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autore: Autore: di Luca Baldassarre

Abruzzo a gogò… a partire dal web

Di Luca Baldassare

So di non averlo mai fatto prima e so anche di avere appena scritto una colossale falsità ma in fondo è giusto così. Voglio promuovere il mio Abruzzo e lo voglio fare in occasione del varo del nuovo lavoro sul turismo accessibile che la cooperativa Accaparlante ha realizzato in collaborazione con l’associazione Centro Documentazione Handicap e l’azienda Coloplast.
Il sito è l’evoluzione telematica delle guide cartacee editate in questi ultimi anni e raccoglie buona parte del patrimonio di conoscenze maturate in 15 anni di lavoro sul turismo accessibile. L’obiettivo principale è mettere a disposizione degli internauti (con un occhio di riguardo per quelli con difficoltà di mobilità) uno strumento efficace e affidabile per pianificare le proprie vacanze. Rendere disponibili le segnalazioni attraverso Internet ci è sembrata la scelta più logica, visto che il web offre quasi solo dei vantaggi, tra i quali la possibilità di aggiornare più rapidamente le informazioni. In linea con quanto abbiamo fatto in questi anni, la preferenza accordata ai luoghi e alle strutture è solo in parte vincolata a criteri principe quali l’assenza delle barriere architettoniche o la presenza di servizi dedicati esclusivamente alle persone con difficoltà di mobilità, anzi si è molto lavorato anche su elementi di tipo qualitativo come quel “qualcosa di speciale” che chiunque cerca quando viaggia e che è fondamentale per godere appieno di una vacanza da ricordare.
Doverosa una sottolineatura sullo stile e il linguaggio utilizzato, che tentano di rendere al fruitore le emozioni e i desideri che i rilevatori hanno sperimentato, nell’incontro con i luoghi e le persone, durante le ricognizioni sul posto.
Eccoci allora a una delle località segnalate, l’Abruzzo. Come ho scritto nelle pagine del sito, però in html (quindi è tutta un’altra storia…): “A volte capita, senza nessuna ragione apparente, di non apprezzare abbastanza quello che si ha sotto gli occhi. Mio padre direbbe che è più grave se capita ai cristiani (cioè alle persone), ciò non toglie che l’affermazione calza a pennello all’Abruzzo. Questa terra è ricchissima di tradizioni e natura (ospita ben tre parchi nazionali!) e non è rinomata come meriterebbe”. Fin qui andiamo molto bene e sono certo che molti staranno già preparando le valigie e i miei corregionali brindando alla mia salute con il centerbe. Nel rigo dopo forse potrò apparire ingeneroso con le mie radici: “Chi scrive è nato qui, perciò può dirlo con certezza: gli abruzzesi sono arcigni e suscettibili e nei rapporti con i forestieri applicano la cosiddetta ‘diffidenza preventiva’ ma hanno uno spiccato senso dell’ospitalità. Potrà apparire contraddittorio e infatti lo è”.
Vi pare troppo? Se pensate sia così vi lancio una piccola sfida. Rispondete a queste domande dopo essere stati in Abruzzo: la maggior parte delle persone che avete incontrato per la strada vi ha guardato male? O, se ha parlato, è riuscita a rispondervi istintivamente no a qualsiasi cosa? Avete notato un incredibile tempismo nell’affibbiare un soprannome azzeccatissimo al malcapitato di turno? Entrando negli esercizi commerciali la maggior parte dei presenti ha risposto con un grugnito al vostro squillante “Buongiorno!”? Nell’ordinare il cappuccio al bar il barista vi ha guardato con sufficienza o, al massimo, vi ha chiesto “Cch(e) vvu?”. Vi è capitato di cogliere la tendenza a spremere due interi limoni grossi come pompelmi in una tazza di the? Ebbene, se le risposte sono tutte sì, il soggetto che emerge (si fa per dire) è l’“homo abruziensis”. Ecco, forse adesso quando andrò a trovare le centinaia di parenti abruzzesi che vivono ancora lì, tra genitori, sorelle, fratelli, zii, cugini di primo grado, cugini di secondo grado, cugini di terzo grado, amici, ecc., potrei rischiare qualche rappresaglia. Ma tant’è. Quello che va detto, va detto!
Di buono c’è che le segnalazioni di fanno riferimento al Parco Nazionale d’Abruzzo. Si tratta di una riserva protetta oggettivamente superba. Sapete che rischiate di incontrare seriamente l’Orso Bruno Marsicano che, quando non è in tv, vive qui?
E sapete che davanti agli arrosticini, alla carne alla griglia, all’agnello al forno con le patate, al timballo e agli onnipresenti Pan dell’Orso e Parrozzo, per una volta uniti nell’impalugare (tradotto dal bolognese, impastare, ndr) la bocca ai turisti, assumerete la stessa espressione di Anton Ego, il critico culinario del topo chef in Ratatuille? Attendo riscontri.

