Skip to main content

autore: Autore: Milena Bernardi

Dalla parte dei ragazzi

Paolo Fallai è nato a Velletri (Roma) il 19 luglio 1959 e fino a dieci anni voleva fare il medico. Lo sbarco sulla luna, nel 1969, lo convinse ad abbandonare malati e sale operatorie in vista di una luminosa carriera come astronauta. A 12 anni, folgorato dalle costruzioni Lego, aveva deciso di fare l’architetto. A 17 anni, dopo aver valutato la possibilità di fare l’ingegnere, l’assicuratore navale, il postino e il barista (con una breve ma intensa esperienza nel bar della zia), decise che ogni progetto era inutile e cominciò, per puro caso, a fare il giornalista. Da allora non ha mai smesso, collaborando per quotidiani come Il Messaggero e Il Corriere della Sera e sopratutto per l’agenzia ANSA dove è stato assunto nel 1984 e dove tuttora lavora. Appassionato di teatro, ha scritto alcune commedie e fondato con amici come Athina Cenci e Marco Mattolini l’associazione Palcoscenico Firenze e la compagnia teatrale Magnifico. Nel 1993 ha collaborato ai testi della trasmissione televisiva Cielito Lindo andata in onda su RAITRE. Nello stesso anno ha collaborato alla stesura del testo dell’opera per bambini "Il gatto che scoprì l’america".
Il romanzo "Le tre chiavi" è la sua prima opera di narrativa per ragazzi ed ha vinto nel 1996 il premio letterario "Laura Orvieto".
Dopo aver vissuto e lavorato a Firenze, nel 1995 si è trasferito a Roma. Alla domanda su quali siano i suoi progetti per il futuro ha risposto deciso: "Ci sto pensando".

Perché scrive narrativa pensando a lettori giovanissimi?
Quale è, per lei, il senso della scrittura rivolta ai ragazzi?

Mi verrebbe voglia di rispondere per "urgenza" e "senso di colpa".
Urgenza, perché considero fondamentale il ruolo della letteratura per l’infanzia come chiave interpretativa, aiuto, vocabolario delle emozioni, insomma come "compagna di crescita". "Senso di colpa" perché, da giornalista, faccio parte di quel meccanismo dell’informazione che ossessiona e bombarda tutti noi – bambini e ragazzi compresi – senza che vengano forniti strumenti di comprensione.
In questo senso non mi pare che la letteratura per l’infanzia svolga un ruolo diverso dalla letteratura per gli adulti. Se vogliamo conoscere il dramma della borghesia italiana che si affaccia sul Novecento, con la testa in un futuro dove tutto è creduto possibile e i piedi nei campi, certo possiamo leggere saggi importanti. Ma alla fine è il Pirandello di "Uno, nessuno e centomila" che ci aiuta a capire.
Scrivere per ragazzi vuol dire fare uno sforzo in più, dovendo mettere nel conto strumenti di comprensione che sono in formazione. Credo che un senso della scrittura rivolta ai ragazzi possa essere una scelta di servizio: la volontà di offrire – attraverso una storia – una sintesi dei fenomeni che i ragazzi conoscono e devono fronteggiare ogni giorno, e proporre loro qualche chiave perché possano costruirsi da soli l’interpretazione che più li convince.

Qual’è stato il suo "progetto" di scrittura?
Il massimo rispetto nei confronti della storia che stavo raccontando ed un controllo molto rigido nei confronti delle tentazioni moraleggianti, anche inconsce. Ma innanzitutto una storia, che deve essere – almeno nel caso dei romanzi per i ragazzi dai dieci anni in su – credibile e coerente.
E la ricerca di uno stile – non so proprio se ci sono riuscito, questo devono dirlo i ragazzi – che fosse capace di restituire la complessità delle emozioni del mio giovane protagonista.

