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autore: Autore: Clara Sereni

Primavera

Dopo tanto grigio e finestre "chiuse" e aria viziata oggi è il primo giorno di primavera: il calendario non fa testo, la luce è quella, quello l’odore.

Sullo sfondo i fiori del mercato sono una macchia accesa di colore: arrivano certo da lontano, da Israele magari o dai mercati dell’Olanda, però sembrano spuntati lì, quello è il loro luogo naturale.

Prende dall’armadio il tailleur blu e la camicia chiara di seta, sopra hanno ancora l’odore della lavanderia.

Trasferisce oggetti da una borsa all’altra perché anche gli accessori siano adatti.

Si trucca a lungo, il fard finge l’abbronzatura e le passeggiate all’aperto, la pelle oggi è forse più luminosa, gli occhi certamente lo sono. Sul bavero un mazzolino di fiori.

In macchina la luce un po’ fredda la abbaglia, strizza un po’ le palpebre ma gli occhiali scuri restano alti sui capelli, nient’altro che un ornamento.

Parcheggia a un centinaio di metri dalla scuola (potrebbe fermarsi davanti al portone, il contrassegno la autorizza a farlo), saluta il vigile urbano che la conosce: oggi anche suo figlio camminerà nella primavera, i loro passi troveranno un accordo, l’aria tiepida sosterrà i suoi movimenti e li renderà più facili.

Aspettando che i bambini escano le solite chiacchiere di madri, progetti di vacanze e incertezze di baby-sitter, tutto è sempre un po’ complicato per lei ma interviene come tutte, si sente a posto nei capelli e nelle calze a plumetis, è attraente e non le capita spesso di ricordarsene.

I bambini escono fra grida e spintoni: suo figlio come semrpe per ultimo, la maestra gli dà le braccia e sostiene il suo corpo difficile.

Affaticato dalle scale suo figlio trasferisce tutto il peso su di lei, sorride del suo sorriso storto a sua madre che si è fatta bella, nei suoi occhi c’è una storia lunga e una scintilla di sole.

Sul portone si guarda attorno:

– E la macchina?

Già il lampo allegro è scomparso, la piazza per lui è un continente lontano: per stanchezza, per vergogna.

Dalla bocca sformata gli esce un filo di saliva, più pesante si attacca a lei, dice:

– Non ci vengo. Portala qui.

Anche la voce viene fuori con uno sforzo, disarmonica. La delusione le increspa appena le labbra, gli sta chiedendo una briciola di gioia ma chissà che davvero non sia troppo per lui. Sta per cedere con amarezza quando la madre di un suo compagno – ha un tailleur blu così simile a quello di lei – offre la propria disponibilità e un diversivo:

– Andiamo, vi compro il gelato.

Il bar è più avanti, a pochi metri dalla macchina.

Il compagno di scuola è abituato a lui, e attratto dalla primizia forse non concessa:

– Dai, sono pochi passi, vieni.

I pochi passi durano tanto, le gambe vanno di qua e di là senza controllo, l’inverno ha lasciato sul selciato una fanghiglia su cui è facile scivolare. Sua madre lo sostiene e lo guida, la spalla a cui si aggrappa è già tutta sgualcita e fuori assetto.

Nel bar affollato il suo corpo complicato occupa molto spazio, per fortuna c’è un tavolino libero e i due bambini prendono posto: accaldati, eccittati, il lampo di primavera l’hanno sulle guance tutti e due. Mentre lui sta ancora componendosi sulla sedia, con il collo allungato dal desiderio l’altro ha già pronte le sue richieste:

– Io voglio il cono: pistacchio, cioccolato e fragola.

Per un’occhiata della madre ricorda di essere in certo modo debitore, premuroso chiede al compagno:

– Tu quale vuoi?

– Io uguale, – risponde, la voce sgraziata e decisa.

– Magari ti faccio fare una coppetta, – propone la madre del compagno, lo sguardo che scivola senza fermarsi sulle sue mani troppo grandi e prcorse da spasmi.

