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autore: Autore: di Annalisa Bolognesi

La solitudine dei numeri giornalistici

L’ideologia dei numeri sta travolgendo l’informazione. Nell’ambito dell’economia e della cronaca, così come altrove, sempre più spesso i dati vengono oggi considerati non solo una necessità, ma anche una sorta di nuova forza argomentativa, la prova oggettiva che, invece di completare, tende piuttosto a sostituire l’inchiesta e la ricerca sul campo. Col rischio di perdere così la ricchezza della ricerca stessa, quel qualcosa in più che ti può dare un viso, un luogo, l’ascolto diretto di una persona, in un’ottica di giornalismo fondato in molti casi sulla velocità, sulla necessità di dover “chiudere il pezzo” per andare in stampa il giorno dopo, su ritmi che non permettono indagini accurate e approfondite.
Ma non c’è solo questo. Questi numeri, che sempre più campeggiano nei nostri giornali e media, vengono spesso lasciati soli: senza alcun parametro di confronto, senza definizioni precise a cui rapportarsi. Privato di questo supporto il numero resta abbandonato a se stesso, perde la sua oggettività e si trasforma frequentemente in oggetto di manipolazione.
Ogni giorno apriamo il giornale, leggiamo cifre, guardiamo tabelle, ma sappiamo veramente di cosa si sta parlando? Come facciamo a fidarci di questi numeri e a capire quale e quanto peso dargli?
E il problema si fa ancora più forte per chi, come me, l’informazione la produce. Vale veramente la pena fornire cifre per informare? E, se si decide di farlo, come fare a dare al numero il giusto valore, senza manipolazioni e strumentalizzazioni?
Anche di questo si è parlato nel corso della XV edizione del seminario per giornalisti promosso dall’agenzia di stampa Redattore Sociale (“Algoritmi. Lezioni per capire e raccontare la società. Oltre i motori di ricerca”), in una sessione dedicata ai metodi d’inchiesta giornalistica che ha visto la partecipazione di Stefano Laffi, sociologo e ricercatore, quindi “produttore di numeri”, ma anche, come egli stesso si definisce, “ex-giornalista, cioè una persona che per anni i numeri li ha chiesti, e, infine, lettore, quindi qualcuno, un po’ come noi tutti, che i numeri li legge e li deve utilizzare come strumento di informazione”.
Ed è proprio partendo dal contributo di Laffi e dal suo triplice punto di vista che ho deciso di cercare di dare qualche risposta a queste domande, fornendo alcuni piccoli consigli, che ovviamente non pretendono di essere esaustivi, a tutti i lettori o giornalisti che, volontariamente oppure no, in questi numeri si imbattono quotidianamente.

Ogni numeratore ha un suo denominatore
Parafrasando il titolo del notissimo libro di Giordano abbiamo parlato di “solitudine dei numeri giornalistici”. Ma cosa deve fare il bravo giornalista per non lasciare i numeri da soli? E il lettore come farà a capire quando il numero è solo e quando invece non lo è?
Innanzitutto, come illustrato da Laffi, “ogni numeratore deve avere un suo denominatore”. Questo significa che ogni dato, ogni numero riportato dai media, per avere qualche validità, non deve mai prescindere da una situazione di riferimento. Tale situazione può essere data dal contesto specifico in cui viene misurato il dato, ad esempio una rapina in una grande città come Milano ha un significato statistico molto diverso da una rapina in un piccolo paesino; oppure da altri dati relativi agli anni precedenti, in modo da poter misurare il cambiamento e le eventuali oscillazioni. Insomma, la domanda fondamentale da porsi quando si vuole misurare qualcosa è: rispetto a cosa lo sto misurando?
Ma non dobbiamo mai dimenticare che esistono anche alcuni avvenimenti che non possono essere misurati tramite numeri. Episodi che per la loro gravità o per il loro profondo significato, pur non avendo una rilevanza statistica, devono essere tenuti in forte considerazione. Se ad esempio muore un ragazzo perché crolla il tetto di una scuola – come nel recente caso avvenuto nel Liceo Scientifico Darwin di Torino – è chiaro che non si deve mai perdere di vista la gravità e la drammaticità di questo episodio, anche se, dal punto di vista numerico, si tratta solo di un ragazzo su un milione di studenti, di uno “zero virgola”, per dirla in termini percentuali.
In poche parole accanto al denominatore numerico esiste anche un denominatore morale da cui non si può e non si deve mai prescindere. Come dire: quando si parla di episodi così tanto gravi i numeri non contano più nulla.

