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autore: Autore: Ilaria Del Gaudio

6. “Scusa, non riesco a seguirti, puoi parlare più lentamente?”

di Ilaria Del Gaudio
educatrice museale – artista educatrice, Dipartimento educativo MAMbo

Prima dell’attività ero davvero agitata. Il cuore risuonava in gola, le guance ribollivano sul viso e le gambe si erano saldate al pavimento. Eppure, mi dicevo, dovrei essere abituata a comunicare con le persone. È anche vero, continuavo a dirmi, che sono sempre in fibrillazione prima di cominciare una nuova esperienza, prima di ogni laboratorio. Prima. Gli attimi del “prima” sono sempre i più critici. Nel tentativo di calmarmi ho allestito i materiali sul tavolo di lavoro con le mani che tremavano come due sardine vive. Ho cercato di sistemare matite, pastelli, immagini e fili colorati in modo che risultasse chiaro il loro utilizzo. Ho esplorato la stanza con lo sguardo, alla ricerca di un appiglio a cui far arrampicare il discorso. Di fianco a me c’era Veronica, che mi aveva accompagnata solo per questo primo incontro, ma che sarebbe stata comunque un punto di riferimento per quelli successivi. Di fronte a me, i cosiddetti “learners”, ovvero le persone a cui era dedicato il progetto Postmarks. Avrei lavorato con questo gruppo per molto tempo, quindi ho smesso di concentrarmi sulle aspettative che avevo verso me stessa e ho rivolto a loro la mia attenzione. Ridevano, chiacchieravano, addirittura si prendevano in giro, per poi di nuovo ridere e chiacchierare, alternando parole di scherno affettuoso a discorsi dal tono più serio. Ecco il gruppo del Progetto Calamaio. Se dovessi descriverli con poche parole utilizzerei soltanto “rumore” e “movimento”. Sembrerebbe paradossale, dato che molti di loro non possono muoversi oppure hanno difficoltà a parlare, ma tutt’ora non riesco a trovare termini più adeguati. Finalmente ho cominciato a parlare, introducendo l’argomento della giornata. Avremmo affrontato “di petto” il tema dell’identità partendo dalla pratica dell’autoritratto e dalla metafora del corpo. Forse era proprio questo ad agitarmi tanto. Mentre raccontavo la vita e la poetica di artisti come Rembrandt, Frida Kahlo e Sissi, che hanno reso visibile il processo di esplorazione del sé, una serie di considerazioni affollavano la mia mente, sovrapponendosi le une alle altre. L’approccio che avevo scelto era troppo diretto? Io per prima faccio fatica a guardarmi allo specchio, né tantomeno mi piace farmi fotografare. Come avrebbero reagito le persone disabili? E poi ancora, sarebbero stati in grado di fare quello che stavo chiedendo? Non solo a livello di elaborazione personale, ma anche dal punto di vista pratico: tra loro c’era chi non riusciva a tenere in mano nemmeno una matita. Il laboratorio proposto sarebbe stato abbastanza inclusivo? E se qualcuno si fosse distratto o fosse rimasto indietro? Il mio tono di voce era abbastanza alto? E se… La marcia serrata di queste domande è stata interrotta da una richiesta: “Scusa, non riesco a seguirti, puoi parlare più lentamente?”. Mario, un animatore disabile del Progetto Calamaio, mi ha riportata bruscamente alla realtà. Ho capito che di nuovo stavo concentrando l’attenzione sulle mie paure invece che sulle persone che erano di fronte a me. Anzi, con me. Il cuore si è spostato dalla gola ed è tornato dove dovrebbe stare, la saldatura tra le gambe e il pavimento ha ceduto, le mani hanno smesso di tremare. Devo a quel momento il cambio di prospettiva che mi ha permesso di considerare questo e i laboratori successivi come preziose occasioni di relazione. In quasi due anni di lavoro abbiamo esplorato insieme il tema dell’identità, e quindi della diversità, raccontandoci attraverso un’ampia gamma di sfumature: dal legame con il territorio alla memoria individuale, dal senso di appartenenza a un gruppo all’indagine dei limiti e delle nuove possibilità dei rapporti interpersonali. Abbiamo sperimentato nuovi alfabeti espressivi, intrecciato parole colorate, comunicato attraverso le azioni, anche performative. Il tempo trascorso insieme, compresi i viaggi all’estero, ha accresciuto la conoscenza e la fiducia reciproche, permettendoci di apprendere gli uni dagli altri e quindi di “fare davvero la differenza”.