per partecipare agli allenamenti di Sitting Volley guidati da Morgan. Fino ad allora non ero stata una sportiva, avendo attuato solo la prima parte del motto latino mens sana in corpore sano. All’epoca abitavo in provincia di Padova; Morgan mi aveva dato i recapiti del referente padovano per il Sitting Volley, ma devo confessare che non avevo fatto ricerche degne di tale nome.
A marzo 2012, in seguito al cambio di lavoro, mi sono trasferita in provincia di Bologna e ho cominciato a seguire con assiduità gli allenamenti di Sitting Volley. L’interesse e la passione verso questa disciplina sono aumentati in maniera costante ed esponenziale e ora mi ritrovo a non poterne fare a meno.
Premetto che il rapporto con il mio handicap è molto naturale, per cui non ho cercato nel Sitting un’occasione di riscatto o di integrazione. Quello che mi ha affascinato e che mi fa amare questo sport è l’attività in se stessa, che reputo molto bella sia da praticare che da seguire. Fattore non meno importante è lo spirito di squadra che si crea, quella bella sensazione che ti dà lo stare tutti insieme, persone normodotate e persone con disabilità separate da un’unica barriera, ovvero dalla rete del campo. Grazie al Sitting Volley abbiamo girato in lungo e in largo, abbiamo conosciuto tanti ex atleti di enorme valore sportivo e umano, abbiamo in sostanza fatto il nostro ingresso nella grande famiglia della pallavolo senza mai sentirci “tollerati”, ma ovunque accolti a braccia aperte. Di tutto questo sono molto grata a Morgan, persona eccezionale sotto molti punti di vista; il suo modo di fare caloroso e accogliente ti fa sentire subito a casa, come se avessi praticato Sitting Volley da sempre.

Una normale diversità

di Stefano Toschi

Recentemente si è ricominciato a parlare di quello che può essere definito sfruttamento dell’immagine
delle persone con deficit, a partire dal caso di una concorrente della trasmissione televisiva Grande Fratello, che è rimasta priva di un braccio a seguito di un incidente. La ragazza in questione, tuttavia, è una bellissima ex modella che, grazie anche all’amore di una famiglia molto presente, è riuscita a superare il trauma senza eccessivi strascichi. Ancora, pochi giorni fa, in occasione della Giornata Mondiale dell’Autismo, è uscito in Italia il libro di un ragazzo giapponese con disturbi dello spettro autistico, Naoki, oggi 21enne, che pubblicò il libro nel suo Paese ben 8 anni fa.
Il prof. Carlo Hanau, grande esperto di tale patologia, ha invitato i lettori a evitare questa sorta di mistificazione della persona con autismo, presentata spesso, nella letteratura e nel cinema, da Rain man
in poi, come geniale, con difficoltà di comunicazione e a rientrare negli schemi, ma per un eccesso di sensibilità e intelligenza. Questa visione dell’handicap produce, come prima conseguenza, l’insorgere, nei genitori dei soggetti con disturbi dello spettro autistico, di false speranze che, inevitabilmente, crollano nella disillusione prodotta dalla realtà quotidiana.
Di fronte a questi esempi recenti, mi sono sorti diversi dubbi. Solitamente, nei miei scritti esorto alla valorizzazione dei talenti, talvolta nascosti o poco convenzionali, delle persone con deficit. Invito ad an-
dare oltre le apparenze dell’handicap e a trovare le diverse abilità di chi ha difficoltà estremamente trasparenti ma, quasi sempre, virtù più difficili da scoprire. Molte volte ho sollecitato la ricerca della differenza come ricchezza ma, di fronte a questi fatti, ma è sorta qualche perplessità. Da sempre la società tende a sfruttare e spettacolarizzare un certo tipo di diversità, dalla donna baffuta del circo, all’esposizione di “mostri” (letteralmente, “prodigi”) e “scherzi di natura” per solleticare la curiosità ignorante prima di quella scientifica. Oggi, tuttavia, la spettacolarizzazione del diverso ha preso la piega dello sfruttamento più che della reale volontà di considerare la persona con deficit esattamente come tutte le altre.