Si imcupisce, rabbioso si asciuga la saliva che gli bagna il mento, la sua voce è una spada quando ribadisce:

– Voglio il cono.

Le due donne si guardano. Sua madre ha capito e silenziosa annuisce, autorizza; allora l’altra non può che accettare ma è come se facesse la spallucce, ordina i due coni e le sue soprac ciglie declinano ogni responsabilità .

I due bambini affrontano il gelato con identica voglia però uno con movimenti goffi e convulsi, è più la parte che si squaglia via che quello che riesce a succhiare.

La cialda è in gran parte sbriciolata, un grumo dolce inesorabilmente scende giù. Sua madre se ne accorge, cerca parole che non lo feriscono:

– Me lo fai assaggiare?- dice, per mettervi riparo.

Se n’e accorto anche lui, e conosce le sue attenzioni:

– No,- risponde, e si affanna con la lingua, con le labbra, con tutta la bocca.

Sua madre non interviene ma non riesce a scostarsi, a lasciarlo davvero solo: tutto il corpo è proteso nell’aiuto cha sa di non dovergli dare, lo sostiene con tutto quello che ha dentro, qualcosa che forse può definirsi anima.

L’ansia accentua l’incoerenza dei movimenti e improvvisamente tutto il pistacchio è sulla manica blu dei tailleur; lei dice "non fa niente" ma la macchia è vistosa, l’altra ha occhi che significano te l’avevo detto.

I gelati sono finiti, i tovaglini di carta cancellano le tracce più evidenti.

Camminando storto suo figlio si aggrappa ancora a lei, dice piano e senza coraggio:

– Era buono, mi piacciono i coni. Domani me lo ricompri?

– Si, – promette lei .

Si stringono le mani: complici, e forti.

Quando salgono in macchina il contrassegno brilla nel sole: sedendosi lei stira con la

mano la seta sgualcita della camicetta, raddrizza il mazzolino sul bavero. Le calze sono rimaste ben tese.

Fa una carezza a suo figlio, la mano è calda e la guancia intenerita dal sole.

E’ primavera ancora, sull’asfalto e sui tetti, sui capelli e sulla pelle. E’ primavera nel cielo e anche – per quanto oscuro possa sembrare – all’inferno.

(Testo tratto da: Manicomio Primavera, Giunti Editore)

Diario

25 novembre 1978 ? Dopo quasi un mese di ospedale, dopo
un’infinità di indagini invasive e di analisi, arriva la sera del sabato in cui il tempo sta per scadere. Ho contrazioni ripetute, strane; il primario non c’è, prima di andar via l’ostetrica passa a vedermi ma non registra che l’inusualità dei miei sintomi. Più tardi nella notte le contrazioni continuano, più intense, ma in reparto non c’è nessuno di quelli che mi hanno seguito fin qui.
L’unico monitor in funzione è in sala?parto, fuori dal reparto di patologia ostetrica dove sono stata finora. Per le mie insistenze la caposala accetta di mandarmi lì: in barella, con la cartella clinica appoggiata sulla pancia che continua a contrarsi.
La sala?parto è libera, non ne hanno bisogno e dunque possono usarla per me. Anche se non sto partorendo. Mi legano al letto con le cinghie del monitor, dalle quali potrei facilmente liberarmi se solo sapessi cosa fare, cosa decidere. Per nove ore resto sul lettino della sala?parto, incapace di ribellione. Quando sento passare qualcuno chiamo, con il mio tono troppo educato, e talvolta qualcuno si avvicina: ma quando provo a chiedere cosa succede, cosa prevedono, il massimo di risposta che ottengo è che no, quelle non sono contrazioni da parto, dunque non c’è nessuna particolare ragione di allerta.
Mi mandano via, al mattino, soltanto perché non spetta a quel reparto darmi la colazione.
In barella mi riportano in reparto: con la cartella a cui nessuno ha dato neanche un’occhiata, con il lunghissimo rotolo di carta uscito da un monitor che nessuno ha controllato.
Il primario del mio reparto, nel giro che di domenica fa soltanto nel pomeriggio, guarda finalmente il tracciato e subito si irrigidisce, si indigna: ma a me che chiedo non dice niente, non spiega niente. Riesco solo a cogliere due parole, «sofferenza fetale», che vanno ad aggiungersi all’ansia di tanti giorni senza risposte. Poi mi dicono che partorirò, con il cesareo: non prima di sera. Al risveglio dall’anestesia, in sala di rianimazione, accanto a me c’è solo un’infermiera: dice che tutto è andato bene, troppo genericamente e professionalmente per convincermi, dopo la gravidanza piena d’inciampi che ho avuto. Passano più di dodici ore, prima che al mio compagno sia consentito di venire da me. Di lui mi fido, ascolto le sue rassicurazioni e la descrizione che mi fa del bambino. Più tardi anche mia madre, mia suocera, le mie sorelle mi dicono dei tanti capelli che ha, delle somiglianze che hanno trovato. Del fatto che appena nato non piangeva, ma poi subito l’hanno schiaffeggiato e allora sì. Appena nato c’erano tutti, loro: io no, dormivo e non ho visto niente.

