Skip to main content

autore: Autore: Marco Grana

Tra breve un nuovo regolamento

In passato ci siamo trovati a commentare quello che sembrava uno dei passaggi finali della questione relativa al riconoscimento giuridico della figura dell’Educatore Professionale.

Si trattava della approvazione regolamento ministeriale che individuava la figura del Tecnico della Riabilitazione Psichiatrica e Psicosociale (t.e.r.p.), avvenuta il 17 Gennaio 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.61 del 14 Marzo 1997. Dopo quella data, però, a Brescia, in giugno, si è tenuto il congresso mondiale dell’AIEJI "Funzioni socioeducative in un mondo multiculturale", al quale, a diverso titolo hanno partecipato tra gli altri l’ANEP, l’AISEP (organizzatori), e il ministro della Sanità Rosy Bindi.

In questa sede, di fronte ad alcune osservazioni e domande del presidente dell’Anep, Paoletti, ed evidentemente a seguito di un dibattito che negli ultimi mesi ha coinvolto parecchi soggetti, il ministro si è impegnato a rivedere la questione, ed in particolare a formulare un regolamento che individuasse specificamente la figura dell’educatore.

Un operatore sociale e sanitario

Dopo alcune comunicazioni preliminari, il 14 Luglio nella sede del ministero della Sanità è stata definita una nuova bozza di regolamento che individua la figura dell’Educatore Professionale (e.p.). Prima di commentarla avvertiremo che a fine Agosto la bozza aveva già avuto il parere positivo del Consiglio Superiore della Sanità, e che era in attesa del vaglio del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti. Solo dopo questi passaggi sarà pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.

Per come si presenta in questo momento, la bozza di regolamento, in termini generali, descrive una figura professionale certamente più caratterizzata in termini pedagogici rispetto a quella precedente relativa al t.e.r.p.p., che invece aveva come sfondo una situazione di terapeutica di tipo medico.

Vediamo in quali punti:

– il t.e.r.p.p. è un operatore sanitario, l’e.p. è un operatore sanitario e sociale;
– il t.e.r.p.p. svolge progetti terapeutici, l’e.p. attua progetti educativo/riabilitativi, entrambi elaborati in equipe multidisciplinari, l’orizzonte dell’e.p. è esplicitamente indicato: la partecipazione alla vita quotidiana, la cura del positivo reinserimento psicosociale, è inoltre indicato il compito fondamentale dell’e.p.: lo sviluppo delle potenzialità dei soggetti per il raggiungimento di livelli sempre più elevati di autonomia: come si vede non si parla e non si allude a guarigione, nè si mette l’accento sulla riabilitazione, si parla invece di autonomia in soggetti non ulteriormente caratterizzati (almeno in questa frase). E’ interessante il fatto che il termine autonomia non compaia nel profilo del t.e.r.p.p.

Ancora tre incisi sul regolamento: l’e.p. opera in strutture socio-sanitarie e socio-educative, come il t.e.r.p.p. può lavorare in regime libero-professionale, il diploma abilitante è quello universitario di Educatore Professionale (fatti salvi i casi che rientreranno nella prevedibile sanatoria).

Un riconoscimento in arrivo?

Vogliamo proporre ora alcune personali considerazioni che nascono oltre che dall’esperienza professionale, anche dall’intensa frequentazione di numerosi colleghi, dovuta alla organizzazione e alla gestione di iniziative di formazione.
Per tanti anni uno dei motivi più ricorrenti di assemblee, riunioni, chiacchierate, incontri tra educatori è stato: non siamo riconosciuti, nessuno si rende conto di quanto siamo importanti e di quello che facciamo.
In un numero precedente di HP (n.55), Emanuela Cocever osservava a questo proposito che fino a quando un soggetto afferma di valere qualcosa e pretende che la misura del suo valore gli venga riconosciuta (cioè assegnata) da un altro soggetto, percepito più in alto, la sua affermazione non sarà che una frustrante lamentela capace solo di rimarcare e confermare la debolezza del soggetto stesso. Questo capita agli educatori, e Cocever suggeriva di riflettere sul caso del movimento femminista che negli anni settanta aveva cominciato a autoriferirsi, cioè a scoprire il suo potere, il suo valore (il valore della donna) senza più chiederlo a qualcuno, scoprendolo e usandolo al suo interno. Il passaggio successivo è che a quel punto qualche soggetto esterno comincia a muoversi, a chiedere, a informarsi, a inquietarsi, e qualche equilibrio va a ridefinirsi.

In questi anni i soggetti che si sono attivati per far sentire la voce degli educatori sono stati diversi, e a diversissimo titolo, pensiamo alle associazioni di categoria, ad associazioni culturali, sindacati, scuole, gruppi impegnati su progetti specifici (per esempio il CDH, che produce questa rivista).

Tutti questi soggetti, con grandi limiti, con grandi lacune, ma anche con grandi sforzi (pressoché gratuiti) e impegno, hanno ottenuto qualcosa e hanno contribuito a produrre una cultura, quella grazie alla quale, per esempio, in sede di convegno mondiale si è potuto sostenere che l’educatore professionale e il suo lavoro stanno troppo stretti dentro il paradigma della medicina.

Ora, si profila la possibilità che in tempi ragionevoli gli educatori non solo ottengano l’agognato riconoscimento, ma che addirittura si vada a configurare un buona legge: cosa succederà dopo?

La responsabilità dell’educatore

Noi crediamo che già da ora, come educatori, organizzati o singoli, a prescindere dal percorso legislativo del regolamento, sia urgente porsi alcuni problemi che in questi anni sono stati tralasciati, proprio grazie alla scusa, madre di tutte le scuse, che gli educatori non avevano riconoscimento o contratto nazionale. I problemi che secondo noi sono urgenti potrebbero andare sotto il titolo generale: la responsabilità dell’educatore.

Per tanti anni il lavoro di educatore è stato un lavoro da studenti e da volontari di parrocchia.

Gli uni e gli altri non avevano né problemi di professionalizzazione né di deontologia: i primi perché erano interessati ad un piccolo stipendio che consentisse di mantenere almeno parzialmente gli studi e avevano aspirazioni professionali diverse, i secondi perché -mossi da un etica- non necessitavano certamente di una deontologia.

Sta di fatto che o per il fascino di questo lavoro, o per la disoccupazione, parecchi laureati e parecchi ex-volontari hanno poi continuato a fare gli educatori e si sono presi anche il diploma, sono cioè gli attuali educatori professionali.

Questi sono gli stessi educatori che per anni hanno lamentato la mancanza di riconoscimento sociale ed economico, dimenticandosi spesso di quali siano stati per tutti gli anni ottanta i reali canali d’accesso a questa professione (non c’era selezione, chiunque in pochi giorni poteva trovare un posto).

Ora, con un nuovo contratto nazionale, in attesa di un profilo, come educatori è necessario porsi seriamente qualche domanda: a chi risponde l’educatore? Di che cosa risponde? Chi può dirgli se sta facendo il suo lavoro oppure no? in base a quali criteri? Riteniamo che nascondersi dietro il dito della dimensione umanistica, della non misurabilità, della scarsità di risorse, sia ormai mortificante, proprio per gli educatori, perché mantenere nell’indistinzione la possibilità di criticare il proprio lavoro significa anche inibirsi la possibilità di capirlo, di migliorarlo, di definire delle aree di responsabilità (e quindi di riconoscimento sociale).

Va detto che qualcosa di significativo è già avvenuto: la definizione di parametri di qualità condivisi dalle Regioni e dal privato sociale (cooperative e associazioni) è stato un passaggio importante, che però riguarda molto gli aspetti amministrativi, economici, di gestione d’impresa, e pochissimo lo specifico del lavoro educativo.

Ora, gli educatori, attraverso le loro organizzazioni, nei loro luoghi di incontro dovrebbero essere capaci di definire dei parametri di qualità specifici per la loro realtà, e il problema di questi parametri non dovrebbe essere la misurabilità, ma la riconoscibilità (c’è o non c’è, è visibile o non è visibile). Comunque dovrebbero cominciare a sentirsi l’insostenibilità di una situazione in cui di fatto, nella realtà di molti servizi attuali, qualunque aberrazione è giustificabile.

In un seminario svoltosi alla Istituzione Minguzzi a Bologna si è parlato del senso del Progetto nel lavoro educativo, ed erano confronto due concezioni diverse ed interessanti. Una, per così dire, classica, dove il progetto è inteso come prodotto multidisciplinare che funziona da organizzatore di un percorso, l’altra invece dove veniva criticata sia in termini epistemologici sia in termini sociologico-culturali l’idea stessa di progetto (di derivazione industriale) e veniva proposta una altra modalità per organizzare il lavoro educativo (la costruzione contrattuale di contesti).

In entrambe le proposte, però, era ben presente una idea: sia il progetto sia la costruzione di contesti impegnano l’educatore a fare alcune cose, in un certo modo, con certe finalità. Verso chi è diretto questo impegno? Chi può verificarlo nei suoi aspetti tecnici?

La realtà è conosciuta da tutti gli educatori: nella maggior parte dei servizi pubblici, in appalto, e privati quando si fanno domande sul progetto si hanno questi tipi di risposte:

il progetto? Se ce, non lo conosco,

ma è di molti anni fa, ora la situazione è completamente cambiato: facciamo quel poco che possiamo e che è urgente, il progetto è bellissimo ma è stato formulato sulla luna, non ci sono le risorse per realizzarlo, qui abbiamo problemi più concreti.
Non è così dappertutto, e almeno nelle sedi formative e organizzative questa situazione viene riconosciuta e onestamente affrontata, ma è un buon esempio di quanto sia troppo facile per gli educatori giustificare quella che spesso è semplice improvvisazione.

Qualche parametro di qualità potrebbe per esempio essere costruito proprio su questo:

esiste un progetto, o comunque una formalizzazione dei compiti?

gli educatori ne hanno conoscenza?
hanno contribuito a definirla?
è applicata?
come si muovono in relazione ad essa?

Ma c’è ancora qualcosa di più serio da dire. Esistono situazioni dove il problema non è il progetto, ma il mantenimento della legalità e del corretto rapporto col sistema giuridico:
a livello sindacale, nel rispetto dei protocolli relativi ai trattamenti farmacologici e sanitari in genere, in relazione agli atti e ai soggetti giuridici.
A livello sindacale si tratta del banale quanto drammatico problema del rispetto dei contratti di lavoro, Bologna è (forse era) una realtà privilegiata, ma anche a Bologna i problemi non mancano.
Non ci dilunghiamo su questo sperando di farlo in altra occasione.
Per quanto riguarda il secondo punto, esistono situazioni in cui, con ogni ordine di giustificazione pseudo-etica o ideologica, gli educatori si prestano a collaborare a attività al di fuori di qualunque normativa, per esempio nella gestione del metadone, o, addirittura somministrano farmaci arbitrariamente. E’ necessario, secondo noi, rompere con l’inerzia culturale che rende impossibile di fatto denunciare queste situazioni (che si appoggiano a collusioni, complicità, frustrazioni, amicizie, rapporti personali), e dovrebbero essere gli educatori stessi a prendere l’iniziativa in tal senso.
Infine, un fenomeno che conoscono benissimo tutti gli educatori che hanno a che fare con giudici e con assistenti sociali del Ministero di Grazia e Giustizia: i giochi, le triangolazioni, le collusioni che si verificano quando un utente è soggetto a misure restrittive con ordinanza o decreto di un magistrato. La gara tra educatori e assistente sociali per dimostrare al ragazzo chi è il più buono, chi è più disposto a dichiarare il falso o a promettere di più. Si tratta di un fatto penoso, diffuso, che si riversa negativamente sia sul ragazzo sia sull’ambiente che lo circonda. Il problema è da inquadrare nell’ordine istituzionale (cioè nella dinamica relazionale tra ruoli e organizzazioni diverse), ma gli educatori (e anche gli assistenti sociali) dovrebbero cominciare a modificare qualcosa in questi comportamenti.

Una deontologia professionale

Fare la parte del grillo parlante o del provocatore non è mai simpatico, ma a volte può servire per avviare processi ormai non rimandabili, prima che per l’ennesima volta ci si debba appellare alle emergenze, o al fatto che qualcun’altro non ci riconosce.
In termini generali riteniamo che in presenza di un contratto nazionale di lavoro, e vicini, forse, alla soluzione del problema del riconoscimento giuridico, gli educatori abbiano l’opportunità e il dovere di darsi una deontologia, di garantire il rispetto di alcune regole, di pretendere il rispetto di alcune regole. Desideriamo accogliere il suggerimento di Emanuela Cocever: gli educatori comincino a parlare tra loro: scoprire cosa sanno fare, dirsi chiaramente quali sono i loro limiti ma anche cosa ci sta dentro questi limiti. HP potrebbe essere uno dei luoghi adatti ad ospitare contributi in tal senso: di riflessione, di proposta, di denuncia, di informazione sulle iniziative in tal senso.

