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autore: Autore: di Luca Giommi

Una psico-geografia alternativa tra cocci, ricordi e antiche mura

Questa intervista a Sergio Ponzio, fondatore e co-direttore artistico del Cinema Detour di Roma (www.cinedetour.it) e ideatore e curatore di iniziative culturali legate al cinema e agli audiovisivi, tra le quali quella in collaborazione con la cooperativa Cotrad che è l’oggetto principale dell’intervista, fa parte di una ricerca che chi scrive sta svolgendo per SIPeS, Società Italiana di Pedagogia Speciale. Ne pubblichiamo un estratto, in attesa dell’uscita del volume che conterrà la sezione dedicata al cinema in rapporto alla disabilità, prevista per il 2011.

Come è nata l’idea di impegnare la cooperativa Cotrad e le persone che vi lavorano (disabili e normodotate) in attività cinematografiche? È un’idea nata dagli stessi disabili? Come si è instaurato questo rapporto e quale è, quale è stato il ruolo del Cinecub Detour?
La collaborazione è partita dall’iniziativa di alcuni tra i più motivati tra gli operatori Cotrad. Cercavano una sala di proiezione per un cineforum di utenti disabili che fosse facilmente raggiungibile dalla loro sede, che non avesse barriere architettoniche e che fosse un luogo aperto alla progettualità e alla socialità, e non una sala cinematografica commerciale in senso stretto. Hanno trovato noi, che da otto anni avevamo la nostra sede a meno di cento metri da loro, e nonostante questo non sapevamo niente gli uni degli altri. Questo ci ha fatto venire in mente che uno degli obiettivi della nostra collaborazione dovesse riguardare il tentativo di ricostruire un tessuto connettivo di socialità nel nostro rione. Inizialmente il nostro ruolo consisteva nel curare la programmazione e gestire le proiezioni pomeridiane del cineforum, coadiuvati e consigliati dagli stessi operatori Cotrad. Naturalmente con il passare del tempo si è creato un rapporto di fiducia e a volte anche di amicizia con i ragazzi che partecipavano al cineforum.

Ho letto che i film realizzati con Cotrad sono frutto di un laboratorio audiovisivo: potreste descrivermi in breve come si è svolto? Sono piuttosto numerose le esperienze che prevedono la partecipazione di persone con disabilità alla realizzazione di un film, a livello di recitazione (le più numerose), di sceneggiatura, ecc. Durante la realizzazione dei vostri film in collaborazione con Cotrad Onlus le scelte sono nate dal confronto con gli attori e le persone riprese? Questi erano coinvolti anche nella definizione delle strategie e degli elementi artistici? In che modo si è realizzato questo confronto? E in che senso e in che proporzioni le loro “diverse abilità” hanno aggiunto qualità e peculiarità al lavoro? Che cambiamenti ha apportato alle vostre idee iniziali?
Il laboratorio, Ragazzinvisibili.doc, era il frutto di un progetto nato dalla collaborazione tra Cinema Detour e Cooperativa Cotrad, vincitore di un bando del Dipartimento Cultura della Regione Lazio. Lo scopo del laboratorio, nelle intenzioni, era di sviluppare nei partecipanti le basi per una riflessione sul linguaggio audiovisivo e una conoscenza delle sue tecniche basilari, attraverso visione e commento di materiali audiovisivi, dimostrazioni pratiche di utilizzo della videocamera ed esercitazioni di ripresa nel corso di uscite di gruppo nel territorio del quartiere.
Ci siamo, però, subito trovati di fronte a problematiche complesse, legate da un lato all’esistenza di specifici deficit psico-cognitivi talvolta di grado piuttosto elevato, dall’altro alla difformità di livello e di natura di tali deficit all’interno del gruppo.
Ciò che, nel corso del laboratorio, suscitava l’interesse di alcuni, sembrava lasciare indifferenti altri; attività e operazioni semplici e naturali per una parte del gruppo non erano praticabili realmente dall’insieme del collettivo. C’erano in particolare alcuni soggetti trascinanti, portatori di spunti e proposte valorizzanti o anche felicemente devianti rispetto al tema suggerito. Alcune idee inserite poi nei documentari sono scaturite proprio dal confronto di idee con queste persone maggiormente motivate.
Per quanto riguarda il metodo di lavoro è presto detto: di comune accordo con Cotrad, è stato scelto di volta in volta un tema da trattare, come la memoria storica di un rione o la valorizzazione di siti archeologici poco conosciuti. L’attenzione a queste tematiche da parte di Cotrad derivava in parte dall’adesione della cooperativa alla campagna di Legambiente denominata “Salvalarte”, avente come oggetto la riscoperta e la salvaguardia delle opere d’arte considerate “minori”.
Focalizzato l’obiettivo e individuato anche attraverso sopralluoghi con il gruppo delle persone disabili, il territorio sul quale la vicenda si sarebbe svolta, abbiamo elaborato un piccolo soggetto che tenta di mettere in relazione l’argomento scelto con la quotidianità della vita degli utenti, con le loro competenze e attitudini, con i loro ricordi e storie personali.
Nei vostri lavori mi sembra di notare un piacere a “giocare” con il cinema. Mi riferisco non solo alle citazioni più o meno palesi, ma anche all’utilizzo delle animazioni (che non sono mai qualcosa di estraneo al racconto o posticcio o ancillare, come spesso, sempre di più, mi capita di vedere in molti film o documentari recenti, ma si integrano benissimo e entrano in un rapporto intenso e particolare con il “testo”) e alla capacità di confondere tra finzione e documentario. È una caratteristica, uno stile, sono scelte che riguardano anche altri vostri lavori o le avete privilegiate in questi film realizzati con Cotrad?
Nel nostro lavoro con Cotrad sono confluiti gli elementi che tu hai citato, un bagaglio di strumenti espressivi che deriva sia da comuni esperienze collettive che da specifiche competenze individuali: sicuramente il grande amore per il cinema, anche come genere di intrattenimento popolare (Detour ha sempre rifiutato l’etichetta elitaria di cineclub come riserva di cinema “esoterico” e ha sempre costruito sulla mescolanza di generi, formati e scuole di pensiero la forza e la freschezza della sua programmazione); una componente ludica e comica, direi naif, che trova piena realizzazione nelle animazioni, ma emerge comunque come cifra stilistica predominante e necessaria ad allontanare il rischio di indulgere nel patetico o nell’autocommiserazione; infine, un intreccio di documentario e cinema narrativo, un po’ per scelta un po’ perché questa modalità ci sembrava la più adatta a lavorare con il gruppo degli attori e collaboratori disabili, restando sempre sul filo tra la ricostruzione proposta e la libertà improvvisativa.
A questi tre principi costituenti del nostro lavoro, ne aggiungerei un quarto che definirei “poetico-astratto” e che emerge in particolare nel lavoro “Cocci e ricordi” sulla memoria storica del rione Testaccio e nel finale dell’ultimo a tema “archeologico”. Si tratta di una tendenza alla rarefazione e a una sorta di “introspezione sognante” che ci allontana talvolta dalla concretezza della rappresentazione epidermica per restituirci i riflessi interiori del rapporto tra il soggetto umano e l’ambiente circostante (penso alle sequenze del cimitero acattolico, oppure del Mitreo sotterraneo).
È davvero interessante e, questa sì inclusiva e con una forte presa “sociale” (passami il termine), l’idea che siano persone che vivono un disagio (psichico, sociale…) a interessarsi a e svolgere attività lavorative o meno e approfondimenti, inchieste relativi a un “patrimonio” di tutti in parte dimenticato e trascurato e a riportarlo alla luce, a valorizzarlo e renderlo pubblico: che sia un patrimonio “orale” (gli anziani che raccontano) o architettonico-artistico o culturale in senso più generale. C’è quasi una corrispondenza (e anche, ovviamente, il tentativo di “romperla” per stabilirne una di segno opposto) tra persone che hanno difficoltà a vedersi riconosciuta una presenza sociale piena e i luoghi che visitano e vivono, anch’essi in parte “ai margini” (nonostante la loro bellezza).
Gli attori disabili hanno colto questo legame forte e il valore di questa attività di riscoperta e valorizzazione?
Gli obiettivi della nostra “trilogia” di docu-fiction erano eterogenei.
Da un lato si trattava di rafforzare la cittadinanza delle persone disabili, intesa sia come costruzione di dignità attraverso una produzione creativa collettiva, sia come senso di appartenenza di questi soggetti al tessuto sociale e culturale del proprio quartiere. Reclamare le strade in quanto spazio pubblico di vivibilità e socialità da occupare pacificamente e strappare una volta tanto degrado, al turismo o movida mordi e fuggi o alle ragioni dell’economia, per riappropriarsi “sentimentalmente” del paesaggio urbano. Tracciare un’inedita psico-geografia cittadina, alternativa ai tracciati consueti, basata sull’intersecarsi di piani estetici (l’arte, il cinema, la poesia), culturali (la Storia, le tradizioni), emotivi (il ricordo, il sogno, le relazioni umane, la malattia) e politici (le barriere architettoniche, la speculazione, le tematiche ambientali).
Dall’altro lato c’era poi il tema vero e proprio del documentario: il racconto del rione attraverso la voce dei suoi abitanti vecchi e nuovi, oppure come nel caso di “Custodi di antiche mura”, la mappatura dei siti archeologici chiusi al pubblico. Come avrai notato, nel corso di ciascun documentario, è capitato che il tema, da pretesto si è fatto provvisoriamente centro d’attenzione per poi tornare di nuovo sullo sfondo e lasciare spazio all’umanità del gruppo viaggiante.
Esiste a vostro parere un linguaggio veramente appropriato per rappresentarel’handicap nel cinema? Il più significativo è quello che lo mostra “senza mostrarlo”? Vi pongo questa domanda anche se mi sembra ovvio che nei vostri lavori con Cotrad non abbiate l’intento di rappresentare la disabilità. Diciamo che vi pongo questa domanda da amanti di cinema e gestori di una sala cinematografica. Inoltre, c’è qualche film “sulla disabilità” che vi è sembrato particolarmente efficace a livello estetico o che comunque è riuscito a veicolare un’immagine più credibile e complessa dell’oggetto trattato?
Non credo esista un unico modo o anche soltanto “un modo più appropriato” di rappresentare qualcosa. Da parte nostra abbiamo sempre cercato di spiazzare sia l’ipocrisia talebana del politically correct, che il riduzionismo del senso comune sui “matti”.
Un film che consiglierei a tutti di vedere o rivedere è Chiedo asilo di Marco Ferreri del 1979. Un’opera straordinaria, tenerissima e sottovalutata con protagonista un giovane Roberto Benigni, stralunato e non ancora “normalizzato”, nella parte di un maestro d’asilo capace di rispondere al disagio psichico di un piccolo alunno con metodi che oggi definiremmo rivoluzionari ma che, nel clima libertario che si respirava ancora in quegli anni, costituivano una tappa sulla via della liberazione collettiva dall’oppressione delle istituzioni borghesi, scuole, manicomi, prigioni, famiglia tradizionale. Il film coniuga con leggerezza e spontaneità, un sostrato semi-documentaristico quasi da cine-verité con passaggi surrealisti intensamente poetici.
Potreste parlarmi un po’ della storia, delle ragioni della vostra attenzione (e quindi di quella del Cineclub Detour, ad esempio in merito all’accessibilità) verso la disabilità e le persone con deficit? E un’ultima curiosità: pensate di proporre, o avete già proposto, anche visioni accessibili a non vedenti e persone sorde? So che è una questione complessa a ogni livello (produzione di sottotitoli per non udenti e dell’audiocommento, apparecchiature…), ma avete mai valutato l’ipotesi o discusso l’argomento? A Roma si sono fatti passi avanti in questo senso, negli ultimi due anni (vedi Roma Fiction Fest 2009 e 2010).
Da tre anni a questa parte lavoriamo abitualmente con ragazzi Asperger. Si tratta del progetto Io speriamo che me la cavo, cineclub organizzato in collaborazione con il Gruppo Asperger Onlus Lazio e tuttora in corso di svolgimento al cinema Detour. Oltre alla regolare visione e discussione dei film, nel 2008-2009 abbiamo prodotto un video come risultato finale di un laboratorio teorico-pratico di cinema e audiovisivi.
Nel corso del 2009 Detour ha ospitato e collaborato a organizzare una rassegna di cinema per non vedenti dal titolo Visioni in voce over. Curata da Emilia Bernardini, socia dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti della Provincia di Roma, la rassegna era finalizzata all’abbattimento totale delle barriere architettoniche e sensoriali. All’audio dei film proiettati era associato un commento vocale, scritto da una persona non vedente, per aiutare la comprensione dei tempi muti. Altre rassegne per non vedenti utilizzano le cuffie per il commento sonoro. In questo caso abbiamo preferito unire il commento direttamente all’audio originale del film perché una parte del pubblico non vedente mal tollerava l’isolamento prodotto dalle cuffie. La rassegna è stato un successo, anche se il fatto di averla organizzata senza nessun tipo di sostegno finanziario ha comportato un grande dispendio di lavoro tecnico non retribuito per la preparazione del sonoro dei film. Ci piacerebbe molto disporre e attivare tutti i supporti tecnici disponibili per facilitare l’accesso di persone disabili al cinema, ma una piccola associazione come la nostra non potrebbe investire per adeguare il sistema di proiezione senza un corrispondente sostegno finanziario.
 
