9. L’esperienza del CAI: se la montagna diventa terapeutica
di Giuseppe Cavalchi, accompagnatore di Escursionismo CAI di Reggio Emilia e membro del Consiglio Direttivo del CAI Emilia-Romagna
Come è nata questa esperienza che ha visto alcuni soci del CAI di Reggio Emilia coinvolgere nelle loro escursioni delle persone con problemi di salute mentale?
All’inizio del 2014 abbiamo iniziato un rapporto di collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’ASL di Reggio Emilia, con frequenti contatti e incontri con gli operatori del servizio. Con loro abbiamo iniziato a costruire questo percorso; loro avevano già alle spalle una consolidata esperienza decennale in attività analoghe in cui però erano presenti solo educatori e utenti. Partendo quindi da questa loro esperienza abbiamo cominciato a pensare di organizzare escursioni in cui fossero presenti operatori, utenti e soci del CAI. Le prime escursioni insieme le abbiamo fatte nel settembre del 2014, poi grazie agli stretti rapporti con degli amici del CAI di Bologna abbiamo fatto diverse uscite nel territorio bolognese. La prima escursione si è svolta nel Parco di Monteveglio. La possiamo definire il vero battesimo di questa esperienza, abbiamo fatto inoltre un’escursione nel Parco del Contrafforte Pliocenico e anche nel Parco Storico di Monte Sole. Nel panorama italiano, sempre in ambito CAI, ci sono regioni come la Toscana, la Lombardia e il Trentino in cui questo tipo di attività è svolta ed esiste da più tempo.
Che percorsi avete fatto?
Noi con il termine “montagnaterapia” intendiamo un originale approccio metodologico a carattere terapeutico-riabilitativo e socio-educativo finalizzato alla prevenzione secondaria, alla cura e alla riabilitazione di individui portatori di differenti problematiche, patologie o disabilità; questo approccio è progettato per svolgersi, attraverso il lavoro sulle dinamiche di gruppo, nell’ambiente culturale, naturale e artificiale della montagna. Proprio per questo puntiamo molto all’inclusione sociale. Normalmente si tratta di escursioni di 4-5 ore di cammino, ma che occupano tutta la giornata, dalla mattina alla sera. Diverse escursioni le abbiamo fatte in territorio bolognese, abbiamo fatto il giro da Zappolino, su fino all’abbazia di Monteveglio, siamo saliti a Monte Adone partendo da Brento, abbiamo fatto un pezzo della via Cassia e anche un’escursione nel Parco Storico di Monte Sole; sono tutti posti per noi facilmente raggiungibili con l’autostrada, molto fruibili e che non presentano delle particolari difficoltà escursionistiche pur rimanendo itinerari molto interessanti dal punto di visto storico, paesaggistico e naturalistico. Nella scelta degli itinerari evitiamo escursioni con delle difficoltà tecniche, anche se nell’autunno 2015 siamo andati al Corno alle Scale e alcuni sono saliti in cima dai Balzi dell’Ora, un tratto di sentiero attrezzato che presenta già difficoltà maggiori.
La nostra esperienza, come CAI Reggio Emilia, è solamente con le persone con problemi di salute mentale, ci sono però tante iniziative realizzate da altre sezioni CAI che coprono tutte le disabilità, fisiche e psichiche. C’è un grosso livello di autonomia nelle varie sezioni CAI e ogni realtà porta avanti le attività che riesce a realizzare nel proprio territorio in base ai legami che si costituiscono con le altre realtà locali che operano nel settore. Facendo anche parte del Consiglio Direttivo del CAI Emilia Romagna ed essendo il referente in Consiglio della costituenda Commissione Medica, posso riassumere anche altre esperienze analoghe in regione: il CAI di Bologna organizza diverse “camminate della salute”, la sezione di Parma svolge anche lei da anni un’intensa attività di montagnaterapia, ci sono esperienze in Romagna di attività di speleologia, in grotta quindi, con persone con disabilità fisiche. Come CAI Emilia Romagna cercheremo di mettere il più possibile in contatto queste esperienze così che possano anche essere prese come esempio da altre sezioni in regione.