Educatori e linguaggi

Il linguaggio degli educatori: un codice tra i codici

Ogni professione, notoriamente, ha un suo linguaggio definito da unvocabolario specifico, una certa grammatica, un contesto al quale è legato daisignificati e nel quale è riconosciuto valido dagli attori che lo utilizzano.All’interno di un linguaggio professionale generale possono esistere deilinguaggi più ristretti parlati all’interno di un gruppo particolare diprofessionisti.
Questo vale, in linea di principio, anche per gli educatori professionali, manon appena ci si avvicina all’argomento ci si accorge che il tentativo diidentificarne vocabolario e grammatica è votato ad alcune difficoltàspecifiche.

Difficoltà storico culturali

Anche se non è corretto dire che il lavoro educativo sia qualcosa di nuovo,è vero che allo stato attuale è ancora qualcosa di non sufficientementedefinito, basti pensare al fatto che nel 1996 non è ancora previsto uninquadramento legislativo della figura e delle mansioni dell’educatoreprofessionale. D’altra parte la storia di questa professione è la storia delpassaggio della funzione di cura e di aiuto dalla famiglia o dalle istituzionicaritatevoli a soggetti e istituzioni dalla natura completamente diversa (Usl,cooperative, agenzie, associazioni) che operano in ambito diverso (da quellofamiliare o comunque dell’appartenenza a quello lavorativo) con stili e finicompletamente diversi, e quindi con una stratificazione di riferimenti culturaliestremamente eterogenea. L’esempio più notevole è fornito dalla compresenzadegli educatori provenienti dal volontariato cattolico o dall’impegno politicodi sinistra e quelli che semplicemente ad un certo punto della ricerca di unlavoro si sono imbattuti in una opportunità occupazionale.

Difficoltà legate al contesto

Qui il problema è ancora più complicato. L’indefinitezza legislativa eculturale sopra esposta provoca (almeno in parte) una situazione disubalternità dell’educatore rispetto alle altre figure professionali da cuinormalmente è circondato: lo psichiatra, lo psicologo, il pedagogista,l’assistente sociale. Queste figure dispongono di un loro linguaggio e loparlano; l’educatore, che da una parte si trova in mezzo (tra tecnici e utenti,tra famiglie e istituzione), dall’altra si trova al di sotto (dei tecnici), sitrova facilmente ad assumere in modo piuttosto acritico frammenti, parti,segmenti dei loro linguaggi. Così, per esempio, si ritrovano educatori chepiuttosto che descrivere un comportamento emettono una diagnosi, o ancora dipiù che faticano a formulare una certa domanda perch‚ non riconosconodignità alle parole (e quindi mancano dei concetti corrispondenti) che servonoa identificare un problema all’interno di una situazione quotidiana.

Difficoltà strutturali

Si tratta di un problema di carattere epistemologico: il linguaggio che glieducatori impiegano per dire deve avere un riscontro e nascere nella prassiquotidiana. Questa prassi è definibile in primo luogo come vicinanza e contatto(o contenimento e cura se si preferisce) con il cambiamento, con la sofferenza,con la diversità, con il bisogno. Ciò significa che il contenuto principaleche il linguaggio degli educatori veicola è una fluttuazione di emozioni,sentimenti, ansie, paure e desideri, da un soggetto a un altro. Quando uneducatore dice il suo lavoro non parla di oggetti separati da s‚, ma parla diqualcosa che si dà tra s‚ e un altro, dice anche di s‚.
Per avvicinarsi al linguaggio degli educatori occorre quindi in primo luogopartire dai soggetti che ruotano intorno agli educatori, perch‚ è a questiche l’educatore dice, e sono questi che all’educatore dicono; in secondo luogooccorre interrogarsi sulle implicazioni della specificità della situazioneeducativa.

Il linguaggio dei tecnici

Il linguaggio dei tecnici è per definizione tecnico/scientifico. E’ cioèsufficientemente astratto e denotativo perch‚ lo si possa utilizzare incontesti differenti e indipendentemente da un individuo particolare. Persemplificare la comprensione, si può opporre il tecnico all’artigiano: iltecnico può trasmettere il suo sapere attraverso il linguaggio perch‚ tuttoquello che sa o fa è definibile a parole e concetti, l’artigiano no,l’artigiano può trasmettere il suo saper fare solo attraverso l’esempio,l’imitazione e l’osservazione prolungata dell’allievo. L’artigiano non esauriscequello che lui sa fare nel linguaggio verbale. Questo succede perch‚ nellavoro dell’artigiano è presente una componente di corporeità e di esperienzaspecifica che non è trasmissibile a parole.
Il linguaggio tecnico/scientifico ha anche altre caratteristiche: è preciso, ècoerente, consente di identificare chiaramente e quindi distinguere il soggettodal suo oggetto, consente di formulare ipotesi e di verificarle, porta adanalizzare la realtà in modo operativo, cioè in modo da poter intervenire sudi essa per modificarla intenzionalmente.
I tecnici dei servizi educativi in genere sono psichiatri, pedagogisti,psicologi. Dire che i rispettivi linguaggi corrispondano esattamente a quantodetto sopra sarebbe una forzatura, tanto più che in alcune di queste disciplineesiste una seria riflessione a carattere epistemologico che investe anche iproblemi a cui si fa riferimento. Rimane comunque vero che, almeno formalmente,i tecnici dei servizi educativi dispongano di linguaggi codificati ericonosciuti, fatti di teorie, ipotesi e dizionari.

Il linguaggio dell’istituzione

Per istituzione si intende qui l’istituzione pedagogica o terapeutica. Il suolinguaggio è per definizione quello dei progetti, degli obiettivi e dellestrategie e di norma è un linguaggio scritto. E’ quindi un linguaggio rigido,contestualizzato, specifico e per quanto possibile, operativo.
Il linguaggio dell’istituzione ha due implicazioni fondamentali: consente diverificare costantemente ciò che si sta realizzando confrontandolo con ciò chesi aveva intenzione di realizzare e quindi dà la possibilità di correggerel’azione nel suo corso.
Crea una doppia illusione sul tempo: da una parte la scrittura, la definizionedi procedure, di passi successivi, di obiettivi, producono un oggetto (illavorare e l’oggetto del proprio lavoro) che si blocca all’immagine che ne vienedata ad un certo momento (cioè al momento della stesura del progetto).Dall’altra la logica progettuale porta a ragionare come se fosse possibile unagradualità, mentre i processi di apprendimento e di cambiamento (a cui fannoriferimento gli educatori) non sono quasi mai graduali, n‚ seguono una logicariconoscibile; al contrario sono spesso improvvisi, contengono una certa dose diviolenza e sono spesso difficilmente comprensibili.
Per il lavoro degli educatori il senso della presenza di un progetto non èsemplicemente di carattere produttivo: il fatto di avere cioè un riferimento inqualche modo oggettivato con cui confrontarsi non dovrebbe rispondere solo aduna logica di razionalizzazione della produttività, come potrebbe essere in unafabbrica di automobili, ma dovrebbe rispondere alla necessità di mantenere unriferimento terzo rispetto a tutte le soggettività coinvolte nel processoeducativo. Dovrebbe avere cioè una funzione molto simile (ma ad un altrolivello) a quella del quadro normativo esplicito che definisce il setting o ilcontesto nel quale si lavora. In questo preciso senso il progetto, o la semplicedefinizione degli obiettivi e delle strategie, sono strumenti utili edessenziali, ma a condizione che oltre ad essere punti di riferimento, sianoanche oggetti criticabili, così come devono poterlo essere le varie istanzesoggettive. Il limite e la difficoltà del linguaggio dei progetti sta nella suaforma e nella sua storia: è scritto, è per forza di cose unidimensionalerispetto alla realtà da cogliere (tutto è descritto in termini dibisogni/risorse, problemi/soluzioni, obiettivi/strategie) e quindi la semplificaindebitamente. Per queste sue caratteristiche è difficile da criticare.

Il linguaggio delle famiglie

Vi è un altro soggetto importante che, essendo coinvolto nella realtà dellavoro degli educatori, li attornia. E’ il soggetto che delega le sue naturalifunzioni di cura, di educazione, di aiuto, di vicinanza. In genere questosoggetto è la famiglia. Essa però è anche il luogo sociale di sintesi di unsoggetto più grande o almeno di altri soggetti che si incrociano con essa: ilquartiere, il paese, la scuola, il gruppo di amici, i vicini di casa, il luogodi lavoro. In altre parole è il sociale. E’ quella parte specifica di sociale acui appartiene l’utente, ed è quello stesso sociale a cui più genericamenteappartiene l’educatore, e ancora lo stesso che più genericamente produce elegittima l’istituzione.
La famiglia che delega in realtà non è solo la famiglia, ma è la famiglia,più il vicinato, più il datore di lavoro, più il gruppo di amici; essi non silimitano a chiedere qualcosa per la persona handicappata, tossicodipendente,folle, chiedono qualcosa anche per se stessi. Chiedono per la precisione checessi o diminuisca la fatica di una vita con un figlio completamente dipendente,che cessino i furti in casa o il terrore-desiderio di una morte improvvisa, checessi di essere visibile lo scandalo della follia, cioè della negazioneeffettiva e attuata della normalità. La dimensione sociale di questo soggetto,il suo potere legittimante sia indirettamente nei confronti del ruolodell’educatore, sia direttamente nei confronti dell’istituzione, fa si chequesta seconda domanda sia in realtà un mandato, ed in particolare un mandatoche è interiorizzato anche dall’educatore dal momento che egli stessoappartiene a questo sociale.
Il mandato e la delega sono due atti sociali e comunicativi che, nellospecifico, implicano posizioni relazionali differenti. La delega si conferiscedal basso: una famiglia chiede ad una istituzione di occuparsi di un suo membroe, qualche volta, ha un piccolo margine di contrattazione; ma maggiore è il suobisogno e maggiormente dovrà accettare le condizioni poste dall’istituzione.D’altra parte se è vero che è il sociale a legittimare l’istituzione, allorale richieste che questo fa per s‚ (che sono fondamentalmente di ripristinodella normalità) assumono il valore di un mandato, mandato per il qualel’istituzione era nata, mandato che l’educatore ha già interiorizzato, mandatoche pone la famiglia in una posizione di superiorità rispetto all’istituzione.
Di qui due ipotesi: questo trovarsi contemporaneamente up e down sia da partedella famiglia, sia da parte dell’istituzione è all’origine di una serie diproblemi di rapporto tra questi due soggetti. L’interiorizzazione da partedell’educatore di un mandato contemporanea alla assunzione di una delegaall’interno del suo ruolo provoca anch’essa una serie di atteggiamenticontraddittori, se si è in assenza di una consapevolezza critica del propriolinguaggio e del proprio ruolo.