La storia da lei narrata affronta una vera "avventura esistenziale". Si addentra nei sobborghi di una preadolescenza sbattuta subitaneamente verso il conflitto con le figure dei genitori. Quali percorsi formativi, quali contrasti, quali dolori… quali drastici cambiamenti vi sono rappresentati?
C’è un momento nel romanzo, in cui il ragazzo percepisce, ed afferma esplicitamente, una frattura tra l’immagine del padre che aveva prima e dopo lo svolgimento che è alla base della storia (l’arresto dell’uomo).
E’ senz’altro la più evidente, ma ho lavorato per disseminare il romanzo di queste fratture, alcune delle quali appena avvertite. Sono partito da una situazione di calma (insomma, andava tutto bene, è l’incipit), che viene bruscamente interrotta e che porta il protagonista a dover fare i conti con tutto il suo universo: i rapporti con i genitori, con l’amico, con la scuola e infine gli estranei. Personaggi con i quali il protagonista non vorrebbe avere a che fare ma con i quali "deve" confrontarsi, trovare una misura, prendere decisioni, spesso rischiose.
E’ dal complesso di queste "fratture" da una realtà consolidata ad una in movimento, che nasce l’esigenza per il protagonista, di "aggiornare" continuamente il suo modo di vedere il mondo che lo circonda. Anche per questo insistevo sull’attenzione alle tentazioni di facili moralismi. Di fronte ad un padre accusato di essere un truffatore, il ragazzo cerca di capire, tentando con fatica e con dolore di far convivere l’affetto – indiscutibile – con la ricerca di risposte che qualche volta non sono proprio quelle che ci farebbe piacere trovare.
L’estrema delicatezza di alcuni equilibri, per esempio il rapporto con la madre, impone grande attenzione. Il ragazzo che a undici anni cerca il contatto fisico, la "annusa" per calmarsi, è lo stesso che la giudica, anche in modo spietato quando lei si irrigidisce nei confronti del padre. Non c’è spazio per fare la morale, o per salire su una cattedra e trasmettere al ragazzo del romanzo (e quindi al lettore) la lezioncina su come ci si comporta in questi casi. Da parte mia ho tentato di metterci attenzione, rispetto, perfino pudore nei confronti dei sentimenti, delle passioni, delle delusioni. Con un paradosso potrei dire che non ho il diritto di sindacare i sentimenti del protagonista del romanzo, anche se ne sono l’autore.
Posso cercare di raccontarli, di descriverli, di seguirli passo passo. Perché è in questo percorso, negli accidenti di questo percorso, nelle cadute, nelle riprese, nell’allegria che segue la disperazione, perfino nello stupore del protagonista quando riesce ad addormentarsi nonostante la tensione, è in tutto questo la formazione. Ed è questa la materia prima della mia storia.

