Skip to main content

autore: Autore: Giancarlo Azzano

Insegnanti in classe

La perdita di prestigio dell’insegnante rispetto al passato in una società che cambia in fretta. Le contraddizioni nella valutazione di un allievo e gli eterni dilemmi posti dai programmi ministeriali. La prospettiva di una ermeneutica educativa. Ipotesi di lettura del disagio nella scuola media superiore.

Affrontare un’indagine sulla causa, o sulle cause, del disagio in cui vive oggi la scuola secondaria si presenta assai problematico per la molteplicità delle tematiche connesse e per la molteplicità delle ipotesi suggerite dal dibattito. Chi si avventura su questo difficile terreno è costretto a procedere a tastoni per mancanza di punti di riferimento sicuri.
La scuola superiore da qualche decennio ha subito, parallelamente al processo di industrializzazione e massificazione della società, una profonda trasformazione. In questo periodo infatti si è verificato "un doppio e simultaneo processo di massificazione della scuola e di industrializzazione della cultura che negli anni sessanta ha connotato l’irruzione delle masse nella secondaria con l’irruzione nella medesima della cultura di massa." (Gabriele) e ciò ha mutato struttura e funzioni della scuola secondaria. Uno dei fenomeni più vistosi di questa trasformazione riguarda i processi di acculturazione che ora non avvengono più attraverso la famiglia e la scuola bensì attraverso i mezzi della comunicazione di massa. Così la cultura giovanile si realizza e definisce ora nell’esperienza acquisita con la pratica e nella pratica al di fuori del controllo delle istituzioni a cui è demandato il compito specifico di inculcarla e sanzionarla ufficialmente.
Il mondo degli allievi di qualche decennio or sono è irriconoscibile per un insegnante che lavora nella scuola di oggi: valori, percezione del reale, atteggiamenti, relazioni, ecc. hanno assunto altri significati, altre motivazioni.
Se in particolare consideriamo il valore dei ruoli che definiscono le relazioni fra studente e insegnante, costatiamo che si è verificata una grande metamorfosi. L’insegnante non è più rivestito di quell’aura di rispettabilità e di autorità in quanto portatore di un’indiscussa tradizione culturale. E l’allievo da parte sua non accoglie e imita più acriticamente quel modello culturale condiviso allora dalla comunità di appartenenza. "L’educazione culturale tradizionale prima della scuola di massa si basava in gran parte sul modello per acculturazione per familiarità tipico dei clan culturalmente omogenei. I valori erano comuni, i contenuti, i metodi, le finalità della conoscenza erano sostanzialmente indiscusse. Non era necessario che l’insegnante esplicitasse i propri e altrui codici, né prendesse una distanza critica dalla propria e comune cultura. La via maestra dell’apprendimento era l’imitazione del maestro. Un’imitazione poteva sembrare tanto più spontanea e naturale quanto più coeso e compatto era il meccanismo di produzione, diffusione e consumo della cultura e quanto più omogeneo era l’estrazione culturale dell’élite degli scolarizzati." (Armellini)
Saper leggere e scrivere, ascoltare e parlare non rappresenta più il contenuto simbolico della civiltà umanistica nella quale saper leggere e ascoltare rappresentava la capacità di acquisire i modelli di stile e di valutazione ereditati dalla tradizione umanistica; e saper scrivere e parlare significava rivificare quei modelli alla luce delle nuove esigenze storiche.
Nella nostra civiltà invece queste stesse competenze hanno un altro valore: leggere e ascoltare sono nella cultura di massa abilità aprospettica e avalutativa di selezionare e di decodificare i segni dell’universo magmatico delle informazioni offerte dai mass media; e scrivere e parlare significano ora capacità di interazione in quell’universo.
Pareto diceva che ogni uomo si trova piazzato in una situazione per svolgervi il compito e questo compito è ricordato agli altri da un cartellino. Il cartellino dell’insegnante della scuola secondaria un tempo era quello del mediatore presso le nuove generazioni della perenne, o della presunta tale, tradizione culturale, tradizione che si riteneva necessaria per i giovani di una élite borghese che si sarebbe poi dovuta inserire nella società degli adulti appartenenti allo stesso ceto sociale.
La comunità continua a piazzare il cartellino all’insegnante, ad affidargli lo stesso compito ma non crede più all’autorità del suo compito e al valore della sua funzione.
Quel cartellino, nell’immaginario collettivo, è divenuto una pura convenzione svuotata di rilevanza sociale. Quella tradizione ha perso la funzione di addestrare i giovani a inserirsi e a integrarsi in una comunità di privilegiati. E questo lo percepisce l’insegnante, che vive con profondo malessere la perdita di identità. Lo percepisce lo studente che vive il rapporto con l’insegnante come un una dura necessità imposta dalla collettività ma di cui non avverte la finalità. Lo percepisce la stessa comunità che fa dell’insegnante oggetto spesso di ironia, e se si eccettua la retorica di prammatica sull’importanza del lavoro scolastico, il professore è divenuto un parassita.
Una riprova dello scadimento dei contenuti culturali della scuola presso l’attuale società civile si riscontra nel suo costante invito al mondo politico e agli insegnanti a ridefinire, a rinnovare i programmi ministeriali e i percorsi didattici in, sintonia, si dice, con i nuovi bisogni della società di oggi.
E’ possibile nelle attuali condizioni storiche ridare autorevolezza alla tradizione culturale, oppure tutti i contenuti di questa sono retaggio di un passato irrevocabilmente tramontato?

