Skip to main content

autore: Autore: Marcello Anastasio

L’animazione… con l’anima!

Di Marcello Anastasio, animatore, formatore e organizzatore di eventi culturali con esperienze anche in Sudafrica e Magadascar

C’era una volta un tempo in cui i bambini giocavano da soli. A quel tempo i monelli, così li chiamavano, vivevano spensierate giornate di gioco e nessuno in alcun caso andava a impicciarsi dei loro affari; poi, ovviamente se tornavano a casa sporchi dovevano fare i conti con i “Grandi”.
Era il tempo mitico in cui si poteva scendere al fiume: pensate, i fiumi non erano inquinati o nessuno sapeva che lo fossero. Era il tempo in cui si cresceva presto, salvo nelle case dei ricchi, e i ragazzini e le ragazzine lavoravano. Sì insomma, lavorano anche adesso (300 milioni nel mondo), ma un tempo era possibile svignarsela, fuggire una sera, o una mattina, col fagotto sulle spalle e le scarpe invernali pesanti. C’erano anche poche paia di scarpe, direte…
A quel tempo, anche gli adulti giocavano a modo loro e i vecchi, chi arrivava a esser chiamato vecchio, faceva le sue cose e passava il tempo libero con i suoi passatempi. Guardate il Geppetto di Collodi. Era abbastanza anziano eppure andò a cacciarsi nei guai per voler trarre un bimbo da un pezzo di legno…
Ai tempi di Tom Sawyer, altro che giochi! Tom, ragazzino del Mississippi, a parte il raccogliere tutte le schifezze trovate per la strada, faceva dei bellissimi giochi, non vi pare? Si svolgevano in terribili caverne o nei cimiteri, specialmente nelle ore notturne in presenza di gatti neri, vivi e morti. La ragazzina Alice… Credo che nessuno alla sua età abbia mai fatto un viaggio tanto avventuroso. Oliver Twist: anche lui lavorava, d’accordo. Incontrò diversi adulti e forse aveva incontrato anche un certo tipo di animatore… un animatore di strada che insegna a rubare… Molti ragazzini e ragazzine trovano ancor oggi animatori simili.
Gianburrasca e Pippicalzelunghe hanno l’animatore? Persino Harry Potter, a parte la sua scuola divertente, fa le sue scoperte, i suoi percorsi, i suoi giochi per conto suo.

