Skip to main content

autore: Autore: di Claudio Imprudente e Roberto Parmeggiani

La banalità della bellezza

Scena prima.
Ufficio Postale, interno giorno.
Ore 11:45
Sono in fila alla posta, devo pagare una bolletta.
La fila è lunga, aspetterò un po’, ci sono solo due sportelli aperti e una delle operatrici deve gestire anche quello per la spedizione lettere.
Tocca a un ragazzo evidentemente straniero che chiede di poter aprire un conto corrente.
L’operatrice gli dice di aspettare, senza spiegare il perché e per quanto tempo.
Il ragazzo non capisce bene, ma aspetta. Intanto l’operatrice si sposta nell’altro sportello per inviare un pacco. Passano dieci minuti, un altro signore viene atteso. Altri cinque minuti.
Il ragazzo straniero chiede delucidazioni, sottolineando il fatto che due persone gli erano passate davanti. L’operatrice, indossata la maschera dell’italiana offesa dallo straniero che non rispetta le regole, risponde piccata che deve aspettare l’altra operatrice. Il ragazzo straniero (com’è insistente!) vorrebbe capire come funziona e insiste per avere una risposta chiara. A quel punto, alzando anche un po’ la voce, l’operatrice, poverina, adempie alle sue mansioni spiegando che per aprire un conto postale deve aspettare la collega che si occupa di ciò, che gli spiegherà le caratteristiche del conto e esplicherà tutte le formalità. Il ragazzo ringrazia e chiede più o meno quanto dovrà aspettare, così, intanto, può andare a fare la spesa. Un quarto d’ora, risponde l’operatrice esterrefatta.
L’uscita del ragazzo straniero, però, non coincide con la fine della discussione. L’operatrice, alquanto contrariata, inizia a sproloquiare a voce alta circa la maleducazione del ragazzo, la sua arroganza e domanda alle persone presenti: “Una persona come questa vorrebbe diventare un nostro cliente. Secondo voi quanta voglia ho io di mettermi in relazione con lui?”, chiosando con un: “Sono vecchia ormai e non ho più pazienza!”.

