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Il cinema è un mostro

L’homme est à venir.
L’homme est l’avenir de l’homme.
Francis Ponges

L’uomo medio è un mostro
P.P. Pasolini

Alle ultime Giornate del Cinema Muto di Pordenone è stata proiettata la prima versione cinematografica di Stella Dallas, vero e proprio paradigma del melodramma materno. Una donna sposa un uomo che appartiene ad una classe sociale molto superiore. Ben presto l’impossibilità di lei ad amalgamarsi con l’ambiente di lui li separa. Lei, donna "volgare" ma madre affettuosissima e irreprensibile, mantiene ciò che oggi si chiama l’affidamento della figlia. Crescendo, la ragazza si dimostra sempre più simile al padre, sicché la donna fa di tutto per inserirla nell’ambiente aristocratico che è ad essa più consono. Quando si accorge di essere lei stessa l’ostacolo a questo inserimento, decide allora di farsi da parte e di lasciare che la ragazza vada a vivere col padre, pur sapendo di non poter reggere al dolore di questa separazione.
Abbiamo deciso di citare questo film, perché durante le escursioni di Stella Dallas nel jet set, nelle didascalie che riportano i commenti dei presenti ricorre più volte, esplicitamente, la parola freak, mostro. Per fare di lei un freak bastano vestiti appariscenti, maniere un po’ grezze e una conversazione improntata sui binari della franchezza. Il cinema è arte dell’evidenza. Il cinema è crudele.
Cambiamo ora completamente prospettiva. In Cobra Verde, film di colui che è forse il principale poeta cinematografico dell’abnorme (nel senso etimologico di fuori della norma), Werner Herzog, abbiamo ad un certo punto un dialogo bellissimo fra il terribile bandito che dà nome al film e un ragazzo nano di nome Euclides, il solo uomo del villaggio che non fugge davanti agli occhi diabolici del brigante del Sertao.
_Tu con la tua gobba sei l’unico uomo diritto qui – gli si rivolge Klaus Kinsky -.Io ho portato un’intera montagna. Amico, dammi da mangiare".
C’è qualcosa di perverso e contemporaneamente geniale nel modo in cui Herzog, in questo film, utilizza attori handicappati. Metafore, o, se vogliamo, pleonasmi, comunque simboli visivi del destino del protagonista. Sacchi massacranti sulle spalle nelle miniere del sud est fanno di lui un bandito, ed eccolo alle prese con un nano coraggioso dalla schiena curva. Così, nel finale, sulle sponde africane dell’Atlantico, Cobra Verde si esaurisce nel tentativo titanico e impossibile di spingere una barca in acqua da solo, sfidando le correnti e le onde dell’oceano. Sullo sfondo, un ragazzino dalle gambe atrofizzate procede verso di lui, camminando sulle mani a passi lentissimi, faticosamente, in un modo che sembra moltiplicare la distanza invece che ridurla. Ciò che sarebbe intollerabile altrove diventa in Herzog quasi accettabile: forse è una questione di sofferenza, di partecipazione. Quello che è certo è che Herzog, rispetto ad una barricata ideale, si mette dalla stessa parte dei suoi personaggi, dei suoi attori. Dalla parte opposta, ad esempio, Claudio Groff, traduttore della sceneggiatura, che descrive la scena come _la lunga sequenza del protagonista che cercava invano di far scivolare in mare la barca incagliata in un disperato tentativo di fuga mentre sullo sfondo danza in controluce la figura mostruosa dello storpio, a metà fra uomo e animale, simbolo di una storia iErrore. L’origine riferimento non è stata trovata.ntessuta di crudeltà, abiezione e follia" (1).
Quello di Herzog è un caso di affinità, in tutto simile a quello di un Tim Burton, sul quale torneremo in seguito. Ben diverso l’atteggiamento di autori diversissimi fra loro come Fellini o David Lynch, i cui film sono pieni di personaggi notevoli, di figure strane, insolite, bizzarre. Il secondo gioca sul filo del fantastico e spesso lo attraversa: l’idea di partenza, tuttavia, è vedere cosa succede quando una società si trova a contatto con qualcosa di non-previsto, di inaudito, di inassimilabile. Elephant Man è, in questo senso, un film manifesto. E’ anche un manifesto di quasi tutto ciò che il cinema (prodotto di una società) può fare di qualcuno che varca la soglia della normalità: esasperarlo, mostrarlo, farne un business, soccorrerlo, provarne paura, repulsione, pena. E ancora sfruttarlo, studiarlo, normalizzarlo.
Fellini riesce a farne altre due cose, sintetizzate magnificamente in un film come il Casanova. Fellini sa rarefare l’anormalità fino a farne un materiale onirico, la proiezione di un desiderio. Fellini, al contempo è uno che i "mostri" li colleziona e li cataloga. Lo stesso che Hitchcock o Lang fanno con i maniaci o gli assassini.
David Cronenberg riporta le cose su un piano individuale. Quello di cui Cronenberg non si riesce a capacitare è di avere un corpo. Che questo corpo abbia una forma definita, che non si sappia che cosa ci sia dentro, che non si possano smontare e rimontare i pezzi. Tutte queste sono cose che lo tormentano. Cosa entra e cosa esce da un corpo. Qual è la sua relazione con il resto della natura, con la tecnologia, ovvero quella parte di natura inventata dall’uomo. Qual è il rapporto che lega il corpo al pensiero, il corpo alla fantasia. Perché il pensiero non può smuovere i corpi, perché questi non possono fondersi fra loro, fondersi con quelli degli animali, con quelli delle cose. E ancora, perché una cosa come la droga, il cui effetto è puramente chimico, produce risultati clamorosi a livello dell’immaginario. Infine, il mistero incredibile del sesso e della maternità. Per Cronenberg ogni essere umano è un mostro perché ogni essere umano deve convivere con un corpo. Deve convivere con ciò che è.