La ragazza del Grande Fratello potrebbe diventare emblema di coraggio e forza di volontà nel superare un trauma, un esempio positivo per tanti ragazzi sanissimi che, dopo un incidente, vedono la loro vita cambiare drasticamente da un giorno all’altro, fra mille difficoltà. Questa ragazza, però, sarebbe stata
selezionata per la trasmissione anche se avesse avuto entrambe le braccia? Chiederselo è legittimo e la risposta potrebbe essere deludente. Certamente si potrebbe dire che, allora, anche la bellezza può diventare un espediente per farsi notare, che lo sfruttamento dell’immagine, specie femminile, passa da una lunga serie di dettagli anatomici che vanno ben oltre l’assenza di un braccio. Tuttavia, siamo sicuri
che noi portatori sani di deficit puntiamo a essere strumentalizzati come la modella discinta sul calendario? Non credo sia questa l’uguaglianza alla quale dobbiamo ambire.
Anche la parità di genere, in questo senso, è un falso mito. La donna è diversa dall’uomo per natura, così come ognuno di noi è diverso dall’altro. La donna è accogliente, non a caso il lavoro di cura, familiare o professionale, ricade quasi sempre su di essa.
Non credo che la parità passi dalle quote rosa (“devo favorirti perché da sola non riesci a emergere”), dalle donne che fanno gli stessi lavori, per qualità e quantità, degli uomini, perché poi, a casa, è difficile che l’uomo si affianchi o si sostituisca alla compagna nel lavoro domestico o familiare.
So di dire una cosa politicamente scorretta, ma, piaccia o no, le differenze sono quelle che hanno permesso all’umanità di sopravvivere fino a oggi. I ruoli esistono in natura non sono convenzioni sociali.
Certamente, per il genitore di un ragazzo con disturbi dello spettro autistico potrà essere estremamente
foriero di speranze osservare come certe tecniche di comunicazione riescano ad aumentare le capacità di relazione del figlio e con il figlio. Ma ingenerare aspettative troppo alte, così come può essere dannoso per lo sviluppo equilibrato di un adolescente del tutto normale, così può risultare estremamente pericoloso per il genitore di un ragazzo con deficit.
Proporre standard e modelli troppo alti e idealizzati genera insicurezza e senso di inadeguatezza in qualsiasi adolescente, oggi sempre più spesso caricato dalla famiglia di aspettative che derivano, probabilmente, da un certo senso di riscatto sociale. La vera serenità dei soggetti coinvolti passa dalla piena accettazione della persona, con deficit o meno, indipendentemente da quali siano i suoi talenti o i suoi punti deboli. Poi, certamente, i genitori della ragazza del Grande Fratello hanno ogni motivo per essere orgogliosi del modo in cui la loro figlia ha affrontato la sua disgrazia. Anche averne fatto un punto di forza può essere considerato un modo corretto di valorizzare la propria condizione. Questo, però, finisce dove comincia la strumentalizzazione. Su qualsiasi ricorrenza di pagine internet lei non è mai definita solo “Valentina del Grande Fratello”, ma sempre “la ragazza senza un braccio del Grande Fratello”. Ecco, io non voglio essere “Stefano in carrozzina” o “Stefano lo spastico”, perché a nessuno verrebbe mai in mente di dire, che so, “Marco il deambulante”. Se il mio biglietto da visita deve passare dalla mia carrozzina o dal mio handicap, c’è qualcosa che non va.
Ho letto recentemente della direttrice di un giornale che doveva inviare un proprio giornalista a intervistare un personaggio politico. I due non si conoscevano e lei, affinché l’intervistato riconoscesse l’intervistatore, glielo descrisse evidenziando alcune caratteristiche fisiche: alto, magro, moro, con gli occhiali. I due non si trovarono subito e il giornalista chiamò la direttrice per chiederle come lo aveva descritto alla persona da intervistare. Ascoltata la descrizione, un po’ vaga, le chiese, sconcertato: “Ma gli hai detto che sono nero?”. No, non glielo aveva detto. Non le era proprio venuto in mente. Ecco, questa è la vera integrazione, la vera parità, la libertà di non essere identificato da una caratteristica che, in qualche modo, mi rende diverso. Anch’io voglio essere Stefano moro, magro, di altezza media, non Stefano in carrozzina. Anche se… sempre evviva per la carrozzina: come farei a muovermi senza e, soprattutto, a farmi felicemente scarrozzare in giro?

Allucinazioni “fecali”

a cura di Nicola Rabbi

Un piccolo animale, un topo, fuggì tra le ombre stratificate ai piedi del letto di Enid. Per un momento Alfred credette che l’intero pavimento fosse formato da corpuscoli in fuga. Poi i topi diventarono un unico topo più impudente, un topo orribile, palline di escrementi appiccicosi, propensione a rosicchiare, pisciate incontrollate…
– Coglione, coglione! – lo schernì il visitatore, uscendo dall’oscurità per entrare nella penombra accanto al letto.