Il protagonista del suo romanzo va, via via, verso la presa di coscienza (saperi esperienziali?) di sue nuove forme di differenza: la precedente vita si smonta, si frantuma, si lacera; il ragazzo è un altro o no, alla fine del romanzo? In cosa il ragazzo sarà testimone di una sua "differenza"?
Credo che "presa di coscienza" sia la definizione che mi piace di più. Qualcosa come la messa a frutto delle capacità deduttive, che sono fortissime, molto prima di essere messe a vantaggio di un ragionamento. Certo, alla fine del romanzo, il protagonista è senza dubbio un’altra persona. Testimone consapevole della propria crescita è pronto per mettere a frutto le ferite, le delusioni e le vittorie.
Una riflessione a parte merita proprio il concetto di "differenza". Perché in molte occasioni, Andrea, il protagonista deve fare i conti con una situazione che lo mette al di fuori di un "ordine". Quando torna a scuola, dopo l’arresto del padre, per esempio. "Bombardato" dalle domande dei compagni e comunque al centro di una attenzione non sempre e non tutta affettuosa, perfino morbosa in qualche momento. E quando pochi capitoli dopo si accorge che quella "vena" di curiosità dei propri compagni si è esaurita, rimane solo. Non è un rientro nel ruolo consueto, per lui, piuttosto la conoscenza di una nuova forma di diversità, quella strisciante del silenzio, provocato dall’indifferenza. Perfino al suo migliore amico Andrea sarà costretto a ricordare che suo padre è stato arrestato.
Perché se un fatto non si rinnova invecchia immediatamente e viene dimenticato dagli "altri". Eppure è ancora lì e fa male per chi lo vive tutti i giorni. Ed è un meccanismo infernale di esclusione, di finto interesse, di necessità quasi patologica di avere nuovi oggetti da consumare in fretta. Ma non è anche la nostra informazione fatta proprio cosi? Non siamo forse capaci di commuovere una nazione intera su casi pietosi, salvo poi dimenticarli il giorno dopo, perché c’è una nuova immagine, più fresca, e nuovo dolore da consumare? E perché i nostri ragazzi dovrebbero essere diversi, se è questo maledetto meccanismo di consumo veloce che viene offerto loro quotidianamente?
Le notizie passano, come se non lasciassero traccia. Come se il dolore o la gioia o la rabbia che portano con sé, non esistessero. Andrea lo impara a sue spese.
Ma vorrei parlare anche di un’altra "diversità" che il piccolo protagonista deve vivere. Quella dell’innamoramento. Nel romanzo Andrea finge di innamorarsi di una compagna di classe. E’ una scusa che gli serve per essere invitato a casa di lei e continuare le sue indagini. Eppure è un sentimento delicato che deve fare i conti con mille condizionamenti, innanzitutto lui stesso che "recita una parte", poi l’attenzione dei compagni e infine le reazioni della ragazza. E deve fare i conti con le pulsioni sacrosante di un ragazzo di undici anni, che studia la propria sessualità, cercando soprattutto di capirla.

Ci parli del rapporto realtà-narrativa dal punto di vista della sua esperienza giornalistica. Quali strumenti hanno i bambini, i ragazzi, per decifrare, capire, ricostruire un quadro conoscitivo, i dati drammatici della realtà "orchestra" in cui tutti viviamo?
Volendo scomporre il romanzo che ho scritto, per grandi temi che affollano la cronaca di tutti i giorni, potremmo elencare: usura, violenza, crisi della famiglia, affidamento dei figli, giustizia. Sono parole che ogni giorno entrano nella vita dei ragazzi, attraverso i telegiornali, le parole dei "grandi", le letture. E non sono le sole: mettiamoci insieme gli stupri, la pedofilia, Maastricht, la Finanziaria, la pressione fiscale, la crisi economica, la disoccupazione e il Milan che non vince più. Sono milioni, miliardi di informazioni che attraverso i media raggiungono noi e i ragazzi. Senza filtri e senza strumenti per usare questa massa informe possiamo rimanere schiacciati. Rischiamo di interpretare le parole come rumore, non come simboli che corrispondono a fatti, situazioni, emozioni. Per i ragazzi il pericolo è ancora più grande, perché a undici anni rischiano di sapere perfettamente cos’è un missile Cruise, riconoscere il sistema elettronico che lo guida sul bersaglio, e di non avere la minima idea che quel missile quando arriva rade al suolo tutto quello che trova nel raggio di centinaia di metri. Persone comprese. E che tutto questo non è un gioco che si vede solo alla televisione.
Lo stesso meccanismo vale per la realtà che ogni giorno ci viene offerta e che è parcellizzata in mille singole notizie che sembrano non avere alcun rapporto tra loro. E che pochi mezzi di informazione si fanno carico di spiegare. Non c’è situazione paradossale o violenta che si possa immaginare in letteratura, che non sia stata ampiamente superata per efferatezza da un episodio realmente accaduto.
Di fronte a tutto questo ragazzi (e adulti, spessissimo gli adulti) sono disarmati e con pochi strumenti di comprensione. La letteratura è uno di questi. La letteratura per l’infanzia dovrebbe essere uno di questi: capace di affrontare anche i temi più difficili ed offrirli nella cornice di una storia, alla comprensione e alla capacità di analisi dei lettori. Alla loro straordinaria voglia di farsi un’idea propria di quello che accade, senza che per forza debbano subire la superficialità del quotidiano o i pacchetti precotti di una morale a ore.
Lei parla di realtà "orchestra" e ha ragione. Perché il grande mondo che offriamo agli occhi di chi vorrebbe capire come è fatto è intriso di paure. Ma invece di parlarne, di giocare con queste, ci limitiamo ad offrirle nella loro veste più cruda. E come se non bastasse, qualcuno ha pure il coraggio di prendersela con i libri horror per l’infanzia, che di fatto sono gli unici a svolgere una funzione liberatoria. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano.
Credo che la letteratura per l’infanzia abbia questo grande potere di offrire ai ragazzi una sintesi ragionata della realtà. Uno strumento perché il loro pensiero si formi e si sviluppi in libertà. Un confronto per condividere i dubbi e imparare un metodo di ricerca delle risposte. E un luogo delle emozioni. Perché la velocità (delle notizie, degli impegni, della nostra vita) rischia di farcele perdere e insinua il sospetto che alla fine non ci siano più.

