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autore: Autore: Daniela Lenzi

L’accoglienza

E’ il tempo della transizione, segna il passaggio da un contesto conosciuto ad un altro più estraneo, la separazione da una relazione affettiva famigliare ad un altra a cui occorre affidarsi.
Si vivono quindi spesso contrastanti e complesse emozioni: il timore di separarsi, il desiderio di compiacere l’altro, la paura e la curiosità su ciò che accadrà.
Questo momento è il ponte che congiunge ieri e oggi, eco degli avvenimenti passati, delle aspettative future. Come ci si è lasciati ieri può influenzare come ci salutiamo oggi, segna quindi l’inizio del rapporto ma ha in sé già anche la fine, la separazione: ogni relazione di cura si esplica infatti in un tempo e in uno spazio definito e parziale.
Lo spazio all’interno del quale avviene l’accoglienza influenza i vissuti emotivi, le dinamiche relazionali e può accentuare o almeno modificare il rapporto di asimmetria tra operatore ed utente.
E’ ben diverso se l’incontro avviene in un luogo percepito da entrambi come estraneo se non ostile, oppure se avviene all’interno di un setting preciso e quindi professionale in cui l’operatore ha le vesti del “padrone di casa” o se viceversa è l’utente il padrone di casa.
Là dove l’operatore è accolto in casa dell’utente questo spazio non è professionale ma è il luogo privato, intimo dell’altro. Si entra a contatto con gli usi, i costumi, gli odori, le modalità di vita di quella particolare persona, di quella particolare famiglia. Si può quindi meglio conoscere l’altro ma questa forte intimità può generare nella famiglia anche un desiderio di espulsione dell’operatore percepito come estraneo o al contrario un desiderio di inglobamento al suo interno.
In ogni accoglienza c’è un rito, una serie di modi di fare, successive azioni e parole, che hanno la funzione di rendere comprensibile e prevedibile la realtà che sta avvenendo e quindi di facilitare la separazione, l’incontro, la relazione.
Nel rito costruito e condiviso assieme ognuno riscopre la specificità, il ritmo del rapporto, l’affidabilità dell’altro e del nuovo contesto. Esso rappresenta uno degli orizzonti della stabilità rispetto alla mutevolezza degli eventi, è una forma di controllo e di rielaborazione della realtà e del proprio rapporto con essa.
L’accoglienza è un incontro tra persone diverse con ruoli diversi, ma è innanzitutto un incontro tra corpi, tra gesti, odori, modi di vestirsi e di muoversi.
In ogni relazione il corpo è il linguaggio più tipico e immediato, è fonte di perenne comunicazione. Le sensazioni che il corpo provoca nell’altro sono un invito o un ostacolo alla prosecuzione del rapporto; sono un messaggio rispetto a come l’altro ci viene incontro, a come percepisce il proprio corpo o come il suo corpo, soprattutto per i bambini o chi non può accudirsi da sé, è vissuto da chi si prende cura di lui.
Nel lavoro di cura questo elemento corporeo, pur essendo massiccio, è spesso pieno d’invisibilità perché si vivono intense emozioni “di pelle” cioè fisiche, difficilmente verbalizzabili.

Separazioni violente

Il momento della separazione dal proprio ambiente familiare e dall’inserimento in un luogo estraneo raccontato da Mario Barbon nel capitolo” Rimini” (tratto dal suo libro Non ho rincorso le farfalle) viene accostato ad alcuni brani tratti da J. Amery, Intellettuali ad Auschwitz.
Sono due voci che pur nella loro diversità testimoniamo la sofferenza e il dramma di chi è separato per forza e con forza da ciò che ama e che quindi è familiare, per trovarsi gettato in un mondo in cui il sentimento di estraneità sottende ogni attimo e gesto della vita quotidiana.
Mario Barbon

“Il mio nuovo istituto si trovava a Rimini e secondo l’assistente sociale di Treviso si sarebbe trattato di un piccolo paradiso, ma come si sa le assistenti sociali sono sempre portate a fare bei castelli. Io non ero tanto contento di riprendere il mio peregrinare. Avevo avuto la fortuna di fare l’esperienza di Firenze, che ricordavo con un po’ di nostalgia; comunque, ormai che il cambiamento era deciso, speravo di trovare nel nuovo istituto almeno un po’ della comprensione che avevo trovato a Firenze.
Il ricovero al “Sol et Salus” avvenne ai primi di febbraio. E’ inutile dire che in me era sopraggiunta l’angoscia che da parecchio tempo non provavo, eppure c’era una certa una certa disponibilità, almeno apparente a partire…sotto sotto però non l’avrei mai desiderato. Appena pa’ mi prese in braccio per portarmi a prendere il treno scoppiai a piangere, tiravo calci a destra e a sinistra, e pensavo: ma perché volete sempre aver ragione voi?”