Alfred lo riconobbe con sgomento. Dapprima vide la rammollita sagoma escrementizia, poi colse una zaffata di decomposizione batterica. Quello non era un topo. Quello era lo stronzo.
– E adesso hai problemi urinari, he he! – disse lo stronzo. Era uno stronzo sociopatico, un pezzo di
merda a piede libero, un chiacchierone irrefrenabile.
Si era presentato ad Alfred la sera prima, turbandolo a tal punto che soltanto il soccorso di Enid – lo
splendore della luce elettrica e un tocco consolatorio sulla spalla – aveva salvato la notte.
– Sparisci! – ordinò Alfred con fermezza.
Ma lo stronzo si arrampicò sul bordo del lindo letto della Nordic e si rilassò sulle coperte come un Brie o un Cabrales avvolto in una foglia e odoroso di letame. – Come vuoi, amico. Stai a vedere. – E si sciolse, letteralmente, in un ilare scoppiettio di scorregge.
La paura di incontrare lo stronzo sul cuscino richiamò lo stronzo sul cuscino, dove prese a dimenar-
si assumendo pose di sfavillante benessere.
– Vattene, vattene, – disse Alfred, piantando un gomito nella moquette mentre usciva dal letto a testa in giù.
– Col cazzo, – rispose lo stronzo. – Prima entrerò nei tuoi vestiti.
– No!
– E invece sì, amico. Ti entrerò nei vestiti e ti striscerò addosso. Ti imbratterò tutto e lascerò la scia.
Puzzerai da far schifo.
– Perché? Perché? Perché vuoi farlo?
– Perché mi si addice, – gracidò lo stronzo. – Sono fatto così. Mettere il benessere di qualcun altro da-
vanti al mio? Saltare dentro un cesso per essere gentile? Questo è ciò che faresti tu, amico. Col culo,
ragioni. E guarda dove sei finito.
– Gli altri dovrebbero avere più rispetto.
[…]
– Che cosa devo fare per mandarti via da questa stanza? – disse Alfred.
– Rilassa il vecchio sfintere, amico. Lascialo andare.
– Mai!
– In tal caso potrei far visita al tuo set da barba. Procurarmi un piccolo attacco di diarrea sul tuo spazzolino da denti. Mollarne un paio di goccioline nel sapone, così domattina potrai spalmarti sulla faccia una ricca schiuma marrone…
– Enid, – disse Alfred con voce tesa, senza distogliere lo sguardo dall’astuto stronzo, – sono in difficoltà.
Gradirei il tuo aiuto.
La sua voce avrebbe dovuto svegliarla, ma il sonno di Enid era profondo come quello di Biancaneve.
– Enid, cava, – sfotté lo stronzo con un accento alla David Niven, – gvadirei molto il tuo aiuto non appena ti savà possibile.
Rapporti ufficiosi provenienti dai nervi del fondoschiena e del retroginocchia rivelarono ad Alfred l’approssimarsi di unità supplementari di stronzi. Ribelli stronziformi che si aggiravano annusando furtivamente e consumandosi in una scia di fetore.
– Cibo e fica, amico, – disse il capo degli stronzi, che ora stava appeso alla parete per uno pseudopodio di mousse fecale, – tutto si riduce a questo. Ogni altra cosa, e lo dico in tutta modestia, è pura merda.
Poi lo pseudopodio si ruppe e il capo degli stronzi, lasciando sulla parete un brandello di marciume, precipitò con un grido di gioia sul letto che apparteneva alla Nordic Pleasure-lines e che poche ore dopo sarebbe stato rifatto da una graziosa ragazza finlandese. L’immagine di quella cameriera pulita e gentile che trovava il copriletto imbrattato di escrementi era quasi più di quanto Alfred potesse sopportare.
Ora tutto il suo campo visivo brulicava di stronzi in movimento. Doveva mantenere la calma, mantenere la calma. Ipotizzando che la causa dei suoi problemi fosse una perdita nel water, strisciò carponi fino al bagno, entrò e chiuse la porta con un calcio. Ruotò con relativa facilità sulle piastrelle lisce. Appoggiò la schiena alla porta e puntò i piedi contro il lavandino di fronte a sé. Per un momento rise dell’assurdità di quella situazione. Eccolo lì, un dirigente americano con il pannolino, seduto sul pavimento di un bagno galleggiante, assediato da uno squadrone di feci. Gli venivano proprio delle strane idee, a quell’ora di notte.