Gli equivoci di una terminologia

"Esistono tre coppie di concetti in cui un membro della coppia viene generalmente usato al posto dell’altro, così che il nostro modo di pensare ne risulta impoverito. E divenuta cosa di tutti i giorni che il processo venga confuso con la sostanza, le relazioni con i predicati e la qualità con la quantità." (Von Foertster)
Il dibattito sul disagio nella scuola superiore ha prodotto una molteplicità in proposte e di nuove sperimentazioni didattiche. E in questo nuovo clima che è nata una nuova terminologia. Una terminologia però che si presta ad equivoci.
Di questi equivoci voglio trattarne qui alcuni che mi sembrano significativi nell’ambito del nostro discorso.
Un primo aspetto di questo nuovo linguaggio riguarda la ridefinizione della finalità di questa istituzione scolastica.
La scuola, si sostiene, deve riorganizzarsi secondo criteri di efficienza indicati dal modello di conduzione aziendale.
La proposta di questo modello può essere così sintetizzata: le informazioni sono la merce, gli insegnanti i produttori, e/o distributori del prodotto e gli allievi i clienti, o consumatori.
Questa terminologia compare in modo più o meno esplicito in molti articoli di stampa, in circolari ministeriali nonché in discussioni dentro e fuori le mura scolastiche.
Così si assiste alla comparsa di un nuovo lessico pedagogico mutuato dalla tradizione dell’economia liberistica. Si Parla infatti sempre più frequentemente di: "qualità totale", "offrire un prodotto adeguato all’attuale situazione del mercato del lavoro", "necessità di creare una scuola più competitiva", "preparare i giovani ad assumersi dei rischi e ad essere competitivi", ecc… Tale impostazione pare però non avverta il fatto che nell’uso di questa terminologia vengono rimossi i valori e i presupposti storici di cui si fa portatore quella corrente di pensiero.
Se la scuola offre un prodotto mi pare rilevante, in questo contesto, chiarire il senso di questa particolare merce dai molti nomi: informazione, metodologia, competenza, abilità, ecc.
Ma questa merce definita anche "saperi" è realmente una merce?
Sostenere che educare sia uno scambio di merci significa considerare l’apprendimento un’attività conoscitiva che attinge qualcosa dal magazzino del sapere accumulato nel corso del tempo e che questo prodotto,, opportunamente trattato e strutturato in linguaggi settoriali, possa essere venduto.
Carlo Magno, il metabolismo, la termodinamica, la trigonometria la sintassi, ecc. sono cose? O piuttosto sono da intendersi dei processi?
Le informazioni sono luoghi di lavoro, works in process; non sono dati ma spazi dove si esperimentano modalità di significazione e di comunicazione; in conclusione luoghi di attività di ricerca inconclusa.
Io non so se un processo possa essere messo in vendita ma so come insegnante che ogni anno verifico che lo stesso argomento trattato e lo stesso metodo adottato alla fine del corso presentano aspetti, problemi e difficoltà originali proprio in virtù del fatto che i risultati del lavoro didattico non sono sostanze, o cose che si possono scambiare ma processi indefiniti di apprendimento.
Il secondo campo di equivoci riguarda il nuovo linguaggio della valutazione.
Molto si è dibattuto su come superare la soggettività, o l’impressionismo, dei criteri di valutazione dei ragazzi; e si è affermata una nuova concezione che prevede la costruzione di una scheda composte da indicatori con la quale ci si propone di misurare con oggettività, comportamenti e capacità acquisite degli allievi.
In questa scheda gli indicatori, dovrebbero svolgere quelle funzioni che per la meteorologia svolgono il termometro, l’igrometro, il barometro, ecc. i quali permettono di ricavare dall’atmosfera lo stato e gli sviluppi del tempo. Se ciò è vero si è tenuto conto poco del fatto che gli strumenti, anche i più raffinati, non permettono di formulare previsioni certe. L’indicatore della scheda di valutazione non definisce una qualche abilità dello studente ma ha un carattere autoreferenziale perché definisce il tipo di relazione che l’insegnante ha deciso di stabilire con il suo studente; così come per la meteorologia quegli strumenti di decodifica dello stato dell’atmosfera ci dicono molto di più sul paradigma scientifico del tecnico che li usa piuttosto che sul tempo che farà domani.
Così quando valutiamo la preparazione di un ragazzo con il giudizio, "lo studente non è in possesso della terminologia disciplinare", o se ci esprimiamo riguardo lo stesso studente in un linguaggio colloquiale come, "questo ragazzo studia poco", ci dice molto sull’insegnante e molto poco sul ragazzo valutato. Di fatto questa modalità di giudizio che cerca un oggettività nella valutazione feticizza, o se si preferisce ipostatizza, il sistema valutativo e reifica le relazioni così come avviene nei processi di mercificazione.
Il terzo equivoco che qui considero si riferisce al vistoso fenomeno che si sta verificando nella totalità degli istituti superiori: si tratta del moltiplicarsi di proposte educative extracurricolari. Teatro, filmologia, canzone d’autore, danza, informatica, ecc. Questi che sono solo alcuni dei percorsi didattici extracurricolari, istituiti dai collegi docenti, vengono realizzati per soddisfare i presunti nuovi bisogni dei ragazzi.
A meno che non si ritenga valida la legge engelsiana della conversione della quantità in qualità io penso che il problema del senso del lavoro educativo non si risolva nella creazione di un arcobaleno di interessanti contenuti ma lo si debba trovare nella difficile rielaborazione della proposta culturale complessiva della scuola scavando nelle radici qualitative del disagio.