Prima furono le cose e poi i loro nomi. La definizione dietro al numero
“I nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose e non l’essenza ai nomi; perché prima furono le cose poi i loro nomi”, scrisse Galileo nel 1612 nella sua lettera a Marco Welser (Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, Roma, Theoria, 1982). Secondo il filosofo e scienziato, è partendo dallo studio del fenomeno che l’uomo produce poi una sua definizione; il fenomeno deve essere quindi compreso, studiato, quantificato e infine definito.
Ma nell’informazione spesso avviene proprio il contrario e i nostri numeri, sempre più soli, frequentemente si trovano in cattiva compagnia di definizioni vaghe e vuote, che di per sé non dicono nulla. Che valore può avere ad esempio una tabella da cui emerge che la povertà è in aumento, se non sappiamo la definizione di povertà e i parametri su cui viene definita? Quale significato può assumere la frase “ottocentomila giovani sono disagiati”, se prima non sappiamo cosa si intenda per disagio giovanile?
Il rimedio a questa lacuna spesso non è affatto semplice. “In ogni caso – ci spiega Laffi – ognuno di noi si dovrebbe sempre interrogare prima su cosa significhi quella definizione, su come è stata generata e su cosa si poggia. Solo risalendo alle sue radici ci si può fare un’opinione su un determinato fenomeno, altrimenti i dati non devono essere nemmeno presi in considerazione, né dal lettore, né tantomeno dal giornalista. Il tutto tenendo sempre conto dei mutamenti culturali, che fan sì che certi fenomeni emergano, si rendano visibili, cambino aspetto, oppure godano per la prima volta di una definizione”.

Dati e numeri. Qualità o quantità?
Muovendo dalle considerazioni precedenti nasce spontanea una domanda: ma davvero abbiamo bisogno dei numeri per acquisire o fornire informazioni?
In questo senso è bene ricordare che i dati non sempre coincidono con i numeri. Un dato può esserci fornito da qualunque elemento della realtà: da una conversazione, da un viso, da un’esperienza diretta. Non tutto, abbiamo visto, prende forma di numero; perché a volte non è possibile fornire elementi quantitativi, altre volte non è utile farlo, come nel caso del “denominatore morale”, e, altre ancora, è troppo presto, perché non si hanno ancora sufficienti elementi di misurazione.
Tutti i fenomeni possono invece sempre essere indagati e studiati acquisendo dati attraverso la ricerca qualitativa e diretta, che permette, oltre che di rimediare alla carenza di numeri, di andare oltre le semplici cifre, e di approfondire la realtà in modo ben più accurato.
Ma anche laddove il numero ci fosse, va comunque sempre qualificato, commentato, occorre dargli spessore e senso. Altrimenti si rischia di lasciarlo solo.

Un laboratorio di idee

Nel tragitto per arrivare a Prato allo sportello informativo “Anna Informadonna” mi domandavo in che tipo di struttura sarei approdata e dove fosse collocato.
Devo dire però che la costruzione che mi sono trovata davanti al mio arrivo era ben diversa da come me l’aspettavo: non era di certo quello che intendiamo un “ufficio”, bensì un capannone di vistose dimensioni, uno spazio aperto e in movimento.
Tutto parte come nelle più belle esperienze, attraverso la conoscenza delle persone che ti sanno trasportare, mediante le loro parole, nelle loro realtà: Solidea e Paola. Sono loro ad accogliermi e a condurmi nel vivo del progetto.
Con Solidea, operatrice dello sportello Informadonna, faccio un primo giro di conoscenza della struttura. Immaginatevi, appena entrati, di trovarvi di fronte un punto di ricevimento: lo sportello Informadonna; sulla sinistra invece una cucina, con a fianco una saletta giochi per bambini; mentre sulla destra un ampio spazio destinato a diverse postazioni pc. Tutto ciò solo a una prima occhiata.
“L’Informadonna non è la sola realtà presente in questa struttura – mi spiega Solidea –. Siamo all’interno del Laboratorio del Tempo”.
Per capire bene quindi cos’è e come opera “Anna Informadonna” bisogna avere chiaro che non opera da solo, ma all’interno di un particolare meccanismo.

Il Laboratorio del Tempo
La struttura del Laboratorio del Tempo è una tra i tanti progetti e realtà che vi sono all’interno.
Pensiamo a un luogo dove ambiti di natura diversa cercano l’uno nell’altro il miglioramento, la proficua collaborazione, l’ampliamento e l’interesse reciproco.
“Il Laboratorio del Tempo è un progetto del Comune di Prato nato come spazio nell’ambito di un progetto europeo Equal negli anni tra il 2000 e il 2004, con l’obiettivo di dar vita ad attività volte a valorizzare il tempo libero delle donne – spiega Paola, coordinatrice del Laboratorio –. Al termine di questa prima esperienza le utenti del laboratorio hanno deciso di costituirsi ad associazione per diventare così un interlocutore stabile del Comune e garantire la continuità delle proprie attività. A questa si sono unite, dal 2004 ad oggi, altre associazioni, come la ‘Banca del tempo’, o realtà associative nate dall’integrazione delle comunità straniere, come ad esempio l’associazione delle donne del Camerun e dell’Honduras. Si è creato così un tavolo di programmazione in cui il Comune interloquisce con le associazioni e vengono concordate le attività del laboratorio, attraverso una sinergia tra i servizi promossi direttamente dal Comune, come l’Informadonna, e le attività e i supporti che ci possono offrire le associazioni attive all’interno del laboratorio, che promuovono corsi, attività formative e aggregative”.
Il Laboratorio del Tempo nasce quindi dalla sinergia di più realtà, che operano in ambito sociale e culturale ed è qui che strategicamente è stato collocato lo sportello informativo “Anna Informadonna”.