In bagno la luce era migliore. C’era una scienza della pulizia, una scienza della forma, persino una scienza dell’escrezione, come dimostrava il water, un enorme portauovo di porcellana svizzera posato su un regale piedistallo e dotato di leve di comando finemente zigrinate. In quell’ambiente più congeniale, Alfred poté riacquistare il controllo e rendersi conto che i ribelli stronziformi erano un’allucinazione, che in un certo senso li aveva sognati, e che la sua ansia era causa- ta da un semplice problema di drenaggio.
(Jonathan Franzen, Le correzioni)

Alfred è un tranquillo e tormentato ingegnere di una società ferroviaria statunitense ed è anche marito di Enid e padre di tre figli. Il complesso romanzo di Franzen è la storia della famiglia di Alfred che, una
volta andato in pensione, si ritrova a dover convivere con una malattia invalidante. Ogni membro della famiglia è un protagonista di primo piano in questo libro e anche la storia della sua malattia – e del suo epilogo – è solo una parte della storia di Alfred.
Il suo scivolare nell’invalidità fisica e nella demenza viene raccontato in modo spesso drammatico e da
punti di vista diversi, ma qui il tono, complice una scrittura strepitosa, a volte risulta divertente per il
lettore. È il racconto di un’allucinazione notturna, di un uomo che parla con la sua cacca, dotata di una
propria autonomia e di un’esistenza decisamente ostile al suo creatore, anzi, direbbe Franzen, al suo
propulsore.
Ma cosa capita alla persona che scivola giorno dopo giorno in queste malattie degenerative? Che cosa ri-
mane di lei, della persona che si conosceva?
La malattia ha sì un suo decorso ma s’innesta comunque su una persona precisa, dotata di caratteristiche psicologiche proprie e, a questo punto, si pongono delle nuove domande: quanto della persona rimane nella malattia, e questa “rimanenza” che influenza ha sul decorso della malattia stessa?Alfred, con la sua meticolosità, la sua precisione, la sua mascolinità, la sua introversione, i suoi slanci af-
fettivi ingabbiati però dalle sue regole di comportamento, ci appare ancora Alfred nella sua progressiva degenerazione. In un certo senso si può dire che nessuna malattia invade semplicemente un uomo, la fa da padrona, ma si adatta alla persona che aggredisce. Ci possiamo allora fare questa buffa doman-
da: il mio Alzheimer sarà diverso dal tuo?
I figli e la moglie di fronte a questo lento scivolare nel buio di Alfred reagiscono ciascuno secondo la
propria personalità e la propria storia di vita; chi è spinto soprattutto dal senso del dovere, chi da un rifiuto radicale dalla famiglia, chi dalla semplice confusione emotiva. Sono questi momenti drammatici la cartina di tornasole del panorama affettivo di un’intera famiglia, anzi, ancora di più, della storia di quella famiglia.
In questi casi sono i figli a essere messi alla prova più che il coniuge; persone che hanno condiviso i primi e importanti anni di vita, giocando, litigando, differenziandosi, si ritrovano di nuovo riuniti, a volte in modo forzato, in questo nuovo doloroso gioco: assistere, accompagnare alla fine della sua vita il genitore ammalato. Ognuno lo fa a modo suo. A proposito dei figli di Alfred, dalle vite diversissime, conoscendoli già da molte pagine di lettura, possiamo intuire come si comporteranno. Di Chip, il figlio minore, intellettuale, confuso e sconfitto, già ci immaginiamo la sua fuga a gambe levate. Questo poi non succede perché una certa casualità rientra sempre nelle nostre decisioni, nei nostri percorsi. Per fortuna non abbiamo un destino disegnato e in questa casualità, negli imprevisti, abbiamo i nostri varchi, la nostra libertà, che entra in scena proprio nei momenti della scelta, scelta che dipende soprattutto da noi. Nel caso di Chip l’imprevisto sarà una neurologa incarnata nel corpo esile di una ragazza ebrea dai riccioli neri.
A un certo punto nel romanzo, Alfred, in uno dei suoi ultimi momenti di lucidità, prima di piombare nel buio definitivo, trova la forza di chiedere al figlio in un modo implicito di aiutarlo a morire e Chip, messo di fronte a questo varco, a questa possibilità che per un uomo è un abisso che lo scuote dalle fondamenta, risponde a sua volta: “Non posso papà, non posso”.