30 novembre 1978 ? La mia amica Gisella si scandalizza, quando scopre che non ho ancora visto il bambino, ricoverato al reparto immaturi da cui non lo lasciano uscire. Sparisce nei corridoi dell’ospedale, torna con una poltrona a rotelle, si fa aiutare da un’infermiera per caricarmici sopra, poi la guida, senza troppe concessioni per le mie ferite, lungo i corridoi. Curve, ascensori, poi finalmente il reparto.
Il vetro mi tiene a distanza, la carrozzella da cui non riesco ad alzarmi mi tiene a distanza. Al di là le culle, una in fila all’altra: divieto d’accesso, e l’infermiera troppo occupata per darmi retta.
E’ancora Gisella che riesce a parlamentare e contrattare: per un tempo brevissimo, l’infermiera prende mio figlio dalla culla e lo avvicina al vetro, perché io lo veda.
E’ magro, grinzoso, affogato in una brutta tutina scolorita troppo grande per lui. Somiglia a mio padre quando si toglieva la dentiera. Poi, però, il bambino apre gli occhi: grandissimi, e assomiglia soltanto a se stesso.
Tornata al mio letto, consegno a Gisella i golfini fatti da me, le tutine che avevo comperato: non c’è altro modo in cui mi sia consentito prendermi cura di lui.

estate 1982 ?Tentiamo una vacanza diversa dagli altri anni, trascorsi al riparo e nel chiuso della casa di campagna dei nonni. In Toscana, un agriturismo speciale, qualcuno molto attento ai problemi delle diversità: perché il rapporto con l’esterno spesso ci fa vergognare, e almeno in vacanza vorremmo sentirci accolti.
Giorni uguali e sufficientemente sereni: fino a ferragosto. Quando, arrivando al mattino nella sala di riunione, troviamo due persone con le stampelle, e una terza sulla sedia a rotelle. Temiamo le reazioni di Matteo, così spaventato dalle diversità altrui: come se specchiarvisi fosse un terrore troppo grande. E infatti la sua prima reazione è di fuga, vuole andare via e forse noi non ci sentiremmo tanto di insistere se non fosse, per gli altri, quelle persone che forse potrebbero restarci male, sentirsi emarginate come tante volte ci sentiamo noi.
Restiamo, e Matteo entra nel cerchio magico di tre persone eccezionali. La sera c’è musica, e il più disagiato dei tre grida a Matteo: «Fammi ballare! Fammi ballare!”. Matteo spinge la sua sedia a rotelle, la fa roteare anche troppo velocemente ma l’altro accetta il rischio. E vince: la paura che Matteo ha di ogni diversità, da oggi, non è più totalmente indomabile.

(*) tratto da AA.VV. Mi riguarda, edizioni e/o 1994