Lo sportello Informadonna
“Il percorso di Anna Informadonna – racconta Paola – nasce già alla fine degli anni ’90, sulla base di un protocollo d’intesa tra i soggetti istituzionali presenti sul territorio, il Comune, la Provincia, la Prefettura, la Questura, e l’ASL, con il fine di promuovere informazioni e servizi in rete, dando così vita a uno sportello telematico. Naturalmente uno strumento di comunicazione di questo tipo era principalmente utilizzato da chi, operando nel sociale o lavorando in strutture legate alle problematiche della donna, sapeva come utilizzarlo e renderlo proficuo. Ma vi era anche l’intenzione di far muovere passi importanti alle possibili utenti dirette: al tempo internet era uno strumento ancora poco utilizzato e si cercava di fare i primi passi verso il superamento del digital divide; l’utilizzo di uno sportello telematico doveva quindi migliorare il problema del gap tecnologico femminile”.
Poi con la nascita del Laboratorio del Tempo si creò l’opportunità di far incontrare direttamente l’Informadonna e le proprie utenti, costituendo lo sportello fisico e riorganizzando le informazioni in maniera più radicata e strutturata sul territorio pratese. Se prima infatti il sito dava informazioni su quelli che erano gli approcci a livello nazionale (normative, diritti, pari opportunità, diritti delle donne lavoratrici), con la nascita dello sportello si è scelto di territorializzare le informazioni, valorizzando quello che il territorio pratese poteva offrire. Le informazioni sono state così organizzate per aree tematiche e per ogni area sono stati evidenziati i servizi presenti, tutto ciò che nella provincia di Prato potesse essere offerto alla donna per superare le sue difficoltà. “La parte più innovativa è certamente quella legata ai servizi di cura – spiega Paola – per cui abbiamo svolto un importante lavoro di ricerca assieme al consorzio cooperativo Astir per fare una ricognizione di tutti quelli che erano i servizi che potevano essere classificati come servizi di sostegno alle famiglie, in un’ottica di conciliazione dei tempi. Per esempio, nel caso degli anziani, non tanto le case di riposo, quanto piuttosto i servizi di assistenza diurna, le vacanze anziani, l’assistenza domiciliare, quindi tutto quello che poteva aiutare le famiglie e in particolare la donna, che è sempre la figura su cui più gravano questi compiti di cura. L’obiettivo era infatti quello di offrire un supporto alla conduzione dell’assistenza familiare e alleggerire così la donna da questi compiti, permettendole quindi di cercare lavoro, di avere tempo per sé, di non essere l’unico soggetto su cui gravano questo genere di incombenze. Questo monitoraggio è stato fatto su tutti e tre i soggetti che potevano comportare servizi di cura: anziani, disabili, bambini. Con la stessa logica di cercare quello che il territorio offre abbiamo iniziato a lavorare sulle altre sezioni del sito”.

Incontri e sinergie
Per arrivare a capire fino infondo quanto sia capillare e completo l’Informadonna è necessario sapere perché è stato volutamente inserito all’interno del Laboratorio del Tempo.
Il motivo per cui si è deciso di inserire questo sportello nel Laboratorio del Tempo viene incontro all’obiettivo di integrare questo tipo di servizio con gli altri offerti dal Laboratorio, sempre in un’ottica di conciliazione dei tempi e di valorizzazione del tempo libero della donna.
Se ad esempio una donna si reca presso il Laboratorio per effettuare un colloquio di orientamento al lavoro – servizio presente nella struttura tutti i lunedì mattina – potrà al tempo stesso trovare risoluzione al problema dei figli. La possibilità infatti di avere insieme queste realtà nello stesso spazio fisico consente a entrambe di operare nel loro canale e di aiutare su entrambi i fronti la donna, senza la dispersione di tempo ed energie.
Allo stesso modo coloro che si recano a un corso promosso dalle associazioni del Laboratorio possono essere aiutate nella conciliazione dei tempi, affidando i propri bambini a volontari che li accudiranno nella saletta giochi predisposta per loro.
Ma le importanti sinergie create all’interno e con le realtà esterne al Laboratorio consentono anche a molte donne di uscire dall’isolamento attraverso la partecipazione ad attività aggregative e formative. “Il Laboratorio del Tempo – aggiunge Paola – lavora molto con l’associazione La Nara, che gestisce il centro antiviolenza sulle donne e con Aurora che invece si occupa delle donne con tumore al seno. Entrambe le associazioni inseriscono delle donne nelle nostre attività proprio per attivare dei processi di integrazione ed evitare rischi di isolamento”.
E queste sono solo alcune delle grandi risorse del Laboratorio del Tempo: uno spazio in movimento e sempre aperto a nuove idee.