Marina Abramovic: l’artista è presente

di Roberto Parmeggiani

Il documentario di Matthew Akers Marina Abramovic. The artist is present racconta la lunga performance realizzata da Marina Abramovic al MoMA di New York, in occasione di una personale dedicata all’artista nel 2010, descrivendone tutte le fasi della realizzazione: dal sopralluogo fino alle centinaia di incontri quotidiani. Per tre mesi, Marina Abramovic è rimasta seduta ogni giorno, per sette ore, guardando negli occhi, in silenzio, chiunque desiderasse sedersi di fronte a lei: per mettersi in gioco, entrare in relazione o sperimentare. Un continuo scambio di emozioni che trova spazio nel dialogo silenzioso dello sguardo, uno sforzo fisico immane che ha visto l’artista mettere a nu-
do la sua identità.
“Mi sono serviti tre mesi di tempo al MoMA per essere incondizionatamente lì, presente per il pubblico.
Ogni volta che volevano, dovevo essere vulnerabile e solo per loro. In questo modo ho fatto sì che il pubblico non fosse più considerato come un gruppo, ma avesse il tempo e lo spazio per rappresentare la propria individualità. La performance consisteva nell’avere sedute di fronte a me persone singole. Individui che potevano rimanermi vicino senza limiti di tempo, anche un giorno intero se fosse stato necessario.
Essere a disposizione come artista e dare loro il mio amore incondizionato a completi estranei mi ha fatto vivere l’esperienza di essere lo specchio delle loro anime e di loro stessi. In quel momento io non ero più me, il tempo non riguardava più me medesima. Io ero solo un tramite del loro essere-con-se-stessi”.
La prima volta che ho assistito a questo documentario non ho potuto fare a meno di collegare l’esperienza dell’artista con quella della relazione educativa. Marina Abramovic, in particolare in questa performance, ti costringe alla presenza: di un corpo, di una possibilità, di un’esigenza, di un desiderio, di te stesso. Lo stesso succede nella relazione educativa: i due soggetti si incontrano e si obbligano a una presenza, fisica, emotiva e psicologica. Non solo l’uno con l’altro ma anche direttamente con se stessi.
Quante volte l’educatore si trova a fare i conti con se stesso prima che con l’altro? Quante volte l’esperienza dell’altro obbliga l’educatore a mettere in discussione la propria, a scoprire aspetti nascosti, sfumature poco conosciute? Risorsa e ostacolo, facile e difficile, possibilità e difficoltà sono i binomi che descrivono la relazione educativa e all’interno dei quali si gioca la possibilità di riuscita della relazione stessa. La scelta di uno dei due opposti dipende, in gran parte, dalla nostra attitudine a saper valorizzare gli aspetti più importanti, le abilità, per quanto residue, sempre presenti. Mettersi di fronte all’altro in silenzio, restando in una comunicazione basata sulla presenza, produce una conoscenza dell’altro che viene prima dei ruoli perché in quel momento si è entrambi sullo stesso piano: non c’è l’educatore e non c’è l’utente, ci sono due soggetti differenti interessati, per volere o per occasione, a entrare in relazione. Trasformando ciò in un approccio pratico potremmo dire che brevi momenti di pausa e di sospensione, non solo del giudizio, ma della relazione attiva basata sul fare e sul credere di avere tutte le risposte, garantirebbero sicuramente una diminuzione delle frustrazioni, una condivisione delle responsabilità e una conoscenza meno legata alle logiche del preconcetto. “Quello che posso dire è che questa performance mi ha cambiata a livello profondo; per me può solo avvenire che il mio lavoro cambi la mia vita e non l’opposto”.
(in Dr. Abramovic, a cura di Francesca Baiardi, p. 96, allegato al dvd Marina Abramovic. The artist is present, 2012, Feltrinelli Real Cinema)

La relazione educativa, vissuta in modo equilibrato, provoca indubbiamente un cambiamento che in fondo non è molto dissimile da quello che si realizza davanti a un’esperienza artistica o a un evento naturale di particolare bellezza.
Con una differenza, però: la relazione educativa modifica entrambi i soggetti, proprio come succede in modo innovativo nella performance descritta. Di solito, infatti, di fronte a un’opera d’arte lo spettatore riceve uno stimolo, un input, un’emozione che non può restituire all’opera e nemmeno all’artista, se non in un secondo tempo. In The artist is present, invece, succede qualcosa di nuovo, uno scambio immediato dovuto proprio alla presenza dei due soggetti della relazione, l’artista e lo spettatore, e questo provoca un cambiamento nei soggetti prima che nel contesto. Essere consapevoli di ciò, come educatori, significa accettare che non possiamo modificare nulla se non partendo da noi stessi perché, solo a quel punto, saremo credibili e disposti realmente a stare in un contesto che entri continuamente in relazione con noi.