Il doppio sistema relazionale

"Dobbiamo considerare che secondo la presente economia del mondo il corso della natura, per quanto si supponga regolare ai nostri occhi, tuttavia non appare così. Molti avvenimenti sono incerti e ingannano la nostra attesa". (Hume)
In questo lavoro intendo affrontare solo qualche aspetto del disagio. Si tratta di quegli aspetti che concernono le relazioni docente/studente.
Se osserviamo la vita di una scuola nel suo svolgimento quotidiano ci appare come una struttura regolata da una legge d’ordine che si perpetua nella quotidianità e nel corso degli anni.
Il caos di ogni mattina dei ragazzi davanti all’entrata della scuola, poi la loro entrata e quindi il differenziarsi della fila secondo la sezione e la classe di appartenenza.
Così per i docenti che in sala insegnanti dopo le chiacchiere del mattino si avviano nelle loro rispettive classi.
Suona la campana dell’inizio delle lezioni e il confuso vociare si attenua fino a diventare brusio.
Potrei continuare a tratteggiare le oscillazioni acustiche e i movimenti spaziali e il succedersi alterno dell’ordine e del disordine che scandiscono il ritmo della vita scolastica.
La ciclicità di questo ritmo è l’espressione del regolamento di istituto, la norma che stabilisce il carattere delle relazioni fra gli allievi e insegnanti e questo regolamento sancisce anche la ripetibilità dei comportamenti giorno dopo giorno e anno dopo anno.
Questa alta prevedibilità dei comportamenti scolastici è necessaria per il buon funzionamento dell’istituzione. Insegnanti e allievi hanno necessità di conoscere anticipatamente le tappe del loro lavoro per organizzare lo sforzo per la realizzazione delle finalità previste dall’istituzione stessa.
Ma la vita scolastica si riduce solo a relazioni codificate?
Campana, aule contrassegnate da lettere e numeri, registri, compiti in classe interrogazioni, ecc. sono da considerarsi la struttura relazionale prevalente nel processo educativo? O vi sono altre relazioni che sottostanno a questi fenomeni più appariscenti e predeterminati?
Quest’ordine relazionale visibile e codificato dal sistema giuridico/scolastico mi pare possa essere paragonato a quel sistema della fisica galileo-newtoniana che riconduce il movimento di tutti i corpi naturali entro un unico principio: quello della reversibilità del tempo. O se si preferisce, entro la legge dell’isocronia del pendolo. Il movimento oscillatorio del pendolo infatti risulta regolato nelle due direzioni dal medesimo principio. Anche le relazioni allievo/insegnante sono regolate secondo il principio di reversibilità del tempo per cui si possono prevedere gli eventi scolastici come in astronomia un’eclissi lunare. Ma la fisica dell’ottocento e del novecento ci suggerisce anche l’esistenza di altri movimenti, seppure non altrettanto regolari e prevedibili del primo. Se noi osserviamo le microrelazioni che avvengono tra studenti e insegnanti, possiamo riscontrare una molteplicità caotica di fenomeni relazionali difficilmente codificabili secondo un principio d’ordine. Così come nella fisica delle particelle microscopiche il mondo, diversamente da quello della macrofisica, ci appare un insieme disordinato di relazioni imprevedibili, catturabili solo con modelli statistici.
Nel campo delle relazioni scolastiche possiamo dunque rilevare accanto ai fenomeni relazionali regolari, determinati dalla struttura giuridico-burocratica , anche un brulicare di movimenti divergenti e convergenti che però si verificano, a differenza dei primi, secondo la variabile dell’irreversibilità del tempo, ossia secondo variabili situazionali, o di contesto.
Ogni sistema classe dunque presenta due tipologie di relazione, la prima caratterizzata da rapporti ripetibili all’infinito e l’altra si presenta, invece, come un succedersi indeterminato di relazioni lungo un solo verso del tempo in cui le relazioni non si duplicano mai.
La realtà scolastica, da questo punto di vista, ci offre due modelli di approccio al sistema relazionale insegnante/allievo. Il primo si può definire modello digitale/discreto, l’altro analogico/continuo. Il primo si propone di orientare e finalizzare i comportamenti in termini inequivoci, secondo una logica binaria (verifiche, valutazioni, ecc.); il secondo tiene conto dei comportamenti residuali non codificabili in norme e dunque soggettivi (emozioni, valori morali, concezioni religiose, ecc).
Tali modelli comunque non sono da considerare alternativi, bensì complementari perché le due modalità considerano il medesimo oggetto ma da punti di vista diversi, che però convivono anche nello stesso lavoro didattico. Così come in fisica la concezione newtoniana e la fisica di Planc non si elidono, anche il registro, che prevede una modalità relazionale burocratizzata, convive con le relazioni personali e particolari che quell’insegnante instaura con quella determinata classe e con quello specifico studente.
Ora, queste due strutture relazionali trovano il loro punto di incontro e di mediazione nei contenuti dei programmi ministeriali. Infatti al centro del lavoro in classe è l’insieme delle discipline stabilite e sancite per legge dallo Stato, che rappresentano in ultima analisi le scelte politiche compiute dalla comunità nel campo dei contenuti educativi.
Va notato comunque che queste stesse scelte, formalizzate fuori dalla scuola, diventano il medium, o il luogo in cui si incontrano e si scontrano le aspettative, le paure, i sogni di coloro che partecipano al processo formativo.
Perciò è necessario tener presente la bivalenza della natura dei programmi ministeriali per capire i meccanismi del doppio sistema relazionale. Infatti, i programmi ministeriali da un lato, sono l’oggetto delle lezioni e delle valutazioni e dall’altro, sono il punto da cui scaturiscono relazioni personali e originali che pure appartengono al tessuto dei processi formativi dei ragazzi.