Il diritto al tempo libero
Ebbene sì, signori miei, c’è stato un tempo in cui non esistevano gli animatori… Potete crederci? Vi sono stati tempi in cui nessuno vi diceva come giocare e i giochi se ne stavano liberi nel mondo per chi volesse mettersi a giocare senza necessità di particolari preamboli o istruzioni. Non c’era bisogno di alcun motivo preciso per giocare, si giocava e basta.
Lo so, non potete credere a quello che state leggendo, anzi vi sembra una cosa assurda, se però fate attenzione e cercate intorno a voi qualche nonno o qualche vecchia zia e domandate loro dei loro giochi delle loro vacanze, sentirete cosa vi rispondono. Lo so, non ci sono più i nonni veramente nonni. Ora fanno step e jogging e danza afro. Le zie poi sguazzano nell’acqua calda delle piscine dalla mattina alla sera.
Un tempo al massimo ti mettevano una guardia dai pericoli. Al massimo, se eri in un collegio o la famiglia poteva permettersi una governante, la persona adulta se ne stava di guardia per vedere se ti facevi del male. Chi poteva avere dei giocattoli? Restava allora uno spazio libero in cui i ragazzini e le ragazzine potevano inventare i loro divertimenti. Allo stesso modo, un tempo gli adulti non seguivano speciali taumaturghi, se volevano ballare ballavano, se sapevano suonare suonavano e sceglievano da soli il da farsi. E i suonatori suonavano, gli attori recitavano, i giullari “giullaravano”, nessuno si occupava del preambolo. Nessuno ti diceva di metterti un cappello ridicolo in testa e fare, che so, il verso del cavallo…
C’è stato un tempo, ve lo dico io, in cui bastava uno scaccia pensieri e le palme delle mani a battere per organizzare una festa e ballare tutta la notte, la voglia di divertirsi era tanta e tanto forte da poter coinvolgere interi paesi. Bastava iniziare a far baccano da una parte e in un momento dalla parte opposta della città stavano già a cantando. Nessuno animava nessuno, tutti si mettevano a fare e ognuno faceva la sua parte. La capacità di trascinare, il fascino, la bravura, la moda, sono sempre esistiti, ma queste doti venivano esercitate comunemente al di là di uno scopo sociale o umanitario.
Sarà stato forse perché il tempo libero non esisteva ancora. Il tempo libero l’avevano solo le persone molto ricche, che erano poche, e sapevano molto bene come divertirsi e come passare il loro tempo.
Poi hanno inventato il tempo libero, e insieme al tempo libero, o poco dopo, ecco che si è dovuto inventare anche l’animatore. Parlare quindi di animazione significa parlare dell’aumentata qualità della vita in occidente, dell’affermazione di nuovi diritti, della nascita di nuove idee sull’educazione e della scoperta della necessità della formazione permanente dell’individuo.
Dall’invenzione del tempo libero, l’animazione (come metodo e ruolo) è entrata nelle case, nelle chiese, nelle scuole, negli ospedali, nei carceri, nei centri vacanze, nelle discoteche e in molte altre piccole e grandi situazioni della vita quotidiana. Persino i grandi meeting tra manager e industriali, o nei grandi incontri di marketing delle compagnie d’assicurazione, sono inseriti interventi d’animazione per aumentare la determinazione alla vendita. L’animazione quindi, non è tutta roba da buttare e rappresenta un importante indicatore sociale, curarne la qualità può considerarsi uno scopo nobile.

L’animazione nel sud del mondo
Misteriosamente l’animazione, come molte delle avventure dell’uomo, nasconde aspetti esaltanti. L’aspetto motivazionale resta comunque centrale. Ciascun nuovo animatore, ciascuna nuova animatrice, conserva in sé un carico di buoni motivi, di ragioni filosofiche non trascurabili. Vi rendete conto della trasformazione assunta in questi anni da questa figura professionale? Dentro lo stesso calderone puoi mettere un giovane boy scout, una ragazzina formosa che vuole fare la modella, e una star televisiva con cache da milioni.
Ma il mistero persiste. Una parte di giovani si introduce nell’ambiente dell’animazione (socio-culturale chiamiamola), perché dentro vi trova elementi di fascinazione che in altri ambiti non trova. Una percentuale affatto irrilevante di ragazzi scopre la possibilità di rendere più verosimile il proprio ruolo recandosi all’estero. Lontano dal nostro pulsante occidente si va a scoprire che l’animazione non esiste.
Vidi arrivare una giovane antropologa inglese in un villaggio dell’Africa del sud con gli occhi pieni d’ardore per il suo nuovo compito, ma mentre cercava di proporre una canzoncina l’ardore si trasformò presto in imbarazzo. Lo stesso accadde in una vacanza rivolta a ragazzi sotto la tutela del tribunale in casentino, ugualmente difficile fu rivolgere una proposta d’animazione a bambini molto poveri nei pressi di Pistoia. Ma la giovane antropologa non si accasciò e dopo alcuni mesi di lavoro volontario in una township vicino Johannesburg comprese che laggiù le canzoncine le sanno già e comunque vengono dopo il cibo, il vestito, il letto, la casa, la famiglia, l’educazione, la strada, la dignità, i diritti… il lavoro da fare era altro. Prima di trovarsi “animata lei” o “rianimata” apprese le strutture base del linguaggio animativo, l’ascolto, l’individuazione delle esigenze, e la risposta calibrata non imposta, fornita con modestia e cedimento.