Per concludere un piccolo gioco. Marina Abramovic ha stilato un Manifesto, una serie di regole che secondo lei un artista dovrebbe rispettare. Ne ho estrapolate alcune e le ho riscritte sostituendo alla parola “artista” il termine “educatore”. Mi sembra che siano molto interessanti e che forniscano validi spunti di riflessione:
– l’educatore non dovrebbe mentire né a se stesso
né agli altri;
– l’educatore non dovrebbe scendere a compromessi
con se stesso o con il mercato dell’educazione;
– l’educatore non dovrebbe trasformare se stesso in
un idolo;
– l’educatore deve imparare a perdonare.

La stretta via delle politiche UE per la disabilità. Il manifesto EDF per il Parlamento Europeo 2014-2019

di Massimiliano Rubbi

Quando leggerete queste righe, il Parlamento Europeo in carica per il quinquennio 2014-2019 sarà già stato eletto. E questo vi dà un incommensurabile vantaggio predittivo sulle future politiche continentali rispetto a chi scrive, prima di una tornata elettorale in cui, per la prima volta, a essere in gioco non è la direzione o il passo del processo di integrazione europea, ma la sua stessa esistenza. Movimenti “euroscettici”, spesso contraddistinti da una posizione estrema entro l’arco politico, si affacciano in forze a Strasburgo, mentre le piattaforme dei partiti “storici” non mettono in discussione una politica di rigore di bilancio che non ha saputo fare uscire le economie europee dalle secche della crisi, acuendo anzi le differenze tra Stati e portando alcuni di essi, come Grecia e Portogallo, a condizioni di disagio sociale mai viste dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In sintesi, l’Europa come “problema” e non più come “soluzione”: un mutamento particolarmente avvertito in Italia, dove in pochissimi anni la frase “ce lo chiede l’Europa” è passata da opportunità di superare la lentezza e la corruzione della decisione politica nazionale a inconfessabile grimaldello per gli interessi della Germania e dei Paesi nordeuropei. È in questo difficile contesto che l’EDF, l’organismo di rappresentanza delle associazioni di persone con disabilità a livello europeo, ha presentato l’11 febbraio scorso a Bruxelles il proprio “Manifesto” per la legislazione UE nei prossimi 5 anni, per promuovere alcune priorità chiave nei programmi politici e nell’attività post-elettorale dei partiti che si candidano al Parlamento Europeo – e alla guida della Commissione Europea, il cui Presidente, per la prima volta nella storia, dal Parlamento sarà eletto.
Rilancio in 6 mosse
Il Manifesto EDF individua sei priorità-chiave per la legislatura europea 2014-2019. Innanzitutto la promozione di un’Europa “inclusiva, sostenibile e democratica”, ponendo un’esplicita correlazione tra l’allontanamento da questa prospettiva e “l’ascesa di movi menti populisti ed euroscettici in tutta l’Unione”. Subito dopo si sostiene “la riforma delle politiche economiche e sociali dell’Europa per assicurare la protezione e il godimento dei diritti umani degli europei con disabilità” – una richiesta su cui si tornerà.
Sull’accessibilità si concentra la terza proposta, e qui si stigmatizza innanzitutto il ritardo con cui la Commissione Europea uscente ha affrontato la redazione dello European Accessibility Act, la cui bozza era attesa per il 2012 ma che, nonostante le dichiarazioni pubbliche e le risposte scritte al Parlamento espresse a più riprese dai commissari europei, risulta ancora all’interno del programma di lavoro annua le 2014. Una direttiva con “un approccio olistico e ampio per coprire quanti più beni e servizi possibile” potrebbe favorire la mobilità tra gli Stati delle persone con disabilità e stimolarne i consumi, contribuendo a una crescita economica tuttora fragile; da parte sua, l’EDF dichiara di “continuare a lavorare sul tema e sperare che la Commissione Europea pubblicherà la proposta legislativa quest’anno”.