Ritrovare l’orizzonte

Di Luca Baldassare

Quand’ero piccolo pensavo che tutti gli invasi d’acqua, a eccezione del mare, fossero grandi come gli stagni dove pescavo i pesci gatto. Presumo che la mia convinzione dipendesse, crassa ignoranza a parte, dal fatto che nato sul mare, il mio riferimento naturale è sempre stato l’orizzonte tra cielo e acqua. E forse proprio per questo ho sempre prediletto la pesca in mare, dal molo. Le mie banchine preferite erano a Fossacesia e Ortona, due bei posti in provincia di Chieti (la “Svizzera d’Abruzzo”). Come direbbero i pescatori, lì andavo a mormore o ad aguglie. A distanza di anni, mi rendo conto che guardare l’orizzonte era l’unico passatempo sensato, considerato che le mormore non abboccavano nemmeno ad ammazzarsi! La smodata passione per la pesca me l’ha trasmessa lo zio Lino: lo stesso personaggio che mi ha insegnato a commercializzare in “tentata vendita” le patatine pai e il lievito di birra negli alimentari delle quattro provincie d’Abruzzo, fino alla metà degli anni Ottanta. Di queste botteghe, ormai fossili del commercio al dettaglio, ricordo un’usanza tipica degli anni Settanta, andata via via perduta: la conversione automatica, con controvalore in mou o in galatine, di tutte le transazioni con resto sotto le cinquanta lire. Optare per l’una o l’altra era qualcosa di più di una scelta tra due caramelle, era un posizionamento preciso. Una scuola di pensiero. Una visione del mondo. Ad esempio, lo zio Lino era per le galatine. Secondo lui, la loro asciuttezza al palato implicava una lettura degli accadimenti senza ambiguità né tentennamenti. Invece, la mescolanza bituminosa e attaccaticcia delle altre richiamava una complessità artificiosa, inutile. Per me lo zio ha sempre semplificato troppo. Va detto che normalmente questo discorso si faceva strafogandosi la bomba (per chi non è abruzzese: bombolone o krapfen ripieno) al cioccolato della pasticceria Santavenere di Pescara Colli e sorseggiando mezzo litro di latte confezionato in pretrapak (il precursore del tetrapak), in direzione del bar-tabaccheria centrale di Pineto. Personalmente non mi sono mai fatto ammaliare dai proclami propugnati nel nome delle galatine. E non a caso adoravo la signora Adele, moglie di Nunzio il lattaio, strenua difensore (o difentrice) delle mie gialle predilette, le mou. A differenza del taccagno marito, lei arrotondava gli importi sempre a suo discapito, di quel tanto sufficiente a farci scappare una o anche due mou in più. So che queste mitiche chicche esistono ancora; io però mi riferisco a quelle che facevano in Italia. Già, perché oggi perfino le mou vengono prodotte in Cina. Le chiamano “Vere mou dalla Cina”. Ma cosa vuol dire?, mi chiedo. È una sorta di contrappasso? Accusiamo il popolo cinese di contraffare l’impossibile e poi si viene a scoprire che, noi per primi, l’abbiamo fatto con delle innocue caramelle?! So per certo che siamo colpevoli: c’è la prova! Schiacciante. Le mou sono gialle! Fortunatamente sono cresciuto, così ho potuto conoscere e apprezzare anche altro. In un signor Lago, quello di Garda, ho ritrovato, inaspettatamente, il mio orizzonte. La prima volta ci sono stato nel 1985, con zio Lino. Per quale ragione? Vi basti sapere che nel lago le maledette mormore non ci sono! La seconda volta, qualche anno dopo, è stata tutta un’altra storia. Munito dell’immancabile Fabio Ciancetta, mio amico d’infanzia, detto Fuss(e) ca fuss(e) (grossolanamente tradotto dall’abruzzese vuol dire “forse questa è la volta buona; quasi quasi..”), ho potuto dedicarmi ad altri sport (ammesso e non concesso che la pesca sia ascrivibile a questa categoria). Al lago di Garda ci si può davvero sbizzarrire nel fare un po’ di tutto: sport acquatici, terrestri, passeggiate non competitive, mangiate agonistiche, terme, trattamenti benessere definitivi (si entra 130 cm – sia di girovita che di altezza – e si esce 1,80 m per 55 kg). Però non è questa abbondanza che ha rapito la mia immaginazione bensì una strana e precisa impressione di benessere. Una specie di allegrezza sospesa nell’aria. Escludendo che si possa trattare di quella che Rocca Tanica attribuisce alle canzoni di Ivano Fossati, secondo me è frutto di un’alchimia: 3 parti di micro clima, 5 grattugiate di cibo, 2 abbondanti spruzzate di odori e di vino bardolino, paesaggi e comunità gardenese con le sue tante parlate (dal bresciano medio al teutonico alto) q.b… Servire tutto in sinergia. Risultato? Parecchio ritemprante! E bisogna provarlo. Anzi, provare provare provare (come diceva Amanda Sandrelli in “Non ci resta che piangere”)! A proposito, come si chiamano le mormore in italiano?