Arriva la banda!
Durata:40’
Regia:Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione:Cooperativa Sociale Cotrad Onlus, Cineclub Detour
In collaborazione con:Legambiente
Cocci e ricordi
Durata: 40’
Regia:Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione:Cooperativa Sociale Cotrad Onlus, Cineclub Detour
Custodi di antiche mura
Durata:21’
Regia:Sergio Ponzio, Giuseppe Cacace, Lior Levy
Produzione:Cooperativa Sociale Cotrad Onlus, Cineclub Detour
In collaborazione con:Legambiente (Salvalarte)

Indietro con Segre, avanti con Segre: il ruolo del pigiama

La cadenza trimestrale della rivista e l’inaccessibilità strutturale, endemica a determinati film, l’impossibilità di fruirne in Italia e, quindi, di scriverne, diventano involontariamente condizioni che legittimano una certa inattualità di questa rubrica. Raramente potremo godere di una piena contemporaneità tra visione e critica di una pellicola, almeno per quanto riguarda determinati titoli.
Spesso proprio quelli ai quali, fidandoci di quanto scritto da altri (più fortunati di noi), ci piacerebbe dedicare uno spazio di critica e riflessione, perché presumibilmente sono proprio quelli che ci interrogherebbero con maggior forza e ostinazione, con maggiore urgenza e in cui il “potere” del cinema si esprimerebbe in modo più pieno. Insomma, gestiamo una sorta di libertà coatta o, quantomeno, a posteriori: sapendo cosa non posso fare, sapendo che non potrò fare, determino cosa sono libero di fare. Pure una ricerca paziente e testarda e la disponibilità di molti cineasti e case di produzione ci porta a conoscere numerosi lavori, alcuni dei quali davvero significativi e realizzati con grande scrupolo tecnico e formale, altri in cui questo elemento risulta evidentemente meno curato e sviluppato, ma che sono in grado di colpirci, emozionarci, fornirci strumenti di lettura della realtà inaspettati, ispirarci, informarci.
Cito tre film recenti, CIMAP! (di Giovanni Piperno), L’isola dei sordobimbi (di Stefano Cattini) e Allegro Moderato (di Patrizia Santangeli), il quale prosegue un lavoro di documentazione già iniziato, nel 2006, da Il sesto rigo di Raffaella Pusceddu, relativo alle attività e alle personalità dell’orchestra Esagramma di Milano. Però, proprio per riprenderci e sfruttare a pieno (il pieno che ci è consentito) la libertà di cui parlavamo sopra, dedichiamo questa rubrica a un lavoro di qualche anno fa di Daniele Segre, Vestiti di Vita (2004). Precisiamo subito che il film non è di Daniele Segre, quanto il frutto di un’attività laboratoriale collettiva “orchestrata” dal regista piemontese. Il film, infatti, è stato realizzato dagli utenti e dagli operatori del centro diurno “Marco Polo” di Terni secondo le modalità che vedremo successivamente.
Come scrive Stefano Rulli nel libretto che accompagna il DVD di Vestiti di Vita “il cinema è stato in alcuni casi strumento di auto-rappresentazione delle stesse persone con problemi psichici. E qui appare centrale l’esperienza di Daniele Segre che da ManilaPalomaBianca, a Sto lavorando? e A proposito di sentimenti è riuscito a sviluppare un cinema molto intimo e personale proprio nel mettersi a disposizione del mondo ‘altro’ di persone apparentemente incapaci di raccontare se stesse. Trovare un punto di equilibrio artistico tra l’espressione della propria interiorità e il rispetto di quello della persona intervistata, soprattutto se resa più indifesa da una fragilità psichica è un’esperienza ad altissimo rischio”.
Quello che stupisce nei lavori di Segre è proprio la naturalezza con la quale sembra affrontare questo rischio, svolgere gli “argomenti” dei suoi film ed entrare in rapporto con il “materiale umano” che popola e anima i suoi lavori. Che ci si mostrano, che guardiamo nella loro trasparenza. Non ci faccia perdere di vista, questa trasparenza, l’intenso e puntuale lavoro preparatorio sotteso a ognuno dei suoi film. Anzi, spesso palesato dalle scelte di regia e montaggio di Segre, ma che, nonostante o proprio grazie a questo, resta come in secondo piano, lasciando il dato “naturale”, l’oggetto della ripresa/visione in superficie. In questo caso, peraltro, il percorso realizzativo e (post)produttivo è particolarmente articolato e differisce da quello che ha caratterizzato altre pellicole del regista. E torniamo al punto di prima, ovvero alle modalità di realizzazione di Vestiti di Vita, che rappresentano un interessante modello di esperienza di laboratorio, per gli argomenti e la materia trattata, in campo socio-educativo, e per l’approccio metodologico.
Il laboratorio e il video di documentazione finale, come scrive Luana Conti, curatrice del progetto, dovevano “rappresentare un esempio di uso sociale dell’audiovisivo da utilizzare come occasione di formazione per il mondo del volontariato e come stimolo ad aggiornare e sperimentare nuovi e inusuali strumenti di lavoro”.
Segre decide di integrare gli operatori del centro “Marco Polo” con pari trattamento degli utenti all’interno del laboratorio: questa scelta si rivela un elemento fondamentale di tutto il percorso e dello stesso prodotto conclusivo. Propone anche di far ruotare tutto il laboratorio attorno al cambio di abiti e ambienti, suggerendo una lista di oggetti da portare all’interno della sede del centro come possibili “generatori di contesto”. L’idea è quella di smuovere, senza scardinarli, routine, ruoli e immagini consolidati all’interno del centro, introducendo degli “elementi dissonanti” che possano, appunto, innescare dinamiche nuove e imprevedibili. È questa la ragione per cui, nel corso del documentario, vediamo operatori e utenti del “Marco Polo” dapprima in pigiama, poi in abiti civili, poi ancora in eleganti vestiti da sera. Allo stesso tempo, questa scelta fornisce un elemento ritmico evidente e riconoscibile alla narrazione e un cardine al racconto. Si pone, quindi, come creatrice di senso, di significati potenziali, latenti, di contesto e di forma.
Secondo quanto viene ricostruito nel libretto che accompagna il DVD (materiale descrittivo e diario di viaggio molto interessante e stimolante), le riprese sono iniziate in abiti civili, con una “foto di gruppo” dalla quale, uno alla volta, i componenti emergevano per presentarsi e affermarsi come soggetti singoli. Successivamente la presentazione è proseguita in circolo e ognuno ha esposto “ciò che sa fare”, storie quotidiane, passioni, abitudini. Cambiando luogo/scena e indossando il pigiama, ci si è avvicinati ad aspetti più intimi delle persone coinvolte nel laboratorio. “Come ti senti in pigiama? Quali ricordi ti evoca il pigiama? E questo pigiama in particolare?”. Domande semplici che dovevano stimolare ricordi, immagini ed evocare altri luoghi e persone, legami, le difficoltà passate, quelle presenti.
La foto di gruppo in pigiama accompagna poi i partecipanti verso un’altra situazione, la rappresentazione collettiva di vari stati d’animo: il risveglio, la risata, la rabbia, la tristezza. La stanza diventa un luogo carico di emozioni. Una forte energia passa dall’uno all’altro: si crea un terreno di condivisione significativo tra persone che, se quotidianamente convivono, non per questo si “frequentano”, si condividono, si dedicano all’altro. O, meglio, spesso questa condivisione avviene entro strutture, griglie rigide che escludono e proteggono da certi livelli di conoscenza reciproca. Le riprese sono continuate con la sfilata delle donne in pigiama e i commenti degli uomini in fila, pronti ad accoglierle. Poi, in un angolo arredato con un letto, un comodino e un quadro sullo sfondo, a turno i partecipanti hanno raccontato i sogni della notte precedente e quelli più ricorrenti. Anche qui l’intento era quello di cercare, attraverso l’espressione di qualcosa di sé, delle corrispondenze, delle risonanze con e negli altri, un’apertura di se stessi e verso un nuovo rapporto con se stessi. Dall’individuale al collettivo, di nuovo: un girotondo, momento armonico e ludico.
Al centro del cerchio, chiuso dalle mani intrecciate degli altri, ognuno allora trova la forza per dare un nome alle proprie paure e ai propri bisogni. L’ultima serie delle riprese è stata dedicata alle persone in abiti eleganti: dapprima i partecipanti hanno fatto sfoggio delle rispettive mises, poi, dopo una seconda passerella/presentazione, questa volta più convinta, sicura della prima, si è passati alla rievocazione singolare di momenti in cui ci si è vestiti in modo elegante, in occasione di cerimonie, feste, per andare in sala da ballo…
Molto interessante anche il modo in cui è avvenuto il montaggio. Sono state costruite delle cassette individuali dei singoli partecipanti in cui è stato raccolto tutto ciò che, tra le immagini girate, li riguardasse. Questo per più ragioni: fornire agli operatori uno strumento di lavoro, agli utenti uno strumento di autovalutazione e dare a tutti la possibilità di selezionare le proprie parti da inserire nel video finale. In base al girato selezionato dai singoli partecipanti è stato realizzato il montaggio, che doveva cercare di ricavare (ricamare), estrarre una narrazione da materiale in parte frammentario. L’ordine delle riprese non viene rispettato, il video si apre con le scene in pigiama: Segre parte dall’interno e ci mostra gli amici di “Marco Polo” prima nel loro coraggio e nella loro debolezza e solo dopo li contestualizza, quando ormai le notizie sulla loro vita risultano quasi superflue o comunque incapaci di offuscare con qualunque forma di pregiudizio il loro ritratto. In pigiama si annullano ruoli e funzioni: solo dopo si specifica chi è utente e chi operatore e l’orizzontalità veramente praticata nel laboratorio trova la sua rappresentazione metaforica anche alla documentazione.
Ne risulta un lavoro che vive delle sue “imperfezioni”, costruito con soli stacchi, senza artifici eccessivi, senza commento musicale, che si lascia penetrare, vivere e “vitalizzare” dalla realtà, dall’effettività di quanto successo nei tre giorni di riprese e riesce a restituirne la pregnanza, la profondità. Un film intensamente, poeticamente e collettivamente segriano.

