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autore: Autore: Giacomo Manzoli

L’uomo e il mostro

Il Frankenstein di Mary Shelley è una creatura umana, fin troppo; ha molte caratteristiche dell’eroe romantico e vive un rapporto drammatico con il suo creatore che porta lo stesso nome. Nel cinema è ormai un modello da cui molti registi prendono continuamente spunto. Dai film di Tim Burton a tutta una serie di mostri tecnologici.

"Anch’io dunque posso creare
qualcosa; la desolazione"
Mary Shelley

Il mostro di Frankenstein o i mostri di Frankenstein? La storia della letteratura ci parla di una sola creatura, partorita dalla fantasia di una Mary Shelley ventenne che avrebbe trovato, nel corso di un paio di secoli, centinaia di reincarnazioni, attraverso le più svariate forme artistiche, i generi, autori e interpreti diversissimi fra loro e i più improbabili adattamenti. Ma se si esamina il colosso messo insieme con pezzi di fortuna e animato con una scarica elettrica (la stessa che serve a giustiziare i condannati a morte…) nella prospettiva globale dei miti contemporanei, ci si deve arrendere all’evidenza che, da molti anni ormai, esistono perlomeno due grandi famiglie di Frankenstein: i Frankenstein di (o, per meglio dire, da) Mary Shelley e quelli di James Whale, autore della prima grande versione cinematografica del romanzo nel 1931. Non è dunque né casuale, né tantomeno pleonastico il fatto che l’ultimo film che vede il Mostro protagonista si intitoli per esteso Mary Shelley’s Frankenstein.

Il Frankestein di Mary Shelley

Entrambi hanno forti debiti con una tradizione precedente. Nel romanzo della Shelley si registrano influssi faustiani, qualche eco del Golem, nonché un esplicito rimando al mito di Prometeo, mentre per il film un referente forte è ovviamente il romanzo, con tutti i suoi successori.
Per cominciare ad addentrarci nella vicenda, conviene ricordare che la giovane signora inglese diede vita letteraria alla sua creatura, nell’estate del 1816 (come ricorda Ken Russell nel suo ottimo Gothic), durante una scommessa creativa fra intellettuali inglesi affascinati dall’horror.
Il suo romanzo ha forma epistolare, un tipo di letteratura molto in voga per un intero secolo (tale è anche il Dracula di Stoker). Un tipo di letteratura comoda da gestire per un non professionista (quale la Shelley) per la sua frammentarietà. Un genere di letteratura che regala ampi brividi sia a chi la esegue, perché costringe ad una identificazione totale con i personaggi scriventi, sia a chi la legge, per l’illusione di un "di più" di realismo.
Ma questo è solo il terreno su cui la vicenda si innesta. Il concime è dato dal clima fortemente romantico che impregnava la formazione culturale e la visione del mondo della sua autrice.
Per dare alcuni dati fondamentali, Frankenstein nasce da un sogno, è moderno e, soprattutto, è un Prometeo. Il Frankenstein di Mary Shelley è ambientato in una desolata landa fra i ghiacci, prevede personaggi archetipici che tuttavia instaurano fra loro rapporti complessi. Questo Frankenstein è uno scienziato che, come il suo contemporaneo Erasmus Darwin (che, si diceva, era riuscito a resuscitare dei vermi) si è messo in testa di carpire concretamente il segreto divino della vita, il sistema per animare (letteralmente, dare un’anima) un corpo. La sfida è titanica e perciò romantica, l’assunto di partenza di un’esasperato razionalismo positivista: l’atteggiamento generale di hubris e, come tale, verrà severamente punito.
La creatura che ne viene fuori è, per quanto sembri strano, umana, forse troppo umana. E’ creatura drammatica e, dunque, mostruosa nelle sembianze. Ma non ha nulla di bestiale o primigenio, non più di quanto ne abbia ciascuno di noi; il suo destino Š perfettamente iscritto nella storia. Ha una discreta intelligenza, apprende con facilità tutte le nozioni necessarie e ben presto si forma una sua visione freudiana delle cose: entra in competizione col padre, ci si rispecchia e sente il bisogno di interiorizzarne la morte. Soprattutto vuole una donna, è profondamente ferito dalla disattenzione di colui che gli è insieme padre e Padre, il quale non ha pensato a creargli una compagna. Del resto è abbastanza sveglio da capire che non basterà togliersi una costola per mettere insieme una partner e non disdegnerebbe qualche relazione edipica, se solo avesse una madre. Dall’altro lato, il mostro suscita nel suo creatore sentimenti contrastanti: affetto profondo, spirito di sacrificio, accessi di sindrome di Saturno, semplice orrore da sdoppiamento. Per Frankenstein, la creatura è tanto un figlio quanto un gemello oscuro, una proiezione che, infatti, non ha un nome proprio ed è costretto ad assumere quello del creatore. Una proiezione-ombra che non gli lascia un attimo di respiro ed è destinata a scomparire con lui.