Arriba Arriba!

Di Luca Baldassarre

Due anni fa, all’incirca in questo periodo, ero in Canada; più precisamente ad Aurora, nell’Ontario. Ero a casa di mio zio, uno dei fratelli di mia madre. Ospite per qualche giorno. Ricordo un pomeriggio che si chiacchierava allegramente del più e del meno: la famiglia, l’Italia, i fagiolini che a lui crescono bene solo se li mette esposti a nord ovest… Insomma, cose così. Mi mostrava orgoglioso il suo prato all’inglese e i suoi fiori, che danno a quella casa l’iconografia classica della casetta in canadà (con l’accento sulla a, proprio quella della canzoncina per bambini) e mi raccontava, raccontava. È un chiacchierone mio zio. Ma è proprio simpatico ed è davvero una brava persona, un pezzo di pane, dell’Italia meridionale, cioè buono. Lui è emigrato dall’Italia una cifra di anni fa che non ha più senso nemmeno contare ma, come capita spesso, ha conservato in toto l’italiano che c’è in lui. Con questa affermazione ho in mente una cosa precisa ma non so trascriverne il significato. Ha fatto tanti lavori mio zio e ha visto molti posti. E ha incontrato tanta gente; di tutti i tipi. Per me sentire qualcuno che racconta dei luoghi che ha visitato e delle persone che ha incontrato ha sempre avuto un fascino assolutamente fuori scala. Mi piace verificare le distanze tra le mie percezioni e il mio modo di vedere le cose e il mondo degli altri, soprattutto di coloro che imparo a conoscere attraverso i loro vissuti. Trovo clamoroso di non notare qualcosa che per altri “è” quel viaggio, giustifica da solo la ragione per cui si è deciso di intraprenderlo, ne sintetizza le peculiarità; come vale il contrario: spesso mi scopro a pensare “Ma come?! L’ho vista solo io ‘sta cosa qui’?”. So che è normale e che capita a tutti però non ho ancora imparato a capacitarmene. Tutto lì. Insomma, mio zio è lì intento a farmi una dettagliata descrizione del colloquio per il suo primo possibile impiego importante presso l’azienda telefonica canadese e mi accorgo che io sto pensando a un particolare che mi aveva colpito in un discorso fatto il giorno prima; ci rimugino parecchio ma non mi riaffiora niente fintanto che si richiama al palato il sapore della torta alla mele e cannella di zia Denise. “Diamine, ecco!”, esclamo. Al che mio zio mi guarda un po’ stranito, “No zio,… è che pensavo a una cosa!”