Vestiti di Vita
Laboratorio di Daniele Segre al Centro Diurno “Marco Polo” di Terni
Durata: 39’
Realizzato da: gli utenti e gli operatori del centro “Marco Polo”
Riprese audio/video: stagisti volontari dell’Università di Terni: Simone Fratini, Riccardo Palladino
Assistente tecnico riprese e postproduzione: Marco Coppoli
Montaggio: Francesco Locci
Responsabile e curatrice del progetto: Luana Conti
Produzione: Ce.S.Vol. Terni
Nazionalità: Italia
Anno: 2004
È possibile richiedere il DVD al Ce.S.Vol. di Terni

Le presenze ingombranti rovinano il panorama

Nel 2009 sono usciti nelle sale italiane due film che, con intenti molto diversi, affrontano il tema della disabilità e della diversità o, almeno, lo inseriscono all’interno di una narrazione della quale queste sono un elemento portante, “invadente”.
Il primo è Ricky – Una storia d’amore e libertà di François Ozon, regista eclettico (e a mio avviso sempre “incompleto”) presentato all’ultimo Festival del cinema di Berlino; il secondo è Los abrazos rotos (Gli abbracci spezzati) di Pedro Almodovar, film in cui riferimenti autobiografici più o meno palesi consentono al regista di svolgere una riflessione allo stesso tempo morale, emozionale e filmica (ha partecipato al Festival di Cannes 2009).
Ricky  racconta la storia di Katie, divisa tra il lavoro in fabbrica e la figlia, senza marito o compagno, che, innamoratasi del collega Paco, darà con lui alla luce il piccolo Ricky. Le recensioni e i trailer che hanno anticipato l’uscita del film hanno, ovviamente, impedito di vivere appieno la “sorpresa” che stravolge la trama, ovvero la nascita sulla schiena del neonato di due ali dapprima raccapriccianti e che, via via, si fanno sempre più grandi tanto da consentirgli di volare. Pure, la costruzione di questa sorpresa, l’evoluzione narrativa che ad essa porta, risulta a livello formale e non solo l’aspetto più riuscito di questa pellicola. Ozon infatti non rinuncia a immettere, in una regia che fin lì (e in seguito) risulta piuttosto piatta e di taglio realista, da cronaca sociale, stilemi horrorifici che descrivono bene l’evoluzione “angelica” della trama e del piccolo: elementi analogici e premonitori (il pollo a cena, la stanza del nascituro con le pareti azzurre e le nuvole…), le ferite presenti sulla sua schiena che paiono causate dalla disattenzione paterna o, peggio, dalle percosse che Paco avrebbe inflitto al bimbo. I protagonisti sembrano incapaci di leggere questa situazione inattesa, di rapportarvisi, se non alimentando sospetti e incomprensioni reciproci che porteranno a una momentanea divisione tra Katie e Paco.
Lentamente, ma in modo disturbante, le cose si mostrano per quello che sono: ali che, per svilupparsi, lacerano inevitabilmente la pelle di Ricky e la stabilità che la coppia era riuscita a creare.
Svelato il mistero, però, il film torna sui binari iniziali e, alla perdita di forza delle immagini (non a caso) si affianca la debolezza o la prevedibilità del ragionamento sull’elemento di diversità rappresentato da Ricky. Tutto si presenta secondo uno schema piuttosto classico, per cui, se all’inizio Katie cerca di nascondere il segreto del figlio nel timore, fondato, che gli altri possano non comprendere la sua diversità e quindi fargli del male, ma negando al tempo stesso autonomia e libertà al piccolo, finalmente capisce che il modo migliore per esaltare e liberare questa diversità è lasciarla esprimere: perdere il piccolo Ricky perché lui possa manifestarsi pienamente a se stesso e agli altri e perché il suo amore materno possa rivelarsi nella forma più perfetta. “Storia d’amore e libertà”, appunto…
Una favola moderna, con protagonista un “angelo” proletario, realistica (alla Loach-Dardenne per certi versi), surreale e fantastica insieme. Ironica, anche (quanto volontariamente non saprei dire): impossibile non abbozzare un sorriso quando Ricky, legato a un filo per non farlo fuggire, viene mostrato a famelici giornalisti (paganti… e chiamati dai genitori) e sembra un aquilone in carne, ossa e piume. Forse l’ironia della scena vuole mostrare l’assurdità di certe pratiche “gossipare”… Ozon sembra non riuscire a gestire fino in fondo le implicazioni forti che la trama presupponeva e, non facendolo, realizza un lavoro a tratti stucchevole e patetico. Proprio per questo meno intenso e più debole.
Almodovar, invece, sempre fedele alle sue geometrie e geografie dello spazio, dell’immagine e dell’anima, realizza un film intenso e credibile. Nel quale la disabilità, l’infermità e il dolore scorrono dal primo all’ultimo fotogramma in modo, più che evidente, sottilmente invadente, ma senza sacrificare altri elementi della narrazione. In questo (solo in questo) ricorda La ragazza del lago di Molaioli (2006), film pervaso di disabilità, tanto che praticamente nessun recensore all’epoca notò questo “dettaglio”, evidenziando piuttosto gli aspetti e i meccanismi investigativi e da thriller del film, peraltro trattati con maestria del regista italiano (si veda anche “HP-Accaparlante” n. 1, 2008).
Dal racconto del rapporto tra lo scrittore Arthur Miller e il figlio Down (potenziale sceneggiatura di Mateo Blanco-Harry Caine di un futuro film… nel film… nel film) al cancro del padre del personaggio interpretato da Penelope Cruz, Lena; dalla morte di suo marito, il ricco Martel, al coma da abuso involontario di droghe di Diego, figlio inconsapevole di Blanco-Caine e della produttrice Judit, alla cecità di Blanco-Caine stesso, regista prima di perdere la vista (e anche successivamente), che non può non essere associata al periodo di cecità vissuto da Almodovar recentemente. Tutto concorre a creare un’atmosfera di instabilità in cui cadono i confini tra volontà e involontarietà, errore, colpa e innocenza, gioia e dolore, sanità e malattia, forza e fragilità… A rafforzare questa sensazione anche l’eterogeneità dei generi che Almodovar mixa sapientemente, muovendosi tra melodramma, comico, thriller, commedia, Donne sull’orlo di una crisi di nervi (citato e ricostruito; tanti altri i riferimenti più o meno palesi, tra i quali Viaggio in Italia di Rossellini). Così come i continui flashback e l’intreccio narrativo molto articolato, quasi una mise en abîme.
Una riflessione molto matura sulla vita (la quale, per dispiegarsi, deve ricorrere anche a qualche forzatura ed eccesso, tutti perdonabili); un atto d’amore verso “il mistero del cinema come macchina produttrice di piacere e dolore e alla realtà di chi lo fabbrica, nessuna maestranza esclusa…; una riflessione sul cinema e sulla responsabilità di chi lo fa, sul potere e il (non) limite dell’occhio, della visione (le mani che guardano lo schermo). Non è la prima volta, peraltro, che Almodovar si confronta con la disabilità, l’infermità e con i cambiamenti, anche dolorosi, legati a queste condizioni. Ricorderete Parla con lei, il rapporto che si sviluppa tra Benigno e Alicia e quello, più difficoltoso e distante, tra Marco e Lydia, il confronto con la morte che non è ancora tale e con la vita che lo è solo potenzialmente o in base a un atto di fede (fiducia, amore…).
Ricky  e Gli abbracci spezzati sono film diversi tra loro: Ozon vi inserisce un elemento di diversità forte, iper-evidente, paradigmatico e simbolico, ma questo gli sfugge più di quanto Ricky riesca a fuggire dal pregiudizio altrui e dalla sua condizione di cattività. Lasciando, però, anche lo spettatore a distanza da quell’elemento o producendo, al massimo, un’empatia momentanea e innocua. Almodovar, invece, fa fluire questa diversità-instabilità ricordandoci la sua ineliminabile presenza, senza costruirla o imporla d’autorità. Ne fa un oggetto meno monolitico, più umano…

Gli abbracci spezzati (Los abrazos rotos)
Durata: 129’
Regia: Pedro Almodovar
Soggetto: Pedro Almodovar
Sceneggiatura: Pedro Almodovar
Montaggio: José Salcedo
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musiche: Alberto Iglesias
Produzione: El Deseo S.A., Universal International Pictures
Nazionalità: Spagna
Anno: 2009

Ricky – Una storia d’amore e libertà
Durata: 90’
Regia: François Ozon
Sceneggiatura: François Ozon, Emmanuèle Bernheim
Liberamente tratto da: Moth di Rose Tremain
Produzione: Teodora Film, Eurowide Film Production, FOZ, BUF, France 2 Cinema
Nazionalità: Francia
Anno: 2009

Il cinema a scuola: uno strumento che integra diversi ruoli, linguaggi e competenze