Il doppio disagio

"Cercare di impegnare la forza di volontà è come cercare di sollevarsi tirandosi su con i lacci delle scarpe." (Bateson)
Chi si occupa di educazione spesso sente parlare degli studenti in questi termini: "manca di volontà…dovrebbe impegnarsi di più…se si impegnasse di più non incontrerebbe queste difficoltà nello studio" e si potrebbero aggiungere molte altre locuzioni su questo tono. Ciò mi fa pensare alla frase di Nietzsche quando scrive: "un pensiero viene quando è lui a volerlo e non quando io lo voglio".
Noi insegnanti attribuiamo spesso al termine volontà, a proposito dell’impegno dei nostri studenti, un potere taumaturgico. Crediamo cioè che gli studenti possano piegare la loro volontà alla nostra, o se si preferisce, a quella dei programmi ministeriali.
La psicologia ci insegna che la volontà è un processo attentivo in cui il soggetto reagisce ad uno stimolo e, nello stesso tempo, inibisce gli altri.
Si tratta di esaminare se gli studenti, nel loro lavoro scolastico, sono nelle condizioni di isolare gli stimoli relativi ai contenuti scolastici e di inibire tutti gli altri, o quasi.
Veniamo ora al nostro specifico problema didattico/relazionale per verificare se in questo campo possiamo trovare qualche ragione sostenibile per spiegare il malessere a scuola.
Ho sostenuto prima che le relazioni educative all’interno della scuola sono determinate da due processi comunicativi: la struttura giuridico-burocratica da una parte e la struttura soggettiva-qualitativa delle relazioni dall’altra. Questa doppia tipologia relazionale, ho detto anche, che è mediata dai programmi ministeriali. Ora, se il luogo delle relazioni insegnante/allievo è il programma ministeriale, si tratta di evidenziare il meccanismo psico-sociale che si innesta in questa relazione, che dà luogo a quel disagio di cui qui si parla.
L’insegnante è in possesso di due strumenti per convincere i suoi allievi a seguirlo nel suo percorso didattico: 1) persuadere gli studenti del valore della sua proposta culturale; 2) minacciare lo studente con l’arma della valutazione predisposta dal sistema giuridico-burocratico. Ciò significa che l’insegnante instaura due sistemi di relazione che convivono, seppure in modo conflittuale.
Vi sono insegnanti che privilegiano il primo modello di convinzione, altri il secondo. Comunque sia, però, l’insegnante non può sottrarsi al carattere paradossale di questa situazione.
Questa situazione relazionale può essere così ulteriormente descritta: l’insegnante invia un messaggio allo studente, mediante espressioni dirette o indirette, trasparenti o ambigue, di questo tipo: "Ciò che ti propongo è estremamente interessante. E’ interessante per me e ne sono sicuro che lo riconoscerai pure tu. Ti assicuro che se farai attenzione lo potrai verificare".
Ma contemporaneamente lo stesso insegnante invia allo studente un altro messaggio, con le stesse modalità di prima ma di questo tenore: "Se tu non svolgerai questo lavoro io sono costretto a darti una valutazione negativa. E se perseverai nei risultati negativi io sono costretto a respingerti".
Questo duplice messaggio contraddittorio può essere sintetizzato ancora nell’espressione paradossale "Lavorare a scuola ti deve interessare". Dove però ‘dovere’ e ‘interesse’ risultano una ingiunzione paradossale, un nodo drammatico sia per lo studente che per l’insegnante, in quanto lo studente è costretto, che gli piaccia o no, a sottostare all’ingiunzione paradossale. Ma anche l’insegnante non si trova in una situazione migliore, in quanto gli esiti del suo lavoro presentano il marchio di una relazione non trasparente, contraddittoria, in quanto non può definire la natura del risultato del lavoro, ossia non è in grado di valutare se le prove dello studente sono il frutto di un atteggiamento sincero nei contenuti proposti o, invece, sono l’esito di una coercizione.
Gli studenti possono cercare di sfuggire all’ingiunzione paradossale accogliendo la prima parte del messaggio, rimuovendo con imbarazzo la seconda, oppure possono rifiutare l’ambiguità ponendosi nei confronti dell’insegnante in una posizione di conflitto o di falsità.
Con la definizione di queste due tipologie di comportamento non intendo classificare gli studenti ma semplicemente descriverli; perché si può verificare anche il caso che entrambe le tipologie si riscontrino nello stesso studente, e la cosa è meno frequente di quanto si creda.
Anche gli insegnanti si trovano, come abbiamo visto, nella medesima situazione relazionale paradossale, però, in posizione simmetrica e complementare.
Anche in questo caso l’insegnante può evitare il dilemma. Può rifiutare di sottostare a questo meccanismo relazionale cercando di sottrarsi agli obblighi della burocrazia scolastica, in modo più o meno mascherato, evitando le valutazioni, apponendo sul registro giudizi fittizi. Ma ciò mi pare una pura illusione. Ammesso che il non valutare sia pedagogicamente positivo, all’interno della scuola istituzionale ciò è comunque impossibile. Anche l’astensione mascherata della valutazione alla fine dell’anno scolastico deve tradursi nella consegna del registro, e l’insegnante deve rendere formalmente conto alla struttura burocratica delle valutazioni formulate sui ragazzi. E, se i giudizi sono fittizi non lo saranno né per l’istituzione né tanto meno per lo studente e la sua famiglia.
L’insegnante può tenere anche un’altro comportamento, affidandosi alla presunta oggettività del sistema di valutazione, garantito dalla tradizione e avvallata dall’amministrazione scolastica, adottare il criterio minaccioso del merito e della selezione. Però, in questo caso deve rimuovere il fatto che ogni valutazione presenta un carattere autoreferenziale, come abbiamo visto sopra.
Va tenuto conto comunque che anche nel caso della situazione dell’insegnante, come per quello dello studente, non si tratta di stabilire una classificazione degli insegnanti attraverso il loro comportamento, perché anche qui si può riscontrare nello stesso insegnante entrambi gli atteggiamenti.
Il paradosso di Epimenide lo si può riscontrare dunque anche nella relazione insegnante/studente. Dovere e piacere appartengono a domini e logiche diversi non conciliabili. La coscienza non può sottostare a entrambi gli universi. Freud a questo proposito ha chiarito molto bene questo problema, quando constata che l’io è costretto nello stesso tempo a dar retta a due istanze, a quelle provenienti dal super io e a quelle dall’inconscio, provocando un dilemma senza soluzione. L’aspetto sociale e quello individuale del nostro agire muovono da motivazioni fra loro in contrasto e costringono l’io a barcamenarsi in una difficile e irrisolvibile mediazione.
Lo studente non può non scegliere la Divina Commedia, il calcolo degli integrali, la grammatica inglese, la metafisica di Aristotele, che il sistema educativo gli propone ma è una scelta che sottostà, usando la terminologia di Bateson, a un’ingiunzione paradossale, a un doppio vincolo: "lo studio ti deve interessare".
La scelta di andare a ballare al sabato sera con gli amici da parte dei ragazzi non è condizionata da un imperativo categorico. Parlo qui di imperativo categorico in quanto la scuola promuove un impegno incondizionato, indipendentemente dal valore motivante che può rappresentare per lo studente.
Questo meccanismo relazionale, non riguarda solo la scuola di oggi, si riscontra pure nella realtà scolastica precedente all’"irruzione delle masse" nella scuola media superiore.
Ma questo stesso meccanismo opera ora in una condizione storico-sociale assai diversa. I programmi ministeriali non rappresentano più il necessario cursus onorum per la promozione sociale. Il campo motivazionale di coinvolgimento dei ragazzi viene ridotto e l’ingiunzione paradossale acuisce il suo potenziale patologico.
Analoga e irrisolvibile contraddizione la vive comunque anche l’insegnante; sempre più impigliato nella situazione paradossale, stretto tra il suo obbligo di lavoro contratto con lo Stato e la libera adesione ai contenuti della sua disciplina, non trova una conciliazione nella situazione storica attuale per la perdita di autorità del suo ruolo.