Due lezioni
Eppure molti animatori continuano a partire, e gli ambiti che rendono veritiera l’animazione come tecnica e come metodologia restano quei luoghi in cui l’animazione resta un gesto spontaneo non ancora commercializzato. Non è che manchi l’esigenza di sorridere e scherzare in certi luoghi, anzi come molti sanno il dono del terzo mondo è il sorriso.
Un’esperienza d’animazione che considero importante è stata quando ridicolmente abbigliato mi recai al torrente situato dietro la collina del Natal, in Sudafrica, dove sorgeva un rifugio per ragazzini abbandonati. Cercavo i ragazzi perché all’improvviso non riuscivo a trovarne nemmeno uno in tutta la casa, quando ne venne fuori uno, evidentemente un ritardatario. Chiesi dove fossero finiti tutti e quello mi fece segno di seguirlo. Accuratamente vestito con cappello di paglia e macchina fotografica chiudo a chiave la casa e mi avvio a seguirlo. Dopo nemmeno cinque minuti, girata la collina, il paesaggio diveniva Africa nera e il baccano si udiva come in un parco dei divertimenti. Da un albero arrampicati i ragazzi si tuffavano uno via l’altro dentro una pozza fangosa del ruscello. Paralizzati dal mio arrivo per alcuni minuti ci fu il silenzio. Tolsi il cappello, gli occhiali da sole e improvvisamente ci fu un boato di risate. Il tiranno era divenuto ridicolo ed era venuto a giocare al loro gioco, senza parlare, senza regole o fischietti. Da quel giorno ho iniziato a portarli in una piscina per evitargli le malattie. Facevamo strane gare, lezioni di nuoto, tutto quello che si può fare in una piscina e anche di più. Il mio ruolo era quello del salvagente, tornavo sfracellato dalla stanchezza: attaccati a me, bianco, esile, quei ragazzini imparavano a nuotare.
Poi ebbi un’altra bella lezione. In verità quando si va a zonzo nei pressi della povertà si finisce sempre senza alcun dubbio per imparare qualcosa. I ragazzi laggiù avevano una sorta di sorveglianti (animatori) e uno di essi era un uomo barbuto, piuttosto taciturno. Rozzo lo si sarebbe descritto. Beveva molto e fumava sigarette di tabacco pecioso. Un giorno venne a trovare i ragazzi, fece un giro delle camerate e poi si avvicinò a un gruppetto con in mano una bottiglia di detersivo per piatti al limone. Nei pressi di un corridoio, serio come una statua d’ebano, lo vidi versarsi una manciata di sapone liquido. Si voltò di scatto e impiastrò di sapone le facce e i vestiti di tre o quattro ragazzi. Quindi si mise a lisciarli come fanno nei film prima delle risse. A spinte e a manate in poco tempo si ritrovarono insaponati. Ai primi se ne aggiunsero altri, così dopo alcuni minuti sul pavimento dell’ingresso, aggrovigliati in un combattimento senza esclusione di colpi, stavano due dozzine di ragazzi schiumati da capo a piedi. Con l’aiuto di alcuni secchi d’acqua la saponata riuscì perfettamente. Probabilmente il sorvegliante aveva sentito il bisogno di dare una lavatina in giro e lo aveva fatto in modo tale che diventasse anche un gioco divertente.