“L’essenziale è invisibile agli occhi” : storia di una badante

Quasi tutte donne, quasi tutte straniere. Capita di poterle scorgere nei parchi delle nostre periferie mentre accompagnano un anziano a contemplare il verde, oppure d’intravederle mentre sostengono la solitudine e il disagio fisico di chi da solo non va più da nessuna parte. Ma più spesso stanno nelle nostre case, a prendersi cura di persone che in molti casi non possono uscire.
Così, un po’ nell’ombra, un po’ nell’indifferenza trascorre la vita di molte badanti, tra la necessità di mettere da parte i soldi guadagnati e il desiderio di tornare al proprio paese.
Dietro ognuna di loro c’è però un racconto, una storia mai conosciuta. “Vite” che divengono immagini di immigrazione, di lavoro e cura, talvolta di sofferenza e, quasi sempre, di sacrificio.
Sono storie di donne che chiedono di essere ascoltate, conosciute, raccontate: senza retorica però, senza pietismo, senza troppi consigli su come poter fare una vita diversa. Ed è per questo che ho deciso di incontrare Mariana.
Conosco Mariana attraverso “Casa Base”, l’agenzia che le ha trovato lavoro e che si occupa proprio di fare da tramite tra le lavoratrici straniere e le famiglie in cerca di una badante. “Amor, io se posso fare qualcosa lo faccio molto volentieri… Mi piacerebbe fare l’intervista!” – mi dice la prima volta che la sento al telefono. Immediatamente intuisco la sua voglia di raccontarmi di sé e con quel “Amor” inevitabilmente mi avvicina già alla sua vita.
Ha cinquant’anni ed è originaria dell’Equador. Subito mi dice anche che la signora per cui lavora e da cui lei vive abita a poco meno di un chilometro da casa mia. “Strano” – penso però appena la incontro – non l’ho mai notata in giro per il quartiere”.
Ci sediamo al tavolino di un bar e prendiamo un caffé.
“È un anno e due mesi che sono qui in Italia” – mi inizia a raccontare ancor prima che io le faccia una prima domanda –. “Ho scelto questo paese perché qui abita da anni una parte della mia famiglia: mia figlia, il mio genero, mio fratello e mia sorella”. Mariana ha il tono di voce un po’ indolente come se sapesse di dover fare questo preambolo. “In realtà sono venuta con mio figlio più piccolo, quello di diciotto anni, ma lui in Italia non si è trovato bene ed è voluto tornare da solo in Equador”.
Cerco attraverso i miei di occhi di farle capire che non sono per nulla in imbarazzo, che sono lì proprio perché non sono in difficoltà davanti alle sue emozioni.
Ora il figlio di Mariana sta studiando all’Università per entrare in marina e lei lavora anche per aiutarlo, perché il percorso di studi che ha scelto è molto oneroso per loro.
Ma i soldi servono anche per poter riaprire un giorno la sua attività, il suo ristorante nel suo paese che ora ha dovuto chiudere perché necessitava di lavori di ristrutturazione piuttosto costosi.
Mi accorgo, mentre Mariana mi parla di quando avevano il loro locale, di come osserva gli altri tavoli, la disposizione, le altre persone e, più di tutto, cosa gli altri mangiano. “La cucina equadoregna è molto buona, molto sabrosa” – mi dice. E così inizio a scoprire piatti fantastici: Mariana è una cuoca dalle mille ricette e mi colpiscono le sue attente analisi su come si cucina il pesce e su come nella sua regione vengono preparati certi alimenti.
Così, parlando di cucina e del lavoro in Equador, inizia a sciogliersi ogni imbarazzo e Mariana si apre con me, sulla sua vita, sui suoi ricordi, sul suo lavoro.
Il lavoro di badante non è certo ciò che sperava, ma è l’unico che sia riuscita a trovare e sa che questa è già di per sé una piccola fortuna. “Al mio paese ho una laurea in contabilità e prima di aprire il ristorante ho lavorato al Ministero delle Finanze. Ma qui in Italia non c’è uguaglianza. Noi donne straniere, anche se abbiamo studiato, riusciamo a trovare lavoro solo come badanti. Ho persino amiche medico che fanno le badanti” – mi dice con rassegnazione.
Quello di Mariana è anche un lavoro molto faticoso, perché si deve prendere cura di una persona di ottantasette anni con ridotte capacità cognitive e immobilizzata in un letto. “Lavoro dal lunedì al sabato tutto il giorno e anche tutta la notte, perché dormo in casa della signora” – mi racconta. “La difficoltà del mio lavoro è proprio che non ci si ferma mai: se la signora ha bisogno e mi chiama alle due di notte io devo svegliarmi per andare da lei e calmarla o darle una mano. Molto raramente riesco a muovermi di casa, perché lei non può uscire e io devo rimanere lì, visto che non può essere lasciata sola. Ci vuole tanta pazienza e tanta buona volontà”. Le sorrido compiacente. Vorrei solo dirle, senza timore di apparire superficiale, che la comprendo pienamente.
Ma oltre la pazienza e la volontà il lavoro di Mariana richiede anche una certa esperienza e capacità nell’ambito dell’assistenza di base; oltre a pulire la casa e fare da mangiare alla signora, Mariana si deve prendere cura di lei fisicamente: lavarla, pulirla, alzarla da letto, assisterla insomma in tutte le esigenze quotidiane che può avere una persona anziana con una grave disabilità fisica e mentale.
Mariana, pur avendo avuto tutt’altre esperienze lavorative, aveva già assistito sua nonna, malata grave, quand’era nel suo paese. Ma prendersi cura di un estraneo è un’altra cosa. “Quando ero al mio paese avevo accudito mia nonna e questa esperienza mi è servita tanto, perché ho imparato a fare molte cose che oggi mi sono tornate utili” – mi dice. “Ma farlo per lavoro è diverso. Prima di lavorare per questa famiglia mi prendevo cura di un anziano, un uomo, e dovere lavarlo e pulirlo era molto imbarazzante, sia per me che per lui”. Mariana abbassa gli occhi e fa una risata nervosa.
Prendersi cura di una persona anziana o con una grave disabilità crea poi vincoli di enorme intensità; l’assenza del reale legame affettivo o parentale non consente attimi di stacco, non ci si può permettere di sfogarsi; talvolta si litiga, non ci si trova bene, si discute, ma non si può certo uscire di casa sbattendo la porta. “La signora sgrida molto” – mi ripete spesso Mariana. “Ha dei disturbi mentali, quindi molto spesso si arrabbia e si sfoga con me. Io sopporto. Ho bisogno di lavorare e non posso fare altro”.
Sembrerà un luogo comune, ma, anche in questi casi poi ci si lega. Mariana e la signora che assiste, in fondo, passano molto più tempo insieme che non con le proprie famiglie e, alla fine, nonostante il rapporto e le frequenti discussioni, si finisce per volersi bene o, forse, vedersi insieme in un comune percorso.
“Mia figlia mi dice sempre che, se la signora mi sgrida molto, è perché l’ho fatta affezionare troppo, l’ho un po’ viziata” – mi dice scherzosamente. “So che mi vuole molto bene e anch’io sono molto legata a lei, perché penso che un giorno potrei trovarmi in una situazione simile e spero che quello che sto facendo ora per questa persona qualcuno lo faccia un domani per me. È la legge della compensazione: hoy por ti magnana por mi, diciamo in Equador”. (trad: Oggi per te, domani per me, NdR).
Ripenso alla sua frase mentre la guardo. Poi penso a sua figlia che la rincuora e le dà forza e coraggio, penso a cosa sia per lei ascoltare le difficoltà della sua mamma, sapere che fa la badante qua in Italia, lontano dalla loro terra, dal loro ristorante, dall’altro figlio. Penso alla stima e al grande amore che sostiene il loro legame.
Ci alziamo e ci avviamo verso la casa della signora. “Ciao Mariana, grazie di cuore”. “De nada amor, grazie a te per il caffé”.
Mi dà un bacio veloce, ma sentito.
“Abitiamo vicine” – penso ancora una volta tra me e me.