Lo specchio spugnoso

Intervistiamo Giovanni Gatta, insegnante di lettere da 20 anni alle scuola medie del Pilastro, uno dei quartieri più ‘caldi’ di Bologna sulla sua esperienza educativa, i cambiamenti avvenuti nella scuola e le emergenze dei nostri giorni. “Moltissimi iniziano un percorso scolastico post-obbligo, ma pochi lo concludono”.

D. Cosa significava lavorare al Pilastro 20 anni fa, e cosa significa oggi?
R. Vent’anni fa, venire ad insegnare al Pilastro era considerato (soprattutto da chi non l’aveva neppure visto) una sventura…
Eppure allora, ancora in pieno boom demografico e grazie all’obbligo burocratico che vincolava i bambini alle scuole del territorio, il Pilastro offriva lavoro a molti nelle scuole strapiene che utilizzavano tutti gli spazi disponibili.
E che lavoro! Era una bottega di apprendistato, una palestra di esercitazioni, un laboratorio di sperimentazioni.
C’era il ‘tempo pieno’, cresciuto con Gianni Rodari, c’erano gli obiettivi educativi ripensati alla luce della scuola di Barbiana: queste le direttrici di un percorso che faceva continuamente i conti con la realtà quotidiana, che ‘doveva’ aggiornarsi perché l’ambiente intorno (genitori, cittadini,…) era molto attento e interessato alla scuola, ritenendola un momento formativo insostituibile per i bambini e quindi pretendendo che funzionasse al meglio sia come struttura sia come mezzi.
C’era qualcosa ancora che ‘obbligava’ la scuola a ricercare continuamente le modalità più adeguate e funzionali agli obiettivi che la legge affida all’istruzione obbligatoria (quindi un diritto/dovere) e cioè la realtà dei ragazzi, rispetto alla quale formulare le ipotesi di lavoro; ed erano realtà multiformi (le differenze sono o no una risorsa?) che richiedevano risposte ‘personalizzate’ (ora si chiama insegnamento individualizzato!).
Credo che molti di noi insegnanti abbiano avuto l’opportunità di allenare la propria didattica, non so quanti l’abbiano colta e poi sfruttata altrove…
Col tempo, la ‘cultura pilastrina’ (ma è una semplificazione mistificante che generalizza manifestazioni minoritarie, ancorché eclatanti) fatta di disagi e inquietudini un po’ ribalde e aggressive e di curiosità umana profonda, è venuta sfumando in una omogeneizzazione culturale diffusa, come nel resto della città e forse dell’Italia tutta (e del mondo dei mass-media), un po’ cialtrona e arrivista, senza valori se non il danaro e il potere, l’apparire.
Adesso sì che insegnare al Pilastro potrebbe essere triste, ma esattamente come altrove, se non restasse il fatto che comunque si lavora con bambini, cioè creature vive, anzi piene di vita.