. Il giorno prima, Donald, uno dei tre figli degli zii, mi aveva raccontato di un suo recente viaggio nel Chiapas messicano, in compagnia di uno “scoppiatone” amico suo (nota bene: mio cugino non spiccica una solo parola d’italiano e la traduzione è mia, perciò non è detto che intendesse dire letteralmente così ma sono relativamente sicuro che intendesse passarmi questo contenuto). Avevano girato un po’ il nord del Messico spingendosi a sud della capitale, spingendosi appunto fino al Chiapas. Erano rimasti a lungo a San Juan Chamula, un paesino vicino alla più nota San Cristobal de Las Casas. Già mi era scattato l’interesse, visto che lì c’ero stato qualche anno prima e proprio quel paesino aveva attirato la mia attenzione. Ricordo benissimo che prima del mio viaggio in Messico avevo riletto un saggio di antropologia sulla conquista dell’America, scritto da Tzvetan Todorov.
Dalla lettura rimasi un po’ deluso, e non certo per il libro che è bellissimo, perché l’approccio dei primi scopritori, tra i quali Cristoforo Colombo, non si può definire esattamente “relazionale”. Per brevità si può affermare che l’idea di viaggiare per conoscere posti, persone e culture diverse, ha preso piede un po’ dopo, sfortunamente per gli aztechi. Però, guarda caso, Donald e il suo amico Mark, erano viaggiatori moderni. Partiti per vivere un’esperienza piena, totalmente alla mercé dei posti, del caffè negro, della birra e, diciamo, dei rapporti interpersonali con le autoctone. Tralascio qualche commento per ragioni di spazio sulle velleità di Mark, descritto da Donald come una specie di Che Guevara a scoppio ritardato, nel senso che voleva liberare il Chiapas. Non ho mai capito da chi. Sottolineo quanto fu incredibile ascoltare il suo racconto. Mio cugino è un ragazzone alto circa 1 metro e 90 per una larghezza direi… analoga e un peso sui 120 kg. Ascoltandolo gliene avrei dati al massimo una sessantina. Mi ritrovai nelle sue descrizioni di quella terra e di quel popolo, nel modo di vivere e di accogliere le persone. In più, pensai che pur non parlando né l’italiano né lo spagnolo era riuscito a cogliere una vastissima gamma di sfumature. Mi riportò gli strani sincretismi religiosi con lo stesso stupore con cui anch’io li avevo osservati; rimase colpito dalla fierezza e dall’orgoglio del popolo messicano, forse in quella regione ancora più presente che in altre zone del Paese. Insomma ogni pezzo del racconto faceva da contrappunto a quanto io avevo vissuto lì qualche tempo prima. Ammetto che non ci potevo credere. E forse non poteva farlo nemmeno il mio amor proprio, che quasi se ne ebbe a male nel constatare di non essere così originale. La riflessione sul viaggiatore moderno è meno scontata e ovvia di quanto si possa immaginare. Anche se in fondo, chi ha voglia di mettersi a confrontarsi con altre culture quando è in vacanza?