2. Giocar non è una medicina…
di Carlo Riva, direttore, L’abilità Associazione Onlus, Milano
“Giocar non è una medicina
Ma ancor di più… è una magia!
Una magia dal gran potere
Di far del tempo un tempo insieme”.
(Amorgioco)
Fu Riccardo, fratello di un bambino con tetraparesi spastica che, come sempre fanno i bambini nella loro scoperta del senso dell’esistere che li accomuna ai filosofi, mi illuminò sull’importanza del gioco nella vita di un bambino con disabilità.
Mi guardò mentre parlavo con la mamma sulla necessità di un aiuto educativo domiciliare e disse di punto in bianco: “Io ho capito cosa non va in mio fratello. Mio fratello non ha fantasia”.
Cominciò da quella frase, da quello spirito così profondo quanto vero, la mia riflessione su gioco e disabilità. Nacquero domande, si svilupparono pensieri.
Può il limite della patologia addirittura trattenere il mondo intimo e fantastico del bambino?
Come stare in una comunicazione di vera vita con un bambino con disabilità? La paralisi del corpo è paralisi dell’intenzione?
E, quindi, come un bambino supera la paralisi e contiene il limite nella fantasia e nel piacere?
Solo giocando.
Il mondo del bambino con disabilità
Se il gioco è un diritto ed è necessario per la crescita quanto il cibo quotidiano, un tetto sotto cui abitare, l’affetto di una famiglia, l’istruzione e la prevenzione dalle malattie, va garantito al bambino con disabilità, perché siamo innanzitutto in presenza di un bambino.
La qualità della vita non è direttamente proporzionale all’entità del danno fisiologico o psicologico o della disabilità presentata; intervengono infatti una serie di fattori socio culturali e di opportunità che determinano il grado di benessere soggettivo a parità di patologia o disabilità.
Occorre allora un progetto di vita che si fondi non tanto a partire dalla patogenesi quanto dalla “salutogenesi” del bambino con disabilità e riconosca le necessità sottostanti al suo crescere: la serenità, l’autostima, l’amicizia con i pari, la possibilità di esistere e scegliere nella vita quotidiana, l’educazione appropriata, il gioco… insomma le pari opportunità. L’inclusione e la partecipazione sociale di un bambino con disabilità passano anche dal riconoscimento del diritto al gioco e al tempo libero.
Il mondo del gioco
Il valore del gioco è riconosciuto da tempo, ma il suo significato, per l’educazione e l’igiene mentale del bambino, è stato messo in evidenza dalle scoperte più recenti.
Il gioco è scoperta ed esplorazione: il bambino giocando impara, si esprime, si relaziona, esterna emozioni, esprime desideri, parla di sé e del mondo e diventa indipendente. Quindi il gioco è tutto ciò che può stimolare l’uso del corpo, dei sensi, lo sviluppo dell’anima e della mente.
Giocare è un diritto di tutti i bambini ma diventa un problema quando la difficoltà a muoversi o l’incapacità di vedere oppure ancora la scarsa capacità d’attenzione e concentrazione su di un compito compromettono le sue capacità di gioco. Se per tutti i bambini esiste un diritto al gioco, la disabilità rischia di negarlo a questi bambini, perché il gioco difficilmente compare spontaneamente, perché talvolta non sono capaci di imitare, perché i giochi tradizionali non sono pensati per chi ha difficoltà nel fare anche le cose più semplici, perché questi bambini sono lasciati fuori dai circuiti ricreativi del territorio, perché gli adulti non si stanno impegnando a sufficienza per credere nel potenziale del gioco e quindi intraprendere cambiamenti efficaci per renderlo accessibile. È infatti solo la motivazione a politiche di welfare dedicate e la mediazione creativa dell’adulto che, con tecniche appropriate di modificazione dei materiali di gioco e di strutturazione dell’attività ludica, può far sì che il bambino possa giocare: l’utilizzo di ausili tecnologici per bambini con tetraparesi spastica, l’uso di immagini facilitate nelle dimensioni e nel colore per raccontare una favola a un ragazzo ipovedente, la semplificazione visiva della sequenza di un gioco per un bambino con autismo, sono alcuni esempi per dimostrare la fruibilità di un’esperienza ludica. D’altra parte, se non c’è gioco non c’è vita e allora l’immagine di un gioco assente, povero, stereotipato va a confondersi con quella del bambino con disabilità: emarginato, isolato, lontano. Qui si rimarca non tanto l’impossibilità di fare qualcosa quanto addirittura la negazione della possibilità di essere.
La realtà di un bambino con deficit è spesso una storia fatta da tanti limiti: non sente, non parla, non sta in piedi, non regge la testa, non capisce, non prende la palla, non sa giocare… dimenticando che al di là di queste funzioni c’è un pensiero, un vissuto, un’anima che chiedono incessantemente di essere riconosciuti, indipendentemente dal fare.