Equilibri, collisioni. Parole e storie di ragazze migranti

Di Annalisa Bolognesi

Ero sempre al confine della fantasia
Intorno a me il nulla
Ero sull’orlo dell’oscurità
Intorno a me il nulla
Ero al margine della pazzia
Intorno a me il nulla
Eravamo in due
Ma ero sempre solo io
(Milana Musaeva – Atelier di Scrittura ITCS “Rosa Luxemburg” Bologna, maggio 2007)

C’è chi scrive per raccontare storie, chi scrive per vendere, per informare; c’è chi fa dello scrivere una professione, chi ne ha fatto semplicemente un hobby. Ma per molti, forse per la maggior parte delle persone, scrivere è uno sfogo. Scriviamo per stare meglio. Attraverso la parola e la scrittura prendiamo coscienza di noi, e quei problemi che sembravano inconcepibili ora hanno un corpo e una forma.
Era la fine del 2005 e stavo cominciando a scrivere la mia tesi di laurea sulle seconde generazioni di migranti, quando mi sono avvicinata per la prima volta al libro Verso quale casa. Storie di ragazze migranti di Maria Chiara Patuelli (Bologna, Giraldi Editore, 2005).
Come per altre letture fatte per la mia tesi credevo di trovarvi semplicemente dati e analisi sociologiche riguardanti l’argomento su cui stavo indagando. In realtà c’era molto di più. Il libro non era un insieme di dati, questionari e cifre: conteneva delle storie. Storie di giovani donne di origine straniera che avevano deciso di raccontarsi attraverso interviste e narrazioni. Ma anche storie di un altro tipo: racconti, poesie, sfoghi, scritti sempre da queste ragazze nell’ambito di un laboratorio, un Atelier di scrittura creativa rivolto a studentesse migranti organizzato dall’Istituto Tecnico Commerciale Statale “Rosa Luxemburg” di Bologna.
Ed è proprio dalla lettura del libro della Patuelli, fondamentale per la mia formazione universitaria e non, che ho deciso di approfondire il progetto dell’Atelier.