Il linguaggio degli educatori

Il linguaggio degli educatori, quello cioè che gli educatori usano per dire,è dunque un insieme eterogeneo e tendenzialmente disarticolato di altrilinguaggi.
Il linguaggio ordinario che potremmo definire una "riserva di buonsenso" che a volte è necessaria e utile e altre volte è di impedimentoalla comprensione e all’azione.
Il linguaggio dell’istituzione che emerge con evidenza quando si comincia aparlare di verifica degli obiettivi o di protocolli di osservazione.
I linguaggi tecnici della pedagogia, della psicologia (in particolare quellasistemica), della medicina, del diritto, qualche volta della sociologia e dellapsicanalisi.
Ma insieme a questi linguaggi esiste almeno in stato embrionale un linguaggiospecifico degli educatori?
Interrogarsi sull’esistenza di un linguaggio specifico degli educatori significainterrogarsi sulla specificità dell’oggetto del loro lavoro. Il lavoro deglieducatori è in primo luogo un lavoro di relazione che risponde albisogno-desiderio di relazione nel presente di una persona.
Il linguaggio degli educatori è quello capace di comunicare ed esprimerequalcosa che si dà nel presente, dove il presente è il presente di unarelazione tra persone o gruppi, dentro un contesto che è allo stesso tempoistituzionalità e quotidianità.
In questo linguaggio la descrizione precede la spiegazione, la connotazioneprecede la denotazione, la memoria è più utilizzata dell’astrazione, laspiegazione è più una ricerca di significati che di cause, la denotazioneserve più a rendere possibili dei confronti che a emettere delle diagnosi oincasellare i fenomeni in categorie.
Il linguaggio degli educatori, diversamente da quello dei tecnici, non tende acategorizzare ma a descrivere, non identifica con precisione un oggetto maaderisce alle fluttuazioni della relazione tra s‚ e un altro; non spiega unepisodio ma lo racconta; l’educatore, per dire, sforza la memoria, il tecnicosforza la sua competenza a collegare informazioni che stanno su differenti pianidi astrazione; ma la cosa enormemente più importante è che il soggettoeducatore che dice, dice di s‚, anche se di s‚ in un altro momento.
Un esempio: per il tecnico la parola "contenimento" indica una seriedi azioni che hanno un determinato scopo: una interpretazione ben data ad unutente molto ansioso può avere una certa capacità di contenimento, così comepuò averla una benzodiazepina o il comportamento rassicurante di un educatore.
Per un educatore "contenimento" è un fatto più o meno quotidiano chesi dà tra s‚ e un altro e che è prodotto da, comporta, e rinforza un climadi vicinanza e di reciproca comprensione. Quando un tecnico parla dicontenimento parla o di un concetto o di uno strumento; quando ne parla uneducatore, questi parla di s‚, o, per essere più precisi, parla di unaqualità o di uno stato della sua relazione con l’utente.

La comunicazione tra educatori e famiglie

Un secondo esempio nel settore della tossicodipendenza è una tipica esemplicissima domanda che i familiari rivolgono agli educatori e che mette glieducatori in estremo imbarazzo: "come sta mio figlio?". L’idea di starbene per un familiare deve corrispondere più o meno ad una condizione di unacerta serenità d’animo, di ragionevole rispetto delle condizioni richieste perla permanenza e di un buono stato di salute. Nei servizi residenziali per latossicodipendenza non solo è piuttosto rara la compresenza di queste trecondizioni, ma è certo che ove queste fossero la norma, i servizi stessi nonavrebbero ragione di esistere.
Inoltre, nella visione dell’educatore, la famiglia del tossicodipendente èquasi sempre una parte importante del sistema patologico ed è parzialmente eimplicitamente utenza presa in carico.
Per l’educatore la domanda che potrebbe corrispondere a "come sta miofiglio" è "questo utente si sta impegnando?". Un utente che siimpegna o che si sforza all’interno di un centro residenziale pertossicodipendenti è una persona che non sta affatto bene, che probabilmente ènervosa e non dorme la notte, ma che impiega le sue energie per costringere sestesso a rimanere all’interno di una situazione normativa e relazionale per luidifficilmente tollerabile.
Bisogna rilevare che gli educatori in genere si rivolgono alle famiglieutilizzando il linguaggio in termini professionali per comunicare delleinformazioni; invece le famiglie si rivolgono agli educatori in terminiaffettivi per ottenere una attenzione particolare e personalizzata per i lorofigli, per rinforzare una immaginaria o reale collusione che di volta in voltaha come "nemico" o l’utente-figlio stesso, o l’istituzione vista comecattiva, o un certo psichiatra incapace, o un altro educatore. Qui non si trattatanto di sottolineare gli scopi di questi linguaggi, quanto piuttosto disottolineare la differenza e l’incomunicabilità dei registri che vengonoutilizzati: professionali e distaccati gli educatori, affettivi e personalisticii familiari.

Il rapporto con gli utenti

Un’altra direzione del dialogare degli educatori è quella che conduce agliutenti. Il loro linguaggio è apparentemente identico a quello dei familiari; sitratta di una semplificazione dovuta al fatto che non si dispone delle categoriecapaci di leggere e schematizzare il linguaggio della sofferenza, o delladebolezza. Occorre prendere in considerazione un’idea presente in questolinguaggio e confrontarla con quella (non) corrispondente degli educatori:l’idea di cambiamento.
Per gli educatori l’idea di cambiamento si articola fondamentalmente su duepoli: uno è la "devianza", l’altro è la "normalità". Inmezzo ai due poli c’è un iter terapeutico, un progetto pedagogico, una stradadi cambiamento.
La devianza può essere uno stato di sofferenza, di insufficienza di competenze,di insufficienza di risorse. La normalità è un idea di salute in genere nonmeglio precisata, ma affidata appunto ai significati intuitivi e non criticatigià presenti nel linguaggio. Gli educatori in genere sanno per esperienza cheil processo di cambiamento è doloroso, ansiogeno, ha poco di romantico e moltodi antipatico.
Per l’utente l’idea di cambiamento è a due livelli, uno superficiale e unoprofondo. A livello superficiale il cambiamento è il passaggio da uno stato dimalessere/insufficienza ad uno stato di benessere/sufficienza. In questa idea èmolto presente la percezione della sofferenza in atto mentre in genere èassente la consapevolezza della sofferenza o della fatica insita nel processo dicambiamento, sofferenza-fatica che è di tipo nuovo e quindi spaventa anche dipiù. A livello profondo il cambiamento è un cambiamento di identità, e uncambiamento di identità equivale ad un suicidio dell’anima.
A partire da questa differenza di significati, tra educatori e utenti, inassenza di una riflessione critica e di una elaborazione comune, si danno tuttauna serie di difficoltà; il fenomeno più evidente e comune è che l’utentecomincia ad incolpare l’educatore del fatto che sta male come prima o peggio diprima, mentre l’educatore comincia a dire o pensare: "ma allora sei tu chenon vuoi cambiare!".
Ecco un esempio di cosa si intende per disarticolazione ed eterogeneità dellinguaggio degli educatori.
Tra gli effetti più visibili di questo stato di cose si possono ricordarel’insoddisfazione, ovvero la difficoltà a esprimere e comunicare che èdifficoltà a cogliere la sostanza della sua fatica quotidiana, quella per laquale è pagato; la subalternità rispetto a chi è visto (con maggiore o minoreprecisione) essere proprietario di un linguaggio, può produrre a volte ancheinvidia nei suoi confronti e quindi ulteriore difficoltà ad apprendere e acomunicare.
A questo vanno aggiunte le limitazioni nello svolgimento dei propri compiti,quando questi sono osservazione e comprensione di ciò che accade.
Queste difficoltà, questo sforzo supplementare richiesto all’educatore,producono però anche effetti positivi come una acquisita capacità a comunicarein linguaggi completamente diversi e conseguentemente a collegare tra lorodomande e risposte, problemi e risorse, sofferenze e cure che rimarrebberoaltrimenti distanti tra loro.

Riabilitar e trasumanar

Riabilitare soggetti svantaggiati nel nostro ordine sociale, già di per se’ alienante, non è semplice. Il paradosso di una metodologia riabilitativa nella riappropriazione della normalità, tra emancipazione dall’handicap ed obbligo all’omologazione. Intervista a Massimo Manferdini, educatore presso il Polo Handicap del Quartiere Borgo-Reno di BolognaChe cos’è per te la riabilitazione?
La prima cosa che mi viene in mente è chiarire cosa significa essere abili: a quanto ne so potrebbe essere la misura di una compatibilità con l’ordine sociale in senso lato. Penso che anche tutte le riabilitazioni di tipo fisioterapeutico oppure psichiatrico debbano avere questo fine. Mi viene da pensare che la riabilitazione sia un tentativo di creare delle opportunità affinché soggetti con difficoltà varie riescano a convivere con questo ordine sociale.

Dì qualcosa di questo ordine sociale.
L’essere abili è un problema generale, non solo degli handicappati: è un problema di tutti, perché convivere con una società così, con una quota di alienazione così grande non è semplice. L’aspetto che mi colpisce è questo, dell’alienazione, dell’essere separati un po’ dalla propria vita, e un po’ dal momento presente: per esempio, ci sono persone che vivono di film o di telenovelas, e la loro vita è completamente proiettata dentro queste strutture. Il paradosso diventa quello che non c’è interesse o coinvolgimento per le relazioni reali che li circondano. Questa è una forma di alienazione molto grande perché determina un contesto dove tutto concorre a separare la persona dalla sua esistenza e dal momento presente, spingendola a fantasticare ad avere sempre nuovi desideri da rincorrere e da soddisfare oppure inducendo a nostalgie verso un passato ormai addomesticato. In questo contesto essere abili a convivere in una società di questo tipo può presentare dei rischi anche grossi: nello stesso tempo c’è una tendenza sempre più grande (per esempio in autori come Redfield, La Profezia di Celestino) c’è una tendenza forte ma non troppo appariscente ad occuparsi della propria esistenza alla ricerca di un significato più profondo che non sia il far soldi o lo star bene, c’è un po’ di tutto.

C’è una specificità di questo problema nell’handicap?
Penso che ci sia, nel senso che ci troviamo a che fare con difficoltà particolari, anche se non è detto che queste difficoltà particolari siano sempre un ostacolo; tutti hanno difficoltà particolari, la peculiarità esiste, ma esiste per tutti, con gradi diversi in termini di gravità. Secondo me, il problema per tutti è di riuscire a non fantasticare, ad abitare il presente e a rimanere in contatto con la propria esistenza, è una cosa molto difficile che non tanti fanno, c’è la specificità, ma non è diversa da tante altre specificità.

Sono molto d’accordo con te sul fatto che ci sia un problema di abilità non scontata a vivere nel nostro mondo, e che questo problema sia di tutti. Vorrei, però, che ora tu facessi lo sforzo di qualificare in che cosa può consistere la specificità di questo problema nell’handicap, soprattutto in relazione alla tua esperienza.
L’esperienza di lavoro presso un centro diurno mi ha convinto che la riabilitazione richiesta a strutture come quella, che storicamente avrebbero dovuto rimediare ai guai combinati dall’istituzionalizzazione, finisce sostanzialmente per essere la richiesta di tenere lì delle persone non facilmente inseribili nell’ordine sociale, e tenerle lì senza dar troppo fastidio, non facendo troppi sforzi perché partecipino alla vita quotidiana. Di fatto la richiesta sociale si riduce a questo: l’esperienza mia è stata di reagire a questa richiesta sociale, non tanto per spirito di reazione, ma perché l’esigenza di queste persone era di non far parte di un ghetto, di avere una vita che comprendesse più contesti, non solo casa-centro, ma anche cinema, osterie, pizzerie, biblioteche, centri sociali, barbiere, negozi di abbigliamento, eccetera. Nonostante tutto, questo sforzo è minato alla base da come è strutturato il centro, nel senso che è una struttura dove l’handicappato va tutto il giorno, che non ha funzioni istruttive, e le funzioni educative gli sono riconosciute soprattutto sulla carta; di fatto la richiesta sociale non è quella di una maggiore autonomia di vita, ma semplicemente “tenetevi questi personaggi scomodi, prendetevene cura nel modo migliore, ma affari vostri, senza darci fastidio”.
La riabilitazione era una impegno che il centro assumeva come suo impegno, certamente non una richiesta, nemmeno dalla Usl.
Il lavoro qui è una cosa complicata, perché il lavoro è più vario e con più utenti: se penso ai gruppi pomeridiani oppure a tutta una serie di casi di interventi individuali, mi pare che lo sforzo sia quello di dare possibilità e opportunità che diversamente non ci sarebbero, come, banalmente, l’accesso a un certo negozio, o a uno spettacolo, o la possibilità di riflettere su proprie esperienze esistenziali insieme ad altri. Lo sforzo è quello di garantire queste opportunità: in un certo senso questo riabilita. Probabilmente sarebbero utili anche figure di operatori sociali che facessero questo tipo di proposte anche a persone non handicappate.

Torniamo un attimo indietro e insisto sulla specificità nell’handicap. Cosa pensi dell’idea che la specificità del problema nell’handicap sia la sua forma paradossale? Nell’handicap c’è in un primo tempo il desiderio, la necessità di appropriarsi e di partecipare ad una normalità, a un ordine sociale dai quali si è emarginati, esclusi, alienati, per poi potersene emancipare, emancipandosi quindi anche dall’obbligo alla omologazione che è della nostra cultura (è un po’ l’analisi che Pasolini faceva del sottoproletariato delle periferie delle grandi città italiane, in opposizione alla borghesia).
Si tratta di una specificità che in realtà è generalizzabile ad altre situazioni, alla malattia mentale, agli immigrati provenienti da paesi poveri, alla tossicodipendenza, fatte le dovute differenze.
Penso che questo paradosso esista, che sia un prezzo da pagare nella riabilitazione degli handicappati, e in questo gioco non bisognerebbe perdere in termini di contatto con la propria vita, un contatto che molti altri non hanno.