L’attività di gioco è un’attività di vita di cui nessun bambino può fare a meno, qualunque sia la sua condizione di disabilità, proprio perché il gioco è il contesto in cui può esprimersi, in modo libero e da protagonista delle proprie conquiste.
Giuliana Boccardi lo aveva ben sottolineato nelle sue riflessioni quando cercava di capire perché giocare con un bambino con disabilità: “L’errore più clamoroso della riabilitazione del bambino disabile è stato ignorare ciò che forse più caratterizza il bambino come connotazione specifica e peculiare, cioè il gioco, non tanto perché si è del tutto tralasciata la dimensione del gioco quanto il dimenticare i mondi senza fine che sono dentro il bambino: le fantasie, i desideri, gli spazi, la libertà”.
Questo mondo interno del bambino è salvaguardato dalle dinamiche del gioco perché qui il bambino non si misura tanto con le proprie incapacità quanto nella libertà della propria espressività che vive nel fine unico e ultimo del gioco cioè il piacere. Non gioca per imparare a parlare, per riuscire a correre, per migliorare la coordinazione oculo-manuale, ma gioca per divertirsi, per godere della vita, per puro piacere.
Il gioco è possibile solo se sono salvaguardate le sue tre caratteristiche più importanti: la libertà, la creatività e soprattutto il piacere, il senso di benessere, il divertimento.
È nel gioco che può superare l’autoemarginazione cui spesso va incontro. La libertà di potersi esprimere nel gioco, indipendentemente da una richiesta dell’adulto, come avviene nel setting terapeutico o nell’aula scolastica, permette al bambino con disabilità di usare il proprio corpo e la propria mente senza incorrere nella valutazione e nel giudizio sulla propria corporeità.
E il gioco è anche il luogo preposto allo sviluppo della propria abilità di autoregolazione, rispetto ad altri contesti in cui è maggiore il controllo esercitato dagli adulti. Riconoscendo l’importanza dell’intervento riabilitativo precoce, necessario per lo sviluppo delle autonomie di base, per l’abilitazione motoria e psichica al contesto ambientale in cui vive, quello che è importante sottolineare è ancora una volta il diritto al gioco scevro da obiettivi prettamente terapeutici. Mi piace pensare a un bambino con disabilità che gioca perché salvaguardato in questo suo diritto e bisogno psicologico: perché c’è un desiderio e una soddisfazione, perché può incontrare un gruppo di pari e condividere una realtà comune a tutti, perché si separa momentaneamente dalla realtà oggettiva della patologia, perché c’è l’attesa piuttosto che l’esercizio, l’ascolto più che lo stimolo, l’imprevisto facilmente gestibile piuttosto che l’ansia della prestazione; e infine c’è storia.
Il mondo degli adulti
Continua Giuliana Boccardi: “Il bambino disabile ha bisogno di un adulto che abbia questa particolare disposizione, cioè che ritrovi dentro di sé questi spazi senza fine, quelli del fantastico, dell’immaginario, del possibile e dell’impossibile, per saper poi come scovare, tirare fuori quelli del bambino”.
La funzione principale di chi segue il bambino con disabilità consiste nel capire i suoi interessi e le sue attività spontanee, allo scopo di procurare i materiali adattati, strutturare occasioni e stimoli necessari per condurlo a realizzare al massimo le sue potenzialità di gioco.
Un grande impegno riguarda soprattutto le famiglie, che si ritrovano con il proprio figlio per periodi molto lunghi di tempo libero che spesso generano stress emotivo e fisico per entrambi.
Occorre un intenso lavoro educativo che porti gli operatori sociosanitari e socioeducativi a promuovere nelle famiglie il concetto di gioco e tempo libero come parte integrante nel processo di crescita del bambino con disabilità. Infatti, oltre ad agire sull’ambiente di vita del bambino vanno sicuramente modificati i contesti socioculturali, perché la famiglia, la comunità, la società riconoscano l’importanza del gioco, a partire dai propri vissuti personali.
Come diceva G.B. Shaw: “Noi non smettiamo di giocare perché diventiamo vecchi; noi invecchiamo perché smettiamo di giocare”. La svalutazione del gioco passa infatti dalla scarsa considerazione che gli adulti hanno dell’attività ludica: è una perdita di tempo, occorre impegnarsi in attività più alte (come lo studio, il lavoro, la terapia), è un’attività superflua e infantile…
È necessario così ritrovare dentro di noi gli spazi senza fine del fantastico e dell’immaginario, propri della dimensione di gioco, riscoprire l’avventura incantata dei tempi infiniti dello svago, decondizionarci (dal ruolo e dallo status sociale raggiunto) per riscoprire e appassionarci al ricordo del nostro gioco. Perché prima di essere un’attività è un atteggiamento nei confronti di se stessi e della realtà che ci circonda. Tocca allora all’adulto vincere paure, dubbi, preoccupazioni e sfidare con il bambino con disabilità i limiti della patologia nel contesto magico e terreno, sano e onnipotente del gioco.