Uno dei capitoli di un libro curioso, dedicato ai medici nel cinema (2) si intitola Oscar per un handicap. Titolo azzeccatissimo. Negli ultimi tempi, ma non solo, il modo più sicuro per conquistarsi un Oscar è scrivere, dirigere o almeno interpretare un film che narri le vicende di un disabile. Brevissima carrellata: Rain Man, Risvegli, Figli di un dio minore, Il mio piede sinistro, Forrest Gump. Tutti impostati, più ancora che su un personaggio, su un tipo preciso di handicap. Tutti, più o meno, ben fatti. Tutti, più o meno, percorrono i territori del pietistico e del politicamente corretto. Tutti sono stati premiati e osannati. Niente da ridire se la cosa può servire a diffondere una maggiore sensibilità generale nei confronti delle esigenze dei disabili in questione. Meno piacevole il tono programmatico con cui si decide di affrontare e quindi di trattare l’argomento. Il cinema, per cultura se non per natura, e quello di Hollywood più di ogni altro, si preoccupa di casi straordinari, di personaggi fuori dal comune, di eventi e fatti che escono dalla consuetudine. Far vedere la vita dell’uomo della strada non è per il cinema bigger then life interessante. Far vedere la vita del generale Custer, di Billy the Kid o di Rocky Balboa lo è molto di più, per il semplice motivo che questa gente fa o ha fatto cose che la maggior parte degli individui non fa. Combattere gli indiani, sparare agli sceriffi, fare a pugni con colossi muscolosi, sono tutte cose particolari, difficili, estreme. Così la vita di Anna dei Miracoli, che è uno dei pochi film biografici su disabili in cui l’apparato spettacolare (che pure c’è) non prende il sopravvento sull’umanità del personaggio, è interessante perché ogni minima insignificante esigenza diventa un’avventura per una ragazzina che, letteralmente, non sente, non vede e non parla. Il rischio è appunto quello di farsi prendere la mano, far diventare un ragazzo affetto da autismo una specie di versione in carne ed ossa del robot Hal 9000 di Odissea nello spazio, rendere il giovane spastico del Mio piede sinistro il corrispettivo estremo degli atleti di Momenti di gloria. Prendere l’handicap in questa maniera può diventare un modo paradossale per normalizzarlo. Meglio, forse, che ignorarlo, ma pericoloso. Certo riduttivo.
Altro paradosso. Spesso è il cinema di genere a dirci, fra le righe, sull’handicap le cose più significative e incisive. I numerosi ciechi del thriller, al di là della vicenda contingente, ci parlano in modo decisamente concreto dell’angoscia del buio o di quanto il mondo può essere ostile per un non vedente. Molto meno concreta, per quanto apparentemente più diretta, è la messa in scena dei "drammi" di una sordomuta nei Figli di un dio minore, o, addirittura, l’elucubrazione metaforica di Dove siete? Io sono qui. Allo stesso modo, Le avventure di un uomo invisibile di John Carpenter, prende il racconto di H.G. Welles per farne un film che è insieme una grande satira sulla civiltà dell’immagine e la parabola esemplare di un disabile che trova la felicità. Chase è un uomo come tanti che, in seguito ad un incidente, resta privo dell’immagine. Non ha cercato né voluto essere tale, lo è e basta. Ben presto deve fare i conti con la mancanza di una qualità che gli altri hanno, con la repulsone, il timore, l’esclusione. Piano piano deve abituarsi all’idea di non poter più fare cose che gli altri possono fare, deve riadattare il mondo a sé e riadattare sé al mondo.
Proseguiamo e terminiamo ancora sul terreno del film di genere. E’ idea di Michele Canosa che la biografia di Ed Wood realizzata da Tim Burton sia un vero e proprio remake di Freaks (del quale trattiamo altrove). Tim Burton è un giovane autore che, fin dal suoi esordi, ha saputo sviluppare una vera e propria poetica della diversità, dell’esclusione, dell’artista come corpo estraneo, e del solitario (non per scelta) come prototipo dell’artista. Tutto questo fa sì che nei suoi film il patetico imperi, ma nell’accezione positiva (o comunque non negativa) del malinconico. Da Beetlejuice a Mr. Skeleton, da Batman al giovane Edward Mani di forbice, i suoi eroi sono gente che ha subito una mancanza, una menomazione fisica o psichica della quale portano ben visibili i segni. Una mancanza che ha, al contempo, donato loro qualcosa, una mancanza che li ha spinti ai margini della società dei normali. In Ed Wood questi personaggi sparsi e solitari si raccolgono in una comunità ristretta, destinata ad essere incompresa, temuta e minacciata da coloro che la vedono dall’esterno e non sanno superare il ribrezzo o la paura. Una comunità di mostri, ma una comunità umana, dove la sofferenza preliminare ha lavorato a che la regola generale non sia l’aggressività ma l’indulgenza. Homo homini licantropus. Ed Wood girava horror.

Note

1) Claudio Groff, "Introduzione a: Werner Herzog, Cobra Verde", Milano, Mondadori, 1990, pp. 7-8
2) Luciano Sterpellone, "Medi-Cine", Roma, Arti Grafiche Editoriali, 1994




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