Una strategia della contraddizione

"Un’idea forte comunica un po’ della sua forza al contraddittore. Partecipando del valore universale degli spiriti, essa s’insinua, s’innesta nella mente di colui che ha confutato, in mezzo a idee adiacenti con il cui aiuto questi, riprendendo un po’ di vantaggio la completa, la rettifica; così che la sentenza finale risulta in qualche modo opera delle due persone che discutevano." (Proust)
L’autore di questa osservazione suggerisce una strategia percorribile anche per affrontare il problema in questione. Si tratta cioè di verificare se la contraddittorietà, riscontrata nel rapporto fra insegnante e studente, può contribuire all’individuazione di un nuovo ruolo per la cultura della scuola e i suoi attori.
Sopra ho sostenuto che i contenuti dei programmi ministeriali hanno perso autorevolezza presso la comunità e così per osmosi anche i ruoli educativi sono stati corrosi.
Se lo studente nella scuola secondaria di élite, per un processo mimetico, era portato ad attribuire valore a ciò che leggeva sui testi scolastici e a ciò che ascoltava dal suo insegnante, così oggi, per lo stesso processo mimetico, lo studente non riesce, o fatica, a comprendere il senso di ciò che fa a scuola.
Non si tratta, allora, di guardare con nostalgia al passato e parlare di un’età d’oro della cultura, come certi colleghi malinconicamente vanno predicando; ma neppure si tratta di rincorrere altri miti del presente o del futuro.
Perché provare rammarico per la perdita di autorità del ruolo dell’insegnante?
E perché sostenere i valori liberistici della competizione e della concorrenza nei processi educativi?
La prima prospettiva concepisce, o concepiva, un rapporto educativo di tipo complementare, in cui la gerarchia sociale era rappresentata in classe dal professore. La seconda prevede invece una dinamica relazionale di tipo simmetrico in cui studenti e insegnante concorrono a qualificare il prodotto didattico-culturale in una dinamica di mercato.
Entrambe le posizioni comunque hanno in comune l’istituzione di rapporti di dominio. Uno fondato sull’accettazione dello statu quo del sistema di potere; l’altro fondato invece su rapporti di aggressività.
Se la cultura scolastica ha perso credibilità si può perseguire lo scopo di trovarne una nuova evitando però di incorrere nell’instaurazione di rapporti di dominio?
Il patrimonio culturale rappresentato dall’insegnante può ancora avere uno spazio significativo nella formazione dei giovani?
La classe, innanzitutto, può ancora, mi pare, rappresentare una importante opportunità di incontro tra il mondo degli adulti e quello dei giovani, dove si possono confrontare i diversi sistemi di valore e dove la tradizione culturale può giocare la sua possibilità di diventare significativa anche per le nuove generazioni.
La Divina Commedia di Alighieri, il calcolo degli integrali, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, il metabolismo, l’ elettromagnetismo, le idee platoniche, ecc. sono, o possono essere, territori di indagine dove il sistema classe, cioè l’insieme del complesso relazionale studenti/insegnante, verifica l’effettiva loro possibilità di senso. La credibilità, l’autorevolezza della tradizione non è un a priori e non può che essere il frutto di un work in process.
Lo storico E. Carr a proposito dei fatti storici e della loro interpretazione ha scritto: "Il fatto che una montagna assuma forme diverse a seconda dei punti di vista dell’osservatore non implica che essa non abbia alcuna forma oggettiva, oppure un’infinità di forme." Così nell’ambito del nostro discorso, possiamo dire, che il programma ministeriale sottoposto ad analisi può essere lo spazio di un gioco ermeneutico dove il senso non è scontato, ma deve essere istituito e verificato mediante il confronto dei punti di vista espressi dal sistema classe. Si tratta di perseguire quella che Gadamer chiama "fusione degli orizzonti".
La prospettiva di un’ermeneutica educativa fa dei programmi ministeriali, articolati in discipline, il "testo", e del sistema classe, l’"interprete" con il compito di attualizzarlo, o di verificarne la possibilità.
Studenti e insegnante saranno interpellati dai programmi scolastici sulla loro potenzialità di senso e viceversa secondo quel processo definito "circolo ermeneutico".
In questa prospettiva non può essere né il passato, né il presente, né il futuro ad offrirne una gerarchia, o un criterio privilegiato di attribuzione di senso. Solo il sistema classe percorrendo l’orizzonte linguistico offerto dalla tradizione può trovare un senso. Gadamer scrive: "In una reale comunità linguistica non si stabilisce mai un accordo. Ci si trova già sempre d’accordo. L’accordo è qualcosa di già avvenuto… Ciò su cui si cerca l’accordo è il mondo che si presenta a noi nella vita associata e che tutto racchiude". Cercare un senso è cercare socraticamente dunque un accordo sul mondo. E questa ricerca si deve sviluppare nella temporalità in cui quella tradizione, e lo stesso sistema classe, sono impigliati. Il filosofo in un altro luogo della stessa opera aggiunge: "gli ascoltatori dell’altro ieri e di dopodomani sono pur sempre anch’essi da annoverare fra i contemporanei ai quali uno si rivolge. Dove si dovrà fissare il limite temporale che separa i destinatari originari dagli altri? Chi sono i contemporanei? Che cos’è la pretesa di verità di un testo rispetto a questo vario mischiarsi di ieri e di domani?".
Armellini, in un suo saggio di qualche anno fa, "Il mestiere dell’insegnante" ha sintetizzato il possibile futuro per la scuola in questa tesi: "Se l’insegnante non viene concepito come un operatore-osservatore esterno che agisce unilateralmente sulla classe per cambiarne i comportamenti ma come una parte del sistema sul/nel quale agisce, è impensabile che i suoi obiettivi e i suoi programmi possano diventare gli obiettivi e i programmi dell’intero sistema classe".