La diversità nell’eroe romantico

Entrambi, comunque, incarnano perfettamente due lati fondativi del carattere dell’eroe romantico: l’avventuriero e il diverso.
Al contrario del mostro, il romanzo si rivela invece dotato di una vita indipendente dalla sua autrice, la quale farà in tempo a vedere in scena i prodromi del futuro Frankenstein, quello, appunto, di James Whale.
Il successo clamoroso del libro, infatti, diede il via ad una serie di sfruttamenti della vicenda e dei suoi protagonisti da parte di tutte quelle arti popolari, in primis il teatro, che si rivolgevano ai numerosissimi (allora come ora) non lettori e non leggenti (analfabeti).
Dopo alcune versioni più o meno fedeli, ci si comincia ad affrancare dalla schiavitù del testo di partenza. E’ la stessa Shelley, dopo aver assistito ad una rappresentazione del proprio romanzo, a lamentarsi per il primato dell’orrorifico, la mancanza di temi decisivi quali l’apprendistato, la solitudine, la febbre della curiosità. In pratica per la trasformazione del suo eroe da drammatico a esclusivamente minaccioso.
In effetti, già in teatro si assiste a una riduzione e ad una perversione della creatura originale in zombie o robot, si registra la presenza di attori destinati a caratterizzarne l’iconografia (Cooke), a vere e proprie parodie, a spostamenti talora improbabili, ad aggiunte e riduzioni.
Esiste perfino un Mostro animato tramite magia nera, un vero e proprio nonsense rispetto alla morale della favola. Ed è proprio dalla versione teatrale di Miss Peggy Webling che proviene il Frankenstein di Whale.
Prima di questo, le filmografie registrano un Frankenstein del 1910, il solo che sia rimasto, e un altro paio di versioni (una delle quali italiana) di scarso rilievo.
Paradossalmente, il mostro, che non ha nome ed è (al cinema) privo di parola, doveva aspettare il sonoro per affermarsi definitivamente, e non si può escludere che le grida gutturali della creatura abbiano contribuito al suo successo in modo sostanziale.
Il mostro di Mister Whale non poteva che essere di dimensioni colossali. Il suo campo di battaglia è un paesino gotico/balcanico ricostruito in studio. La vicenda viene asciugata fino all’osso e proprio per questo si rivela di assoluta efficacia.
Frankenstein crea il mostro. Il mostro è una belva feroce dotata a malapena di riflessi umanoidi. Il mostro fugge e devasta. Quando esagera viene fatto fuori.
Fra le righe: 1) Il mostro è frutto di un errore, il cervello usato non è normale ma criminale: dunque la materia prima ha un suo peso. 2) Il mostro è oggetto di tortura e incomprensioni, ha insomma un’infanzia difficile. Anche di qui la sua aggressività. 3) Il mostro è una forza della natura. Una volta messa in moto la si può arrestare solo col fuoco. 4) Il mostro è vittima della totale incomprensione da parte di tutti (a partire dal padre); il suo è un destino di emarginazione e linciaggio. 5) Il mostro è innamorato della propria (futura) madre.