Sempre in materia di accessibilità, tra l’altro, si richiede di “rendere i fondi UE senza barriere per le persone con disabilità”. Interpellata in merito, l’EDF spiega che “un esempio rilevante di nuove barriere create dai fondi nel precedente periodo di programmazione (2007-2013), che ha attirato forti critiche, è stato l’uso di fondi strutturali UE per finanziare pro getti che non sono riusciti a sfruttare le prospettive di vita indipendente e partecipazione attiva nella società per bambini, persone con disabilità e anziani. In alcuni casi, sono stati utilizzati per mantenere o aprire nuove case di cura, orfanotrofi o ospedali psichiatrici, invece di investire i fondi europei in servizi sociali e di sostegno alla persona, in diretta violazione della Convenzione ONU per i diritti delle persone con disabilità, che promuove l’inclusione nella società e vieta la segregazione. Ciò è potuto accadere perché i Regola menti di base erano permissivi verso questo tipo di (ab)uso del denaro. Questo non ha consentito alle persone di vivere la propria vita nella comunità su una base di uguaglianza con gli altri. Ecco perché l’EDF, in coalizione con altri gruppi, ha fatto, con esiti positivi, una dura pressione per introdurre migliora menti al riguardo: per la prima volta, i nuovi Regolamenti per l’investimento in politica di coesione, adot tati nel dicembre scorso dal Consiglio Europeo e dal Parlamento Europeo, includono riferimenti specifici per sostenere la ‘transizione dalla cura nelle istituzioni a quella basata sulla comunità’. L’EDF ha dato il benvenuto a questa storica svolta nel panorama legi slativo UE, che dovrebbe migliorare la situazione di bambini e adulti in cura nelle istituzioni o a rischio di istituzionalizzazione e facilitare una vera innovazione efficace nel settore dei servizi sociali”.
Quarta priorità per l’EDF è una proposta di Direttiva per “il principio di uguale trattamento tra le persone a prescindere da religione o credo, disabilità, età o orientamento sessuale”. L’organismo di rappresen tanza ricorda che al momento la UE garantisce una protezione dalle discriminazioni solo in ambito lavorativo, ma “la discriminazione sulla base della disabi lità esiste in tutte le aree della vita politica, sociale e culturale”, dall’educazione dei bambini all’accesso dei cani guida in ristoranti oppure ospedali.
Il quinto punto del Manifesto è probabilmente il più complesso, e propugna “la rapida ratifica da parte della UE e di tutti gli Stati membri del Protocollo Opzionale alla Convenzione ONU per i diritti delle perso ne con disabilità”. Perché sarebbe così importante questo protocollo, soprattutto sapendo che esso è stato recepito finora da 20 dei 28 Stati membri (Italia inclusa)? Spiega l’EDF: “Il Protocollo Opzionale al la Convenzione è uno strumento legale che introduce due procedure per rafforzare l’applicazione della Convenzione, attraverso una procedura di comunicazione individuale e una procedura di inchiesta. La procedura di comunicazione individuale permette a individui e gruppi di individui in uno Stato aderente al Protocollo di sporgere reclamo presso il Comitato della Convenzione se lo Stato ha violato uno dei suoi obblighi legati alla Convenzione. La procedura di in chiesta: se il Comitato riceve informazioni affidabili che indicano violazioni gravi o sistematiche delle disposizioni della Convenzione da parte di uno Stato partecipante, il Comitato inviterà quello Stato a cooperare nell’esame delle informazioni ricevute e potrà pubblicare un rapporto con le sue osservazioni sulle violazioni sistemiche che ha incontrato in quello Sta to. Dal momento che anche l’UE ha ratificato la Convenzione, deve proteggere i diritti nella Convenzione per tutti gli europei con disabilità. La ratifica UE del Protocollo Opzionale darebbe ai cittadini europei una protezione più forte e meccanismi di reclamo in caso di violazioni individuali o sistemiche della Convenzione”. Rimane il dubbio che a impedire “il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e le libertà fondamentali da parte di tutte le persone con disabilità” che si propone la Convenzione sia più la sua impostazione assai generale, concentrata sui rapporti nazionali di applicazione, che non l’assenza di un meccanismo di reclamo a livello europeo: è significa tivo che la giurisprudenza citata sul sito web della Giunta della Convenzione riporti solo 4 casi, ma tutti legati a reclami individuali contro Stati membri UE e aderenti al Protocollo Opzionale (Svezia, Regno Unito e in due casi Ungheria).