Impressioni e progetti dal Madagascar

Ogni viaggio è un’esperienza personale pressoché irraccontabile, e molto spesso quel che si racconta, tornando a casa, ai genitori e agli amici è solo la parte già tradotta del percorso. Impressi invece in diversi codici, chimici, fisici e psichici, stanno nel nostro corpo, sulla nostra pelle, tutta una serie di messaggi che si traducono col tempo, con la riflessione o per caso, per associazione. Il nostro compito in quanto viaggiatori dedicati allo studio, alla ricerca di possibili collaborazioni, era appunto quello di immagazzinare impressioni e rilasciarle poi col tempo, perché possano dare a qualcun altro la voglia di partire e quella di unirsi nel cooperare, nel cercare di ridurre l’enorme divario tra i nord e i sud di questa palla volante.
Voglio dirvi cosa: non vorrei trasmettere al ritorno da questo viaggio nel cuore dell’infinito, nel cuore del Madagascar, la mia disperazione, il mio profondo senso di impotenza, né l’odio provato davanti agli sfruttatori palesi e occulti di tanta straboccante bellezza, né il disprezzo per gli altri viaggiatori bianchi alla ricerca di un ricordino, di un’esperienza eccitante; né l’orrore, nemmeno l’orrore per la sporcizia e la paura fisica scioccante del contagio. Nessuna di queste cose vorrei trasmettervi.
Come non mi piacerebbe raccontarvi del nostro arrivo il giorno di Natale in un villaggio di case di fango a bordo di un gigantesco fuoristrada dal colore rosso sgargiante, più alto degli spioventi di quei tetti di paglia, quando subito circondati da una ventina di creature vestite di stracci, sotto una pioggia scrosciante, ci siamo accorti di non avere nemmeno un dono. Nemmeno il carbone che qui diamo ai bambini cattivi per la Befana.
D’altro vi vorrei parlare: degli orizzonti infiammati di sole e dei miraggi della barriera corallina e delle donne giovani piene di inebriante candore e delle colonne di baobab nella sabbia e delle narici divaricate e dei toraci lucidi e grondanti dei portatori scalzi di pousse pousse, il risciò locale. E degli incontri insospettati al mattino coi colori impressionanti degli uccelli e delle strane piante dalle forme sconosciute e delle foreste spontanee di mango nella stagione dei frutti maturi gialloarancio, e dell’incontro coi serpenti nella notte e le forme di roccia strapiombante e l’antica terra madre, vagina Africa.
Eppure mi accorgo, scrivendovi, dell’impossibilità di dire e non dire, di spiegare e scomporre, meglio sarebbe essere un colabrodo di esperienze di odori, canzoni, ritmi, voglie, sortilegi, angosce e sorrisi splendenti di un mondo che ancora sorride alla vita come un regalo grande da godere.