Bibliografia

Bourdieu, "Critica sociale del gusto", Il Mulino, Bologna 1983.
Gabriele: citato in G Armellini "Come e e perché insegnare letteratura" Zanichelli Bologna 1988.
G. Armellini: "Inventare la letteratura "Le domande legittime" e l’imprevisto nell’educazione letteraria" in P. Bertolini a cura di "Sulla didattica", La Nuova Italia, Milano , 1994.
G. Armellini, "La qualità della scuola è la qualità totale?", in "La terra vista dalla luna" 15 maggio 1996.
G. Armellini, "La smania della valutazione" in "La terra vista dalla luna), marzo 1995.

Nuovi disagi

Il problema delle disabilita’ e dell’integrazione nella scuola non
riguarda solo gli studenti affetti da un deficit codificato dalla
burocrazia sanitaria. Il problema, avvertono gli insegnanti,
interessa un’area sempre piu’ ampia di giovani normodotati che
presentano difficolta relazionali e cognitive non certificabili.

Se questo fenomeno e’ particolarmente presente nella scuola
dell’obbligo, il problema sta investendo in modo sempre più
significativo anche la scuola media di secondo grado. Nelle
scuole medie superiori, infatti, va aumentando il numero di
giovani che presentano problemi relazionali e che hanno
manifestato una progressiva difficoltà nei processi di
apprendimento dei percorsi didattici tradizionali.
Non e’ raro in sala insegnanti e nei corridoi della scuola
sentire docenti che discutono le situazioni educative
problematiche dei loro studenti e che constatano le loro
difficoltà sia nelle relazioni con gli insegnanti che con i loro
coetanei, e ne è una vistosa testimonianza il fatto che un numero
sempre più grande di giovani e’ seguita da psicoterapeuti che
diagnosticano forme di disturbo della relazione, che sono oggetto
anche di un preoccupato dibattito sulla stampa.
Un altro problema emergente, meno dibattuto fuori della scuola,
ma molto presente nelle discussioni fra gli educatori, sono le
difficoltà di apprendimento. Dai confronti sugli esiti delle
verifiche, infatti, si rilevano le crescenti difficoltà rispetto
a qualche tempo fa da parte dei giovani di impadronirsi delle
competenze disciplinari e di realizzare una sufficiente autonomia
critica.
Le ragioni dell’emergere di questi fenomeni di disabilità sono
molteplici e complesse. Qui voglio tentare qualche descrizione
del problema e abbozzare qualche interpretazione sulla base delle
discussioni fra colleghi insoddisfatti dai giudizi di rito che
vengono espressi dentro e fuori della scuola.

"Manca di attenzione"

La comunità degli insegnanti, riguardo a questo insieme di
disabilità, ha costruito un suo linguaggio (o un suo gergo) che
risulta sempre più insufficiente per definire questi casi: "manca
di attenzione", "non si impegna", "non e’ in grado di costruire un
argomentazione", "non sa contestualizzare le sue idee", "e’ un
ragazzo che si è isolato dai suoi compagni", "ha comportamenti
arroganti", "non e’ consapevole delle sue difficoltà", ecc. Se
queste diagnosi nel loro complesso rappresentano un reale stato
di malessere dei giovani a scuola, sono pure la dichiarazione di
impotenza e di incapacità degli insegnanti di intervenire
positivamente nei processi educativi.
Così questa realtà educativa difficile, invece di promuovere una
nuova progettualità per delle nuove strategie pedagogiche, ha
prodotto, e produce, chiusure che sono il sintomo di uno
smarrimento conoscitivo ed esistenziale degli educatori. Un
sintomo questo che trova anche espressione nella massiccia
richiesta di pensionamento in questi ultimi tempi da parte di
molti insegnanti che non vedono la possibilità di dare riposte
adeguate alla crisi del loro ruolo.
Ritornando al tema delle ragioni delle disabilità non
certificabili degli studenti, si può sintetizzando, definirlo il
problema della mancanza di un linguaggio comunicativo adeguato
capace di includere nello stesso orizzonte di attesa studenti e
insegnanti. In questo particolare tipo di rapporto, si può
riscontrare anche un’altra difficoltà, che considero più grave
della prima: si tratta dell’assenza di un piano metacomunicativo,
cioè di quella dimensione relazionale in cui le parti coinvolte
nella comunicazione discutono delle difficoltà del loro stesso
dialogo come premessa indispensabile per aprire qualsiasi reale
comunicazione.
Se questo disturbo nella comunicazione lo giudichiamo cruciale
per l’educatore di oggi, si tratta di dipanare i meccanismi
relazionali che caratterizzano il linguaggio
intersoggettività della comunità educativa scolastica per
enucleare le eventuali patologie relazionali che intralciano
quella necessaria intesa che comporta il dialogo educativo.
Il luogo primario della comunicazione fra studenti e insegnanti
sono i linguaggi dell’insieme delle discipline dove si codificano
e decodificano i messaggi. Ma questo mondo linguistico appartiene
a sfere di valori e di attese diversi.
L’insegnante codifica, sulla base del programma e di una sua
diagnosi delle competenze dei suoi allievi, un insieme di
informazioni e di interpretazioni, selezionato a sua volta dal
più ampio insieme delle informazioni e interpretazioni della sua
disciplina. E si aspetta che gli studenti interiorizzino questo
materiale didattico e, grazie al rinforzo di una buona pagella,
realizzino una preparazione che aderisca il più possibile ai
messaggi e ai modelli organizzativi e interpretativi da lui
proposti. Questo modello skinneriano del rinforzo, seppure in
modo sfumato, resta il modello didattico prevalente. L’attesa
dell’insegnante si fonda quindi su un modello di apprendimento
per imitazione: cioè quella modalità per cui l’insegnante, dando
per scontato il valore motivante della sua proposta, fa del suo
programma il banco di prova dell’apprendimento di schemi di
conoscenza da riprodurre più fedelmente possibile al modello
originario esposto in classe.
Se questo e’ l’atteggiamento di fondo dell’insegnante il risultato
non può che creare una situazione comunicativa problematica
perché non tiene conto né del peculiare momento di sviluppo
psicologico dei suoi studenti, né del contesto storico che stiamo
vivendo.
Gli studenti/adolescenti vivono una dimensione che con la
terminologia di Erikson possiamo definire il periodo della
"moratoria psico-sociale", cioè quel periodo adolescenziale in
cui i ragazzi non hanno ancora individuato una loro identità e
attraverso contrasti, e contraddizioni cercano di costruirsene
una; e questa ricerca si sviluppa anche nella comunità
scolastica, che per l’adolescente e’ una istituzione coatta che e’
costretto a frequentare e che lo impegna per una parte
consistente della sua giornata. La scuola pertanto diventa
giocoforza importante. E questa importanza non consiste
nell’apprendimento dei contenuti dei programmi ministeriali, o
delle sue comunità ampie finalità formative, ma nel confronto con
l’adulto/insegnante e nelle relazioni che il ragazzo stabilisce
con i coetanei. Questa dimensione specifica dell’adolescente e’
ulteriormente marcata dalla particolare situazione storica che
viviamo.