“Ma forse in quel momento nessuno pretendeva di aver ragione. Il viaggio fa abbastanza tranquillo; la giornata era tiepida e quando arrivai a Rimini c’era il sole. Dentro di me, però, desideravo che quel viaggio non finisse mai. Usciti dalla stazione prendemmo l’autobus che, guarda caso, si ferma a duecento metri dall’istituto. Questo si trova proprio in riva al mare; come aspetto, visto dall’esterno non era male, ma bisognava vedere se anche l’interno vi corrispondeva. Quando entrai sentii in me l’angoscia. Sbrigate le solite formalità, una signorina ci accompagnò al reparto, che era staccato dalla struttura principale. Percorso un lungo corridoio, ci trovammo in una specie di labirinto di stanze.”

Jean Amery

“Seguendo i sentieri dei contrabbandieri attraversavamo la Eifel notturna e invernale, in direzione di un paese, il Belgio, i cui doganieri e gendarmi non ci avrebbero consentito di passare il confine legalmente: eravamo privi di passaporto e visto, privi di un’identità civile giuridicamente valida, eravamo profughi. Fu un lungo cammino nella notte.”

“Felicemente giunti ad Anversa e confermato il nostro arrivo con un cablogramma ai parenti rimasti a casa, cambiammo il denaro in nostro possesso, complessivamente quindici marchi e cinquanta pfenning, se ben ricordo. Questo era il patrimonio con il quale dovevamo iniziare, come si dice, una nuova vita. La vecchia ci aveva abbandonati. Per sempre? Per sempre. Ma l’ho capito solo adesso, dopo quasi ventisette anni.”

“Qui purtroppo ho visto uno spettacolo, se così si può chiamare, che non dimenticherò mai. C’erano bambini, seduti a dei tavoli piccoli, che avrebbero dovuto mangiare, ma da soli non ci riuscivano e si sporcavano tutti, sporcando anche il pavimento, sicché era uno spettacolo proprio brutto. E c’era una signorina, alta, scura di capelli, con un naso che assomigliava a un becco d’aquila: questa sarebbe stata la Piter, che come vedeva quei bambinetti sporchi non esitava a batterli senza riguardo. Quando vidi tutto questo mi misi a piangere, mentre la signorina cercava di calmarmi. “Portami a casa, voglio venire a casa!” cominciai a gridare alla mamma, finché la signorina, sempre la stessa,a un certo punto mi diede un bicchier d’acqua, ed io la bevvi perché avevo sete, solo che in quel bicchiere c’era una dose di sonnifero. Poco dopo infatti mi è venuto sonno e allora ho capito lo scherzo che mi aveva fatto. La mamma ebbe appena il tempo di salutarmi che io mi addormentai”.

“Quando mi svegliai mi sembrò di essere a casa, ma ben presto mi ricordai dove mi trovavo. La camera era piccola, a due letti, e c’era un altro ragazzo, forse caduto anche lui nella trappola della signorina. Da parte mia non ci fu neppure il tentativo di avviare un dialogo, avevo ben altri pensieri. Pensavo a casa mia cercando di immaginare che cosa stessero facendo in quel momento le mie sorelle; e papà e mamma, dove potevano essere? Non c’era in me nostalgia di casa, era subentrata una certa indifferenza e anzi mi sembrava più che normale di trovarmi in quel posto dove non conoscevo nessuno al di fuori di una signorina che sembrava piuttosto antipatica”

“Nei primi giorni mi lasciarono in pace, tanto per darmi il modo di ambientarmi, e così mi mettevano in un angolo del soggiorno da dove potevo guardare tutti quelli che passavano. Vidi anche la signorina Piter, che molto gentilmente mi chiese come andava. Ricordo che rimasi colpito dalle grida che venivano dalla sala di fisioterapia e mi chiedevo a che cosa erano dovute. Purtroppo di lì a qualche giorno avrei dovuto “cantare” anch’io.”

“Con qualche banconota e qualche moneta straniera affrontavamo l’esilio: che desolazione! Chi non lo sapeva, apprese nella sua vita quotidiana di profugo che l’esilio trova la migliore definizione proprio nella parola Elend (desolazione) che etimologicamente ha in sé il concetto di messa al bando.”

“Che cos’era , cos’è la nostalgia di casa provata da coloro che dal Terzo Reich erano stati cacciati allo stesso tempo a causa delle loro opinioni e del loro albero genealogico? Impiego malvolentieri in questo contesto un termine oggi non più di moda, ma forse non ne esiste uno più adatto: la mia, la nostra nostalgia di casa era una forma di autoestraniazione. Il passato era di colpo sepolto, e non si sapeva più chi si era.”