Qui ritorna una cosa che dicevi en passant prima, e che volevo riprendere: non sempre l’handicap, o le difficoltà particolari, sono un ostacolo. Anzi sembrava che tu volessi dire che condizioni esistenziali particolari è come se spingessero sia chi le porta sia chi gli sta vicino ad una ulteriore ricerca, ad una ulteriore spinta alla crescita.
Sì, per la distanza dagli stereotipi: più sei distante dagli stereotipi culturali e più devi cercare. E poi dov’è una difficoltà e un limite, lì c’è anche una forza per superare quel limite. Questa è l’esperienza mia, nel senso che la difficoltà è nello stare in presenza di questa difficoltà particolare, che può essere un handicap o un’altra cosa, riuscire a starci insieme, abitando con queste difficoltà. L’handicappato come qualsiasi persona può trovare una strada…anzi ha di fronte il vero, non il verosimile e già questa è una cosa che non va perduta. Non bisogna gettare il bambino con l’acqua sporca.

Ho la sensazione che questo tipo di ragionamento incida fortemente sul posto che il Metodo e la Metodologia hanno nel nostro lavoro, perché metodo significa serie di passaggi definiti e ordinati, orientati a un certo risultato: il cosiddetto “come si fa”. Nel nostro caso il lavoro di abilitazione o riabilitazione ha a che fare con un paradosso e con l’attribuzione di un certo significato al vissuto del limite, e ad una appropriazione del presente, e quindi del possibile, ma non di un oggetto definito e stabile. Come si configura, e dove si configura, secondo te, una metodologia riabilitativa che parta da questi assunti?
La risposta sta già un po’ nella domanda: se metodo ci può essere, è un metodo per compiere la prima parte, che è quella che attiene all’ordine del verosimile. Ci può essere metodo nel percorso di riappropriazione della normalità, nel rientrare. Per questo è possibile un metodo, ovvero immaginarsi una serie di passaggi successivi di acquisizione di competenze sociali, o di possibilità di movimento, oppure di capacità relazionali in senso stretto.
Per la seconda parte del percorso, che è quella che precede la prima, perché è la condizione di fatto, la condizione di handicap, ma anche la disarmonia col mondo che riguarda tutti, per quella che è attinente all’ordine del vero, il metodo non c’è. Ci possono essere delle intenzioni dei propositi, dei punti di partenza. Sono itinerari su una carta che sappiamo che potranno cambiare e non sappiamo come. E’ la prospettiva della ricerca, che non ha metodo: l’errore ha la stessa radice dell’errare, il metodo esiste ma viene costruito passo per passo, il metodo è non aver metodo. Per cui è possibile, è necessario ipotizzare un percorso strutturato metodologicamente per rientrare nella normalità, ma per l’altra parte…Comunque anche solo la riconquista della normalità è una cosa non disprezzabile!

Così ci siamo avvicinati agli aspetti operativi, in cosa consiste la tua pratica di riabilitazione?
Soprattutto la relazione, è lo strumento principale. Tra l’altro questi due momenti del paradosso che abbiamo descritto sono compresenti nel lavoro di riabilitazione, come giustamente nei paradossi. Da un lato l’aspetto normalizzante, per esempio nella visione dei film, che sta nel progetto che conduciamo a Bologna in via Podgora, al Circolo Pinguino Blu; c’è l’aspetto stereotipato, la presa di contatto con le richieste sociali dominanti insieme alla presa di contatto con la verità delle esperienze personali, dei vissuti esperienziali. Come sempre è così, aveva ragione Simon Weil: questa distinzione tra il piano del verosimile e il piano del vero non è possibile, sono mescolati e quindi è attraverso la discussione, il confronto, la relazione nel senso più ampio, su ciò che vediamo assieme da un lato, e sui comportamenti concreti dei ragazzi e i miei dall’altro, che cerchiamo di renderci abili a esistere…garantire a una persona un’intervento individuale di un educatore può essere l’opportunità che gli permette di riappropriarsi di spazi sociali di tutti , anche di cose molto semplici, anche di qui parte una metodologia di questo tipo, che poi per ogni persona ha le sue specificità (certi posti piuttosto che altri, certe cose, in relazione alla configurazione familiare, per esempio, cercando non risolvere problemi ma di stare nei problemi, stare in presenza dei problemi…
Il termine “problema” mi viene poi dalla impostazione metodologica del problem solving, che è un metodo che è inadatto al nostro lavoro, (è adatto per la prima parte, per la riconquista della normalità), ed è completamente inadatto per la seconda parte, per il contatto con il vero. Non c’è nessun problema da risolvere in questo orizzonte. Anche sul lato dell’educazione è la stessa cosa: per la prima parte ci può essere metodo, scienza, campo d’indagine, obiettivi anche se non in senso stretto, ma nel senso di attese di cambiamento comportamentale ma nella seconda parte, che è l’aspetto più esistenziale, davvero si tratta di un orizzonte di senso, e non di un insieme o di pratiche o passaggi successivi per arrivare a un fine… Mi ricordo un passaggio di Benjamin che mi è rimasto impresso, forse dal libro sul dramma barocco tedesco, in cui lui parla del rapporto tra ricerca e verità dove lui dice radicalmente che non ci può essere ricerca della verità e che la verità è sempre qualcosa che sorprende la direzione nella quale stai andando, cambia, non la puoi prevedere. La ricerca non è un procedimento ordinato per prove ed errori, ma un atteggiamento, una educazione dello sguardo, guardare in una certa direzione e aspettare. Se uno si educa all’attenzione quando la cosa è vera e si mostra la vedi, se no… non c’è altro.
In conclusione possiamo dire che concretamente il tempo della riabilitazione può essere occupato per rientrare o riconquistare gli spazi di normalità, il più possibile, però mantenendo viva l’attenzione non tanto a questo piano, non tanto alla verosimiglianza, ma alla verità, a cogliere gli elementi di verità che pure in questo percorso emergeranno. Anche se emergessero la paura, l’amore, la passione per l’altro, che è una passione paradossale, perché si va a cercare qualcosa che ti disconferma, e nello stesso tempo si sperimenta una forza che ti consente di sostenerla.

Dall’identità plurale all’identità gagja: una proposta per gli educatori

La stimmate sociale di handicappato, matto, tossico e disgraziato aumenta il grado di emarginazione, sofferenza, chiusura e produce handicap, follia… Compito dell’educatore è consentire e promuovere l’apertura di spazi mentali e sociali per lo sviluppo dell’alterità, l’alterità dentro se stessi.“Gli zingari non possono continuare a fingere di vivere una propria cultura in quanto si tratta ormai di un miscuglio di sopravvivenze già da secoli non vitali e improduttive…..La mendicità, cui da secoli di dedicano le donne zingare, non è compatibile con il senso di dignità che oggi qualifica l’uomo come proprietario del lavoro, ed anche l’uso di strumenti come le automobili o i fili elettrici nelle roulotte, manifesta apertamente l’impossibilità di conservare anche il più piccolo frammento di vita nomade.
Gli zingari debbono capire (ed è nostro dovere aiutarli in questo) che possono fare il massimo possibile per la loro cultura se l’assumono come “storia”, da consegnare ai documenti , con tutto il suo patrimonio letterario, musicale, religioso , politico. Tentare di trattenere la vitalità nel vissuto quotidiano è invece un’operazione, non soltanto illusoria, ma perdente….E (la loro cultura) muore perché non produce più nulla di proprio, anche se continuano a vivere gli uomini che ad essa si richiamano”.
Queste ed altre asserzioni appaiono nell’articolo di una “gagja” che di mestiere fa l’antropologa (Ida Magli), e sono state scritte su un giornale (Il Resto del Carlino) il 13 Aprile 2000, abbastanza vicino alla Pasqua, in una città (Bologna) che pensa di essere civile e sviluppata, che crede di essere ricca, che scrive su volantini e manifesti di essere capitale della cultura nel 2000. L’antropologa “gagja” parte da un episodio che è la corretta rappresentazione socio-antropologica di cosa significhi essere civili, sviluppati, ricchi e culturalmente centrali: significa che se ci capiti dentro e sei Rom puoi morire di freddo o bruciato nella tua roulotte a due anni. Ma, ancora di più, sono le sue asserzioni che vanno lette come rappresentazione culturale di cosa significhi essere appartenenti ad una cultura sviluppata, civile, ricca e occidentale. E proprio di questo che vogliamo parlare in questo nostro articolo gagjo.
Un altro gagjo, Andrea Canevaro, parla di identità plurale. Come è noto a quell’altra minoranza etnica (ne rom ne gagj, oppure tutte e due le cose e altre ancora) che sono – in genere- gli operatori sociali, si tratta di un idea legata strettamente al concetto di ambiente, che ci interessa confrontare e processare attraverso ingranaggi culturali e antropologici che ora ci appaiono salienti.

L’identità plurale

Noi non siamo una sola cosa, siamo tante cose, siamo un numero indeterminato di cose, siamo sani a causa delle nostre incongruenze, abbiamo facce diverse in situazioni diverse, viviamo simultaneamente sentimenti contraddittori, siamo sani se siamo in grado di vivere la crisi, se siamo in grado di rivestire ruoli diversi.
Declinazione in termini di lavoro educativo: l’handicappato, il matto, il tossico, il disgraziato in genere, non è solo quella cosa lì, la stimmate sociale di handicappato, matto, tossico e disgraziato al contrario aumenta il grado di emarginazione, sofferenza, chiusura e produce handicap, follia, eccetera. Compito dell’educatore è consentire e promuovere l’apertura di spazi mentali e sociali per lo sviluppo dell’alterità, l’alterità dentro se stessi.
Ma non si può lavorare sull’identità dell’altro in modo diretto perché sarebbe pura violenza o pura manipolazione, occorre un mediatore, occorre lavorare sui contesti, sulle trame connettive (dice Canevaro), sull’ambiente, occorre creare spazi e significati che l’altro possa occupare-interpretare di sua iniziativa.

Quando Canevaro parla di ambiente ha in mente le persecuzioni naziste agli ebrei, ragiona sullo sradicamento che subirono intere popolazioni e sugli effetti sui loro comportamenti e sul loro esistere, riesce però a mantenere il fuoco anche sul caso singolo, su quello che capita una persona col suo nome, sull’esperienza concreta dello sradicamento.

Assaggiare gli altri

Ma che idea di uomo sta dietro il concetto di identità plurale?
Non solo un idea di uomo, ma anche un’idea di vita e di senso che si articolano sulla esperienza.
In tedesco c’è una parola molto poetica che denota al tempo stesso esperienza e avventura: Erlebniss, e il punto è proprio quello: nell’esperienza, nello sperimentare il mondo, nell’assaggiare gli altri, nel lasciarsi provare dagli altri, nel farsi invadere dal mondo, c’è la costruzione del senso, la partecipazione alle cose, l’appartenenza all’altro da me (cosa, idea, persona o divinità), c’è l’appropriazione (io sto dentro la pancia di mia madre, il suo seno sta dentro la mia bocca), c’è lo scambio e la reciprocità che ci mescola agli altri. E tutto questo avviene col corpo, con la pancia, le viscere, il sangue, le ossa, il cervello, le parole, i sentimenti, la memoria, la speranza. E tutto questo contribuisce a costruire la dignità della persona e la culturalità delle comunità umane.
Le culture hanno dinamiche simili a quelle che hanno le correnti negli oceani o le perturbazioni atmosferiche: le correnti marine, per esempio, si diversificano soprattutto per temperatura e salinità e per questo tendono a rimanere separate e a seguire ripetutamente certi percorsi ma ai loro margini di mescolano si sfrangiano producono schiuma e onde, e nei tempi lunghi anche loro si modificano.
E la dignità? La dignità è il principale prodotto dell’esperienza: io, corpo, mente, memoria, speranza, paure varie, meschinità varie, desiderio, io, anzi noi, persone, comunità, linguaggio, simboli, storia, progetti, noi sappiamo cos’è un uomo, noi sentiamo cos’è un uomo, e siccome lo sappiamo e lo sentiamo vorremmo farlo o esserlo, almeno, nel nostro piccolo ci proviamo. Questa è la dignità: l’immaginazione, l’assunzione, la proprietà di un’idea di uomo e la tensione a quell’idea.
La dignità non c’è per forza, è il risultato finale di una crescita fatta di appartenenza culturale, di rispetto di sé, di relazione con gli altri, di esperienza del mondo.