Dedichiamo il nostro spazio a un progetto molto vivo, personale e convincente, nelle premesse, nella realizzazione e nelle finalità. Il quale, non potendo contare su modelli di riferimento direttamente assimilabili, si caratterizza come attività didattica e lavoro di integrazione del tutto originale. Non è, infatti, un progetto di semplice conoscenza “passiva” del rapporto tra cinema e disabilità; non è un progetto che preveda, per il bambino disabile, la sola recitazione di ruoli e parti attribuiti e pensati da altri; non è un progetto che vuole sviluppare un discorso sulla disabilità attraverso il mezzo cinematografico. È invece un lavoro molto articolato che, a partire da un approccio critico rispetto alla più diffusa idea di didattica, di didattica dell’immagine e di educazione all’immagine e assumendo un’idea di cinema come linguaggio multidisciplinare che permette un’espressione di competenze necessariamente diverse, richiede un coinvolgimento pieno, cosciente e creativo a tutti i bambini della classe e crea le condizioni per un confronto più paritario e collaborativo tra alunni e docenti.
Nel 2003, Chiara Giorgi ha iniziato a lavorare in una seconda elementare della scuola “Longhena” di Bologna come educatrice di Alberto, un bambino di sette anni certificato con ritardo mentale medio e tratti autistici. Alberto si esprimeva soprattutto con i gesti e il suo linguaggio era limitato; molto spesso ripeteva a memoria frasi tratte dai suoi cartoni animati o film preferiti, ritirandosi in un mondo tutto suo, fatto anche di stereotipie nel movimento. L’anno successivo, Chiara Giorgi cominciò a pensare di fare un film con Alberto, sia per la sua grande capacità di esprimersi con il linguaggio corporeo, che le avevano spesso ricordato i vecchi attori dei film muti e le loro pantomime; sia perché nella scuola c’era un collega che, con la sua classe, metteva già in atto progetti di cinema e video. Dopo essersi confrontata con le maestre, nell’intento di coinvolgere tutta la classe, e dopo aver risolto gli aspetti tecnici legati a un lavoro di produzione cinematografica, il progetto è partito e si è ripetuto nei tre anni successivi, anche quando Alberto è passato alle scuole medie. Rispetto alla scelta del muto, dice Chiara Giorgi: “La scelta di basare i nostri progetti di cinema sui film muti è nata proprio dall’esigenza di dare spazio agli altri linguaggi e alle altre intelligenze. È stato Alberto a ispirare questa modalità, poiché egli si esprime attraverso gesti così enfatici ed espressivi che ricordano i vecchi attori dei film muti come, ad esempio, Jacques Tati, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Laurel e Hardy, ecc.”.

L’interdisciplinarietà
Quella impostata da Chiara Giorgi è un’attività a carattere interdisciplinare che coinvolge varie materie: italiano, educazione all’immagine, informatica, matematica, teatro. I film vengono, infatti, realizzati direttamente dai bambini, che si occupano di scrivere la sceneggiatura, girare le riprese con la videocamera digitale, disegnare le scenografie, montare alcune scene con un apposito programma di montaggio, sotto la guida attenta degli adulti. Propedeutica a questa partecipazione attiva dei bambini, sono state la visione e l’analisi di alcuni film che, di volta in volta, aiutassero gli alunni nell’individuazione di un genere di riferimento, nell’approfondimento del tema che si era scelto di raccontare e, in generale, nell’acquisizione della consapevolezza rispetto alle potenzialità narrative dell’immagine cinematografica.
I quattro film realizzati con le classi sono lavori preziosi, a livello di temi, regia e processo di produzione: li elenchiamo velocemente: Il fantasma di Lord Albert (una specie di fiaba gotica ispirata al Fantasma di Canterville di Oscar Wilde), Il Re dell’Occhio (giallo ambientato in un ospedale psichiatrico, che, nella versione cortometraggio, ha vinto il primo premio al concorso della Cineteca di Bologna “Luca De Nigris”), La mosca bianca (un western-futurista che ragiona sulle possibili degenerazioni del potere e sulle potenziali reazioni a esse) e Il Cancello di Pietra (con alcune sequenza girate al cimitero monumentale della Certosa e alle Grotte dell’Onferno). Quest’ultimo film è stato realizzato quando Alberto è passato alla scuola media, avendo ottenuto Chiara Giorgi la continuità educativa.

La grammatica cinematografica
I film dimostrano un lavoro non superficiale sulla grammatica cinematografica, che vive di peculiarità non immediatamente riconducibili a quella del linguaggio parlato e le cui caratteristiche, per quanto rese qui più intelligibili attraverso la scelta di generi e modelli di riferimento piuttosto definiti, non sono facilmente maneggiabili né riproducibili. Testimoniano un lavoro davvero collettivo, nel quale l’intervento dei bambini è richiesto e assecondato in tutti i livelli di realizzazione: dall’invenzione e caratterizzazione dei personaggi, alla stesura della storia e della sceneggiatura, alla costruzione delle immagini, delle scene e delle sequenze, attraverso la partecipazione al montaggio. Inoltre, le modalità e il processo di costruzione partecipati (anche dagli altri insegnanti) di ogni lungometraggio, ha permesso di sviluppare riflessioni tutt’altro che semplici e scontate su temi quali la violenza, il potere, la violenza del potere, l’educazione, i rapporti tra gli alunni, il bullismo, la diversità, ecc. Ponendo i bambini come soggetti attivi della riflessione, della manipolazione della sceneggiatura, dei ruoli, delle immagini e degli effetti che esse possono veicolare; ponendo, quindi, i bambini come soggetti che creano il senso delle cose e che non soltanto ne recepiscono interpretazioni e formulazioni (anche stilistiche) altrui, la realizzazione dei quattro film ha permesso di affrontare quei temi in modo cosciente e aperto a soluzioni nuove.
Effettuando il montaggio delle scene con i bambini è capitato che a essere montate fossero proprio delle scene violente. Ciò è accaduto, ad esempio, con il film Il Re dell’Occhio, nel quale, essendo un giallo, vengono mostrati vari tipi di morte: per sparo, per avvelenamento, per coltellate. C’è una scena, in particolare, in cui una cameriera, internata nel manicomio in cui si svolge il film, sta spolverando (la sua mania è, appunto, spolverare e pulire); la telecamera la riprende in soggettiva secondo lo sguardo dell’assassino e, all’esterno, sul muro è proiettata l’ombra dell’assassino e della vittima ignara; a un certo punto, nell’inquadratura compare un coltello impugnato, appunto, dall’assassino (à la Hitchcock), la povera cameriera si volta di scatto, tenta di difendersi, ma il coltello, implacabile, si abbatte su di lei, che cade per terra, cosparsa di sangue (pomodoro). I bambini hanno voluto montare questa scena e, nel farlo, hanno discusso animatamente fra di loro sul modo in cui avrebbero dovuto tagliare le scene per provocare un effetto più cruento e impressionante negli spettatori.
Questo episodio serve a rivelare la competenza che i bambini possiedono riguardo al linguaggio cinematografico e, in particolare, quanto essa si basi anche sulla visione di film violenti e sulla loro capacità di codificarne i meccanismi, di elaborarli e “rigiocarli” a loro volta con consapevolezza.
Già durante e dopo la realizzazione del primo film, Il fantasma di Lord Albert, Alberto mostrò un interesse e un entusiasmo sempre più grande per questo lavoro; iniziò a guardarsi allo specchio, a mostrare di piacersi, a sorridere davanti alla sua immagine dentro la videocamera, a stare più tempo in classe, seduto insieme ai compagni. La tecnica dell’improvvisazione basata sulla pantomima, utilizzata poi anche per le “pellicole” successive, metteva tutti, anche Alberto e gli alunni più timidi, a loro agio, poiché i bambini erano già abituati a giocare in quel modo tra di loro e quindi dovevano solo abituarsi alla videocamera che presto diventò un accessorio marginale.
Lasciando nuovamente la parola a Chiara Giorgi: “Ogni scena veniva così preparata: lettura da parte dei bambini insieme a noi adulti della scena in questione, scelta del luogo dove girare la scena (ogni volta era diverso), preparazione dei costumi e delle scenografie, trucco, ideazione degli effetti speciali, messa in scena improvvisata (la scena veniva girata più volte per fare diverse inquadrature e a causa degli incidenti di percorso), visione collettiva della scena appena girata. La scelta del muto si è rivelata una scelta appropriata non solo per Alberto e per i suoi compagni, ma anche per eliminare il problema dei rumori di fondo, numerosissimi quando si effettuano le riprese in una scuola e ha favorito la drammatizzazione perché, nel girare le scene, potevamo darci dei consigli sui movimenti del corpo e le espressioni del viso che favorivano, negli attori, un’espressione più eloquente ed efficace. L’aggiunta delle musiche, scelte insieme ai bambini, che, negli spazi chiusi, guidava la messa in scena, aiutava i bambini a calarsi nella parte e a dare un ritmo ai loro movimenti che dovevano essere armonici fra di loro. Nel corso del film, i bambini, stimolati da questa esperienza con la musica, ci proposero due coreografie ideate e attuate da loro insieme ad Alberto, che noi aggiungemmo come sogni fatti dai protagonisti e che realizzammo a colori per distinguerli dalla realtà”.
Alberto riuscì anche a capire l’ordine cronologico delle scene e, a film concluso, ripeteva ogni cartello e anticipava ogni scena esprimendosi verbalmente.
Il lavoro, quindi, ha prodotto cambiamenti sensibili in Alberto, il quale, grazie (anche) a questa attività collettiva, ha potuto praticare abilità che già mostrava di possedere e ha iniziato a partecipare alla sua classe in modo più costante e presente. Molto interessante, da questo punto di vista, il fatto che la stessa attività di produzione filmica si sia negli anni modellata ed evoluta in relazione a questi cambiamenti, riconoscendoli: questo ha determinato, ad esempio, un progressivo arretramento di Alberto dal ruolo di protagonista (evidente ne Il fantasma di Lord Albert) verso ruoli più paritari a quelli dei compagni.

Finzione e realtà
I film di finzione realizzati sono, quindi, allo stesso tempo, materiale che documenta gli sviluppi di questo progetto di integrazione. È molto interessante questa compenetrazione tra finzione e realtà che, nei film di Chiara Giorgi, si sviluppa a più livelli (nella scelta dei temi, ad esempio), ma che emerge con forza e originalità proprio sotto questo aspetto: nel processo di realizzazione del film di finzione si produce un cambiamento reale, concreto in Alberto, e il prodotto di finzione finale funziona come ottimo strumento di documentazione del cambiamento reale prodotto. “Quello che ci interessava documentare era un’esperienza normale di gioco e di apprendimento a cui Alberto partecipava insieme agli altri bambini in modo spontaneo e in continua evoluzione. In più si trattava per tutti, noi educatori e i bambini, di partecipare e di costruire dal niente, anzi da una passione, qualcosa di nuovo. Il fatto di essere tutti sullo stesso piano riguardo alla messa in opera di un progetto simile, ci ha unito e ci ha portato a fidarci dei nostri istinti. Il primo film Il Fantasma di Lord Albert era stato girato anche allo scopo di trasmettere l’immagine dell’invisibilità di Alberto e delle sue difficoltà a trovare un posto per sé nella scuola e con i compagni. Dopo questo film, Alberto ha fatto un grosso cambiamento e ha iniziato a far parte della sua classe in modo più consistente e noi abbiamo documentato questo progresso assegnandogli ruoli sempre più paritari agli altri. I nostri film di finzione si sono evoluti insieme all’evolversi della situazione reale, assumendo, quindi, una funzione di documentazione dei cambiamenti quotidiani di Alberto, dei suoi compagni e dell’evoluzione del nostro lavoro”.
Nella storia della didattica del cinema si sono sempre presi in considerazione i film realizzati da altri, mentre ciò che si dovrebbe promuovere, dalla visione e analisi dei film in classe, dovrebbe essere il guidare i bambini o i ragazzi a realizzare una produzione autonoma di film, in modo da favorire la costruzione della loro identità e la loro partecipazione alla costruzione di una cultura che viene troppo spesso vista come qualcosa di inafferrabile. In più, l’esperienza del fare film anche con i bambini più piccoli favorisce una miglior coesione del gruppo classe, in quanto ogni bambino si sente di poter contribuire secondo le proprie diverse capacità alla realizzazione di un prodotto comune che, in questo senso, risulta democratico. “Ci sono bambini più bravi recitare, mentre altri si sentono più a loro agio nell’utilizzare la videocamera; altri, invece, potranno essere più competenti nel dirigere i compagni-attori o nello costruire le scenografie, o nell’ideare la sceneggiatura. Nel rendere partecipi i bambini a tutte le fasi di lavorazione di un film, le diversità individuali emergono come risorsa, invece che come limite. Un bambino può essere portato a riflettere sull’importanza che in un film hanno tutte le persone che vi sono implicate, anche se non compaiono sotto i riflettori e il loro lavoro si svolge di più dietro le quinte; non per questo essi verranno presi meno in considerazione dei compagni”.
I film realizzati da Chiara Giorgi e dagli alunni delle scuole “Longhena” e “Guinizelli” si possono richiedere anche al Centro Documentazione Handicap di Bologna. Vorrei approfittare per invitare le scuole che hanno sviluppato progetti e realizzato prodotti simili a quello di cui abbiamo dato conto a inviare il materiale (video, certo, ma anche cartaceo che racconti le fasi del lavoro) presso il nostro Centro di Documentazione. Non solo perché venga catalogato e conservato, ma anche per provare a metterlo in “comunicazione”, in circolo, in modo più continuo e strutturato.