Il Frankenstein cinematografico

Tutto questo è desunto dalle azioni del film: di sicuro il Frankenstein di Whale di romantico ha ben poco, anche se la dimensione del patetico non gli è estranea. A essere del tutto banditi sono l’introspezione e il macerarsi degli animi: la sintesi impera. Il nuovo Frankenstein è un Frankenstein cinetico, dinamico, non piatto ma apparentemente tale, terribile. Se il romanzo della Shelley è fatto principalmente dei sentimenti che seguono una sfida contronatura, il Frankenstein di Whale è un horror d’azione dai ritmi sincopati e dallo sviluppo elementare.
La fortuna della pellicola è tale che, non solo si assiste ad un proliferare ininterrotto di sequel, remake e parodie, ma anche di vere e proprie serie letterarie di derivazione cinematografica, come quelle firmate da Benoit Becker e Michael Egremont.
Bene, abbiamo parlato prima della modernità del Frankenstein di Mary Shelley, al quale, secondo la critica contemporanea, si deve la nascita della science fiction contemporanea. Tale è anche il Frankenstein di Whale, per ciò che riguarda il cinema; addirittura postmoderna già nell’assunto iconografico. Se una filmografia frankensteiniana in senso stretto spetta ad altri, può però essere interessante sottolineare la forza propulsiva che le due creature congiunte riescono ad avere nel corso dei decenni. Chi si prendesse la briga di un’analisi sistematica della vicenda si troverebbe di fronte, infatti, ad un’applicazione quasi metodica di tutte le possibili linee tematiche del Frankenstein a tutti i possibili contesti e circostanze. Gli esempi di questo imbastardimento del Frankenstein (che è anche un germogliare, il risultato di una semina) sono davvero numerosissimi. Vi rientra, dal punto di vista anatomico/clinico già la storia delle Mains d’Orlac, nata in sede letteraria, dalla penna di Maurice Renard. La questione, in tempo di trapianti è attualissima, visto che si tratta di pezzi umani dotati di memoria biologica. Orlac è un semi-Frankenstein: la sua carriera di sublime pianista è stroncata da un incidente ferroviario che gli causa l’amputazione delle mani. Uno scienziato melomane decide di attaccare al posto di quelle andate perdute due mani strappate a un cadavere. Il pianista suonerà malissimo, ma in compenso maneggerà il coltello con grande maestria. Il chirurgo ha ridato vita, "frankensteinizzato" le mani di un morto, ma queste, tanto per non deluderlo, hanno deciso di tenersi ben stretta fra le dita la propria autonomia.
Fra le versioni celebri di questa storia vanno certo segnalate quella di Wiene del (1924), quella di Karl Freund, Mad Love, del 1935, e quelle più moderne di Oliver Stone (The Hand, 1989), Sam Raimi (La casa II) e David Cronenberg (Rabid, 1976), tutte più o meno liberamente "ispirate a".
Anche tutto il filone degli zombie, i resuscitati, ha un piede nella staffa di Dracula e uno in quella di Frankenstein. Nella loro iconografia più celebre, quella pensata da George A. Romero, gli zombie sono in fondo vittime e ricordano pesantemente, tanto nel look quanto nelle movenze rigide e goffe, il mostro a lungo interpretato da Boris Karloff. Sui rapporti fra Dracula e Frankenstein (il mostro) si potrebbe aprire un capitolo a parte. Il primo è un non-morto, il secondo un non-nato. Detto questo, appartengono entrambi alla grande famiglia dei freaks, i mostri, e il più commovente film del regista spagnolo Jesus Franco li vede impegnati in uno scontro fra vecchi gladiatori, fra vecchi lottatori di catch che vede coinvolto, ad un certo punto anche l’uomo lupo.