L’Atelier di scrittura creativa
Come spesso accade per i progetti più interessanti e originali, l’Atelier nasce quasi per caso, in maniera del tutto informale. “L’Atelier è partito nel 2000 – spiega la Professoressa Francesca Milani, una delle fondatrici –. All’inizio dell’anno scolastico alcuni insegnanti si sono accorti che un gruppo di ragazze del biennio, prevalentemente nord-africane, pur non dovendo venire a scuola il sabato, perché le classi prime e seconde hanno lezione solo dal lunedì al venerdì, ogni sabato vi si recavano ugualmente, passando la mattina al bar o in giardino, probabilmente perché, se fossero rimaste a casa, sarebbero state caricate d’incombenze domestiche. Così, per legittimare la loro presenza a scuola, la Preside e alcuni professori hanno iniziato a invitarle, in queste ore, a scrivere di sé e delle proprie esperienze. In questo modo, un po’ informalmente e un po’ per gioco, ha preso il via il laboratorio”. Con il tempo poi l’Atelier si è formalizzato: è stata coinvolta come conduttrice Paola Galvani, una maestra di scuola elementare esperta in scrittura creativa, e il progetto è stato inserito tra le attività pomeridiane extracurricolari della scuola.
Oggi prevede una serie di incontri settimanali, che coinvolgono una quindicina di persone, per la grande maggioranza ragazze. Come spiega l’altra organizzatrice del corso, la Professoressa Giorgi: “Le donne manifestano una maggiore tendenza verso l’introspezione e la comunicazione del proprio vissuto, che nella scrittura può trovare un’efficace forma espressiva”.
Ogni incontro è articolato in tre parti: un momento di lettura iniziale, in cui la conduttrice legge un brano che possa fornire uno stimolo per la scrittura; una fase di scrittura, in cui le partecipanti, sull’onda dell’emozione provata per la lettura del brano, riportano sulla carta le proprie esperienze; e una fase finale in cui le storie scritte in precedenza vengono narrate, condivise nel gruppo e, successivamente, pubblicate in speciali quaderni che contengono gli scritti di ogni anno.
L’articolazione degli incontri fa dunque sì che le partecipanti siano portate a riorganizzare le proprie esperienze in forma di storia, per poterle, nella fase successiva, condividere con gli altri.

Collisione ed Equilibrio
Mi meraviglia come ogni oggetto
Abbia la sua forma e il suo colore
E che le persone siano tutte diverse.
(Simona Avasilichioae – Atelier di Scrittura ITCS “Rosa Luxemburg” Bologna, dicembre 2007)

La narrazione di sé attraverso la scrittura apre in questo modo le porte alla riflessione sul proprio passato, su una condizione di adolescenti chiamate a vivere al confine tra due culture, sulla propria identità, ma, anche, sulla propria diversità.
Con questo non intendo certo dire che scrivere di se stessi sia una sorta di terapia universale, che possa nell’immediato risolvere i problemi di tutti coloro che, per qualsiasi motivo – che siano le origini etniche, una disabilità, l’orientamento sessuale, o altro – percepiscano se stessi come “diversi”, o facciano fatica a prendere coscienza della propria identità e del proprio essere. Magari fosse tutto così semplice! Però certamente scrivere, e soprattutto condividere questi scritti con persone che vivono situazioni analoghe alla propria, può essere molto importante.
E così viene fuori che non si è i soli ad aver difficoltà di ambientamento in questo paese, che quei problemi che pensavi fossero dovuti esclusivamente al tuo carattere, invece riguardano anche altre persone, e che insieme, a volte, si può persino cercare di risolverli. Magari anche attraverso soluzioni originali, come i cortometraggi recentemente realizzati partendo proprio dagli scritti elaborati nell’Atelier, che mostrano ai compagni di scuola, agli amici e alla cittadinanza intera, cosa significhi essere etichettati dalla gente e dai media, o cosa voglia dire lasciare il paese d’origine e trovarsi a vivere in una realtà completamente differente.
Ma non c’è solo questo: scrivere porta anche a una rielaborazione di sé come identità in movimento, a una consapevolezza della propria evoluzione. Come spiega infatti Francesca Milani: “Le biografie inizialmente apparivano contrassegnate da disagi; tuttavia, con il tempo, le protagoniste hanno cominciato a elaborare delle considerazioni più articolate della cultura del paese d’arrivo, a relativizzare quella del paese d’origine e a creare un pensiero originale e nuovo, perché generato dall’incontro tra due culture”. Un processo che chiaramente non avviene senza fatica, senza entrare in collisone con le contraddizioni del proprio essere; perché è proprio da queste collisioni che può nascere un nuovo equilibrio.
“Jinchuan He, una delle primissime ragazze che hanno frequentato il laboratorio – prosegue Francesca Milani – nel suo noto articolo ‘Collisione ed Equilibrio’, racconta proprio del suo percorso. Prima il rifiuto della cultura d’origine, una sorta di senso di vergogna di essere cinese; poi il tentativo di ricercare le proprie radici, fino a chiudervisi e ingabbiarvisi; infine il ritrovamento di un proprio equilibrio. Jinchuan non immaginerà più se stessa come un miscuglio, un insieme indistinto di culture diverse, ma come una macedonia, fatta di tanti frutti differenti, che insieme trovano, però, una loro armonia”.
Io sono come una macedonia, dice Jinchuan nel suo articolo, sono Cinese, ma ho studiato Pascoli, conosco perfettamente la cultura cinese, ma ho letto anche Dante. Io sono questo, questo e questo…”.