La banalizzazione dell’esperienza

Negli anni ottanta non sono morte le ideologie (in realtà, da questo punto di vista, l’unico cambiamento è consistito nella omologazione di quasi tutti i mass-media e di quasi tutti i partiti, che si sono adeguati al pensiero unico della globalizzazione), negli anni ottanta, in verità, è stata legittimata e condotta a compimento la nullificazione, la banalizzazione, il massacro dell’esperienza, cioè delle condizioni sociali e culturali che rendono significativa l’esperienza delle persone e delle comunità. Lo ha compiuto la scuola (non dagli anni ottanta, ma da molto prima), lo ha compiuto la televisione, lo hanno compiuto i giornali e le riviste, lo ha compiuto con enorme potenza il cinema, con enorme potenza la musica a iniziare da Woodstock, lo hanno compiuto le radio, vere creatrici di senso comune giovanile, lo ha compiuto la medicina, il sistema produttivo, e più di tutti lo ha compiuto il sistema dei consumi.
Lo hanno compiuto pagati, mandati, costruiti e inventati dai soggetti macroeconomici e macropolitici che avevano e hanno bisogno di pilotare il cambiamento culturale, addirittura antropologico, per poter conservare e aumentare il loro potere ottimizzandone il rapporto costi-benefici : la storia degli anni settanta in America Latina (le dittature militari con relative guerriglie) e recentissima in Asia (l’applicazione letterale e feroce delle ricette dell’FMI e le conseguenti crisi economiche) hanno insegnato alle grandi multinazionali che, per continuare a gestire il loro potere, l’uomo così com’è non va più bene: hanno scoperto che piuttosto che spendere miliardi di dollari per mantenere sottomesso militarmente un popolo è conveniente disumanizzarlo, cioè privarlo della sua dignità e gestirlo dolcemente: costa meno.
L’articolo “gagjo” dal quale siamo partiti testimonia che noi occidentali in questo senso siamo molto più avanti degli altri popoli, che il processo di nullificazione dell’esperienza e di cancellazione della dignità è giunto a compimento; altri sono i popoli che stanno resistendo: i rom e i sinti sono la avanguardia di questa resistenza e per questo noi “gagj” dobbiamo dichiarare morta la loro cultura, noi che la nostra dignità l’abbiamo seppellita sotto un cumulo di immondizie, dobbiamo asserire (ignorando le regole elementari dell’antropologia, che, per costituzione epistemologica, è relativista) che ormai sono loro ad essere privi di dignità.

Aiutiamoli a morire

Se vi fossero dubbi sul fatto che siamo stati disumanizzati, ho le prove: stadio Heysell, muoiono in quaranta prima di Juve-Liverpool, si sa dei morti, lo sanno i calciatori e giocano, lo sa la Tv e partita è trasmessa, lo sanno i telespettatori e la guardano (almeno i nazisti potevano dire ce lo hanno ordinato, ma qui cosa si può dire?), pochi giorni fa in Turchia i morti erano solo due, ma hanno giocato lo stesso;
centri di permanenza temporanea, sono veri lager dove vengono stipati esseri umani che non hanno commesso reati, sono in Italia in cerca di lavoro senza visto, esistono davvero; bombardamento di Baghdad, di Bassora, genocidio in corso del popolo irakeno, stiamo partecipando, perché?; ma la prova principale è l’Operazione Arcobaleno: ehi, serbi e kossovari, non sapevamo neanche che a pochi chilometri da noi esistevate!, ora vi bombardiamo, anzi vi bombardiamo e vi aiutiamo, (l’Esperienza dice: se butto giù una bomba da un aereo a duemila metri d’altezza o molto di più non so esattamente dove cadrà, la Televisione Globalizzata dice: i bombardamenti sono chirurgici, state tranquilli uccidiamo solo il nemico i buoni li aiutiamo tutti insieme, la Mancanza di Dignità dice: uccidiaiutiamoli (cioè aiutiamoli a morire, come dice in ultima analisi anche l’articolo da cui siamo partiti) anche se non sappiamo perché, anche se ce li abbiamo a fianco da qualche decennio e non c’eravamo mai accorti di loro, anche se sappiamo con certezza che tra sei mesi ci diranno che tutto quello che ci stavano raccontando sui serbi era propaganda bellica).
A proposito, tutto quello che ci raccontavano sui serbi era propaganda bellica (vedere gli ultimi numeri di Le Monde Diplomatique che cita fonti ONU, e di vari organismi internazionale della nostra parte).

L’uomo è solo una macchina produttiva?

Noi “gagj” siamo senza dignità perché siamo deprivati della nostra esperienza, siamo convinto di non avere il diritto di pensare cosa è un uomo, non lo sappiamo più dire, e accettiamo che ce lo dica qualcun altro.
Il signor Qualcun Altro ci sta dicendo che l’uomo è uno strumento produttivo. Il signor Qualcun Altro è un quadro medio alto della Philips, della Nestlè, della Monsanto, della General Motors, della Fiat, della Sony. Forse è l’intero consiglio d’amministrazione di una banca o di una finanziaria assicurativa. Il signor Qualcun Altro è preso molto sul serio da quasi tutti i partiti politici e da quasi tutti i quotidiani,
ma è preso molto sul serio anche dalla gente comune. Con la gente comune il tipo di comunicazione cambia: non discorsi, ma file di oggetti desiderabili nelle corsie degli ipermercati, vetrine nei centri commerciali, film, varietà e sanremi vari, campionato di calcio, formula uno, sono tutti casi in cui è il linguaggio è quello delle cose o dei sentimenti, e si tratta di linguaggi da cui è molto più difficile difendersi perché essendo senza parole sono anche senza pensieri e quindi con scarsa possibilità di critica. Il problema è che tutti questi media (dai giornali alle corsie dei supermercati) dicono sempre la stessa cosa e si confermano tra di loro: l’uomo è una macchina produttiva, se non produce e non sa stare nel mercato, allora è un problema che va risolto.

Lettere luterane

Il mutamento antropologico in Italia è già avvenuto. E’ già stato descritto con precisione in tutti i suoi aspetti qualitativi e anche nelle sue cause storiche da Pasolini, è pubblicato in Lettere Luterane e in Empirismo Eretico. Pasolini ne ha descritto bene anche qualche meccanismo, in particolare quelli legati al linguaggio, aspettiamo che qualche antropologo o sociologo riprenda le sue osservazioni e le articoli in modo sistematico.
In questo mondo parlare e praticare l’identità plurale è due cose alternative tra loro: o è una pia intenzione, fiorellino da coltivare in un piccolo orticello, per poi essere messo nell’occhiello di qualche dipendente del signor Qualcun Altro, oppure è una pratica socialmente eversiva, che vive nell’emarginazione, insieme ai profughi, ai rom, agli sconfitti perché improduttivi, e in quanto improduttivi privi del diritto alla dignità e all’esistenza.
Ai sociologi e agli antropologi, e a chi svolge lavoro educativo occorre chiedere di ricostruire e reinventare le condizioni per la possibilità dell’esperienza. Non escludiamo che i luoghi privilegiati della ricerca siano proprio quelli che si tenta di neutralizzare con l’idea dell’aiuto (dai zingaro, fatti aiutare a morire).
Rom e Sinti, come fate voi a resistere? Come fate voi a mantenere la vostra dignità? Ecco, forse questa potrebbe essere l’inizio di una ricerca socio-antropologica.

Il mercato e le relazioni educative

Lo “scollegamento” come meccanismo fondamentale della vita odierna: come l’ideologia del mercato influenza le relazioni educative e persino la pratica del volontariato e dell’impegno sociale, rendendola “hobby” senza alcuna relazione con il tempo di lavoro.
– Le cose, i fatti sociali, sono scollegati l’uno dagli altri, nella vita di ognuno i momenti di lavoro sono separati dai momenti di tempo libero, l’etica e la morale stanno da una parte, la pratica da un’altra;

– noi persone comuni non sappiamo niente di preciso sui rapporti di causa ed effetto, funzione e struttura, significante e significato, la Medicina, l’Università, la Scienza sanno tutto e hanno trovato o sono in procinto di trovare le soluzioni a tutti i problemi; Medicina, Università e Scienza rispondono legittimamente solo al mercato, che a sua volta le fa progredire nel migliore dei modi;

– la vita quotidiana nelle città è facilitata da supertecnologie che la rendono preferibile ai modelli di vita quotidiana non occidentali, grazie al progresso spinto dal mercato;

– l’attuale ordine sociale non è modificabile, ci renderà onnipotenti e immortali, il progresso è inarrestabile, va nella direzione giusta ed inevitabile perchè è quella indicata dal mercato;

– l’uomo è una macchina produttiva che deve funzionare al massimo delle sue possibilità, esattamente come le altre macchine;

Il mercato è il mercato è il mercato.

Abbiamo cercato di condensare in frasi alcuni degli assiomi fondamentali che ogni cosa rappresentata, ogni fatto comunicato ci dicono in continuazione. Mass media non sono solo i mezzi di comunicazione tradizionalmente intesi: Internet, la TV, i Giornali, la Radio, sono forse meno importanti degli ipermercati, dell’aspetto delle città, dei contratti di lavoro, dell’organizzazione della scuola, del rapporto quotidiano tra la persona comune e l’esperto (il Medico, il Vescovo, l’Avvocato, il Giornalista, l’Insegnante), del far coincidere il viaggiare e il conoscere il mondo con il turismo. Si tratta di assiomi che in qualche caso si presentano anche in forma verbale, ma molto più spesso sono organizzatori di altri messaggi, che si impongono come senso comune grazie alla potenza del medium, o addirittura sono la struttura del messaggio stesso, e in questo caso sono difficilmente criticabili.
A prima vista sono indipendenti tra loro, ma si tratta di capisaldi organici tra loro del Pensiero Unico, quello che con sempre maggiore efficacia si va imponendo con la globalizzazione.
E’ importante, secondo noi, che lavorando nel sociale ci si preoccupi di vedere quale impatto hanno questi messaggi sul proprio lavoro, dal momento che (come la pioggia nei giorni dopo Chernobyl) essi ricadono su tutto: sulle relazioni individuali e ancora di più su quelle collettive (l’educatore e l’utente, gli assistenti sociali e un’altra professionalità, per esempio).

Apologia delle ideologie

Prendiamo un po’ della prima frase: i fatti sociali sono tra loro scollegati, i tempi della vita di una persona sono scollegati. Chi lo dice? Come? Perchè, a quale scopo? Che effetto ha su di noi?

Per una decina d’anni (coincidenti con gli anni ottanta) gli editoriali e le pagine culturali dei principali quotidiani italiani hanno ripetuto che le ideologie erano morte e sepolte, che non avevano più niente da dire e nessuno ad ascoltarle.
L’ideologia è una visione del mondo organica (cioè con pochi principi esplicativi generali) che consente di inserire in un ordine e in un senso i fatti del mondo (cosa siamo, dove andiamo, come stiamo insieme agli altri, eccetera), e di conseguenza consente di articolare azioni sociali significative. L’ideologia appartiene e caratterizza un gruppo e si confronta con l’ideologia di altri gruppi. E’ una forma civile e culturalizzata di tensione al cambiamento e di speranza collettiva. La delegittimazione dell’ideologia è stata la delegittimazione della presunzione, delle persone o dei gruppi (partiti, sindacati, associazioni), di avere e praticare un’idea di cambiamento di tutta la società; la delegittimazione dell’ideologia ha reso demodé la presunzione di avere un’idea (e tentare una pratica) di giustizia.