Gli eroi di Tim Burton

Il mostro di cui ci occupiamo, d’altra parte, lo ritroviamo pari pari anche nel maggiordomo della famiglia Addams (il mitico Learch), nel pericoloso malvivente che minaccia Cary Grant in Arsenico e vecchi merletti e, in modo decisamente originale, nell’Edward mani di forbice di Tim Burton. Il giovane regista di Batman ha, col mostro della Shelley (e di Whale), un rapporto intenso e conflittuale. Da un lato, come il suo amato Ed Wood, pare preferire nettamente Bela Lugosi a Karloff, dall’altro è senza dubbio l’autore contemporaneo che più ha lavorato sul personaggio che ci interessa. Con Frankenweenie, storia di un bimbo geniale che trova il modo di riportare in vita il proprio cane, il rimando è esplicito e diretto, e tale è anche quello della ragazza di Jack Skeleton in Tim Burton’s Nightmare before Christmas, una pupa niente male, costruita da un morboso mad doctor. Una ragazza dalle mille risorse che si può montare e smontare i pezzi da sola, e che ci ricorda come ogni essere cinematografico sia in fondo frankensteiniano in quanto tale, dal momento che il suo corpo risulta sempre dalla somma di una serie di frammenti (e spesso da frammenti di corpi diversi, come nel caso della Julia Roberts di Pretty Woman che indossava le gambe di un’altra ragazza), fotogrammi o inquadrature, montati, cioè incollati fra loro.
Il tema dello scienziato che crea o riporta in vita la propria donna è vecchio come e più di Frankenstein, e lo troviamo già nel citato Mad Love, in The Black Cat di Ulmer, in innumerevoli B-movies cormaniani e in pellicole recenti quali La donna bionica o Dr. Creator.
Tornando a Burton, è proprio col personaggio di Edward che si arriva alla più completa rivisitazione del tema di Frankenstein. Una rivisitazione, peraltro, sofisticata ed eretica: il ragazzo dalle mani di forbice è in realtà un mix tra il mostro e Pinocchio, anche se il sentire del giovane regista americano ha certo molte affinità con le malinconie nostalgiche della Shelley. Edward infrange molti taboo frankensteiniani: intanto non è un vero mostro, bens’ ha le fattezze eccentriche ma piuttosto bellocce di Johnny Depp, tanto è vero che non gli è difficile trovarsi una ragazza, per di più umana. Inoltre parla, non animato da sentimenti malevoli verso nessuno, anche se la sua pericolosità intrinseca e la sua purezza d’animo finiranno per farne facile preda di ignoranza, paura e razzismo. E’ dotato per l’apprendimento e sa come ritagliarsi uno spazio sia nel mondo del lavoro che nello show business.
Tim Burton è anche colui che ha saputo giocare in modo profondamente poetico con quelle che sono le ferite ombelicali di Frankenstein, le innumerevoli cicatrici che gli solcano il viso, il corpo e l’anima, e che nessun cosmetico può efficacemente occultare.

I mostri tecnologici

Ma Burton è, come si diceva, un nostalgico, uno molto interessato al passato, un cinefilo. Le moderne applicazioni della sostanza frankensteiniana interpretano incubi legati alla scienza ben più smaliziati, concreti e verosimili; tecnologicamente avanzati.
Da un lato incubi legati all’elettronica. Qui il mostro è una creazione involontaria, un errore di percorso, e lo si ottiene a forza di dotare le macchine di prerogative umane. Un modello inquietante è rappresentato dal computer Hal 9000, protagonista di 2001 Odissea nello spazio. Hal è un nuovo sofisticatissimo tipo di intelligenza artificiale che, a furia di dover somigliare ad un uomo, arriva a sentirsi uomo e ad avere aspirazioni, paure e reazioni conseguenti, fino a minacciare la sorte dei suoi padroni e creatori. La sua uccisione, una disattivazione per gradi che lo obbliga ad un lento regresso è una delle più strazianti rappresentazioni della morte che la storia del cinema registri. Alla stessa famiglia di Frankenstein inorganici appartengono poi anche figure quasi classiche di robot quali Robocop o Terminator.
Il primo è un agente meccanico super-potente sul quale è stato innestato il cervello di un poliziotto morto. Tutto va bene finché il cervello in questione comincia a riattivare la più umana delle proprie virtù: la memoria. Terminator, da parte sua, è un robot integrale, ma un robot talmente imperfetto e mimetico da poter essere definito di grado superiore rispetto al genere umano che lo ha creato. In questo caso il mostro supera Frankenstein e aspira a sostituirlo. L’altro grande settore della fantascienza in cui si sono sparse le ceneri di Frankenstein è quello che prende spunto dai progressi dell’ingegneria genetica. Ma in questo caso il muro è completamente caduto; per creare un nuovo Frankenstein non c’è più bisogno di quell’apparato ingombrante e macchinoso che è il corpo. Basta un naso, come in Woody Allen (Il dormiglione) o una sola cellula, o anche l’esatta conoscenza di un codice genetico e il gioco è fatto, come dimostrano tanto I ragazzi venuti dal Brasile quanto, su un altro piano, Jurassic Park. Ogni differenza è annullata. Creatore e creatura coincidono e convivono, perfettamente alternativi, tanto supplementari quanto complementari. A questo punto il mostro, con le sue imperfezioni, la sua pesante goffaggine, i suoi grugniti e tormenti è già completamente alle spalle, in quella galleria di creature passate definitivamente dal territorio dell’horror a quello, rassicurante, della tenerezza.