Lavoro, identità di genere, disabilità: quando le donne si raccontano

Di Annalisa Bolognesi

Non è semplice parlare di lavoro oggi. O meglio, non è semplice farlo senza risultare ripetitivi e forse anche un po’ pessimisti. Allo stesso modo forse può apparire superfluo ribadire che le donne sono oggi una delle categorie più colpite da un mondo del lavoro sempre più caratterizzato da precarietà e frammentazione, e lo sono non solo per residui di stereotipi passati che vedono la donna come “l’angelo del focolare”, ma per veri e propri ostacoli pratici: come la difficoltà, per chi ha un lavoro atipico, di avere dei figli e restare a casa dal lavoro per lungo tempo non retribuita, oppure di conciliare ritmi lavorativi sempre più incalzanti con la necessità di occuparsi della casa e della famiglia.
Partendo da queste, o analoghe, riflessioni ho iniziato ad accostarmi al tema “donne disabili e lavoro”. Subito mi sono chiesta se in questo nuovo universo lavorativo, caotico e frammentato, le donne disabili avessero più difficoltà rispetto agli uomini con analoghe disabilità o rispetto alle altre donne.
Di primo acchito le mie risposte sono state negative. È certamente vero che le persone disabili sul lavoro possono incorrere in tantissime problematiche, dall’impossibilità di svolgere determinate mansioni, alla frequente inaccessibilità dei luoghi di lavoro e dei mezzi pubblici per recarvisi, alle obiezioni di superiori e colleghi nei confronti di chi, per esigenze fisiche, è costretto a usufruire di permessi o di periodi più frequenti e lunghi di malattia… Ma nessuna di queste difficoltà mi è sembrata peculiare delle donne disabili rispetto agli uomini disabili.
Ancor più paradossale mi è apparso il confronto con le donne senza disabilità. Siccome la legge 68/99 (“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”), come molti sapranno, impone alle aziende di assumere con contratti a termine o a tempo indeterminato determinate quote di persone disabili (che varia in base al numero di dipendenti), le donne disabili mi sono sembrate meno vittime della sempre più diffusa precarietà che caratterizza il nostro mondo del lavoro, proprio perché, grazie alle vigenti normative, una volta trovato lavoro, riescono ad aver contratti più sicuri, che le tutelano maggiormente in situazioni di malattia o maternità.
Ma è veramente tutto così semplice come appare?
Per scoprirlo sarà necessario prendere in esame almeno parte dell’ancor oggi piuttosto scarso materiale disponibile.

I dati disponibili
Esaminando i dati puramente quantitativi risulta difficile, se non addirittura impossibile, condurre ricerche esaustive. Gli unici di cui possiamo disporre sono infatti quelli, peraltro non sempre divisi per genere, relativi agli avviamenti lavorativi effettuati tramite i Servizi Provinciali di Collocamento Mirato. Questi dati, oltre a essere piuttosto parziali (riguardano infatti solamente le persone che hanno trovato lavoro dopo essersi iscritte a questo servizio), non offrono ovviamente alcuna informazione relativa alla qualità dell’inserimento, alla tipologia di incarichi in cui vengono impiegate le donne e alle peculiarità del lavoro femminile rispetto a quello maschile.
Gli studi di tipo qualitativo, pur non fornendoci informazioni di tipo statistico, possono invece offrire maggiori spunti di riflessione. In questo senso appare certamente interessante la recente ricerca “Donne, disabilità e lavoro”, promossa dalla sezione bolognese della UILDM (Unione Italiana Distrofia Muscolare) e dall’Ufficio Consigliere di Parità della Provincia di Bologna.
Lo studio, che ha visto protagoniste circa 50 donne con disabilità motoria, di diversa età, residenti nella provincia di Bologna, si è proposto di esplorare l’universo lavorativo delle donne disabili attraverso interviste approfondite, in cui le intervistate hanno avuto la possibilità di parlare di sé, delle proprie esperienze, delle soddisfazioni, delle difficoltà, della percezione della propria identità nel mondo del lavoro. Quello che è emerso non sono certamente dati esaustivi che ci consentano di spiegare con precisione le peculiari problematiche che una donna disabile riscontra sul lavoro, ma un universo variegato fatto di storie e di esperienze di vita, che pur avendo diversi punti di contatto, sono uniche e differenti, e che, proprio per la loro varietà, ci forniscono numerosi spunti di riflessione e chiavi di lettura per affrontare questo tema e, magari, fare da base a nuove ricerche future.