Il Progetto Antsirabe

La realtà del Madagascar ha un estremo bisogno di sostegno, soprattutto oggi che si stanno creando le condizioni per uno sviluppo reale. Partendo da queste premesse, il progetto Antsirabe, nato tra l’Italia e il Madagascar sulla base di un lungo rapporto di conoscenza e amicizia, si propone di potenziare tale sostegno per costruire modelli facilmente riproducibili, partendo proprio dalle vastissime risorse del paese. Infatti, per non commettere gli stessi errori del passato, sarà necessario coniugare l’offerta di capacità e conoscenza con una volontà profonda di autonomia e innovazione.
La popolazione malgascia (15 milioni di abitanti circa) è costituita prevalentemente da ragazzi e ragazze molto giovani (14 anni è l’età media) alle prese con la sopravvivenza, costretti a vivere in condizioni di povertà assoluta in ragione dello sviluppo inesistente, dell’assoluta mancanza di controllo sulle tecnologie e sui metodi per lo sviluppo e per la crescita. Il Madagascar è infatti collocato alla 152esima posizione nell’elenco dei paesi sviluppati e questo nonostante sia in realtà un giacimento di risorse inestimabili. Le condizioni di vita non permettono un controllo sulle malattie e le epidemie sono frequenti: malaria, tubercolosi, colera e anche la lebbra nel sud del paese. Inoltre, la poverissima isola vive in uno stato di dipendenza dai sistemi occidentali senza poter intraprendere un suo percorso evolutivo. I tentativi di autogoverno e autodeterminazione restano ancor oggi precari e inconcludenti e legati all’erogazione del credito della Banca Mondiale.
L’informazione e la cultura non sono considerati strumenti di crescita, non esiste una vera e propria editoria malgascia. Di conseguenza, la cultura, la storia e la lingua delle 11 etnie che compongono il popolo malgascio non vengono insegnate e chi va a scuola è costretto a studiare un’altra lingua, dato che non esistono libri di testo. Questo il quadro della situazione del Madagascar.
La richiesta che ci arriva da quella terra, e a cui il progetto Antsirabe cercherà di rispondere, è dunque costruire un modello di sviluppo imitabile che porti a dei risultati in breve tempo.
Gli obiettivi generali del progetto rientrano dunque in quattro ambiti: diffondere l’educazione nelle aree rurali; migliorare l’alimentazione dei giovani malgasci; realizzare un programma d’igiene per le famiglie; migliorare la condizione delle abitazioni, primo luogo di educazione. Tutto questo a partire dall’iniziativa di Jean François Ratsimbazafy e della gente della provincia di Antsirabe che hanno messo a disposizione la loro terra e la terra delle loro famiglie (si tratta di un’unità di circa 4 ettari, più altre due di circa 40 ettari su cui lavorare) per iniziare a uscire dal buio della denutrizione, dalla condanna delle malattie, dalla congiura dell’ignoranza.
Si tratta di aiutarli a mettere in piedi, con sistemi e tecnologie innovativi, un modello di quattro unità correlate e ripetibili in varie parti del paese. Precisamente: un’unità di produzione agro-alimentare; un’unità di trasformazione, conservazione e stoccaggio dei prodotti agricoli; un’unità di villaggio rurale biodinamico a elevato tasso di autonomia; una unità educativa e di apprendimento professionale. Ciascuna delle unità di progetto deve essere pensata per essere un modello riproducibile ad alto contenuto innovativo sia nella ricerca dei materiali sia nell’utilizzazione delle risorse e nell’impatto ambientale: ecco gli obiettivi pratici che J. François ha proposto nell’incontro di Roma del giugno 2005. La consapevolezza alla base del progetto è che, imparando dagli errori fatti in occidente, è inutile costringere i paesi poveri a ripercorrere le fasi più remote dello sviluppo tecnologico ma è possibile immaginare uno scambio globale, un riequilibrio del sistema su basi biodinamiche: infatti, è importante puntare su un modello di sviluppo basato sulla democrazia partecipata, attraverso la condivisione di ciascuna fase del progetto.
Conseguentemente, altri obiettivi saranno quelli di coordinarsi con altri progetti di sviluppo in Italia e stabilire una rete di informativa solidale: auspicabilmente, si pensa di progettare entro il 2006 e realizzare entro il 2008.
Tra l’altro, la situazione attuale presenta alcuni elementi di positività che potranno facilitare l’avvio del progetto: esiste già un progetto di adozione, sostenuto dal MAIS di Roma sul quale si potranno integrare gli altri interventi; la motivazione in Madagascar è attualmente molto forte; esiste un gruppo di interesse composto da persone preparate e disposte a dare un contributo ed effettuare verifiche.
L’intervento che si vuole proporre sarà integrato nella realtà malgascia, pur volendo inserire metodi e tecnologie alternative: in realtà il modello di progettazione partecipata è stato adottato in Europa sulla spinta delle realtà in sviluppo in tutto il Terzo Mondo, dove condividere ha rappresentato per secoli una priorità necessaria. Inoltre, introdurre un modello di casa e dei modelli di agricoltura e consumo alternativi in una terra in cui l’uomo bianco, lo straniero, il Vasaha, ha incendiato e desertificato oltre la metà dell’isola, impone delle responsabilità nuove di immaginazione oltre che tecnologiche. Pannelli solari, energie pulite e reintegro del grande patrimonio biologico risultano dei passaggi obbligati, senza dimenticare che certe espressioni possono avere scarso significato rispetto alla vita delle persone.
La scelta di operare ascoltando le richieste dal basso si propone dunque di incontrare e interpretare le esigenze di innovazione e di autonomia di cui è portatore J.F. Ratsimbazafy per conto della gente malgascia. Non ci può infatti essere uno sviluppo reale se non si riesce a coniugare le necessità di emancipazione dalla povertà con la tutela e la conservazione del patrimonio naturale. Scambiare conoscenze e affinare competenze è l’unica modalità praticabile, abbandonando il solito atteggiamento predatorio tipico della nostra gente.

Per l’adozione a distanza contattare:
MAIS – Movimento per l’Autosviluppo Internazionale nella Solidarietà
Associazione di volontariato ONLUS
via Ettore Ciccotti, 10
00179 Roma
Tel/fax (+39) 06/788.61.63
E-mail: mais@mais-onlus.org

Per il Progetto Antsirabe
Marcello Anastasio
marcamarc@hotmail.it