Il cinema è un mostro

L’homme est à venir.
L’homme est l’avenir de l’homme.
Francis Ponges

L’uomo medio è un mostro
P.P. Pasolini

Alle ultime Giornate del Cinema Muto di Pordenone è stata proiettata la prima versione cinematografica di Stella Dallas, vero e proprio paradigma del melodramma materno. Una donna sposa un uomo che appartiene ad una classe sociale molto superiore. Ben presto l’impossibilità di lei ad amalgamarsi con l’ambiente di lui li separa. Lei, donna "volgare" ma madre affettuosissima e irreprensibile, mantiene ciò che oggi si chiama l’affidamento della figlia. Crescendo, la ragazza si dimostra sempre più simile al padre, sicché la donna fa di tutto per inserirla nell’ambiente aristocratico che è ad essa più consono. Quando si accorge di essere lei stessa l’ostacolo a questo inserimento, decide allora di farsi da parte e di lasciare che la ragazza vada a vivere col padre, pur sapendo di non poter reggere al dolore di questa separazione.
Abbiamo deciso di citare questo film, perché durante le escursioni di Stella Dallas nel jet set, nelle didascalie che riportano i commenti dei presenti ricorre più volte, esplicitamente, la parola freak, mostro. Per fare di lei un freak bastano vestiti appariscenti, maniere un po’ grezze e una conversazione improntata sui binari della franchezza. Il cinema è arte dell’evidenza. Il cinema è crudele.
Cambiamo ora completamente prospettiva. In Cobra Verde, film di colui che è forse il principale poeta cinematografico dell’abnorme (nel senso etimologico di fuori della norma), Werner Herzog, abbiamo ad un certo punto un dialogo bellissimo fra il terribile bandito che dà nome al film e un ragazzo nano di nome Euclides, il solo uomo del villaggio che non fugge davanti agli occhi diabolici del brigante del Sertao.
_Tu con la tua gobba sei l’unico uomo diritto qui – gli si rivolge Klaus Kinsky -.Io ho portato un’intera montagna. Amico, dammi da mangiare".
C’è qualcosa di perverso e contemporaneamente geniale nel modo in cui Herzog, in questo film, utilizza attori handicappati. Metafore, o, se vogliamo, pleonasmi, comunque simboli visivi del destino del protagonista. Sacchi massacranti sulle spalle nelle miniere del sud est fanno di lui un bandito, ed eccolo alle prese con un nano coraggioso dalla schiena curva. Così, nel finale, sulle sponde africane dell’Atlantico, Cobra Verde si esaurisce nel tentativo titanico e impossibile di spingere una barca in acqua da solo, sfidando le correnti e le onde dell’oceano. Sullo sfondo, un ragazzino dalle gambe atrofizzate procede verso di lui, camminando sulle mani a passi lentissimi, faticosamente, in un modo che sembra moltiplicare la distanza invece che ridurla. Ciò che sarebbe intollerabile altrove diventa in Herzog quasi accettabile: forse è una questione di sofferenza, di partecipazione. Quello che è certo è che Herzog, rispetto ad una barricata ideale, si mette dalla stessa parte dei suoi personaggi, dei suoi attori. Dalla parte opposta, ad esempio, Claudio Groff, traduttore della sceneggiatura, che descrive la scena come _la lunga sequenza del protagonista che cercava invano di far scivolare in mare la barca incagliata in un disperato tentativo di fuga mentre sullo sfondo danza in controluce la figura mostruosa dello storpio, a metà fra uomo e animale, simbolo di una storia iErrore. L’origine riferimento non è stata trovata.ntessuta di crudeltà, abiezione e follia" (1).