Scena seconda.
Parco pubblico, esterno giorno.
Ore 14:30
Sono con un gruppo di bambini di quinta elementare, stiamo aspettando di salire sul pulmino per andare a casa. Siamo al parco, giocano.
Da lontano li guardo, dopo una giornata di scuola hanno bisogno di muoversi, correre, hanno bisogno di fisicità, di contatto.
Forse un po’ troppo. Mi avvicino per controllare meglio e capire se la cosa sta degenerando.
Inizio a sentire cosa si dicono, a capire a che “gioco” stanno giocando, quali parole usano.
“Tu sei un rom”, “Tu sei un marocchino”, “Tu sei immigrato”, “Contro il muro, andate in prigione”.
Erano in cinque, due facevano i poliziotti mentre gli altri gli immigrati, poi, però, si cambiavano di ruolo perché nessuno voleva fare l’immigrato, fa schifo.
Storie, purtroppo, banali, avvenimenti quotidiani.
Banali come certe esternazioni ascoltate nelle settimane passate: il professore di musica che propone lo “sterminio” dei disabili, l’assessore di Chieri che vorrebbe le classi speciali, la scuola pubblica (pubblica?) di Adro con i simboli leghisti, un ministro della Repubblica italiana (Bossi) che chiama porci i romani, un senatore, sempre della Repubblica italiana (Ciarrapico), che paragona gli ebrei al traditore per eccellenza Giuda, il presidente del Consiglio italiano (Berlusconi) che racconta una barzelletta sugli ebrei.
Banali.
Banali e, purtroppo, non occasionali.
Banali e, a parere di chi le ha dette, fraintese, scherzi non compresi.
Come i bambini che si scusano dicendo che è solo un gioco o come l’operatrice delle poste che giustifica il suo comportamento con la poca pazienza.
Ormai, però, la quotidianità è fatta di scene come quelle raccontate, non fraintendimenti bensì idee, vere e propri modelli di pensiero.
Secondo noi c’è qualcosa che non va, stiamo raccogliendo il frutto di troppi anni persi a dire più che a fare.
A dire che il diverso è pericoloso, che lo straniero è un invasore, che una difficoltà è un limite, a dire che l’integrazione è buona solo per chi si integra.
Avremmo dovuto fare invece, incontrare i diversi, accogliere lo straniero, affrontare la difficoltà come un’occasione, costruire un’integrazione reale ed effettiva fatta di contesti, leggi e conoscenza.
Purtroppo non lo abbiamo fatto e ora ne paghiamo le conseguenze.
Vi starete chiedendo: “Ma sto leggendo la rubrica giusta? Questa non dovrebbe parlare di disabilità e bellezza?”.
Tranquilli, voi non avete sbagliato.
E nemmeno noi!
La nostra è una scelta consapevole, dettata dalla necessità di esprimere un parere e offrire una riflessione importante in un momento sociale e culturale che tende alla regressione.
Ci spieghiamo.
La bellezza, in quanto tale, è fatta di diversità.
Se tutto fosse uguale, non si potrebbe dire che una cosa è bella o una è brutta.
Purtroppo la globalizzazione, oltre che un sacco di vantaggi, si porta dietro l’omologazione del gusto e il tentativo di definire in modo univoco la bellezza.
È bello (e quindi ci piace, lo riconosciamo come amichevole, non ci fa paura, ci appare più comodo…) ciò che più ci assomiglia.
Non ciò che conosciamo ma ciò che ci assomiglia.
Al contrario, ciò che appare diverso, diventa brutto (e quindi non ci piace, lo riconosciamo come pericoloso, ci fa paura, ci appare scomodo…), sia che si parli di diversità legata alla cultura o al colore della pelle sia che si parli di disabilità, sia che si tratti di differenze di genere che di modi diversi di vivere la sessualità.
Per questo crediamo che lavorare per l’integrazione sia lavorare per la bellezza e viceversa, perché una realtà che si arricchisce di contaminazioni artistiche o culinarie, di esperienze politiche o musicali altre, è una realtà destinata a diventare più bella, oltre che più comoda per tutti.
Non un’integrazione basata sulle somiglianze ma un’integrazione che stabilisce le sue fondamenta sulla conoscenza, sulla scoperta di ciò che la diversità porta come ricchezza nella mia vita e, allo stesso tempo, di ciò che il mio mondo può offrire come ricchezza a un mondo differente.
Le analisi che non portano a proposte concrete, però, diventano inevitabilmente sterili.
Un ideale deve poi diventare un’idea, altrimenti rimane un sogno.
Se è vero quindi che in questa Italia sta prendendo piede un’idea culturale che propone e crede di poter realizzare una vera integrazione con l’esclusione di chi è diverso e, allo stesso tempo, promuove una sempre maggior chiusura con l’innalzamento di barricate dietro le quale difendere il proprio orticello da attacchi di non si sa bene quale nemico, è anche vero che l’integrazione va costruita.
Non con le belle parole o il richiamo a un buonismo pseudo-cattolico.
L’integrazione e, quindi, la bellezza, vanno costruite con investimenti culturali ed economici.
Culturali: offrendo spazi e momenti di incontro e conoscenza, idee forti, regole di convivenza…
Economici: investendo! Mettendo risorse economiche al servizio di tali obiettivi culturali, per i giovani come per gli anziani, per i bambini e le loro famiglie.
È necessario riconoscersi dentro un mondo reale che non è più fatto di limiti geografici o doganali ma che, nel momento in cui esporta lavoro (a basso costo) importa speranze e desideri, passioni e sogni.
Questo mo(n)do di vivere che esporta un nuovo colonialismo scambiando materie prime con guerra e povertà, importa, inevitabilmente, il desiderio delle persone di sperare in una vita più dignitosa. Speranza della quale dobbiamo iniziare a farci carico.
All’operatrice dell’ufficio postale, ci verrebbe da dire che purtroppo la fatica dell’integrazione e, quindi, della costruzione di una società più bella, non è solo dello straniero che arriva ma anche dell’italiano che accoglie. Ci rendiamo conto che, in una società che ripudia la fatica e l’impegno molto più che la guerra, questo sia un discorso impopolare.
Ma è l’unico che può davvero permetterci di costruire una realtà migliore della presente.
E comunque si può anche perdere la pazienza, semplicemente, prima di farlo, consideriamo chi abbiamo di fronte come uomo e non per il colore della sua pelle o l’accento delle sue parole.
Come si sarebbe comportata, infatti, con un italiano?