“Volti, gesti, abiti, case, parole ( anche quando più e meno le capivo) erano realtà sensoriali, ma non segni decifrabili. Quel mondo per me era privo di ordine. Il sorriso del poliziotto che controllava i nostri documenti era benevolo, indifferente o sarcastico? La sua voce profonda tradiva astio o esprimeva? Non lo sapevo.
Barcollavo attraverso questo mondo i cui segni erano per me indecifrabili quanto i caratteri etruschi.”
“Ben presto entrai nella stanza cosiddetta di fisioterapia o per meglio dire “stanza di tortura”. La mia fisioterapista era la signorina Piter, che secondo le sue parole mi avrebbe rimesso in piedi. Sta di fatto che la mia volontà di migliorare, se prima era mediocre, discese a zero. Nei primi tempi la ginnastica era di rilassamento e fin qui tutto sarebbe andato bene, ma un giorno la signorina Piter, senza alzare la voce, come era solita fare con chi secondo lei non sopportava abbastanza, mi disse: “Oggi ti metterò le docce”. In un primo momento la mia fantasia si era divertita a immaginare queste docce come quelle di un bagno, ma più tardi capii che si trattava di qualcosa di rigido e di doloroso. Le docce sono una forma di cartone rigido che segue generalmente la sagoma della gamba: adesso la signorina Piter doveva drizzare le mie gambe e perciò mi metteva le docce. Si dà il caso però che generalmente chi è colpito da paralisi spastica abbia i tendini e le corde delle gambe e delle braccia che si ritirano e si irrigidiscono. Potete quindi immaginare che cosa succede quando si tenta di raddrizzare questi arti. Comunque la signorina Piter tentò di tranquillizzarmi dicendo: “Guarda Mario, oggi le tieni 15 minuti, domai mezz’ora, fino a quando dovrai portarle tutta la notte”. Non avevo dato troppo peso a quelle parole anche perché dovevo ancora “provare”, però adesso posso dire da che cosa erano provocate le grida che avevo sentito fin dal primo giorno.
Cominciai così a capire che cosa voleva dire portare quegli arnesi. E come se non bastasse la tortura fisica, c’era anche quella morale, poiché quando questa benedetta signorina si metteva sulle mie ginocchia, provocando ovviamente dei dolori, io non dovevo gridare, né stringere i denti per non gridare, ma semplicemente dovevo far finta di essere al cinema o alla spiaggia. E se qualche volta mi scappava un “aio” la signorina Piter mi sgridava dicendo: “Ma no che non ti fa male, è solo una tua impressione!”. A queste parole la mia mente si divertiva a immaginare forme di tortura arcaiche come il tiro con i cavalli e la signorina Piter legata ad un albero…
Avrei voluto farle sentire lo stesso dolore che mi provocava prendendomi la gamba e tirandola fin quasi a spezzarla. Direte che la mia testa era soltanto “confusa” a causa de dolore, però possono dire con sincerità che in tutto il periodo trascorso in quell’istituto ho

“Il potere del torturatore sotto il quale geme il torturato, non è invece altro che l’assoluto trionfo del sopravvivente sull’individuo che, escluso dal mondo, è spinto verso la sofferenza e la morte.
Stupore per l’esistenza dell’altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte. Il torturato non cesserà mai più di meravigliarsi che tutto ciò che, a seconda delle inclinazioni, si può definire la propria anima, il proprio spirito, la propria coscienza o la propria identità, risulta annientato quando nelle articolazioni delle spalle tutto si schianta e frantuma. Che la vita sia fragile, questa ovvia verità l’ha sempre saputa, e anche che sia possibile metterle fine “con un semplice ago”, come ha scritto Shakespeare. Ma solo attraverso la tortura ha appreso come sia possibile rendere un essere umano unicamente carne, e trasformarlo così, mentre è ancora in vita, in una preda della morte.
Chi ha subito la tortura non può più sentire suo il mondo. L’onta dell’annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo crollata in parte con la prima percossa, ma definitivamente con la tortura, non può essere riconquistata. Nel torturato si accumula lo sgomento di avere vissuto i propri simili come avversi: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza. Chi è stato martoriato è consegnato inerme all’angoscia. Sarà essa in futuro a comandare su di lui.

sempre desiderato di torturare, seppure con la fantasia, qualcuno, e non ero l’unico che nutrisse di questi pensieri. Fantasie del genere erano all’ordine del giorno per tutti i miei compagni, che si divertivano ad immaginare quale avrebbe potuto essere il supplizio migliore per questa o per quella persona. La nostra consolazione, se tale si può definire era il cinema: ricordo che aspettavamo con tale ansietà quel giorno che tutto il resto era relativo”.

L’angoscia: e in aggiunta tutto ciò che abitualmente chiamiamo i risentimenti.
Anch’essi restano e hanno scarse possibilità di concentrarsi in una spumeggiante e purificante sete di vendetta”.