Quello di Herzog è un caso di affinità, in tutto simile a quello di un Tim Burton, sul quale torneremo in seguito. Ben diverso l’atteggiamento di autori diversissimi fra loro come Fellini o David Lynch, i cui film sono pieni di personaggi notevoli, di figure strane, insolite, bizzarre. Il secondo gioca sul filo del fantastico e spesso lo attraversa: l’idea di partenza, tuttavia, è vedere cosa succede quando una società si trova a contatto con qualcosa di non-previsto, di inaudito, di inassimilabile. Elephant Man è, in questo senso, un film manifesto. E’ anche un manifesto di quasi tutto ciò che il cinema (prodotto di una società) può fare di qualcuno che varca la soglia della normalità: esasperarlo, mostrarlo, farne un business, soccorrerlo, provarne paura, repulsione, pena. E ancora sfruttarlo, studiarlo, normalizzarlo.
Fellini riesce a farne altre due cose, sintetizzate magnificamente in un film come il Casanova. Fellini sa rarefare l’anormalità fino a farne un materiale onirico, la proiezione di un desiderio. Fellini, al contempo è uno che i "mostri" li colleziona e li cataloga. Lo stesso che Hitchcock o Lang fanno con i maniaci o gli assassini.
David Cronenberg riporta le cose su un piano individuale. Quello di cui Cronenberg non si riesce a capacitare è di avere un corpo. Che questo corpo abbia una forma definita, che non si sappia che cosa ci sia dentro, che non si possano smontare e rimontare i pezzi. Tutte queste sono cose che lo tormentano. Cosa entra e cosa esce da un corpo. Qual è la sua relazione con il resto della natura, con la tecnologia, ovvero quella parte di natura inventata dall’uomo. Qual è il rapporto che lega il corpo al pensiero, il corpo alla fantasia. Perché il pensiero non può smuovere i corpi, perché questi non possono fondersi fra loro, fondersi con quelli degli animali, con quelli delle cose. E ancora, perché una cosa come la droga, il cui effetto è puramente chimico, produce risultati clamorosi a livello dell’immaginario. Infine, il mistero incredibile del sesso e della maternità. Per Cronenberg ogni essere umano è un mostro perché ogni essere umano deve convivere con un corpo. Deve convivere con ciò che è.
Uno dei capitoli di un libro curioso, dedicato ai medici nel cinema (2) si intitola Oscar per un handicap. Titolo azzeccatissimo. Negli ultimi tempi, ma non solo, il modo più sicuro per conquistarsi un Oscar è scrivere, dirigere o almeno interpretare un film che narri le vicende di un disabile. Brevissima carrellata: Rain Man, Risvegli, Figli di un dio minore, Il mio piede sinistro, Forrest Gump. Tutti impostati, più ancora che su un personaggio, su un tipo preciso di handicap. Tutti, più o meno, ben fatti. Tutti, più o meno, percorrono i territori del pietistico e del politicamente corretto. Tutti sono stati premiati e osannati. Niente da ridire se la cosa può servire a diffondere una maggiore sensibilità generale nei confronti delle esigenze dei disabili in questione. Meno piacevole il tono programmatico con cui si decide di affrontare e quindi di trattare l’argomento. Il cinema, per cultura se non per natura, e quello di Hollywood più di ogni altro, si preoccupa di casi straordinari, di personaggi fuori dal comune, di eventi e fatti che escono dalla consuetudine. Far vedere la vita dell’uomo della strada non è per il cinema bigger then life interessante. Far vedere la vita del generale Custer, di Billy the Kid o di Rocky Balboa lo è molto di più, per il semplice motivo che questa gente fa o ha fatto cose che la maggior parte degli individui non fa. Combattere gli indiani, sparare agli sceriffi, fare a pugni con colossi