La bellezza: un modo di vivere

Chi come noi era giovane negli anni ’80, ricorderà senza dubbio Un sacco bello, il primo film di Carlo Verdone.
Primo di una lunga serie, nel quale l’attore e regista romano, mette in campo tutte le sue abilità proponendo una carrellata di personaggi assolutamente spassosi.

Protagonisti davvero particolari, fuori dagli schemi… Ma che sono esattamente quello che ci si può aspettare da un film con questo titolo: un sacco belli!
Un irriducibile ragazzo prossimo alla trentina, privo oramai d’amici che parte per un “tour del sesso” in Polonia; un ingenuo e goffo ragazzo trasteverino che deve raggiungere la madre in vacanza a Ladispoli; infine Ruggero, che vive in una comunità di ragazzi dopo aver avuto una visione mistica, una sorta di hippie che professa l’amore libero e il distacco dal mondo moderno. Insieme a questi, altre comparse come il prete Alfio, il cugino Anselmo e un vecchio professore autoritario.
Una varia umanità davvero strana, parodia divertente che svela comportamenti e atteggiamenti alquanto comuni, quelli che ognuno di noi mette in atto senza rendersene conto, finché, appunto, qualcuno non ce li mostra, proponendoli da un altro lato.
Un sacco bello sarà anche il titolo di questa nuova rubrica di “HP-Accaparlante”, che, come al solito, intende sovvertire il pensiero comune e, nello specifico, un certo modo di pensare che tende a omologare le idee e le immagini evitando un confronto reale a fronte di affermazioni buoniste e semplicistiche.
Una rubrica nella quale raccontare di esperienze, idee, storie dalle quali possa emergere il rapporto tra diversità e bellezza, ovviamente con un occhio speciale al declinare la diversità come disabilità.
Un sacco bello, qualcosa che esce, quindi, dallo schema, che ci mette in discussione, che ci obbliga a confrontarci con ciò che siamo, che ci svela e ci mostra un altro lato di noi… Un lato diversamente bello.
Sensazioni, le stesse, che ci vengono anche dal mettere in relazione disabilità ed estetica, un rapporto che ci obbliga a uscire dallo schema, a cambiare il punto di vista, a trovare un altro lato, diversamente bello.
Tale rapporto è stato sviscerato in diversi modi e da molti punti di vista.
Sia nell’ambito accademico che in quello associativo, riflessioni a partire da concetti astratti e altre che partono dall’esperienza, idee e progetti per fare spettacolo altri per ragionare insieme.
Anche noi abbiamo trattato il tema in un articolo scritto precedentemente, nel quale abbiamo posto questa provocatoria domanda: “Ma i disabili sono belli o brutti?”.
Molti lettori si sono sentiti chiamati in causa e hanno inviato risposte di varia natura, chi sottolineando l’aspetto paradossale del quesito, chi affrontandola in modo serio e analitico con risposte che rasentavano la filosofia, chi non comprendendo il senso ironico esprimendo, quindi, la propria indignazione e la propria incomprensione rispetto alla domanda.
Tanto interesse è molto interessante e significativo, perché ci svela che è un tema poco discusso e relegato nell’angolo dello scontato. In tanti si sono chiesti: perché farsi una domanda di questo tipo? Che senso ha? In fondo le persone con disabilità sono come tutte le altre, belle o brutte a seconda dei gusti.
Questa è una risposta molto vera e ci permette di superare il primo livello di discussione, quello della bellezza intesa in senso ordinario, semplicemente legata all’aspetto esteriore.
Se però prendiamo in considerazione l’estetica in quanto scienza filosofica del bello, non ci basta parlare di gusti ma dobbiamo chiederci che rapporto ha e come viene gestita la bellezza quando si abbina alla diversità e, più in specifico, con la diversità.