L’esperienza del CAI di Reggio Emilia si caratterizza rispetto alle altre sezioni?
L’esperienza di Reggio Emilia è un po’ particolare perché siamo riusciti a mescolare utenti, operatori e soci CAI; è proprio questo che ci distingue rispetto a tante altre realtà che normalmente realizzano iniziative specifiche riservate ai soli utenti. All’interno di tutte le nostre attività abbiamo programmato almeno un’escursione al mese alla quale possono partecipare tutti.
La fascia degli utenti va dai 35 ai 50 anni e finora non abbiamo mai avuto alcun inconveniente. Le difficoltà che incontrano gli utenti non sono soltanto di carattere fisico o tecnico, ma spesso sono difficoltà diverse: non tanto difficoltà durante il percorso, dove di solito i problemi sono legati alla stanchezza fisica, quanto, per esempio, lo stare fuori di casa così a lungo, dalla mattina alla sera, o durante gli eventuali spostamenti in pullman, lo stare chiusi per varie ore in uno spazio stretto.
Avete incontrato delle difficoltà, come era il clima nel gruppo?
Le prime volte noi accompagnatori ci siamo chiesti come comportarci, l’atteggiamento che abbiamo avuto è stato quello di osservare ciò che facevano gli operatori confidando sulla loro esperienza. E così abbiamo fatto le volte successive. Dopo ormai due anni oserei quasi dire che non abbiamo fatto nulla, la nostra presenza la definirei quasi una presenza-assenza, nel senso che ci siamo, siamo vigili sia per le eventuali difficoltà lungo il sentiero sia per cogliere i normali momenti di stanchezza o difficoltà, ma cerchiamo sempre di intervenire il meno possibile lasciando quindi una maggior libertà alle dinamiche di gruppo. L’atmosfera è quella di un gruppo di amici che va a camminare, si chiacchiera e si scherza in compagnia, non c’è mai stato bisogno di un intervento particolare. Ci si conforta durante la salita, ci si congratula quando si arriva in cima o si supera un pezzo di sentiero difficile, tutto quello che si fa andando in montagna, compreso condividere una fetta di salame o un pezzo di formaggio. Questa esperienza ha dato tanto anche a noi accompagnatori, nel confrontarci con una realtà diversa, nello scoprire che si possono fare cose molto belle con poco. Per noi è quasi più impegnativa l’organizzazione dell’escursione che non l’escursione vera e propria; questo perché la scelta dell’itinerario, dei tempi e delle pause è importante per la riuscita dell’escursione.
Perché si parla di montagnaterapia?
Il benessere che si prova andando in montagna è per tutti, utenti e non. Si tratta di socializzare, di stare all’aria aperta, di cercare di portare a casa sensazioni positive, di sentirsi soddisfatti per aver superato una difficoltà. Queste sensazioni positive che abbiamo andando in montagna ce le portiamo a casa e, per un po’ di tempo, le possiamo utilizzare nella vita di tutti i giorni. L’effetto benefico della montagna e delle escursioni in montagna riguarda proprio tutti.
Finora abbiamo parlato di salute mentale, ma lo stesso discorso si può fare per le disabilità fisiche. Ci sono numerosi esempi di persone che, ad esempio, arrampicano con alti gradi di difficoltà e che hanno anche grossi handicap fisici, magari perché hanno un arto solo o entrambi gli arti amputati. Noi, nella nostra attività di montagnaterapia, cerchiamo di beneficiare dell’ambiente della montagna e del contatto della natura, non cerchiamo l’estremizzazione del gesto atletico o l’agonismo. Ci interessa il beneficio che viene dal semplice camminare, dallo stare in mezzo alla natura, dall’entrare in un bosco, dallo stare all’aria aperta, dal godere di un bel panorama, ma soprattutto socializzare; a quest’ultimo aspetto ci teniamo particolarmente. Anche per questo le nostre escursioni non presentano particolari difficoltà: se si aumentano la difficoltà delle escursioni, automaticamente si riduce il numero di partecipanti, quindi il gruppo diventa piccolo.