L’acquisizione nasce da un atto d’oblio

Tempo fa mi è capitato di leggere un’interessante intervista al comparatista Daniel Heller-Roazen, realizzata in occasione della pubblicazione in Italia del suo saggio Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue (Macerata, Quodlibet, 2007, traduzione di Andrea Cavazzini).
A un certo punto l’intervista si concentrava sulla questione della “lallazione infantile” così come era stata affrontata da Roman Jacobson in “Linguaggio infantile, afasia e leggi generali della struttura fonetica”, secondo il quale un bambino riesce facilmente ad accumulare un enorme numero di articolazioni che nessuna lingua particolare possiede. Partendo da queste considerazioni, Heller-Roazen ha cercato di capire come sia possibile “dimenticare” questa capacità ricettivo-produttiva nel passaggio dalla fase prelinguistica a quella di apprendimento di una lingua. Riporto le parole del comparatista: “Il lavoro sulle afasie mi ha, in effetti, fornito un punto di partenza. Contiene una memorabile evocazione di ciò che Jacobson chiama ‘l’apice del balbettio’: uno stato […] in cui non si può porre alcun limite alle capacità fonatorie del borbottio infantile. In questo stato, per quanto riguarda l’articolazione, gli infanti sono capaci di tutto. Pur non parlando ancora, possono già produrre qualsiasi lingua umana, il tutto senza il minimo sforzo. Tanto più sorprendente, nota Jacobson, è il fatto che, “quando il bambino passa dallo stadio prelinguistico all’acquisizione delle prime parole, perde interamente la sua capacità di produrre dei suoni”. Non solo non può più produrre quei suoni contenuti nel suo balbettio che non servono nella sua nuova lingua, ma molti suoni comuni al balbettio infantile e al linguaggio adulto spariscono anch’essi, ora, dal repertorio linguistico dell’infante. Solo a questo punto può dirsi veramente iniziata l’acquisizione di una singola lingua. Il mio libro Ecolalie inizia con alcune riflessioni su questo evento che […] costituisce una sorta di mito dell’origine del linguaggio. Come ogni mito, anche questo suscita delle domande. Che cosa succede ai molteplici suoni un tempo emessi facilmente dall’infante? E che cosa ne è stato dell’abilità – che possedeva prima di apprendere i suoni di una singola lingua – di produrre quelli contenuti in tutte le lingue? È come se l’acquisizione del linguaggio fosse possibile solo attraverso un atto di oblio, una sorta di amnesia linguistica infantile (o amnesia fonica, dato che ciò che l’infante sembra dimenticare non è il linguaggio, ma una capacità infinita di articolazione). Forse l’infante deve dimenticare le infinite serie di suoni che poteva un tempo produrre ‘all’apice del balbettio’ per padroneggiare il sistema finito di consonanti e vocali che caratterizza una singola lingua. Forse la perdita di un arsenale fonetico illimitato è il prezzo da pagare per ottenere i documenti che gli garantiscono piena cittadinanza nella comunità di una singola lingua”.
Questa parole mi sono tornate in mente mentre assistevo alla proiezione di Hear and Now, al quale sembravano adattarsi in maniera perfetta, al di là delle (tante) differenze del caso.
Sono, in un certo senso, la descrizione del momento di una scelta, per quanto involontaria, della dismissione di una particolare capacità in presenza della quale sarebbe forse impossibile acquisirne un’altra, necessaria e propedeutica allo sviluppo di competenze ulteriori.
È necessario abbandonare, dimenticare il possesso di tutti i “suoni” per accedere a una lingua finita e condivisa. Una declinazione specifica della più generale necessità di abbandonare qualcosa (di sé e non solo) per poter aver accesso alla vita sociale.
Hear and Now è un documentario sulla storia dei genitori della regista, Paul e Sally Taylor, entrambi sordi dalla nascita, che decidono di sottoporsi all’età di sessantacinque anni all’applicazione di un impianto cocleare, un’operazione che potrebbe dar loro la capacità di udire. Il film è un ritratto intimo che segue il viaggio dei due coniugi da un “confortevole” mondo di silenzio a un nuovo e complicato mondo di suoni. Il legame di parentela tra la regista, Irene Taylor Brodsky, e i protagonisti ha consentito una vicinanza estrema della telecamera a Paul e Sally e un accesso fluido, mai artefatto, all’intimità dei corpi e degli spazi della realtà filmata. L’appuntamento con un’operazione potenzialmente destabilizzante fornisce l’occasione per “aprire” la narrazione a momenti di ricordo spesso incredibilmente densi: il racconto di quando Sally smise di cantare alla figlia ancora bambina essendosi accorta che quest’ultima cominciava a percepire come anormale, o non completamente conformi alla normalità, la sua voce e, con la voce, la madre in sé. O il ricordo di quegli eventi della vita quotidiana che rivelavano progressivamente alla regista la vulnerabilità dei propri genitori, nonostante la loro capacità di adattarsi ottimamente alle “regole” del mondo.
Ancora, le sequenze in cui Paul e Sally rivivono il passaggio, traumatico per entrambi, dalla scuola privata per sordi alla scuola pubblica per tutti.
O il ricordo delle invenzioni del sig. Taylor, come il videotelefono, che permetteva ai due coniugi la lettura del labiale e quindi di stabilire comunicazioni e contatti a distanza: una sorta di “scoperta” della distanza, della non-prossimità.
Il film può essere letto anche come il racconto di una storia d’amore che, a un certo momento, deve affrontare un ostacolo e, insieme, sperimentare una possibilità, entrambi frutto di una scelta volontaria condivisa, che riguarderà, forse con esiti diversi, i due protagonisti: in ultima istanza, essi non sanno come usciranno da questa prova, da questo tentativo, tanto singolarmente quanto come coppia. Hanno sempre condiviso la stessa condizione di sordità, hanno condiviso la scelta di operarsi, ma non sanno se condivideranno le stesse condizioni di vita successive all’operazione, non sanno se sentiranno allo stesso modo, se reagiranno allo stesso modo.
Ma, al di là degli aspetti legati alla vita della coppia, l’approssimarsi dell’operazione, del cui esito definitivo non sappiamo niente fino alla fine del film, coincide con il sorgere di numerosi dubbi da parte della regista e dei diretti interessati: come si trasformerà la relazione tra loro e con i propri figli? Cosa potranno guadagnare o perdere per sempre? Cosa saranno Paul e Sally dopo l’intervento? Sordi che sentono? Sordi e non sordi allo stesso tempo?
È a questo punto che il ricordo delle parole di Heller-Roazen si fa attuale e applicabile al documentario: così come l’infante deve “dimenticare” per “acquisire”, allo stesso modo il problema principale per i coniugi Taylor non è tanto la riuscita tecnica dell’operazione chirurgica, quanto la loro capacità, una volta inserito l’impianto cocleare, di imparare a udire. I signori Taylor non sono bambini, ma, come il bambino che inizia a parlare per la prima volta, così loro si apprestano a udire per la prima volta, a quasi settant’anni d’età, e questo comporta difficoltà ancora maggiori nella gestione e nel processo di conoscenza dei suoni.
Perché udire è innanzitutto imparare a non-udire quello che non si vuole o non si può, è la capacità di sapersi sintonizzare su quello che si vuole, di selezionare tra i suoni e i rumori, di scegliere un flusso sonoro tra i tanti compresenti. Non è sufficiente poter udire, occorre saper udire. Dobbiamo imparare a non udire tutto per sentire qualcosa. Il destino dell’uomo, almeno in questo mondo, non è l’onnipotenza…

Hear and Now
Durata: 84’
Regia: Irene Taylor Brodsky
Montaggio: Irene Taylor Brodsky, Geoff Bartz (Supervising Editor)
Fotografia: Irene Taylor Brodsky, Crofton Diack
Musica: Original Music by Joel Goodman
Suono: Michael Gandsey
Produzione: Irene Taylor Brodsky, Eve Epstein (Senior Producer), Sheila Nevins (Executive Producer, HBO), Sara Bernstein (Supervising Producer, HBO)
Nazionalità: USA
Anno: 2007