Per fare ciò, abbiamo fatto la cosa, a nostro avviso, più semplice. Siamo entrati nel contenitore di notizie più grande al mondo e abbiamo digitato “disabilità e bellezza”.
Non pensavamo ma abbiamo trovate davvero tante notizie, diverse tra loro per luogo, tipo e partecipanti. Tra le tante idee, progetti ed esperienze raccolte, ne riportiamo una che ci ha molto colpito:
concorso di bellezza per donne disabili e i loro amici animali: un concorso con passerella e giuria, che prevedeva la partecipazione di donne disabili accompagnate dal loro amico a quattro zampe, il cane che vive con loro.
Fermi tutti?
Va bene che la rubrica si ispira a un film che racconta storie davvero strane, ma questa esperienza ci pare proprio unica.
Perché una persona con disabilità dovrebbe sfilare insieme a un cane?
Forse perché fa una buona azione?
Oppure è il contrario, cioè è il cane che fa una buona azione verso la persona con disabilità?
Forse lo scopo del concorso di bellezza è proprio questo, indovinare chi tra i due fa la buona azione?
E perché non si è mai vista Naomie Campbell sfilare con un cane?
Uhm, non è che il vero significato della sfilata è che la persona disabile, di solito, è sola come un cane?
Ironizzare su questa notizia ci è venuto facile.
Insomma, tra i tanti modi per mettere in mostra la bellezza delle donne, era necessario proprio organizzare una sfilata di questo tipo?
Come succede spesso, però, da una riflessione scaturisce un’idea o, come in questo caso, è immediato mettere a confronto la solitudine con la bellezza e svelare un altro lato del discorso.
Ci piace pensare e affermare che ciò che è bello è per sua natura condiviso.
Altrimenti perché curiamo il nostro aspetto o ci vestiamo in un certo modo? Perché ci occupiamo dell’ambiente in cui viviamo e delle relazioni con gli altri? Cosa ci spinge a rendere bella la nostra vita se non il desiderio e la necessità di condividerla con gli altri?
Ciò che è bello è per sua natura condiviso, proprio perché la bellezza, in qualsiasi forma si esprima, chiama in causa la nostra attenzione e il nostro interesse, ci colpisce e affascina.
Possiamo affermare, quindi, che bellezza e solitudine non possono andare di pari passo, se c’è una non c’è l’altra e, quindi, che ciò che è solo (non ciò che è unico!) non può essere bello.
Se prendiamo per buono questo, scopriamo che la bellezza non è legata solo all’aspetto fisico ma è una qualità che ci riguarda a 360°, a partire dall’aspetto estetico fino ad arrivare alla nostra casa e alle nostre relazioni.
Aggiungiamo quindi un altro tassello: la persona con disabilità non risulta bella o brutta se viene fatta rientrare, o meno, negli stereotipi della bellezza delle persone normodotate, ma diventa bella o brutta se riesce a costruirsi, o meno, una realtà di vita nella quale le relazioni e la condivisione della quotidianità siano alla base.
Ecco allora lo scopo di questa rubrica: il raccontare la bellezza come un modo di vivere più che come un modo di apparire, che ci permetta quindi di avere una visione ad ampio raggio del tema.
Il desiderio è che questo spazio possa ospitare esperienze, idee, progetti e tutto ciò che tenta di proporre un altro punto di vista sul rapporto tra bellezza e disabilità, che ci permetta, quindi, di estendere il nostro orizzonte e che ci aiuti a conoscere altri lati della bellezza.
Sarà un’avventura interessante, che ci piacerebbe percorrere insieme a voi e alle vostre esperienze, per raccontare la realtà dal punto di vista di chi la vive in prima persona, di chi, giorno dopo giorno, tenta di costruirsi un proprio modello di bellezza, più o meno legato alle mode del momento.
Se avete una storia da raccontare, scrivete scrivete!

claudio@accaparlante.it