D. Parliamo del disagio: esplosivo? Sommerso? La scuola ha tentato di affrontarlo?
R. La scuola funziona all’incirca come uno specchio spugnoso che assorbe e riflette le realtà che la circonda, gli umani , i disagi, le inquietudini, i desideri…
Spesso non sa che farsene, perché non sa ‘leggere’ i messaggi e/o non sa interpretarli, non riesce a interagire: non si tratta, infatti, di assumerli acriticamente, quanto piuttosto di metterli a confronto con le mete educative e provare a creare canali comunicativi…
In molti casi è la stessa struttura della scuola (gli orari a incastri rigidi, i vincoli burocratici, la divisione di ruoli e competenze, le gerarchie…) così anchilosata e insieme così fragile, a non potersi adeguare alla realtà, rifugiandosi in progetti educativi di carta che non trasformano le parole in comportamenti quotidiani.
Ci sono anche casi (molti?) in cui è l’alibi del "non si può! come si fa? non è compito nostro!" a rivelare l’accidia degli operatori scolastici: di fronte a bambini che denunciano forme eclatanti di disagio, ovviamente, non si può non reagire, sia in modo repressivo per riportare l’ordine in classe, sia in modo positivo coinvolgendo famiglia e servizi sociali (anche loro spesso oberati da tanti problemi da non riuscire a quadrare il cerchio). Spesso ci si arrabatta, con tanta buona volontà, nel proprio orticello, con tanta fatica sprecata per carenza di sinergie. Ma quando il disagio è più contenuto, quasi sommesso (e magari più diffuso) è proprio allora che la rigida struttura-scuola dovrebbe avere la possibilità, la volontà, la capacità di riscrivere, non già le mete educative, ma le modalità per perseguirle. Tante volte la mancata (o parziale) esecuzione dei lavori, un atteggiamento rancoroso verso gli altri, una costante tendenza a sciupare o distruggere i propri prodotti, sono tutti segnali di inquietudini e disagi che hanno origine forse fuori dalla scuola: se si entra nella tana del topo bisogna accettare di uscirne da tutt’altra parte, così non serve ‘martellare’ sul comportamento scolastico (che comunque va sottolineato per dimostrare l’interessamento) mentre può essere più utile avere altre conoscenze dei momenti extrascolastici e favorire situazioni ‘lavorative’ meno strutturate (ad esempio certe forme di animazione condotte con leggerezza e fluidità): certe prese di coscienza conseguite sotto la tutela dell’insegnante rassicurano le insicurezze e le inquietudini, innescando processi virtuosi, magari senza ricadute scolastiche immediate (con un po’ di frustrazione per gli insegnanti) ma utili alla maturazione.