Presi dall’aria, coricati sui sedili dell’aria

Nell’Ottocento la fotografia psichiatrica produceva, per volontà degli psichiatri (o alienisti, come al tempo venivano chiamati), immagini destinate alle gazzette scientifiche che ritraevano i volti e i corpi di isterici e depressi per poterli catalogare poi come dementi, schizofrenici, etc. Anche attraverso la pretesa oggettività indagatoria e la trasparenza del mezzo e del prodotto fotografico si cercava di scovare, catturare la follia, determinarne una sorta di iconografia e, quindi, metterla alla prova, incriminarla.
Successivamente, il cinema e la fotografia che si sono occupati dell’istituzione manicomiale hanno sempre cercato di mostrare i segni, la cifra di quella istituzione, e delle politiche e delle idee a essa sottese, attraverso i corpi e i volti degli “internati”: in alcune scene di “Changeling” Clint Eastwood cita secondo questi canoni alcuni episodi del cinema c.d. manicomiale, e andando a ritroso si potrebbe ricordare “Bedlam”, scuro e orrorifico film di Mark Robson con Boris Karloff del 1946.
Ancora, vengono in mente le fotografie di Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, scattate nel 1968, che denunciano la condizione dei manicomi e cercano di dare visibilità e rilievo alle drammatiche “distorsioni” di tale condizione attraverso la fisicità della sofferenza e della costrizione. Il corpo come testo spudoratamente eloquente, leggibile. Un ribaltamento dell’uso dell’immagine che, se là serviva a “denunciare” e incriminare la follia e giustificarne l’isolamento, la costrizione, la censura e la distruzione, qui ne mette in risalto la costruzione sociale, e denuncia piuttosto l’istituzione, la legge, la scienza.
“Aria” di Francesco Migliorino sceglie un’altra modalità di rappresentazione: già il titolo suggerisce che il film agisce su un piano del tutto diverso. È un film fatto di vuoti, di ribaltamenti del vuoto, che riempie l’immagine per sottrazione, ma riesce a non essere banalmente evocativo. Questi vuoti pesano eccome e, se possono anche essere luoghi di pensieri e associazioni “libere” dello spettatore, danno da soli un ritratto talmente efficace da non necessitare dell’interpretazione “creatrice” del nostro occhio e del nostro intelletto. I quali, semmai, restano quasi inermi, silenti di fronte al mistero (non saprei come altro definirlo) che il documentario crea. Forse involontariamente; comunque in modo inesorabile.
Il film racconta le voci, le scritture e le immagini del passato del manicomio penitenziario di Barcellona Pozzo di Gotto.
Lo fa riprendendo, e montando in successione, fotografie risalenti agli anni ’30 di stanze vuote dell’istituto penitenziario e sovrapponendo a esse le parole delle lettere scritte dai detenuti e delle incontestabili relazioni mediche degli psichiatri, che quasi emergono dalle pareti, dagli strumenti, dagli oggetti filmati e risuonano nel vuoto delle camere e dei corridoi. Ne smascherano gli intenti, lo “ripopolano”…
Proprio così: le parole creano un cortocircuito nel meccanismo pacificante, scientifico, quasi consolatorio di quei vuoti. Lo smascherano, e, insieme con esso, smascherano la consolazione che noi stessi vi trovavamo e vi troviamo tuttora, il nostro bisogno di sicurezza (declinata come incolumità fisica e morale o altro ancora), la nostra paura della diversità. Le deleghe che concediamo agli specialisti perché si occupino per conto nostro di allontanare l’alterità dalla vista, dall’udito, dalla riflessione. Quello che ancora oggi si ripropone con stranieri, poveri, marginali. Le deleghe nella definizione di rappresentazioni invece già nostre, della cui costruzione siamo stati partecipi.
Torniamo alle immagini fotografiche sulle quali il film è costruito: quel che davvero colpisce è la pressoché totale assenza dell’essere umano, del vivente. Ma da questa insistita reticenza, da questo falso pudore, emerge quel che Migliorino stesso definisce il “congegno” che ha reso possibile ogni singola storia (dei detenuti del manicomio), ma che nella sua forma astratta avrebbe potuto accoglierne mille volte tante di storie simili a quelle che ha veramente raccolto.
Il film è diviso in brevi capitoli, i cui titoli contestualizzano gli oggetti sullo schermo o suggeriscono una lettura della successione delle immagini: “Classificare”, “Effetti di invisibilità”, “Il padrone della follia”, “Bonifica umana”, “Interno esterno”, “I sedili dell’aria”.
Il primo, “Classificare”, ci introduce a una serie di quadri con primi piani dei detenuti: le immagini si fanno progressivamente sfuocate, come a dire che classificare è sfumare, non mettere a fuoco e inevitabilmente, colpevolmente perdere. Generalizzare è perdere; togliere sostanza, distanziarsi dalle cose.
È il nodo concettuale del film: il manicomio non classifica individui nella loro concretezza, ma classifica individui secondo parametri che servono al funzionamento del manicomio stesso. Il manicomio si nutre della classificazione che attua. Scrive Franca Ongaro Basaglia nell’introduzione a Per non dimenticare: 1968 la realtà manicomiale di “Morire di classe” : “Ma è davvero la faccia della malattia quella che si incontra fra le mura del manicomio, dietro quelle grate, o è la faccia prodotta dall’istituzione?”.
Che pazzia approdava nei manicomi? Ogni forma di pazzia, o piuttosto quella, presunta, di poveri, diseredati, esclusi, reietti? E il degrado, l’abbrutimento, lo stato di annientamento dei malati non era forse prodotto dalla violenza imperscrutabile (come i vuoti asettici di Migliorino) dell’istituzione più che dalla malattia in sé? Il quarto capitolo di “Aria”, “Bonifica umana”, risponde attraverso le parole di un “uomo scienziato”: “Il problema penitenziario diviene un problema di bonifica umana, non meno necessario e urgente della bonificazione della terra. Ogni processo di disinfezione, affinché sia completo e duraturo deve constare di due tempi: l’accantonamento del materiale settico e la sua sterilizzazione. Dove va a finire il materiale umano settico separato che sia dal corpo sociale? A quale trattamento viene sottoposto affinché diventi effettivamente sterile? Occorre studiare i delinquenti per conoscerli; occorre conoscerli per governarli razionalmente; occorre governarli razionalmente per bonificarli; occorre bonificarli per utilizzarli. Il manicomio criminale è il policlinico della delinquenza”.
Migliorino non offre alcuna visione “romantica” della malattia, della pazzia, ma contribuisce a definire con più chiarezza un dato che dovrebbe essere indiscutibile: per sperare di incontrare la malattia è prima necessario affrontare la violenza, la crudeltà, l’autoreferenzialità dell’istituzione manicomiale, l’annientamento sistematico della persona da essa perseguita. E, ancora prima, è necessario affrontare la psichiatria che scientificamente, asetticamente avalla quell’istituzione e la società che ne richiede l’esistenza e ne avverte la necessità per mantenere l’“ordine”. Ai modelli di pensiero seguono strumenti, pratiche, processi, involuzioni, “errori”…
“Aria” è un film che ci invita a scoprire, nelle immagini che mostra e in ogni altrove, l’eloquenza del silenzio, l’evidenza nell’assenza e, ripeto, dice di noi e ci interroga, ci chiama in causa come potenziali rei incolpevoli.

Aria

Voci scritture immagini dal manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto (Italia, 2008)
Durata: 25’
Regia: Francesco Migliorino
Musica: John Cage, Dream (1948), In a Landscape (1948)
Eseguita da: Stephen Drury
Album: In a Landscape: piano music of John Cage (1995), BMG Records
Voci: Antonio Rapisardi
Immagini: Archivio OPG Barcellona Pozzo di Gotto, Archivio Prof. Aldo Madia, Barcellona Pozzo di Gotto, Archivio OPG Aversa
Editing video: Biagio Teseo
Editing audio: Luigi Sambito

Etica ed estetica delle immagini: quando film e fotografia si incontrano

Di Luca Giommi

The time of her life di Benedetto Parisi è un oggetto prezioso e particolare. Perché sa provare il piacere di farsi investire e in-formare dall’oggetto che riprende tanto quanto è necessario per riuscire a raccontarlo; a dialogare con esso, senza mai sacrificarlo in nome di un malinteso e sovrabbondante intento artistico. E non retrocedendo tanto da lasciare il campo libero a un’espressione immediata di sentimenti.
In questo senso il film di Benedetto Parisi è un perfetto esempio di stile, se per stile intendiamo non un semplice ornamento del pensiero, ma un modo di essere, la scelta tra tante possibilità, tra una serie di alternative. Non c’è stile dove c’è n’è uno solo, uno stile emerge solo dal confronto, un confronto non astratto, ma piuttosto in situazione. E in questo caso Parisi accetta di fare i giusti passi indietro e di lasciarsi guidare dall’oggetto che intende rappresentare, senza per questo rinunciare a se stesso e alla sua idea di documentario.
Il film prende spunto dalla pubblicazione dell’omonimo libro fotografico realizzato da Leslie Mc Intyre (The time of her life, Roma, Ed. Contrasto Due, 2004), contenente ritratti di sua figlia, Molly, nata con una grave anomalia muscolare, scatti che documentano i quattordici anni di vita vissuti da Molly.
Il film, però, non parla delle fotografie di Leslie, semmai ne fa una parte della struttura narrativa stessa del film. Non le tratta come momenti autonomi, ma come elementi che si inseriscono nella narrazione del documentario, che interagiscono con le immagini filmiche, creando particolari stati emotivi, attimi di pieno o di sospensione. Davvero di questo film colpisce la naturalezza con cui riesce a riprodurre e testimoniare la presenza e la vitalità di parti in dialogo tra loro: in primo luogo quello del regista con Leslie Mc Intyre; poi, quello, passato e presente, di Leslie stessa con la figlia, attraverso le parole, i ricordi e i documenti fotografici; ancora, quello del documentario stesso con le fotografie di Leslie…
Piuttosto il film è la storia di Leslie (di cui vengono ripresi anche attimi di vita quotidiana, dal macellaio, in cucina, nel suo studio fotografico…), la quale racconta del suo momento presente e della sua esperienza passata, del suo rapporto con la figlia e a volte semplicemente di sua figlia, appoggiandosi ai tanti oggetti conservati, ai tanti luoghi frequentati insieme e, appunto, alla forza, allo stesso tempo documentaria, narrativa ed evocativa, dei ritratti fotografici. A volte Leslie divaga, e allora parla della sua famiglia, di sua madre… È un racconto in cui le vicende, le storie personali si intrecciano, non ci sono momenti separati uno dall’altro.
Il documentario sceglie come scenografia i luoghi che madre e figlia erano solite frequentare, risultando quasi un viaggio, non sempre indolore, alla riscoperta di questi stessi luoghi (il giardino pubblico, il parco accessibile vicino alla scogliera gallese…). Se in quei posti Leslie non tornava da anni, in un momento del film lei stessa racconta di come, cercando una nuova casa anni dopo la morte di Molly, girasse quartieri su quartieri e finisse per tornare sempre in quello di partenza. La macchina da presa “segue” gli spostamenti di Leslie che tendono, inevitabilmente a tornare al punto di partenza. Dove infatti ha scelto di vivere attualmente, e dove può capitare di incontrare i vecchi amici di scuola di sua figlia, cresciuti, con i loro progetti e le loro aspirazioni. Con il rischio, e il piacere, di immaginare Molly a quell’età. Lo stesso accade con una fotografia in cui Molly è ritratta di spalle e sembra “una giovane donna. Potrebbe voltarsi e avere vent’anni. Ti sembra di vedere la giovane adulta che sarebbe diventata. È piuttosto difficile per me guardarla: riguarda il futuro che avrebbe potuto avere”. Una qualità, quella di restituirci grumi di tempo, condense di passato, presente e futuro, intrinseca alla fotografia stessa.
Subito dopo, Leslie, a partire dalla forte fisicità dello stesso ritratto, ci parla di come abbia sempre cercato di dare a Molly fiducia nel corpo che aveva, nonostante la sua disabilità. Anche creando (e ritraendo) momenti di distanza, di separazione, in cui la figlia è lontana dalla madre e si muove in una solitudine piena e autonoma.
Il film di Parisi, lentamente, come se passasse al setaccio parole e immagini per trattenere soltanto le più essenziali, riesce a restituirci il tenore dell’esperienza di Leslie. Si avvicina all’oggetto con la dolcezza di chi sa di poterne dare solo un racconto parziale, senza arroganza e invasioni di senso che cerchino di riempirlo con interpretazioni esterne. In altri termini, non ricorre all’accumulo informativo e visivo, ma arriva al risultato (a un risultato) per sottrazione. Un approccio contrario sarebbe stato eccessivo anche a livello visivo, perché avrebbe restituito una eccessiva ridondanza di immagini. Già, infatti, i documenti fotografici sono così perfetti nel ritrarre e testimoniare la vertigine del tempo e delle vicende passate che qualsiasi aggiunta prepotentemente artistica da parte di Parisi avrebbe creato una sorta di cortocircuito insostenibile. A scapito, peraltro, dello stesso scopo documentario, di narrazione, del suo lavoro.
Un film etico, quindi, perché sa rinunciare a ogni ridondanza, scansa il rumore e ci consegna l’essenziale, il fondo, i momenti, i passaggi, la straordinaria esperienza materna di Leslie.
Questa necessità di selezionare eticamente le immagini è la stessa che ha guidato la signora Mc Intyre nella selezione delle fotografie da inserire nel libro The time of her life. C’è un momento, nel documentario, in cui Leslie racconta la difficoltà di scegliere se utilizzare o meno una fotografia, non in base alla sua resa estetica e artistica, ma in base alla capacità o meno di rispettare la dignità di Molly.
L’eticità delle immagini è essenzialmente una funzione del modo in cui queste vengono concepite e realizzate, ma anche di quello che ritraggono, soprattutto se l’intento è quello di documentare la dignità di una persona e della sua esperienza.
Mostrando una fotografia in cui Molly, seduta a terra al sole, assomiglia davvero a un piccolo Buddha che medita, Leslie commenta, con molta semplicità: “Non ti aspetti che una persona disabile possa essere così bella. Non è quello che le persone si aspettano”. Ma attenzione: l’arte, in questo caso, non crea un artefatto, ma svela una realtà oscurata, poco conosciuta, ignorata. L’arte intrattiene un rapporto instabile con la realtà: se ne lascia riempire, la può alterare, ma può anche più cautamente svelarne e metterne in luce aspetti non evidenti. E agire su di essa.