L’importante è scegliere attività che siano accessibili. Una delle cose su quali noi stiamo attenti è riportare delle esperienze positive, quindi l’obiettivo, la cima, deve essere raggiungibile, la difficoltà superabile. L’esperienza positiva avuta in montagna la possiamo così riportare nel mondo reale quando si torna a casa. Tra i nostri futuri progetti c’è un’escursione che preveda di passare la notte in rifugio. Anche questa è un’altra difficoltà da superare: stare fuori di casa, dormire con degli altri, non avere bisogno della propria intimità.
Che cos’è il Bi-decalogo del CAI e perché questa vocazione sociale della tua associazione?
Come disse Annibale Salsa, ex Presidente Generale del CAI, “il Bi-decalogo è un codice di auto-regolamentazione, un’obbligazione morale che i soci del CAI si impegnano a contrarre in rapporto al comportamento da tenere nei confronti dell’ambiente e dei territori montani”. Ad esempio, nel Bi-decalogo si parla di incentivare il più possibile l’uso dei mezzi pubblici o di mezzi di gruppo, il che vuol dire frequentare la montagna con pullman o ancor meglio con mezzi pubblici, l’esperienza del CAI di Bologna con l’iniziativa “Treno-Trekking” è la perfetta sintesi di questo concetto. Rispetto dell’ambiente e frequentazione della montagna, queste due cose devono viaggiare assieme.
Il CAI ha una vocazione sociale perché è nel sociale, ogni anno nuove persone si avvicinano alla montagna e si avvicinano in modo diverso perché la società cambia e non possiamo pensare che la società non influenzi il nostro andare in montagna. L’indimenticato Renato Casarotto, l’alpinista vicentino scomparso sul K2 nel 1986, disse “il mio zaino non è solo carico di materiali e di viveri: dentro ci sono la mia educazione, i miei affetti, i miei ricordi, il mio carattere, la mia solitudine. In montagna non porto il meglio di me stesso: porto me stesso, nel bene e nel male”. Nel portare noi stessi nella zaino, portiamo in montagna la società in cui viviamo, credo però che come CAI possiamo anche aiutare a rendere possibile il percorso inverso, portare nella società un po’ di montagna. Lungo i sentieri ci si saluta, un ciao e un sorriso non si negano a nessuno, in rifugio si condivide la tavola in cui si mangia e spesso la camerata in cui si dorme. In montagna ci si chiama per nome, non esistono più certe barriere che spesso, per convenzione, esistono nella vita di tutti i giorni. Credo che questo ruolo sociale il CAI lo debba avere sino in fondo cercando di far sì che il suo credo e la montagna possano influenzare la società e non solo viceversa. Per quanto riguarda la montagnaterapia, due anni fa c’è stato il convegno nazionale in Sardegna, c’erano circa 130 persone a camminare, con vari livelli di disabilità. Quest’anno il convegno nazionale è appena terminato e si è svolto a Pordenone. Sono numeri importanti, su cui dovremmo tutti noi riflettere. Di montagnaterapia ha parlato anche il Presidente Generale Vincenzo Torti al Congresso Nazionale degli Accompagnatori di Escursionismo che si è svolto a Siena i primi di novembre. L’attenzione del CAI a queste tematiche sta crescendo sempre di più, nonostante qualche difficoltà di carattere burocratico da gestire; proprio perché la società sta cambiando non ci possiamo dimenticare che purtroppo sono in aumento le persone che hanno difficoltà di vario tipo, a questo effetto sociale bisogna in qualche modo dare una risposta. Non è necessariamente qualcosa dovuto all’età media della popolazione che avanza, perché la popolazione è in media più sana rispetto al passato, però le persone in difficoltà sono in aumento esponenziale, sia se guardiamo le disabilità fisiche, dovute a incidenti stradali per esempio, sia le disabilità di carattere psichico, dovute all’aumentato consumo di psicofarmaci per esempio. Quindi il CAI non può non tener conto di questo. Poi è difficile riuscire a gestire questi progetti, ci vuole un gruppo di persone disponibili a portarlo avanti, perché le barriere ci sono. Credo però che il CAI, visti anche i riscontri positivi dell’attività di montagnaterapia, non possa rinunciare a svolgere anche un compito sociale, specialmente in quest’ambito.