L’insegnamento non è più un modello culturale per gli allievi

L’accelerazione nei processi di trasformazione
economica, tecnologica, sociale, e culturale non da
all’adolescente la possibilità di guardare all’adulto/insegnante
come all’archetipo del suo futuro. L’insegnante/adulto, infatti,
non rappresenta nell’attuale contesto storico ne’ un modello
culturale autorevole ne’ una professione desiderabile e pensabile.
Da qui nasce quel duplice sentimento che provano gli studenti nei
confronti dei docenti, che oscilla fra il compatimento per un
ruolo che non comprendono e, allorquando lo si riconosca, la
simpatia per l’impegno che mettono nel dare un senso alla loro
fatica.
Di fronte a questo sfondo comunicativo gli insegnanti provano un
sentimento di frustrazione e di impotenza che si traduce in un
atteggiamento di autoironia, da un lato, e, dall’altro, di
rifiuto nei confronti di cioè che giudicano l’assalto barbarico
dei giovani che prediligono Stephen King, o ancor peggio un
programma televisivo sportivo, a un buon romanzo di T. Mann.
L’insegnante, in questo quadro relazionale insoddisfacente, ha
sviluppato nei confronti dei suoi allievi un particolare modello
di comportamento, analizzato dalla pedagogia speciale, che
caratterizza le relazioni fra i bambini con
handicap e i loro genitori. Si tratta di un comportamento
duplice: da un lato l’insegnante rifiuta i suoi studenti perché
non sono come li vorrebbe, e questo si conclude con una
bocciatura; oppure, al contrario, il suo comportamento diventa
protettivo per la fragilità manifestata dagli allievi negli
impegni scolastici e questo si conclude con una promozione
appena mascherata dalla speranza di futuri recuperi didattici,
che pero, sono ritenuti improbabili.
Così gli insegnanti cadono in quel comportamento tipico dei
genitori di figli handicappati certificati, che per il senso di
colpa della minorazione vorrebbero allontanarli perché non
rappresentano la realizzazione della loro immagine sognata di
figlio. Oppure all’opposto hanno pronta una batteria di
giustificazioni per assolvere i loro esisti cognitivi e
relazionali negativi. Va sottolineato che spesso nello stesso
insegnante, come nei genitori di figli con deficit conclamato,
convive in modo schizofrenico questo irresolubile dualismo che
disturba il rapporto educativo.
Gli studenti dal canto loro, come accade agli handicappati
certificati, sfruttano le contraddizioni di questo sistema
relazionale insinuando e rafforzando il senso di colpa
dell’insegnante per trarne profitto sia nel caso di una
bocciatura che di una promozione non convincente. Lo studente,
infatti, se e’ stato respinto attribuisce all’insegnante, con
giustificazioni non importa se sinceramente sostenute, la
responsabilità dei risultati negativi – "il Professore non mi
capisce", "non e’ bravo nelle spiegazioni", ecc. Nel caso di una
promozione, invece, che non avverte giustificata rispetto al
metro didattico riconosciuto nella classe, rivendica la sua
abilita di averla fatta franca.
Entrambi gli attori di questa commedia didattica comunque provano
il sentimento di una comunicazione mancata, di un legame
frustrante.
E ciò che è più nocivo in questo meccanismo relazionale e’ il
prolungamento, o l’intorbidamento, della "moratoria
psicosociale", che conferma e riproduce le disabilità
deresponsabilizzando i giovani nel momento in cui dovrebbero
invece cominciare a definire consapevolmente il campo dei loro
impegni riguardo a se stessi e all’ambiente sociale con cui si
rapportano.