muscolosi, sono tutte cose particolari, difficili, estreme. Così la vita di Anna dei Miracoli, che è uno dei pochi film biografici su disabili in cui l’apparato spettacolare (che pure c’è) non prende il sopravvento sull’umanità del personaggio, è interessante perché ogni minima insignificante esigenza diventa un’avventura per una ragazzina che, letteralmente, non sente, non vede e non parla. Il rischio è appunto quello di farsi prendere la mano, far diventare un ragazzo affetto da autismo una specie di versione in carne ed ossa del robot Hal 9000 di Odissea nello spazio, rendere il giovane spastico del Mio piede sinistro il corrispettivo estremo degli atleti di Momenti di gloria. Prendere l’handicap in questa maniera può diventare un modo paradossale per normalizzarlo. Meglio, forse, che ignorarlo, ma pericoloso. Certo riduttivo.
Altro paradosso. Spesso è il cinema di genere a dirci, fra le righe, sull’handicap le cose più significative e incisive. I numerosi ciechi del thriller, al di là della vicenda contingente, ci parlano in modo decisamente concreto dell’angoscia del buio o di quanto il mondo può essere ostile per un non vedente. Molto meno concreta, per quanto apparentemente più diretta, è la messa in scena dei "drammi" di una sordomuta nei Figli di un dio minore, o, addirittura, l’elucubrazione metaforica di Dove siete? Io sono qui. Allo stesso modo, Le avventure di un uomo invisibile di John Carpenter, prende il racconto di H.G. Welles per farne un film che è insieme una grande satira sulla civiltà dell’immagine e la parabola esemplare di un disabile che trova la felicità. Chase è un uomo come tanti che, in seguito ad un incidente, resta privo dell’immagine. Non ha cercato né voluto essere tale, lo è e basta. Ben presto deve fare i conti con la mancanza di una qualità che gli altri hanno, con la repulsone, il timore, l’esclusione. Piano piano deve abituarsi all’idea di non poter più fare cose che gli altri possono fare, deve riadattare il mondo a sé e riadattare sé al mondo.
Proseguiamo e terminiamo ancora sul terreno del film di genere. E’ idea di Michele Canosa che la biografia di Ed Wood realizzata da Tim Burton sia un vero e proprio remake di Freaks (del quale trattiamo altrove). Tim Burton è un giovane autore che, fin dal suoi esordi, ha saputo sviluppare una vera e propria poetica della diversità, dell’esclusione, dell’artista come corpo estraneo, e del solitario (non per scelta) come prototipo dell’artista. Tutto questo fa sì che nei suoi film il patetico imperi, ma nell’accezione positiva (o comunque non negativa) del malinconico. Da Beetlejuice a Mr. Skeleton, da Batman al giovane Edward Mani di forbice, i suoi eroi sono gente che ha subito una mancanza, una menomazione fisica o psichica della quale portano ben visibili i segni. Una mancanza che ha, al contempo, donato loro qualcosa, una mancanza che li ha spinti ai margini della società dei normali. In Ed Wood questi personaggi sparsi e solitari si raccolgono in una comunità ristretta, destinata ad essere incompresa, temuta e minacciata da coloro che la vedono dall’esterno e non sanno superare il ribrezzo o la paura. Una comunità di mostri, ma una comunità umana, dove la sofferenza preliminare ha lavorato a che la regola generale non sia l’aggressività ma l’indulgenza. Homo homini licantropus. Ed Wood girava horror.

Note

1) Claudio Groff, "Introduzione a: Werner Herzog, Cobra Verde", Milano, Mondadori, 1990, pp. 7-8
2) Luciano Sterpellone, "Medi-Cine", Roma, Arti Grafiche Editoriali, 1994