The time of her life:
Ideazione e regia: Benedetto Parisi
Anno di produzione: 2007
Durata: 43’
Tipologia: documentario
Con: Lesley Mc Intyre
Fotografia: Silvia Falanga – A.I.T.R.
Montaggio: Benedetto Parisi
Edizione e assistenza montaggio: Sara Baldini
Supervisione al montaggio: Babak Karimi
Sceneggiatura: Benedetto Parisi
Musiche: Enrico Baldini, Giorgio Parisi, Benedetto Parisi
Traduzioni: Tiziana Iop
Produzione: Aditi di Udine

La grammatica dell’integrazione

Di Luca Giommi

Realizzato all’interno di “E-Vocare”, progetto rivolto a operatori sociali coinvolti in processi di integrazione e riabilitazione e impegnati a rendere possibile la partecipazione sociale delle persone limitate nella possibilità di comunicare, il film Non voltarmi le spalle di Fulvio Wetzl è, allo stesso tempo, un valido strumento didattico e di sensibilizzazione sulle tematiche legate alle diverse abilità e un lavoro formalmente riuscito. Peraltro, un lavoro didattico che non risulta mai didascalico.
Come spiega Roberto Bombardelli (sceneggiatore della pellicola e insegnante di pedagogia presso l’Istituto “Don Milani-Depero”) questo film nasce dalla convinzione che il mezzo-cinema sappia rispondere appieno a una duplice necessità: da un lato, quella di legare insieme e “contenere” un discorso, una serie di esperienze professionali e formative che, col passare degli anni, rischiavano di risultare frammentarie; dall’altro, quello di fornire un documento, una testimonianza che potesse essere, in seguito e anche da altri, riesaminata, riverificata e, semmai, criticata. Un’idea tutt’altro che statica e acritica del ruolo di docente, per cui riorganizzare la storia (propria e altrui) è, allo stesso tempo, momento di verifica e strumento per un lavoro (proprio o altrui) futuro.
Il film racconta un’esperienza reale di integrazione scolastica all’interno dello stesso Istituto professionale “Don Milani-Depero” di Rovereto e gli attori sono quasi tutti studenti della scuola, ma senza ricorrere alla forma documentaristica. Anzi, le potenzialità che la finzione offre (l’uso metaforico e allegorico delle immagini, i parallelismi di senso che l’accostamento di sequenze apparentemente autonome può creare, ecc.) vengono sfruttati a pieno, fino a farne l’elemento caratterizzante del film. Abile ad aprirsi a descrizioni indirette di quanto avviene. A volte, non affrontare il reale con strumenti denotativi è un modo per incidere ancora di più su di esso e per descrivere in profondità lo stato e il movimento di cose e di anime…
Da qui la mise en abîme della vicenda del gatto Nuvola, che a livello basso (anche spazialmente) replica le vicende e le difficoltà a integrarsi, a “ritrovarsi” di Anna, ragazza sorda, nella sua nuova classe di Rovereto, nella quale entra ad anno e percorso scolastico già iniziati. Come il gatto, che fugge di casa perché spaventato da cani che abbaiano in televisione, dapprima è guardingo, timoroso e, quindi, aggressivo e solo, così Anna fatica a trovare una sintonia con il mondo esterno, che sembra restio a riadattarsi, a riformularsi, a “fare la sua parte” (così come Anna a fare la sua). Un contesto in cui, come dice nel film l’insegnante di sostegno chiamata per aiutare Anna, la scuola funziona e la realizzazione dei bisogni è garantita più che altrove; ma un contesto che fatica a farsi carico della soddisfazione dei desideri, senza la quale “l’integrazione” è una condizione imparziale, “deficiente”, nominale. Un termine semivuoto, come racconta la sequenza in cui, con l’uso di ralenti e velocizzazione di immagini e suoni deformati, ci si fa gioco di una riunione d’équipe, in cui i presenti, discutendo delle difficoltà che la presenza dell’alunna sorda comporta, utilizzano termini iper-tecnici che, nello sforzo di analizzare scientificamente la realtà, ne trascurano proprio la dimensione reale, finendo per eluderla.
La licenza cinematografica viene creativamente sfruttata anche nella sequenza della visita della classe al MART di Rovereto, tra quadri che Anna e l’insegnante di sostegno si divertono a interpretare come allegorie del rapporto conflittuale tra Anna e la classe: in particolare, commentando un quadro di Renato Guttuso e uno di Piet Mondrian.
La sceneggiatura è, però, attenta a non creare una contrapposizione netta tra normalità e disabilità, tra pensiero normale e pensiero “disabile”: chiamati a svolgere un ragionamento su diversità e disagio a partire da un fatto di cronaca relativo a un cittadino immigrato, i compagni di classe hanno modo di apprezzare le righe scritte da Anna, e di accorgersi di lei quasi per la prima volta; ma vengono lette anche le interessanti composizioni di altri ragazzi. Anna potrebbe essere in una condizione privilegiata per affrontare un tema simile, ma, in verità, i pensieri dei ragazzi colgono e approfondiscono, tutti, una parte della verità sul tema. L’approccio alla diversità è un approccio che necessita di diversità.
C’è, insomma, un’attenzione continua a non contrapporre due mondi, e a sottolineare, piuttosto, la necessità di cercare i momenti di condivisione, il denominatore comune, a unificare nella differenza.
Il film, sottraendosi a un vizio comune a tante produzioni di finzione, ha proprio il pregio di evitare, da un lato, la rappresentazione emblematica della disabilità, che astrae la stessa dalle vicissitudini del reale; dall’altro, la rappresentazione di un disabile eccezionale, quello che non si incontra mai nella vita di ogni giorno. Questo permette alla vicenda di sviluppare in modo convincente una delle intenzioni principali di chi ha lavorato al film, quella di ragionare sul desiderio di essere desiderati. Che noi tutti, soggetti desideranti e oggetti di desiderio, esprimiamo.
Il desiderio comporta sempre una compresenza, l’esistenza (anche come ipotesi) di almeno due termini diversi. Sarebbe ottuso e narcisistico desiderare qualcosa che ci assomigli in tutto. Il desiderio comporta, quindi, una relazione tra almeno due entità o soggettività.
Questa idea di “comunicazione” torna spesso all’interno della vicenda sotto forma di filastrocca aneddotica, “Ciao miao” (con testo di Gianni Rodari), la quale viene presentata per la prima volta all’interno del film con una bella sequenza di primi piani di bocche di un coro che ne emettono (sonoro) e ne “articolano” (visivo) le parole. E c’è sempre un gatto di mezzo: Un signore di nome Stanislao,/ incontrò un gatto e gli disse ciao./ Il gatto tra sé pensò/ “Che ignorante però! /Non sa nemmeno dire bene MIAO”. Che riflette bene (e in modo fulmineo) su due aspetti imprescindibili: il riconoscimento reciproco dell’esistenza di codici plurali, diversi e la necessaria bidirezionalità di ogni processo di integrazione-comunicazione.
Da ultimo, una nota tecnica: il film è sottotitolato per spettatori non udenti e, in certi punti, per spettatori udenti, dal momento che taluni dialoghi risulterebbero incomprensibili a coloro che non conoscono la lingua dei segni.
Questo comporta che parti della sceneggiatura compaiano a descrivere con precisione le caratteristiche di alcune scene (ad esempio: “Il telefono squilla”, “Voce in flashback”, “Reazione di paura dei ragazzi”) e che, nei dialoghi, i sottotitoli abbiano colori diversi a seconda di che attore-personaggio prende la parola. Il film, quindi, potrebbe essere visto senza il sonoro. A me, a volte, ha ricordato il cinema “muto” in cui regia, espressività, un modo diverso di recitare ed esprimersi con il corpo e sottotitoli sporadici non solo ovviavano alla mancanza di suoni, ma creavano e rielaboravano codici comunicativi con una grammatica e un lessico propri. Un cinema, quello muto, di natura “accessibile”.