Quando le donne si raccontano…
Sicuramente, come appare dalla ricerca, un problema che frequentemente investe le donne disabili è quello che potremo definire della “conciliazione dei tempi”. Spesso le donne sono infatti costrette a enormi sforzi per conciliare i tempi di lavoro con i tempi per la cura della casa, della famiglia, dei figli, e anche, non meno importante, per la cura di sé. Chiaramente questo problema si fa ancora più forte per le donne disabili lavoratrici, che devono fare i conti, fra l’altro, con i limiti dovuti al proprio deficit, che può comportare alcune difficoltà pratiche nel prendersi cura dei figli e della casa, nonché la necessità di dedicare maggior tempo al riposo, a terapie e a cure mediche.
Ma non c’è solo questo. Accanto a questi ostacoli esistono una serie di problematiche derivanti dal ruolo che la donna ricopre nella nostra società e, conseguentemente, nel mondo del lavoro. Sì, certo, rispetto agli anni passati molte cose sono cambiate e sono sempre di più le donne che scelgono di lavorare, che fanno l’università, che fanno strada; ma ancora oggi esiste nel nostro Paese una enorme e documentata disparità di trattamento sul posto di lavoro, nella retribuzione, nella rappresentanza in tutte le cariche istituzionali, nei consigli direttivi, nei vertici di qualsiasi carriera, persino in quegli ambiti lavorativi costituiti in grande maggioranza da donne.
Per non parlare dei media e dei modelli sociali dominanti, che impongono ancor oggi un’immagine della donna – sia fuori che all’interno del campo lavorativo – basata sulla bellezza, il fascino, la forza; come afferma infatti una delle ragazze intervistate dalla UILDM descrivendo la propria esperienza nel mondo del lavoro: “Viviamo in un mondo dove l’apparire è importante, quindi se non sei bella, alta, bionda, occhi azzurri, e non hai i canoni degli stilisti di 48 chili, già non vali niente quando sei normale, figuriamoci se sei in carrozzina. Tu già fai fatica a trovare dirigenti, professioniste donne, figuriamoci se poi hanno qualche problema!”. Parole che con semplice efficacia mostrano pienamente come, nella nostra attuale struttura sociale, agiscano ancor oggi stereotipi e modelli, che possono investire, sul piano lavorativo e non solo, sia le donne che le persone disabili, colpendo doppiamente le donne con disabilità.
Appare quindi chiaro come tutto questo possa influire sulla vita lavorativa della donna disabile, forse non tanto in termini di assunzione e di ricerca del lavoro, ma per quanto riguarda la possibilità di fare carriera, di trovare un impiego che piaccia e che valorizzi esperienze e titoli di studio conseguiti. Come emerge dalla stessa ricerca, infatti, moltissime donne, pur avendo elevate conoscenze e competenze, sono state assunte da aziende solo per adempiere alle quote imposte dalla legge, senza che venissero riposte in loro grandi aspettative o che fossero messe in luce le loro capacità. “Ho notato la sorpresa quando ho fatto cose meglio di altri, quindi se c’è sorpresa vuol dire che all’inizio c’è bassa aspettativa”, sostiene infatti un’altra delle intervistate.
D’altra parte dal momento che il lavoro rappresenta, sia per le donne, che per le persone disabili, un’enorme fonte di empowerment, appare chiaro come per una donna disabile esso assuma una “doppia importanza”, e come sia quindi necessario per ognuna, non soltanto lavorare, ma anche avere un impiego che gratifichi e soddisfi.
Insomma, dopo queste riflessioni ci si potrebbe chiedere se esistano davvero delle concrete differenze tra uomini e donne disabili nell’ambito dell’inserimento lavorativo, oppure se piuttosto le donne disabili, in quanto donne e in quanto persone disabili, siano vittime di una doppia discriminazione che, investendo tutte le sfere della loro vita, colpisce anche quella del lavoro.
È una domanda aperta, che ancor oggi merita molte risposte, ricerche, pensieri.