La sesta e ultima priorità che l’EDF propone al Parla mento Europeo che verrà è di allineare le politiche UE e degli Stati membri alla Convenzione ONU, “il primo trattato sui diritti umani che [la UE] abbia mai ratificato”, assicurando il coinvolgimento delle perso ne con disabilità nelle decisioni che le riguardano, secondo il principio espressamente citato del “niente per noi senza di noi” e con la proposta, tra le altre, di individuare un Vicepresidente della Commissione con competenze speciali in materia di disabilità e relativo coordinamento delle politiche.
Oltre o dentro l’austerità? Per il miglioramento delle condizioni di vita delle persone con disabilità nell’UE, in ogni caso, la questione più rilevante e al contempo più critica è probabilmente quella toccata dal secondo punto del Manifesto EDF, che come detto propone “la riforma delle politiche economiche e sociali dell’Europa” e sottolinea come “le persone con disabilità e le loro fami glie, che non sono responsabili della crisi, hanno dovuto fare i conti con drastici tagli nei servizi e nelle provvidenze sociali, il che ha portato a una disoccupazione più alta, [e] a un ritorno a istituzioni di segregazione”.
In occasione della presentazione del Manifesto a Bruxelles, il Presidente EDF Yannis Vardakastanis ha invocato “un cambiamento drastico di politica per cui il consolidamento delle finanze pubbliche non sia a spese dei diritti fondamentali e della coesione sociale nella UE”. Sotto accusa finisce quindi l’“austerità” che ha contraddistinto la politica economica dell’area Euro soprattutto (ma non solo) dall’inizio della crisi.
Sfortunatamente, dei due partiti transnazionali maggiormente accreditati per la maggioranza (relativa) nel nuovo Parlamento Europeo, l’uno – il Partito Popolare Europeo – sostiene esplicitamente la validità delle politiche di rigore finanziario anche per il futuro, mentre l’altro – il Partito Socialista Europeo – propugna la necessità di combinare rigore e crescita, in proporzioni difficili a definirsi. In ogni caso, non si può dimenticare l’intervista concessa nel febbraio 2012 al “Wall Street Journal” da Mario Draghi (Governatore BCE e dunque, nell’attuale assetto istituzionale europeo, probabilmente la figura di massimo grado nella definizione della politica economica), in cui l’attuale modello sociale europeo veniva definito “già superato” e l’austerità, insieme alle riforme strutturali, “l’unica opzione per la ripresa economica”. Anche ammettendo che questa prospettiva sia fondata, come può essa conciliarsi con una coesione sociale che ha come inevitabile pietra di paragone le protezioni sociali del passato?
L’EDF, di fronte a questa contraddizione tra tutela dei diritti e rigore di finanza pubblica, riconosce che “la politica dell’Europa contro la crisi, con la sua en fasi sulle misure di austerità e la sua mancanza di legittimazione democratica, ha contribuito al sorgere dell’euroscetticismo, con molti cittadini europei che voltano le spalle alla UE (come rivelato da tutti i sondaggi di opinione), e i partiti euroscettici che aumentano il proprio pubblico”, e “stigmatizza che le attuali politiche economiche e sociali adottate dagli Stati Membri e dall’Unione Europea portino a un aumento nei numeri delle persone che patiscono esclusione sociale in Europa”.
Il rigore non viene tuttavia rigettato, ma piuttosto messo in subordine a un’altra strada per la crescita economica: “sebbene siamo d’accordo sul fatto che solide finanze pubbliche siano molto importanti, stigmatizziamo che le misure di consolidamento di bilancio si siano concentrate su tagli alla spesa sociale e su aumenti di tasse che toccano principalmente i redditi bassi e medi. Le misure di ripresa hanno finora trascurato l’importante contributo a crescita e occupazione che potrebbe essere portato dalle stesse persone con disabilità e dallo sviluppo dei servizi che esse ricevono e gestiscono”.
Secondo l’EDF, insomma, si impone un cambio di rotta che, seppur con ogni probabilità sulla base di un “contratto sociale” diverso da quello del passato, riaffermi l’Europa (nella sua interezza) come “modello sociale” avanzato, capace di garantire la tutela e promuovere il protagonismo delle persone con disabilità. Diversi europarlamentari uscenti di differenti partiti, in occasione della presentazione e in momen ti successivi, si sono impegnati a sostenere le politi che proposte dal Manifesto dell’organismo di rappresentanza, certo non ignorando che gli europei con di sabilità sono 80 milioni e costituiscono il 16% del corpo elettorale. Solo la composizione e, soprattutto, l’azione effettiva del Parlamento Europeo 2014-2019 diranno della serietà degli impegni presi in campagna elettorale.