Non voltarmi le spalle
Durata: 71’
Dal soggetto “Ciao Miao”di Roberto Bombardelli, Maria Pia Oliviero, Valeria Vaiano, Fulvio Wetzl
Regia: Fulvio Wetzl
Sceneggiatura (studenti e studentesse del corso): di Alice Campedelli, Martina Codato, Valentina Copat, Sara Iori, Monica Marino, Valentina Maroni, Francesca Marzadro, Lisa Peder, Luca Pizzini, Valentina Rigo, Serena Secchi, Michele Segatta, Andrea Vanzo, Francesca Vassallo, Silvia Veneri, Elia Vigagni, Roberto Bombardelli, Maria Pia Oliviero, Valeria Vaiano, Fulvio Wetzl
Attrici protagoniste: Stefania Pedrotti (classe quarta del Liceo “Antonio Rosmini” di Rovereto), Valeria Vaiano
Altri interpreti: Gianluigi Fait, Dalila Ragusa, Demetrio Martino, Roberto Pennazzato, Anna Lorenzetti, Maria Pia Oliviero, Roberto Bombardelli, Silvia Pavan, Lucia Agostini, Andrea Codato, Sara Trainotti, Anna Belmonte, Gisella Trainotti; Corale E-Vocare (creata per l’occasione all’interno dell’Istituto e diretta da Silvia Pavan), … il gatto Max.
Montaggio digitale: Fulvio Wetzl, Nicola Cattani, Elia Bombardelli effettuato presso il laboratorio di montaggio dell’Istituto “Don Dilani-Depero” di Rovereto
Logistica e organizzazione: Maria Pia Oliviero
Musiche di Ravel, Puccini, Musorgskij, Vigagni, Soresina
Contributi musicali e vocali: Compagnia cantante “Ginguruberu”, Gruppo di ottoni “Gli sfiatati”, Gruppo Funky Boutique, Corale E-vocare
Istituto “Don Milani-Depero”: tel. 0464/48.55.11

Recitare se stessi, senza recitarsi

Di Luca Giommi

“Castello Servizi” (Società Cooperativa Sociale ONLUS) produce corti cinematografici da dieci anni ormai e, nel 2006, per la terza volta si è aggiudicato il 1° premio al “Festival del Cinema Nuovo” di Gorgonzola (MI), concorso internazionale di cortometraggi che prevedano la partecipazione di disabili di comunità, centri diurni o residenziali e associazioni.
Proprio per la sua decennale pratica cinematografica, ci è sembrato interessante approfondire alcune questioni con il regista, Natalino Maggioni, che ha curato la realizzazione dei cinque lavori prodotti fino a ora. Ci sarebbe piaciuto raccogliere anche le risposte di alcune persone disabili della Coop. Castello che in questi anni hanno preso parte alla realizzazione dei film, ma per ragioni di spazio e tempo non è stato possibile.
Quello della Coop. Castello è un’esperienza tra tante, con caratteristiche proprie che non possono essere generalizzate e applicate ad altre. In generale, però, il mezzo-cinema viene sempre più utilizzato per scopi terapeutici o per creare la possibilità, per le persone disabili, di vivere esperienze impegnative, gratificanti e coinvolgenti.

Come è nata l’idea di impegnare la cooperativa e le persone che vi lavorano (disabili e normodotate) in attività cinematografiche? È un’iniziativa mutuata da altre esperienze italiane ed estere di cui siete venuti a conoscenza? È un’idea nata dagli stessi disabili?
L’idea di produrre dei film è nata insieme al “Festival del Cinema Nuovo” di Gorgonzola, al quale ci propose di partecipare il fondatore stesso, il dott. Romeo Della Bella. La prima edizione del festival e, quindi, il nostro primo lavoro, è del 1997. Il festival, al tempo, era ancora di livello regionale, adesso è un festival internazionale. La proposta del dott. Della Bella è stata accolta dagli educatori della cooperativa, e successivamente avanzata ai ragazzi disabili. Prima del 1997 avevamo utilizzato la telecamera per documentare alcune uscite residenziali o sul territorio in modo scherzoso e divertito. In realtà non erano semplici documentari, perché già inserivamo elementi di fiction.

Il visivo, le immagini, nel momento in cui vengono fruite, quindi da spettatori, hanno spesso un potere, una forza (evocativa, emotiva, sensoriale…) enormi, un potere anche “terapeutico” innato. Ma partecipare alla realizzazione di un film è cosa diversa. L’idea di realizzarne con persone disabili risponde a esigenze e scopi terapeutici? Se sì, in che senso questa attività può essere terapeutica? E a che livello la terapia funziona meglio: al livello dell’attività recitativa, a quello della partecipazione alla stesura della storia, della sceneggiatura o ad altri livelli ancora?
L’attività del nostro centro non è di terapia diretta. L’approccio alla disabilità è di tipo psicologico più che pedagogico; ovviamente, c’è il rispetto dell’età cronologica delle persone con disabilità. Quindi, il lavoro cinematografico non è stato pensato come attività terapeutica, ma come attività volta al benessere generale, che dia la possibilità alle persone disabili di esprimersi con la recitazione e di impegnarsi insieme per un progetto. Un’attività che sia gratificante: il piacere di (ri)vedersi sul grande schermo, l’opportunità di presentare il film all’esterno e di ricevere degli applausi. Aspetti tutt’altro che secondari, a nostro avviso.

Il film, il cinema, più di altre forme artistiche, è un prodotto culturale collettivo. La produzione di un film richiede tanti passaggi, la collaborazione di tante competenze e abilità, anche se l’avvento della tecnologia digitale può attenuare questa caratteristica del fare cinema. Le persone disabili prendono parte a tutti i livelli della creazione del film, o recitano solamente? E in che senso e in che proporzioni le loro diverse abilità aggiungono qualità e peculiarità al lavoro? O, meglio, cercate di evidenziare e far emergere in tutte le fasi della produzione la diversità, la molteplicità di queste abilità?
Le persone con disabilità che frequentano il nostro centro hanno deficit intellettivo grave o medio-grave, e non sarebbe semplice coinvolgerle in molti momenti della lavorazione del film. È comunque una scelta precisa quella di farli solamente recitare. Loro si esprimono nel ruolo e nell’attività di attori.
La sceneggiatura la penso io stesso.
Dal punto di vista tecnico, a volte per la post-produzione, i suoni, la colonna sonora e gli effetti speciali (utilizzati soprattutto in Ahia l’amore) ci rivolgiamo a collaboratori esterni. Nella cooperativa non c’è un laboratorio cinematografico, perché l’attività di produzione dei cortometraggi non rientra tra le attività ordinarie del centro. Noi lavoriamo sul film, e con l’attività cinematografica in generale, solo nel periodo necessario alla sua realizzazione.

Come si distribuiscono i ruoli, le parti nel film? Se non sbaglio, qualche attore torna più spesso in ruoli da “protagonista”. Che peso date alle capacità strettamente recitative nella distribuzione delle parti? Vi chiedo questo pur avendo notato che i vostri lavori sono molto corali.
Come dicevo, i soggetti dei cortometraggi sono pensati e studiati da me, e quando immagino i personaggi e le loro caratteristiche penso sempre alle caratteristiche e alle capacità dei ragazzi disabili che dovranno interpretarli. I soggetti, quindi, sono disegnati su di loro. Mi chiedo sempre come si avvicini un determinato ruolo nel film al loro “essere” nella vita di tutti i giorni. Molti li conosco ormai da tanti anni.
Ovviamente tengo presenti anche le loro capacità strettamente recitative, attoriali.
Dopo la stesura del soggetto, della sceneggiatura, c’è una riunione plenaria, alla quale partecipano educatori e ragazzi disabili. È l’occasione in cui io racconto il progetto e distribuisco i ruoli. È una situazione “animativa”, perché racconto il film quasi recitandolo.
Non facciamo delle vere e proprie prove prima della registrazione. Preferiamo lavorare direttamente sulla location, il giorno stesso in cui avvengono le riprese. La versatilità della macchina da presa mi consente di “non chiedere troppo” agli attori. La macchina da presa si può muovere, si può ripetere la scena, riprenderla da diverse angolazioni e con diversi accorgimenti tecnici, selezionare le scene migliori, lavorare molto in fase di montaggio.
Con il teatro, che abbiamo praticato precedentemente in cooperativa, tutto questo non si può fare. Aggiungo che il cinema, in un certo senso, esalta le capacità recitative di un attore.

Ho notato, ma potrei sbagliarmi, che la disabilità nei vostri lavori non è trattata come tema, cioè le storie tendono a non tematizzare questo argomento So che esistono tanti modi per parlare di diversità (la fantascienza spesso dice cose molto profonde e interessanti su questo, apparentemente parlando d’altro…), ma non mi sembra di riscontrarlo nei vostri film. È una mancanza che sentite come tale? È una mancanza che cercherete di soddisfare in futuro? È una precisa scelta stilistica e concettuale?
I nostri cortometraggi sono tutti comici, e l’obiettivo è che sia ogni singola scena e, quindi, il film nel suo complesso a divertire e muovere alla risata, e non le persone che recitano. Noi non vogliamo che siano le caratteristiche “intrinseche” alle persone disabili a far ridere, quasi a “costringere” a ridere. Piuttosto è creare film che risulterebbero umoristici anche se recitati da normodotati.
A contrario di tanti film che parlano di disabilità e diversità, alcuni dei quali molto noti e nei quali spesso è un normodotato che interpreta la parte di un disabile, il “Festival del Cinema Nuovo” richiede che le persone disabili facciano gli attori, facciano fiction, in prima persona, non raccontando temi e “problemi” legati alla disabilità, ma esprimendo tutte le loro capacità, comprese quelle recitative.

Volendo correggere la domanda precedente, forse emerge una costante nella visione che i vostri lavori offrono della persona con disabilità: cioè che sono persone che, come tutte le altre, desiderano, sono soggetti desideranti. Desiderano filmare (fare arte) e stupirsi (L’oggetto misterioso), desiderano scoprire (L’ultimo caso del Commissario Marsel), desiderano amare (Ahia l’amore), ecc. Questi temi, della scoperta, dell’arte, del sentimento… sono da voi pensati come correlati e riferiti all’“universo” della disabilità o, quando pensate a una storia, la pensate in termini più svincolati e generali?
Essendo una nostra volontà precisa quella di non voler tematizzare la disabilità, l’approccio alla creazione di film è ludico e vuole privilegiare il piacere di creare una storia di finzione, di fare questa cosa insieme, di realizzare qualcosa seriamente ma divertendosi. Per questo motivo non cerchiamo particolari risvolti o sottintesi allegorici a livello di contenuto e senso del film.

Partecipate anche ad altri festival cinematografici, ad esempio il festival “Cinemabili” di Genova o il “Les Pom’s d’Or” in Belgio? Se sì, ci sono differenze tra questi festival per quanto riguarda i contenuti e la qualità dei lavori richiesti?
Il festival “Cinemabili” ci ha sempre “snobbato”, forse perché non usiamo la pellicola. Abbiamo anche provato a spedire i nostri lavori a “Filmmaker” [festival di cinema non-fiction di Milano, N. d. R.].
Abbiamo partecipato, oltre che al “Festival del Cinema Nuovo”, a rassegne nate a cascata dal festival di Gorgonzola, come “Hollywood” di Brescia e “Rose e gorgonzola” di Rovigo. Ma sono rassegne, non concorsi cinematografici.

Per saperne di più
I titoli: L’oggetto misterioso (1997); Un matrimoGNo da soGNo (2000); L’ultimo caso del Commissario Marsel (2002); Rosso di rosa (2004); Ahia l’amore (2006).
Castello Servizi – Società Cooperativa Sociale Onlus
Via Carcassola 4
20056 Trezzo sull’Adda (MI)
Tel: 02/909.06.64 – 02/92.09.12.71
E-mail: coopcastello@libero.it
Sito: www.coopsocialecastello.it