Un nuovo mondo
Riconoscere il gioco come necessità e opportunità del bambino con disabilità vuol dire riappropriarci della sua dimensione di persona, dei suoi diritti e quindi di un nuovo mondo da garantire per una vita vera: una rilettura della disabilità e delle sue componenti all’interno della società civile.
L’ambiente ha un ruolo importante quando si tratta di bambini con disabilità, che hanno bisogno di adattamenti materiali, cognitivi, ma anche psicologici, che diano loro la dignità di partecipare alla vita sociale e di crescere. Ciò significa che le persone che condividono l’ambiente dei bambini devono cooperare e complementarsi. La sfida riguarda il sistema globale individuo ambiente: operatori sociosanitari e architetti, insegnanti e genitori, illustratori e pedagogisti, enti locali e governativi. Un impegno totale per una politica che non deleghi il gioco alla buona volontà e all’attività del terzo settore e di qualche organizzazione no-profit, ma che invece lo garantisca, all’interno dei servizi territoriali istituiti, sia ai bambini con disabilità che alle loro famiglie.
Nella società moderna tre elementi devono essere presi in considerazione per creare una nuova filosofia del gioco per il bambino con disabilità:
• la comunità e il territorio. Il gioco è essenzialmente un’attività sociale e se si riducono per i bambini con disabilità le occasioni di attività ludico-ricreative inclusive con gli altri bambini si compromette la partecipazione sociale anche delle loro famiglie. Le politiche sociali non stanno investendo sulla necessità di creare spazi ludici fruibili e accessibili a tutti i bambini;
• il mercato globale. Il gioco dei bambini con disabilità non interessa alle aziende produttrici di giocattoli, non è competitivo con la potenza pubblicitaria degli ultimi modelli di giocattoli creati da brand televisivi o cinematografici;
• i professionisti. Spesso gli operatori sociosanitari e socioeducativi non promuovono le abilità di tempo libero, preferendo solo l’approccio specialistico settoriale.
Diversità e divertimento hanno la stessa radice etimologica e cioè divertere ossia cambiare strada, modificare la consuetudine, incrinare la routine.
Se è possibile per il bambino con disabilità godere di una vita piena è allora necessario cambiare rotta insieme a lui e spingerci liberi verso un campo di girasoli dove, toccando le foglie, annusando l’aria e leggendogli le rime di una filastrocca, è possibile vivere la creatività e il piacere di un gioco senza fine che può davvero includere il limite.
Bibliografia
AA. VV., Giocare a essere “handicappati”, “HP-Accaparlante”, n. 4 – 2004
AA. VV., Il contesto in riabilitazione: giochi, giocattoli e dintorni, Officine ortopediche Rizzoli, Bologna, 1999
F. Antonacci, Puer ludens, FrancoAngeli, Milano, 2012
A. Bondioli, Gioco e educazione, FrancoAngeli, Milano, 1996
J.J. Chade, A. Temperini, 110 giochi per ridurre l’handicap, Erickson, Trento, 2000
D. Fedeli, D. Tamburri, Mi insegni a giocare?, Vannini, Gussago (BS), 2005
C. Garvey, Il gioco, Armando, Roma, 2009
I. Riccardi Ripamonti, In gioco, Mursia, Milano, 1998
C. Riva, Amorgioco. Il bambino la disabilità il gioco, Fatatrac, Casalecchio di Reno (BO), 2005
D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma, 2000World Health Organization, ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità, della Salute, Erickson, Trento, 2002
Associazione L’abilità
L’abilità, Strategie familiari nelle disabilità della prima infanzia, è un’associazione Onlus nata nell’ottobre del 1998 a Milano dall’iniziativa di un gruppo di genitori di bambini con disabilità e di operatori. Da allora lavora per costruire opportunità di benessere per il bambino con disabilità, offrire un sostegno competente ai suoi genitori e promuovere una cultura
più attenta ai diritti del bambino con disabilità. Il nome dell’associazione nasce da un gioco tra i due sostantivi: labilità e abilità.
Labilità come termine che riassume la condizione sia del bambino con disabilità sia della sua famiglia, una condizione di instabilità e un bisogno di punti di riferimento. Abilità come punto di arrivo di un percorso impegnativo, ma possibile: l’abilità del bambino e l’abilità del genitore di trovare insieme una strada alternativa alla normalità, che punti all’autonomia.
via Pastrengo 18 (angolo via Cola Montano)
20159 Milano
tel./fax 0266805457
info@labilita.org
www.labilita.org