D. Come è andata con gli studenti disabili? E con quelli stranieri? Un’opportunità di rinnovamento o un’occasione persa?
R. L’occasione offerta dalla legge che apriva la scuola ai disabili, invitando (stimolando) gli insegnanti a rivedere la propria didattica, ripensandola collettivamente per adeguarla alla nuova complessa realtà, è andata dispersa sia per successivi interventi ministeriali che impoverivano e imbrigliavano le risorse, praticamente vanificandole, sia per scarsa assunzione di responsabilità degli insegnanti, dei consigli di classe, dei collegi che spesso e volentieri relegavano il ‘problema’ all’insegnante di sostegno, pur di tirare un sospiro…
Forse peggio vanno le cose, mediamente, con le nuove realtà multilinguistiche e multietniche.
Belle parole escono da qualche ufficio del Ministero, ingrigendosi e imbalsamandosi sempre più dal centro alla periferia: quando si arriva nelle scuole con le persone vere l’ingranaggio non funziona. Qualche slancio volontaristico dentro e qualche intervento di supporto fuori dall’edificio non bastano certo a sviluppare l”intercultura’: l’incontro, l’ascolto, lo scambio delle diversità non dovrebbero partire dal compagno di banco e dal collega di un’altra disciplina senza il bisogno dei precetti scaturiti da un’urgenza sociale. Senza radici profonde l’educazione alla mondialità va ad aggiungersi alla collezione di scatole vuote (o semivuote, o semipiene) della scuola italiana, moda dopo moda, con le ‘educazioni’ che proliferano e il cognitivo, l’affettivo, l’educativo a fare il gioco delle tue carte… Talvolta ci si sente giocati dalla realtà, cioè dalla furbizia di chi tende a lavorare meno, protetto e stimolato da un apparato che si preoccupa della tutela dei minori intesa più come sorveglianza che come sviluppo educativo.
E’ l’incongruenza di un apparato massiccio che partorisce topolini: le risorse degli insegnanti saranno forse malpagate, ma certamente sono mal utilizzate: sono l’unico patrimonio certo e presente nella scuola (per quanto carente, amareggiato e demotivato) e la parabola dei talenti è come se non fosse mai stata raccontata!

D. E il problema dell’abbandono scolastico come si inserisce in questo contesto?
R. Questi discorsi, in gran parte centrati sulla scuola dell’obbligo, vanno completati con qualche considerazione ulteriore: i disagi e i problemi di svantaggio raramente al Pilastro e a Bologna provocano l’abbandono scolastico: il diritto/dovere viene espletato quasi completamente.
Ma dopo? Moltissimi iniziano un percorso scolastico post-obbligo, ma pochi lo concludono: il disagio e lo svantaggio si ripresentano aggravati da una difficoltà a sostenere un aumento di sforzo e di impegno, in uno sfondo povero di figure e di strutture d’appoggio, perciò più rischioso di evoluzioni dolorose per sé e per gli altri.

D. Quali vie di uscita da queste situazioni allora?
R. Se torniamo alla scuola come ‘specchio spugnoso’, allora sarà bene spostare ogni tanto il punto di vista per cogliere, con angoli di incidenza differenti, segnali marginali, talvolta in ombra, talvolta sfocati: la ‘comunità educante’, invocata a suo tempo come l’insieme delle varie presenze adulte che si (pre)occupano della crescita dei minori, sembra dare segni di voler tornare a confrontarsi: molte famiglie si ritrovano in difficoltà nel rapporto coi figli, molte istituzioni pubbliche e/o private si scoprono doppioni inutili a fronte di vuoti angoscianti, oppure interferiscono danneggiandosi (e danneggiando), la scuola si ritrova caricata di compiti forse estranei alle proprie competenze e ai propri fini… anche da ciò nasce e si diffonde disagio.
Ma quando prevale la ricerca del senso profondo dei vari impegni, e cioè il bene dei piccoli che devono diventare grandi ‘attrezzati’ al meglio per la vita, allora si vedono lampi e bagliori illuminati.
Con pazienza e tenacia si sono ‘sbrogliati’ tanti nodi burocratici e si è cominciato a mettere accordo sia negli obiettivi sia nelle modalità delle varie componenti della ‘comunità educante’.
Il dialogo non tanto su "Come va mio figlio" quanto piuttosto su "Come dobbiamo comportarci" può diventare "Cosa significa un atteggiamento, un insegnamento, un’attività, un’iniziativa". Ciascuno interroga prima se stesso, e questo costa fatica, per poi confrontarsi, disponibile a mettersi in discussione, lentamente, faticosamente, qualcosa può cominciare a modificarsi… i minori trovano finalmente intorno a sé adulti meno schizofrenici, più rassicuranti e credibili, che sanno ascoltare, provano a vicenda: una bella lezione di ‘orientamento’!