Dal logocentrismo alla multimedialità

Questa e’ solo una parte del problema della comunicazione.
Un’altro aspetto rilevante di questo lo si può individuare sul
piano più specifico dei processi di apprendimento. cioè comunque
non e’ da considerare in modo disgiunto da quello relazionale
visto sopra; in quanto ogni processo cognitivo avviene in un
ambiente sociale che attiva e scandisce lo sviluppo delle
conoscenze dei ragazzi.
La questione a cui qui mi voglio riferire sono i meccanismi
cognitivi, chiamati in gioco nell’apprendimento e che riguardano
i processi di significazione che dipendono, da un lato, dallo
sviluppo delle funzioni della mente e, dall’altro, dai meccanismi
di acculturazione sociale.
E’ questo secondo aspetto, ancora poco considerato, che mi pare
importante sottolineare qui per le rilevanti ricadute nel campo
educativo.
A questo proposito si può constatare che i processi cognitivi a
partire da qualche decennio fa stanno assumendo connotati del
tutto nuovi.
Il logocentrismo, o la parola scritta, sta perdendo, o ha già
perso, la centralità della sua funzione nel sistema degli scambi
delle informazioni. E nella scuola questo processo sta mettendo
in crisi le modalità tradizionali di trasmissione della cultura.
Gli insegnanti, educati nella scuola logocentrica, mancano di
strumenti per affrontare la nuova situazione caratterizzata da
un’atmosfera segnica multimediale. Stiamo assistendo ad un
fenomeno che presenta molti aspetti paragonabili a quello che si
è verificato allorché si e’ passati dalla civiltà orale,
fonocentrica, della parola parlata, alla civiltà della scrittura,
logocentrica, della parola scritta. Così come in quella grande
trasformazione si e’ sviluppato un modo diverso di percepire, di
memorizzare, di analizzare, ecc; così oggi, nella civiltà
multimediale, noi vediamo che le procedure di raccolta delle
informazioni, di formalizzazione dell’esperienza e manipolazione
dei simboli si presenta con caratteristiche di cui avvertiamo
l’importanza ma che ancora non sono state definite né dal punto
di vista cognitivo né dalla più ampia prospettiva delle
trasformazioni antropologiche.
Se questo e’ lo status questionis, qui voglio solo delineare
qualche aspetto di questo problema che ha un forte impatto nel
lavoro didattico.
Ciò che gli insegnanti maggiormente denunciano nei processi di
apprendimento degli studenti e’ la mancanza di controllo del testo
sia nella produzione scritta che orale. Qui quando mi riferisco
al testo intendo in generale quel paradigma del testo scritto in
cui le singole parti sono state ben selezionate e ben coordinate
in una struttura complessiva senza ridondanze, ripetizioni,
secondo uno schema sequenziale ben paragrafato, ecc.
Questi procedimenti, che come abbiamo detto rappresentano il
modello di produzione di un testo scritto, richiedono capacità di
attenzione, memorizzazione e soprattutto abilità nel passaggio
dal concreto all’astratto che però hanno solo in parte a che fare
con il modello, o i modelli, della civiltà multimediale. Infatti
quest’ultima non richiede in modo esclusivo i processi di
concettualizzazione della realtà percepita attraverso una sua
formalizzazione nei caratteri tipografici come quelli del nostro
alfabeto, in quanto il testo multimediale e’ soprattutto una
produzione e\o riproduzione, non di segni astratti convenzionali,
ma di immagini, non importa se appartenenti al mondo della
fiction oppure a quello delle informazioni.
E ancora, se la civiltà della scrittura prevede un ordine spazio-
temporale del testo; nella civiltà dell’immagine si privilegia
l’accostamento aprospettico dei messaggi. Anche nell’uso della
posta elettronica dove apparentemente lo scambio delle
informazioni avviene secondo il modello del testo scritto
tradizionale, le comunicazioni sono brevi e poco argomentate. Il
modello di comunicazione non e’, quindi, quello ciceroniano ma
piuttosto quello della pubblicità, dove l’occhio non
necessariamente considera la totalità organica del messaggio ma
le sue parti, come elementi autonomi.
Cosi, dunque, i nostri studenti sono immersi in questo mondo di
messaggi strutturati secondo la logica dei multimedia. E la
nostra denuncia riguardo alla mancanza di attenzione,
all’incapacità’ di categorizzare e strutturare argomentazioni dei
nostri allievi, non fa i conti con il modello di comprensione dei
messaggi dei mass media a cui sono sottoposti fuori dalla scuola.
Se constatiamo, nella produzione sia scritta che orale dei nostri
allievi, una mancanza di organicità un procedere
nell’esposizione per accostamenti, uno zigzagare nel mare
magmatico delle loro informazioni, piuttosto che per
coordinamento delle sequenze; oppure se l’attenzione, invece di
isolare gli stimoli relativi solo alle finalità didattiche, e’
intermittente, si lascia attrarre dalla costellazione delle
sollecitazioni dell’ambiente (fenomeno questo che un collega ha
icasticamente definito attenzione da telecomando); allora si
tratta di valutare più consapevolmente i nostri comportamenti
educativi nel contesto comunicativo globale in cui sono calati i
giovani oggi.

Cambiano i processi cognitivi

Noi insegnanti, ritenendo il modello del testo scritto
un aspetto imprescindibile della formazione, in quanto abilità
necessaria alla promozione culturale dell’individuo, esercitiamo
una forte pressione sugli studenti per ridurli alla ragione del
nostro modello. Pur ammettendo che tale valutazione sia corretta,
non si può prescindere neppure dai modelli di apprendimento
dominanti. Perciò mi pare indispensabile avvicinarci alle nuove
forme di acculturazione per condurre un intervento formativo più
consapevole. Tenendo conto delle indiscutibili potenzialità didattiche offerte
da questi nuovi mezzi di comunicazione, non si tratta di
abbandonare le nostre competenze acquisite a favore di
miracolistiche formule didattiche multimediali.
Si tratta piuttosto di far interagire il patrimonio culturale
tradizionale con i nuovi mezzi messi a disposizione
dalle nuove tecnologie comunicative per realizzare progetti
educativi capaci di comprendere il nuovo orizzonte segnico.
I suggerimenti didattici, in questa direzione, e’ mia convinzione,
possono venire soprattutto dal nostro lavoro in classe.
A proposito posso raccontare una mia esperienza.
Io sono un insegnante cieco, e per essere autonomo nella
correzione dei compiti, ho chiesto alla classe la disponibilità a
svolgere le tracce dei temi, anziché su un foglio, al computer.
Ciò mi ha consentito di rilevare che le competenze espressive
degli allievi sono mutate di segno rispetto al lavoro con carta e
penna.
Innanzitutto, ho rilevato che il computer ha permesso loro di
evitare molta parte degli abituali errori di ortografia. Ma cioè
che mi ha colpito maggiormente e’ stata la struttura argomentativa
adottata dalla maggioranza degli studenti. Seppure la
composizione delle argomentazioni fosse stata costruita rispetto
a quella su carta, con periodi più brevi e con uno scarso uso
delle proposizioni subordinate, le analisi sono risultate più
chiare e gli svolgimenti nel complesso sono risultati più
lineari. Quale incidenza abbia questa macchina nei processi di
apprendimento noi insegnanti non lo sappiamo, come non sappiamo
quali siano le modificazioni nei processi cognitivi dovuti ai
nuovi mezzi di comunicazione nel loro complesso. Ma possiamo
cominciare a esplorare questo campo con l’aiuto, oltre che dei
nostri studenti, di psicologi ed esperti della comunicazione. In
questo modo, forse, se sapremo imparare ad apprendere le modalità
di comprensione dei giovani che abbiamo davanti in classe ci
sembreranno meno estranei e ci consentirà di intervenire
positivamente nelle situazioni educative più difficili.
Picasso affermava di aver imparato in fretta a dipingere come
Raffaello; ma di essersi impegnato una vita a imparare a
dipingere come un bambino.