Non è casuale che nei nostri anni le cose, i fatti sociali siano trattati e rappresentati come se fossero scollegati, e vengono inoltre presentati come se si presentassero da soli, come se fosse la realtà autonomamente a parlare per mostrarsi così com’è nella sua potenza di oggetto:
– la TV – tutti i programmi di vita reale (dalle telenovelas con riferimenti alla cronaca alle mille declinazioni del Big Brother), i TG che rendono contigue le reti di Inzaghi ai morti del Sabato sera, l’alta moda di Milano ai morti sotto i bombardamenti in Kossovo, gli uni cancellando apparentemente la mediazione di un autore o di un conduttore, gli altri inscatolando le notizie e giustapponendole in modo da sembrare avulse l’una dall’altra;
– le corsie degli Ipermercati dove le gomme della mia macchina stanno a fianco di canne da pesca in fibra di carbonio che stanno a fianco del prosciutto di parma a fianco di un libro di Camilleri sotto uno scanner vicino al Monopoli, creano un meraviglioso paese dei Balocchi per adulti, con illusione di poter soddisfare ogni mancanza, dimostrando che è tutto sotto controllo; anche qui, come in TV, non c’è solo la giustapposizione di cose presentate finite e quindi scollegate, ma c’è anche l’apparente annullamento del mediatore: tra me e la cosa da comprare non c’è nessuno, così come non c’è nessuno tra me e il gruppo di persone comuni che vive il suo quotidiano davanti a telecamere in diretta TV;
– è ormai banale dire che anche il corpo è scollegato: è scollegato in sè, perchè tra braccia e fegato pare non esserci relazione, tra vista e nostalgia nessuna relazione, niente neanche tra polmoni e pelle; ancora di più il mio corpo è scollegato da me, che se vado dal medico non devo vergognarmi, non devo aver paura del dolore, non devo lamentarmi, devo consegnarglielo almeno fino a quando non me lo ha guarito, in questo caso non vi è l’apparente annullamento del mediatore, ma per oggettivare il processo di scollegamento viene usato un’altro meccanismo: la reificazione scientifica: il mio braccio soprattutto quando è malato non è più il mio braccio, ma un braccio sul quale ha diritto di parola solo la Scienza Medica (che comunque va estendendo il suo dominio ben al di là della malattia: il parto, la gravidanza, il sesso, l’intelligenza, sono di sempre maggiore pertinenza della medicina).

Il mercato è nudo

Lo scollegamento tra le cose è interiorizzato perchè normalmente non siamo in grado nè di decodificare l’impaginazione di un telegiornale nè la corsia di un ipermercato, casi in cui lo scollegamento è la struttura della rappresentazione: il massimo della critica che siamo capaci di fare di norma si ferma al contenuto del messaggio (questa notizia è vera o falsa, data correttamente o in modo ambiguo), difficilmente arriva alla sua struttura, ma molto spesso è proprio la struttura del messaggio a contenere il messaggio principale.

Eppure a volte il mercato frana su se stesso (perchè nonostante quello che ci racconta non è onnipotente e non ci garantisce l’immortalità), e, quando ciò succede, è costretto a esplicitare le sue ragioni e allora si deve svelare, si denuda da solo: tre sono gli esempi periodici e sotto gli occhi di tutti: le catastrofi naturali, finanziarie, sociali.

Le catastrofi naturali

A seguito di qualunque catastrofe naturale si sviluppa sempre lo stesso dibattito: di chi è la colpa?. Se la catastrofe è avvenuta in un paese povero la colpa è sempre dell’uomo, che essendo là povero (o ignorante, o negligente) non si è premunito, se, invece capita in un paese ricco la colpa è di qualcuno che ha non ha rispettato qualche legge. Non viene mai presa in considerazione l’ipotesi di una Natura disarmonica al Mercato, al contrario si tenta di dimostrare che nell’applicazione delle Leggi del Mercato c’è stata qualche sbavatura, e solo per questo la catastrofe ha provocato vittime. La promessa dell’onnipotenza rischia così di essere svelata.
Vi è poi la questione più grossa, lo scollegamento: nell’analisi delle responsabilità e delle colpe viene sempre data la parola ad ambientalisti che non perdono occasione per far sapere a tutti che c’è un legame tra cemento, benzina, automobili, opulenza e catastrofi. Il mercato è costretto a difendersi, e come fa? Prima lascia parlare gli ambientalisti, fino a quando non diventano noiosi (anche questa è tecnica di comunicazione), poi fa partire un Gran Premio di Formula 1.
Quando a Soverato un’ondata di fango sommerge una dozzina di persone, si rimanda l’elezione di Miss Italia. Perchè? Qual’è il collegamento tra le splendide ragazze di Miss Italia a Salsomaggiore e i disabili di Soverato coperti di fango? I collegamenti sono due: il primo è il collegamento che non c’è: per non collegare a nessun nostro comportamento l’ondata di fango, anche se sospettiamo che centri qualcosa col buco dell’ozono o con l’effetto serra, paghiamo pegno limitandoci a scollegare per una volta due emozioni che stanno insieme in ogni telegiornale (l’eccitazione per la bellezza e la paura della morte, di cui ogni TG è saturo). Il secondo collegamento è quello vero: Soverato, come tutte le catastrofi, sollecita angosce individuali e collettive, e ai nostri giorni l’elaborazione del lutto collettivo può avvenire anche attraverso la televisione: un giorno di attesa per Miss Italia ed ecco che il lutto è elaborato. Il prossimo Gran Premio a Monza farà il resto e le parole degli ambientalisti saranno teorie che entreranno nella logica scollegante del “sarebbe bello se…, ma…”.

Le catastrofi sociali

Lo stesso schema si riproduce poi analogo nelle catastrofi sociali, quando un addetto alla sicurezza, per esempio, muore durante un Gran Premio: in questo caso i portavoce del Mercato sono costretti a spiegare, a dire, che la velocità, la passione per i motori (cioè la devozione al dio mercato) non è legata alla morte di quell’uomo, che è morto perché certamente una certa regola per la sicurezza non era stata rispettata, per poi confermare che al di là di tutto ci sono i soldi, e l’elaborazione del lutto è compiuta attraverso una megacolletta tra miliardari a favore della famiglia. (In realtà nel caso di Monza un giornalista in tv si è spinto a dire che l’addetto era stato ucciso dalla sua passione per i motori, ma se questa considerazione fosse detta e presa sul serio, forse si scoprirebbe che dietro la Formula 1 non c’è la passione per i motori, ma la passione per la morte, proprio lei, la grande rimossa nella religione del dio mercato).

Le catastrofi finanziarie

L’evidenza più grande è costituita dalle catastrofi finanziarie, che invece di essere logicamente considerate la prova definitiva della non onnipotenza del mercato (che non funziona neanche al suo interno, pur seguendo le sue stesse regole), sono presentate come il suo vero punto di forza: la loro ciclicità e prevedibilità infatti è usata per dimostrare la potenza della Scienza degli Economisti (vestali del dio mercato), la loro realizzazione è il più grande affare dei veri padroni delle economie: ad ogni crollo di borsa, per ogni paese che collassa, c’è sempre un ristretto gruppo che aumenta il suo potere in proporzione all’entità della catastrofe.
Nonostante questo, nei momenti di crisi finanziaria, il Mercato deve scoprirsi ed esplicitare le sue argomentazioni: il progresso è inarrestabile, la vita di uomo o di un popolo è meno importante del funzionamento del mercato, ha diritto di vivere chi è più bravo a stare sul mercato, si può crescere all’infinito (il racconto che il Gatto e la Volpe fanno a Pinocchio per fargli seppellire i suoi soldi nel Campo dei Miracoli è lo stesso che viene fatto ai pensionati per fargli seppellire i risparmi in Borsa), e infine: il fatto che una azienda viva di guerre e di mine antibambino o affami un intero continente (rubandogli il diritto di piantare i suoi semi) non è in relazione alla possibilità di guadagnare con la crescita del valore delle sue azioni. Il valore delle azioni finanziarie di una azienda è scollegato dalle sue azioni sociali. I soldi non hanno odore, il mercato è il mercato è il mercato.

Critica del volontariato

Crediamo ai Gatti e alle Volpi perchè lo scollegamento tra le cose è ormai interiorizzato, lo avevamo già interiorizzato quando il messaggio si presentava come oggetto, e nel momento in cui è esplicitato non abbiamo più la capacità di reagire, o almeno di balbettare che non può essere così.
Addirittura siamo pronti a riconoscere che anche la nostra personale esperienza quotidiana è parcellizzata, che l’orario di tempo libero 19:00-23:00 è scollegato dall’orario di lavoro 9:00-19:00: in questo modo, per esemplificare una conseguenza tra le tante, è stato possibile radicare in Italia una cultura del volontariato dove l’idea di solidarietà è talmente concreta e compartimentata da essere slegata sia da un idea generale di pratica di promozione sociale, sia dal resto della propria esperienza quotidiana.
Vediamo meglio questi due aspetti.
Molte delle forme di volontariato più diffuse si caratterizzano per specializzazione e utilità immediata: la protezione dell’ambiente, l’aiuto ai disabili, l’assistenza agli anziani, la cura dei tossicodipendenti, l’accoglienza agli stranieri. E’ raro incontrare organizzazioni di volontariato (con pochissime eccezioni, una è “Libera”) che elaborino e addirittura tentino di praticare idee orientate al cambiamento del contesto sociale, al contrario viene sempre più spesso esaltata e valorizzata la soluzione immediata: hai freddo ti do il cappotto, hai fame ti do da mangiare, sei solo ti faccio compagnia. E’ bellissimo, ma non si collega al fatto che il lusso di poter aiutare gli altri è dovuto allo squilibrio sempre più enorme e intollerabile nella distribuzione di risorse come la salute, l’affetto, la cultura: io volontario ho dentro di me tanto amore da poterne regalare a chi non ne ha, solo perché da qualche altra parte, e in modo molto più grande, io stesso, o qualcun altro per me, si è accaparrato anche quello degli altri.
Il volontariato, spesso, al posto di interrogarsi e agire su questo squilibrio, o lottare contro l’accaparramento, funziona da compensatore emotivo: con una mano prendiamo tutto, con l’altra restituiamo un’elemosina.

Al tempo stesso, la pratica sociale sembra essere uno dei tanti hobby che è possibile scegliere per il tempo libero: lavoro, magari in una banca, o in una finanziaria, e poi nel tempo libero partecipo alle manifestazioni per la pace. Il fatto che il mio datore di lavoro faccia i suoi affari migliori investendo in fabbriche d’armi è indifferente. L’impegno, la partecipazione sociale, il volontariato rischiano di centrarsi non sul presunto obiettivo di cambiamento o di promozione, ma sulla figura un po’ eroica e un po’ narcisistica del volontario stesso, e così la contraddizione risulta meno sensibile.

Torneremo nei prossimi interventi a prendere in considerazione la separazione tra tempo libero e tempo di lavoro, partendo anche dagli assiomi che abbiamo elencato all’inizio.

Diversi, non inferiori

Tra cooperante e controparti vi è una distribuzione critica del potere, il primo è fonte di denaro, il secondo conosce la mappa della realtà. Le soluzioni dei latino-americani per i loro problemi sono sicuramente migliori…”. L’esperienza di un educatore che è partito con un progetto del Mlal di Verona per lavorare in Nicaragua.

Era l’agosto del 1990, un pomeriggio caldissimo, avevo passato la mattinata da solo senza pensare a niente in particolare; in quel periodo lavoravo come coordinatore di una ricerca epidemiologica, molto seria, importante e ben finanziata. Era una occupazione prestigiosa e remunerata come si deve. Credo che sia di molti l’esperienza di un filo di inquietudine che coglie poco dopo l’adolescenza, una volta terminati studi e obblighi sociali vari (servizio di leva, per esempio), e che, una volta sentito il sapore dell’età adulta, porta molte persone a confrontare le passioni, le eresie, le speranze, il senso di giustizia di pochi anni prima, e ancora fresco nella propria coscienza, con il realismo che invece tende a imperare una volta presa la decisione di essere diventati grandi. Quel giorno, forse a causa del caldo, forse di qualcos’altro, il realismo si fece per un attimo da parte, e quel filo di inquietudine ebbe il tempo di trasformarsi prima in pensiero e poi in progetto: perché non darsi ancora un po’ di tempo per vedere il mondo, magari in un modo più interessante che da turista, in modo più approfondito e certamente più economico: perché non provare a inserirsi in un progetto di cooperazione internazionale? Dal progetto alla realizzazione passarono esattamente tre anni: uno per stabilire un contatto solido con una ONG (Mlal, Movimento laici america latina, di Verona), altri due di orientamento, selezione, e formazione. Questi tre anni furono la misura della motivazione, ovvero della solidità di quel filo di inquietudine, che resistette alla prova non solo del tempo, ma anche di un figlio che giunse nel frattempo e delle tante cose cominciate in Italia e quindi da interrompere, da me e dalla persona con cui condividevo il progetto.

