6. A casa mia. La vita di ogni giorno fra ironia e creatività
Di Carlo Venturelli, programmatore informatico, modenese di nascita e bolognese di adozione, disabile dalla nascita, nel suo libro Uno barra ventiquattro descrive e commenta la sua giornata.
“Porca puttana bastarda, da un sacco di tempo a questa parte mi sveglio in questo modo: tutte le mattine lavorative, il cellulare mi sveglia con quell’odiosa suoneria. Ho provato più volte a cambiarla, ma niente, tutte le mattine lavorative, il cellulare mi sveglia con quell’odiosa suoneria. Ho provato più volte a cambiarla, ma niente, tutte le mattine mi sembra più odiosa. Così sono arrivato alla conclusione che non è la suoneria, ma il fatto che si mette in funzione interrompendo il mio rilassato sonno. È a questo punto che inizio un corpo a corpo con il cellulare nel tentativo di spegnerlo. Una lotta decisamente impari, e comunque non avendo alternative la devo intraprendere. Dalle coperte, come un goffo guerriero della notte, tiro fuori la mia mano storta. In qualche modo afferro il cellulare con la mano destra, mentre, irrigidendo tutto il corpo, per avere un maggiore controllo sull’arto sinistro, cerco di dirigere il mio indice sinistro, di nome ma non di fatto, visto che quando indico qualcosa, non indico un punto preciso come fanno le persone normali, ma uno spazio piuttosto ampio delimitato da una linea più o meno a forma di cerchio. Dicevo, cerco di dirigere il dito verso quel minuscolo tasto per interrompere quel fastidioso rumore. A seconda del tempo che impiego, ho un primo sentore di come potrà essere la giornata, se la buona sorte sarà dalla mia parte oggi.
Ho sempre pensato che se avessi i soldi, tanti soldi, non sarei neanche disabile perché potrei permettermi di essere circondato da tutta una serie di cose e persone che mi permetterebbero di fare qualunque cosa. Mi potrei anche comprare un maledetto braccio meccanico che mi permetta di afferrare questa pasta alla crema, evitando così che la contrazione della mia mano faccia schizzare tutta la crema sulle dita, porca puttana. Continuerei a essere handicappato, ma non disabile.
Sono già le nove e dieci, mi devo sbrigare che tra un po’ inizio a lavorare. Finisco di bere il mio succo di pera, poi mi dirigo nella stanza da letto che è ancora buia.
Alzo la tapparella con il comando elettrico, posiziono la carrozzina davanti a un mucchietto di stoffa (i pantaloni che avevo lasciato la sera precedente, dopo essermi svestito), cercando di infilare nel buco giusto. A questo punto, con un’acrobazia degna di un circense, alzo il piede con i pantaloni e cerco di afferrare il passante dei pantaloni per poi iniziare a infilare tutte e due le gambe. Di solito per compiere questa operazione non mi ci vuole più di cinque minuti. Capita a volte che il corpo sia particolarmente rigido e che i tempi si dilatino anche di molto. Qualche parolaccia mi aiuta a superare queste difficoltà. Con i pantaloni ancora abbassati, di solito, mi metto a sistemare il letto.
Il mio lavoro lo svolgo da casa, in telelavoro. Tuttavia mi piace lavorare in un ambiente ordinato. Nel passare davanti alla scrivania, accendo il computer in modo che mentre sono in bagno a tirarmi su i calzoni, il computer si avvii. Per poter tirare su i calzoni in autonomia, devo appoggiare lo schienale della carrozzina al muro per potermi così inarcare con la schiena sollevando le chiappe dalla carrozzina, senza creare troppi danni al muro. Ecco perché vado sempre in bagno, le piastrelle del rivestimento sono meno delicate dell’intonaco del muro. Circa alle 9.15 sono pronto a iniziare a lavorare.
La serata è bella, non è neanche molto freddo, propongo a Chiara di andare a fare un giro in centro. Così alle 20,50 iniziamo i preparativi per uscire. Mentre compiamo le solite acrobazie per infilare le giacche, accade costantemente che uno dei due dica “non vedo l’ora che venga l’estate per evitare tutta questa ginnastica”. Dopo che ci siamo aiutati a vicenda a sistemare la giacca, io inizio le manovre per salire sulla carrozzina elettrica, mentre Chiara fa la solita puntatina allo specchio per vedere se tutto è a posto. Fatto ciò, si dirige fuori dove c’è la sua carrozzina. Mentre io ho la carrozzina elettrica, lei utilizza una carrozzina di quelle pieghevoli che ho modificato con un ingegnoso accorgimento hi tech. Ognuno seduto sul proprio mezzo di marcia ci troviamo davanti la porta: io con un’abile retromarcia mi avvicino a lei, che aggancia la sua carrozzina alla mia tramite due moschettoni, da cui partono due corde legate ai braccioli della carrozza di Chiara. Siamo pronti, si parte. Trainandola, mi dirigo verso il cancello con Chiara a rimorchio: “Quando si dice rimorchiare una ragazza…!”. Questo sistema non è molto romantico in quanto ovviamente non possiamo girare mano nella mano (poco male visto che alla mia età non mi sentirei a mio agio), però è funzionale perché, così facendo, possiamo andare in giro da soli. È comunque piacevole perché riusciamo a parlare e a commentare le varie vetrine. La cosa simpatica è sentire i commenti delle persone che incrociamo: il più delle volte si riferiscono a quanto siamo “carini” insieme, manco fossimo gli innamorati di Peynet. Penseranno certamente che il nostro rapporto è solo platonico e non fisco; d’altra parte è convinzione diffusa che i disabili non abbiano sesso. Per fortuna non è così visto che io e la mia compagna il sesso lo abbiamo eccome. Comunque nel giro di un quarto d’ora siamo esattamente sotto il Nettuno…
Così pregustando il tepore della nostra casa, ci avviamo sulla via del ritorno. Bologna è bella anche perché non è mai vuota, anche a tarda ora c’è sempre gente in giro. A mezzanotte e quarantacinque, imbocchiamo il cancello di casa. Accompagno Chiara dietro l’edificio, dove lascia la carrozzina dopo averla sganciata dalla mia. Finalmente a casa! Appena entrati, anche se il riscaldamento è spento, si percepisce subito un piacevole calore che ti fa pensare “casa dolce casa”. Come quando siamo usciti anche al ritorno ci aiutiamo a vicenda per togliere le rispettive giacche. Io, anche se per cinque minuti, accendo la televisione, anche perché il bagno è occupato. Evitando i particolari, dirò che all’una e un quarto siamo a letto. A questo punto mi sento un po’ imbarazzato perché quello che dovrei raccontare per descrivere la prossima oretta è una cosa intima. Quindi resterete un po’ con la curiosità.
Brani tratti da: Carlo Venturelli, Uno barra ventiquattro, Roma, edizioni ilmiolibro.it, 2012.