L’esperienza del Mlal

L’orientamento fu una esperienza importante da molti punti di vista: non solo mi aiutò a fare la riflessione fondamentale sulle mie personali motivazioni (cosa che chi pensa di aiutare gli altri dovrebbe sempre fare con molta onestà), ma, grazie ad un atteggiamento di rara professionalità del Mlal, mi aprì la mente al grande universo della gruppalità e del lavoro di gruppo, cosa che, sia nell’esperienza che poi avrei fatto, sia in seguito sarebbe stata determinante. La selezione fu severa, sia dal punto di vista emotivo, sia dal punto di vista del funzionamento mentale e relazionale richiesto: si trattava di stare per tre giorni all’interno di un gruppo composto da altri undici candidati e due selezionatori, nel quale bisognava affrontare dei compiti (per esempio: quali competenze deve avere un volontario? Preparazione di un progetto di intervento,….) in una situazione del tutto destrutturata. La formazione era costituita da incontri, sempre residenziali, sulla realtà socioeconomica, storica, e culturale dell’America Latina, sull’atteggiamento politico e pedagogico del Mlal, sulle tecniche e le strategie specifiche per i vari settori, nel mio caso l’educazione popolare, la comunicazione con le comunità e il territorio, i vari temi che investono i problemi di ordine sociosanitario, soprattutto nel settore materno infantile (che è uno di quelli selezionati in genere per gli interventi di cooperazione). I contenuti della formazione erano di buona qualità, molta attenzione era dedicata alle metodologie didattiche; ma al termine di ogni seminario la cosa più importante era sempre l’intreccio con i percorsi umani degli altri candidati, alcuni ex-cooperanti o ex-volontari, altri alla prima esperienza come me: da un lato si andava a definire con sempre maggior chiarezza e precisione delle aspettative rispetto alla realtà che avremmo incontrato, dall’altro lato si andava formando una identità di volontario-internazionale, o meglio del volontario internazionale del Mlal. Solo questa esperienza era ricca e importante. Il Mlal aveva una connotazione politica pronunciata: in Italia era individuabile come l’incontro tra il settore critico e di base della chiesa cattolica, e il settore radicale e impegnato della sinistra, in particolare del PCI. Forte e chiara era la connotazione latinamericana: il Mlal era collegato a doppio filo, attraverso persone, idee e fatti, alle comunità di base della teologia della liberazione. Non a caso la storia del Mlal è la storia di un gruppo missionario della diocesi di Verona che, ad un certo punto, più di una ventina d’anni fa, sulla base di una profonda riflessione critica e autocritica, decide di far nascere una realtà di missionariato laico a tutti gli effetti. Questi due anni furono anni di frequenti spostamenti a Verona, a Brescia, a Vicenza, cioè nei luoghi di svolgimento degli incontri (si trattava sopratutto di conventi e seminari), senza avere mai la certezza che l’effettiva partenza si sarebbe mai realizzata, perché i primi anni ’90 furono gli anni della grande crisi della cooperazione italiana, durante la quale molte ONG storiche finirono strangolate dall’assenza o dai ritardi dei finanziamenti, e comunque tutte dovettero ridurre drasticamente le partenze.

La partenza per il Nicaragua

L’abbinamento al progetto avvenne nella primavera del ’93, dalle prime notizie si trattava di andare in Nicaragua all’interno di un progetto di salute materno-infantile in qualità di operatore sociale e sociologo, a lavorare nella formazione di educatori sanitari e nella produzione di materiali didattici. La partenza era prevista per l’estate, e in quei mesi mi parve logico approfondire il progetto, quello approvato dal ministero, e studiare tutto il materiale possibile relativo ai compiti che mi si chiedeva di svolgere. A Verona feci il corso intensivo di spagnolo, ricevetti un’altra dose di formazione, specifica per i volontari in partenza. Anche in questo caso il fatto realmente più importante era condividere con altri l’esperienza di quel particolarissimo momento. Ricordo con grande affetto altre famiglie in partenza per il Perù, in un progetto di lavoro con bambini di strada, una infermiera, schizzinosa e igienista, che avrebbe passato due anni della sua vita in mezzo alla foresta amazzonica con un gruppo di indios, dove si sarebbe potuta nutrire solo di gamberetti di fiume, e ad un giorno di barca dal primo avamposto di civiltà; ricordo anche un sindacalista della CGIL in crisi con la sua organizzazione, che stava per andare in Cile a offrire know how e a sostenere le prime forme di organizzazione sindacale dei minatori cileni, e un agronomo sardo che stava per andarsene in Venezuela con la moglie boliviana conosciuta e sposata in un precedente viaggio di cooperazione. Partire voleva dire, tra le altre cose, preparare una quantità inimmaginabile di documenti (tra cui la dichiarazione di uno psichiatra di sanità mentale), affidare la casa a qualcuno, chiedere (e fortunatamente ottenere) l’aspettativa dal lavoro, salutare gli amici e i familiari, sospendere tutti i progetti e le fantasie legate all’Italia, e vivere il disorientamento di non poter ancora sostituirle con progetti e fantasie legate all’altrove in cui si sta per andare, perché è questo stesso altrove ad essere un progetto o una fantasia. Vivere, quindi, uno spaesamento.
All’aeroporto di Managua fummo accolti dai nostri colleghi, il capo progetto, il coordinatore del Mlal in Nicaragua, l’ostetrica con cui avrei lavorato. La sensazione di avere la necessità di un cordone ombelicale a cui aggrapparsi, dopo venti ore di viaggio con un bimbo di un anno, era fortissima, e avevamo talmente bisogno di essere rassicurati da quelle persone che non avevamo mai visto prima, che tutte ci davano un senso fortissimo di familiarità: erano sconosciuti di cui avevamo bisogno come di fratelli. Il viaggio in auto dall’aeroporto all’albergo che ci avrebbe ospitati per i primi tre giorni non fu traumatico solo perché ci era già capitato di sbarcare in una capitale latinamericana. Ma Managua, come tante altre capitali di paesi poveri, è veramente l’immagine dello scandalo e dell’ingiustizia storica e antropologica in cui versa il pianeta. Managua porta intatti i segni del terremoto del ’72, dei bombardamenti aerei ordinati da Somoza nel ’78, e della povertà e della violenza delle politiche di "aggiustamento strutturale" imposte dal Banco Mondiale e Fondo Monetario Internazionale ai paesi latinoamericani dall’epoca di Reagan. Dunque al primo momento il sentimento più forte fu la dipendenza dai nostri compagni del Mlal, il senso di pericolo e precarietà nell’ambientamento a Managua, il senso di abbandono rispetto a tutte le nostre abitudini, alle nostre certezze, al nostro paesaggio.
A Managua da ogni punto della città si vede l’orizzonte, non esistono indirizzi, ma, come in quasi tutta l’America Latina, per trovare un recapito è necessario avere un punto di riferimento specifico (un monumento, una chiesa, una piazza) e da questa contare gli isolati (cuadras) orientandosi con i punti cardinali (o, per esempio, proprio a Managua, un lago, o il mare, o una montagna). Per esempio un recapito può essere così: de la catedral de S.Ilario dos cuadras abajo y tres al lago).
All’arrivo ci sentivamo deboli e fragili, la razionalità, la progettualità in quel momento non contavano niente, contava moltissimo essere in compagnia di persone rassicuranti. Dopo tre giorni arrivammo a Leon, la città dove avrei lavorato, fummo accompagnati nella casa che avevano preparato per noi, nel giro di un paio di settimane avrei dovuto migliorare il mio spagnolo e poi, dopo qualche altra settimana avrei potuto cominciare e pensare al progetto vero e proprio. In qualche giorno ci ambientammo (nel senso che cominciavamo a capire dove comprare il latte o la verdura, o come si prendevano gli autobus e come si faceva per pagare il biglietto, come erano organizzati i tragitti), e scoprimmo la straordinaria importanza che assumeva per noi la relazione col vicinato (si, proprio i vari vicini di casa, che non erano colleghi del progetto, ma famiglie nicaraguensi), anche a causa del nostro bimbo di un anno per il quale desideravamo che potesse giocare con altri bimbi, ma non solo per questo.

Si inizia a lavorare

Dopo la fatica del viaggio, dopo il profondo disorientamento subito in quelle primissime settimane, appena arrivato un attimo di calma, cresceva il desiderio di fare, cioè di cominciare a lavorare mantenendo fede al progetto che mi era stato presentato in Italia. Naturalmente la cosa più grande era la voglia di mettersi in gioco e iniziare. Così, in questo stato fui presentato alla controparte: il vicecoordinatore del Movimiento Comunal di Leon e il direttore del Ministerio de Salud di Leon. Il Movimiento Comunal è una organizzazione volontaria che aveva avuto un ruolo fondamentale sia durante la rivoluzione sandinista, sia durante il decennio di governo sandinista, era considerata la base militante, ma in realtà, da subito dopo la sconfitta elettorale era composto anche da volontari di altre provenienze politiche. Si occupava di vertenze relative alla proprietà della terra e della casa (problema storico fondamentale del Nicaragua legato al passaggio da Somoza ai sandinisti prima, e da Ortega alla Chamorro poi), relative all’allacciamento degli acquedotti, delle linee elettriche e telefoniche negli insediamenti occupati, e si occupava anche di educazione sanitaria. Per quanto riguarda il Ministerio di Salud, il Nicaragua, su indicazione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), si è organizzato in modo decentrato, quindi la mia controparte era paragonabile ad una nostra AUSL.
Il primo elemento degno di nota è dunque il seguente: il volontario internazionale appena giunto sul posto (nella fattispecie, io) viene presentato e ha come interlocutori le massime cariche sanitarie e sociali della seconda città del Nicaragua. Dopo pochi giorni venni presentato ai promotores de salud (gli educatori sanitari) che avrei dovuto formare alle metodologie didattiche e di comunicazione,e insieme ai quali avrei dovuto produrre materiali didattici. Parlando con loro mi resi conto che non avevano una minima idea del progetto (quello scritto, stilato dai dirigenti del Movimiento Comunal insieme a quelli del Mlal e ai volontari che precedentemente avevano lavorato lì), non avevano la minima idea di che cosa ci stessi a fare io in quella situazione, erano però gentili, spaventosamente accondiscendenti, davano per scontato che sarei stato per molto tempo con loro, e si dimostravano desiderosi di imparare da me qualunque cosa avessi voluto insegnargli. Così ebbi la curiosità di approfondire la storia del progetto in sé: non la storia della sua realizzazione (che non era ancora avvenuta), ma quella della sua formulazione e approvazione. Ecco com’era andata (più o meno): durante il decennio sandinista il Mlal si era distinto in Nicaragua per l’eccellente rapporto col Frente, i suoi volontari lavoravano dentro i ministeri a Managua e svolgevano mansioni importanti (l’informatizzazione di alcuni ministeri, per esempio), i volontari Mlal in Nicaragua erano stati fino a trentacinque. Con la vittoria della Chamorro, le cose cambiarono, il Frente perse molta della sua capacità di mantenere relazioni con la cooperazione, e, anche a causa della crisi italiana, la presenza del Mlal declinò rapidamente. Ad ogni modo, nell’89 il Mlal decise di mantenere impegni strategici, e quindi puntò tutto sul Movimiento Comunal che rappresentava certamente la parte più sana e dalle prospettive migliori del movimento sandinista. Così, nel ’90 il Mlal presentò un progetto di sostegno complessivo al Movimiento Comunal in tutto il Nicaragua del valore di 1.000.000 di dollari, che prevedeva interventi in tre città diverse (Managua, Matagalpa, Leon) su diversi settori: edilizia, salute materno-infantile, educazione popolare. La filosofia era quella di sostenere un processo di autorganizzazione e autopromozione su larga scala, che stava allora cominciando. Nel 1993 il progetto terminò l’iter previsto dal ministero degli Affari Esteri, e venne finanziato per meno di un quarto. In quegli anni intanto l’autorganizzazione aveva fatto alcuni passi: in alcuni casi positivi, in altri semplicemente di dissoluzione dei soggetti con i quali si era costruito il progetto. Immediatamente il Mlal selezionò le parti di progetto che si potevano realizzare con quel finanziamento e con i soggetti rimasti in campo, e cominciò a cercare il personale previsto: un epidemiologo, un pediatra, un infermiere. Dopo diversi mesi l’epidemiologo non saltava fuori, e in Italia c’era un sociologo, che aveva esperienza di ricerca epidemiologica, che stava aspettando di partire, in più nel progetto originale era richiesto un operatore sociale che si doveva occupare del settore edile. Il settore edile non c’era più, ma la figura poteva ancora venire buona, così in Nicaragua arrivai io. Non ero un epidemiologo ma ero in grado di lavorare sulle metodologie didattiche e di comunicazione con i promotores. Il problema era che i promotores stavano aspettando un medico. Per la cronaca neanche il pediatra si trovò, e giunse al suo posto una neuropsichiatra, e l’infermiere fu vantaggiosamente sostituito da una ostetrica. Sta di fatto, che giunto sul posto mi resi conto che in tutti i modi il progetto era da rielaborare. Ma con chi?, e perché? Questa situazione e queste domande fanno parte del 99% delle storie dei volontari e dei cooperanti, non solo italiani, ma di tutti i paesi che fanno cooperazione.

Le motivazioni di un volontario

Nel mio caso decisi di partire dal basso: mi misi al livello dei promotores, in ufficio con loro, a passare il tempo seguendoli nei loro talleres (seminari), e con loro cercai di identificare dei bisogni formativi, o più semplicemente il tipo di contributo che potevo offrirgli. Ma la domanda relativa al "Perché" era più difficile da rispondere. Il perché dei soldi che guadagnavo (mille dollari al mese, compresi i familiari a carico) era il progetto, al limite la domanda già espressa dalla controparte, ma qual’era il senso di accordarmi con la controparte rispetto a dei bisogni o delle domande che potevano essere espresse fondamentalmente in relazione a me, quasi per gratificarmi? Ecco allora, in quella fase, assumere una importanza fondamentale la coscienza che quella esperienza era una esperienza di conoscenza prima che di aiuto, di curiosità esistenziale, di solidarietà sì, ma non nei confronti di un popolo svantaggiato, in via di sviluppo, no, era una solidarietà diretta a esseri umani diversi, con i quali confrontarsi, scambiare qualcosa, con i quali fare insieme un po’ di strada. Va pagata dallo stato questo tipo di solidarietà? Non lo so, più avanti, forse, ci sarà qualche elemento in più per rispondere.
Questo periodo durò circa tre mesi (ricordavo l’insegnamento di un ex che diceva: per tutto il primo anno il volontario dovrebbe starsene zitto zitto e buono buono, far niente e guardare solo), da una parte c’era il timore e l’ansia di non aver nulla da fare lì, dall’altra finalmente ero nella condizione di soddisfare il mio desiderio di conoscere: andavo nei villaggi rurali, parlavo con persone che vivevano in capanne, scoprivo la dignità di un popolo, la distanza abissale che c’è tra la nostra idea di povertà, o via di sviluppo, e il gusto di vivere, il senso della festa, che è qualcosa che in Occidente si è completamente perso, scoprivo la straordinaria capacità di tirare avanti senza soldi, vidi l’economia del baratto (el troque), mi abituai ai buoi e gli asini per strada, cominciai ad accettare che la gente si relazionasse con me solo nella speranza di ottenere qualcosa (soldi sostanzialmente) e intanto qualcuno, dei più conosciuti finalmente cominciava a riorientare le sue aspettative nei miei confronti. Decisi comunque che non avrei fatto niente di niente fino a quando non mi fosse esplicitamente richiesto da qualcuno della controparte. La mia decisione era rischiosa, in teoria avrei potuto stare senza far niente per due anni. D’altra parte mille volontari intorno a me si arrabattavano a inventarsi attività e occupazioni importantissime e fondamentali che servivano solo a placare la loro disperazione per quel senso di girare a vuoto di cui subito avevo avvertito la vertigine. E questo problema ce lo avevano proprio quelli che concepivano il loro volontariato come aiuto, non essendo capaci di accettare qualcosa in cambio da quella esperienza. Nel frattempo, seguendo il consiglio che mi era stato dato da due o tre persone (tra cui una pedagogista brasiliana che lavora in Italia), avevo iniziato a fare un lavoro di analisi del Movimiento Comunal dal punto di vista della sua organizzazione: lo avrei proposto ad una rivista italiana su richiesta di un suo redattore. Finalmente, forse incuriositi dal fatto che mi vedevano scrivere al computer tutti i giorni qualcosa di ignoto, a cui ogni tanto i dirigenti davano un’occhiata veloce, i promotores mi chiesero di aiutarli su problemi specifici: il modo di impostare un seminario, come coinvolgere i partecipanti, che quantità di informazioni dare, come darle, come organizzare i tempi, come sistematizzare il lavoro, come utilizzare i cartelloni. Allo stesso tempo la direttrice di uno dei tre distretti sanitari della città, che mi conosceva indirettamente attraverso una cooperante austriaca, mi chiese di tenere un corso di relazioni umane per il personale a causa di problemi nel rapporto con i pazienti nelle zone rurali. Nel primo caso, insieme ai promotores stessi organizzai alcuni seminari (sia di formazione, rivolti a loro, sia di educazione sanitaria, col loro, ma rivolti direttamente alle popolazioni), mentre con la direttrice del distretto sanitario vi fu una vera e propria contrattazione formativa nella quali io proposi di organizzare e condurre una serie di incontri tra personale sanitario (medici e infermieri) e popolazioni (gli abitanti dei villaggi); e dove, alla fine, decidemmo di organizzare prima gli incontri di preparazione tra medici e infermieri, e poi in un secondo momento quelli con le popolazioni. L’approccio sarebbe stato quello della ricerca-intervento. L’aspetto più importante di questa fase, che mi confortò profondamente, era dato dal fatto che se esisteva un clima nel quale poteva aver senso un contrattazione, allora quella era la prova che nei miei confronti vi era una domanda di competenze e non semplicemente un riflesso automatico di lusinga al ricco straniero portatore di dollari. A quel punto, gli stessi dirigenti delle due parti, quelli che mi erano stati presentati all’inizio, mi chiesero di collaborare per migliorare la qualità del coordinamento tra gli operatori ministeriali e quelli dei volontari (e questo era un altro degli obiettivi del progetto originale), e così organizzammo un grosso seminario (di circa un centinaio di persone) sul problema, al quale partecipò il grosso del numero delle persone interessate. Il mio lavoro di analisi dell’organizzazione proseguiva, e man mano che andava avanti l’interesse dei dirigenti verso quel lavoro cresceva. Passati altri cinque o sei mesi mi chiesero un maggior impegno come consulente dell’organizzazione su problemi più interni connessi alle dinamiche della leadership. Di fronte a tutte queste persone, promotores, medici, infermieri, dirigenti del Movimiento Comunal, con le quali ero finalmente riuscito a stabilire una relazione di lavoro seria e reciprocamente capace di critica, ebbi la possibilità di rendermi conto della complessità del tipo di situazione che si crea tra il cooperante e le sue controparti, cercherò di esporle in forma schematica, avvertendo che si tratta di un modo molto sintetico di comunicare qualcosa di elaborato con l’esperienza, la riflessione e la discussione con altri, ma soprattutto con molta fatica, sofferenza e anche qualche soddisfazione.

Quale relazione di aiuto tra cooperante e controparte

– Tra cooperante e controparti vi è una distribuzione critica del potere: il cooperante è fonte di denaro e di risorse materiali, qualche volta anche di competenze, la controparte conosce la mappa di realtà, domina il territorio, in senso concreto e in senso metaforico. Alle controparti interessa il denaro, al cooperante interessa, in genere, far vedere quanto è utile agli altri, la situazione che si crea, di conseguenza, è di grande precarietà.
– Le società tradizionalistiche, come quelle latinoamericane, si muovo all’interno di una realtà in cui le competenze più importanti sono la memoria e la conoscenza specifica di tecniche cose e persone, noi occidentali, invece, siamo abituati a concepire il lavoro in termini di astrazione, e definizione di funzioni aspecifiche. Il concetto di ruolo è difficilmente concepibile da un latinoamericano, così come non ha molto senso parlare di metodologie, quando data la particolarità del contesto latinoamericano è possibile al massimo riflettere su qualche abitudine. Deve essere chiaro, che non sto parlando di una supposta inferiorità dei latinamericani: i latinamericani non sono in via di sviluppo, essi sono già sviluppatissimi, come tutti gli altri, solo che sono sviluppati in modo differente, probabilmente la causa della diversità va cercata nella storia, nelle caratteristiche ambientali, nell’attuale organizzazione sociopolitica mondiale, ma è di diversità che stiamo parlando, e non di inferiorità; in genere, diciamo quasi sempre, le soluzioni che i latinamericani trovano per i loro problemi sono migliori di quelle che può trovare un occidentale proiettato lì dalla sua voglia di aiutare, il problema è che quest’ultimo dispone delle risorse economiche, il latinoamericano no.
– In linea di principio il cooperante può avere qualcosa da insegnare alle sue controparti, può anche essere utile, ma la condizione perché lo possa fare è che apprenda da loro almeno altrettanto, e che si renda conto che il suo compito non può essere di incidere sulla realtà locale a prescindere da quello che la realtà locale gli dice o gli chiede; – Detto tutto questo, l’esperienza di collaborazione tra un italiano, europeo occidentale ricco, e un nicaraguense, latinoamericano tradizionalista povero, è meravigliosa, formativa, e comunque di straordinaria umanità.

La fine di un progetto

Dopo sette-otto mesi avevo finalmente trovato una collocazione gratificante; fui scelto dal Mlal come capoprogetto, dal momento che quello precedente era rientrato in Italia. Il lavoro andava bene, e il Nicaragua è un paese centramericano caratterizzato da due oceani, laghi e vulcani, bellissimo da visitare nelle condizioni di vantaggio nelle quali noi ci trovavamo in quanto ricchi stranieri, potendo disporre di buoni mezzi di trasporto e amici locali e che ci consigliavano le situazioni più interessanti. In quel periodo però per due volte fummo visitati dai ladri, e la seconda ci rendemmo conto che facevano sul serio dal momento che non fuggirono di fronte ai colpi di pistola di un vicino (noi eravamo in casa, e loro nel nostro patio). Il Nicaragua, d’altra parte, con tutta la sua bellezza, è un paese che viene da vent’anni di guerra, e le armi che circolano ancora sono pari alla quantità di violenza. Un giorno, di ritorno da una gita al mare, un individuo in divisa militare, ci sparò addosso con un AKA (il famoso kalashnikov) e con un arma che serviva a sfondare i blindati, per fortuna non ci colpì, ma la paura fu tanta, non saremmo stati certo i primi cooperanti a subire gravi conseguenze per quella situazione. Scoprimmo poi che l’individuo era un giovane con problemi psichiatrici in preda ad una crisi di panico, gli furono tolte le armi e la divisa, e al padre fu raccomandato di stare più attento al figlio. La situazione ambientale era dunque complessa, ma ancora più complessa era la situazione della cooperazione: i finanziamenti che dovevano servire a sostenere il nostro progetto (per pagare il personale locale, gli strumenti medico-sanitari, altre cose) non arrivavano, e dai fondi circolanti si riuscivano a ottenere solo gli stipendi per i volontari. La cosa per me era piuttosto imbarazzante, perché man mano che si andava avanti il paradosso emergeva con sempre maggiore chiarezza: nessuno metteva in discussione i nostri stipendi, ma noi stavamo lì e un po’ alla volta il progetto rallentava, fino ad essere vicino a fermarsi, tranne che relativamente ai nostri compiti, che però, almeno teoricamente, dovevano procedere insieme a quelli del personale locale. Queste due questioni, messe insieme al fatto che aspettavamo il secondo figlio, ci fecero decidere che dopo un anno di cooperazione potevamo anche tornare a casa. A casa scoprimmo tre cose: 1) eravamo cambiati, non eravamo più le persone che erano partite, 2) il cambiamento era irreversibile: noi non eravamo più italiani o europei semplicemente come lo eravamo stati prima, né certamente eravamo diventati latinamericani. Non lo saremmo più stati, l’essere entrati in contatto con l’altro di un altra cultura ci aveva come disincantati rispetto all’appartenenza culturale, 3) la nostra esperienza era incomunicabile (tranne che agli altri volontari rientrati), non solo sapevamo di non poterla spiegare, ma, soprattutto, a nessuno interessava. Rispetto a quest’ultimo punto capimmo di aver operato una sorta di tradimento affettivo e culturale nei confronti delle persone che ci erano vicine, e al ritorno eravamo trattati come traditori (questa è un’iperbole, s’intende). La mia analisi organizzativa del Movimiento Comunal venne pubblicata in Italia, ma soprattutto fu utilizzata dal Movimiento Comunal per rileggersi e rivedersi da un punto di vista esterno, e questa fu una grossa gratificazione. La ricchezza più grande che ci è rimasta di quella esperienza sono state comunque le persone, le voci, gli sguardi, gli odori, i gesti, l’intelligenza, l’umorismo, la tristezza e la gioia, la povertà, la disperazione, la rabbia, il coraggio, la forza, il merengue, le processioni, il sapore dei cibi, lo spirito rivoluzionario, la retorica rivoluzionaria, la dignità di un popolo.