Intervistiamo Giovanni Gatta, insegnante di lettere da 20 anni alle scuola medie del Pilastro, uno dei quartieri più ‘caldi’ di Bologna sulla sua esperienza educativa, i cambiamenti avvenuti nella scuola e le emergenze dei nostri giorni. “Moltissimi iniziano un percorso scolastico post-obbligo, ma pochi lo concludono”.
D. Cosa significava lavorare al Pilastro 20 anni fa, e cosa significa oggi?
R. Vent’anni fa, venire ad insegnare al Pilastro era considerato (soprattutto da chi non l’aveva neppure visto) una sventura…
Eppure allora, ancora in pieno boom demografico e grazie all’obbligo burocratico che vincolava i bambini alle scuole del territorio, il Pilastro offriva lavoro a molti nelle scuole strapiene che utilizzavano tutti gli spazi disponibili.
E che lavoro! Era una bottega di apprendistato, una palestra di esercitazioni, un laboratorio di sperimentazioni.
C’era il ‘tempo pieno’, cresciuto con Gianni Rodari, c’erano gli obiettivi educativi ripensati alla luce della scuola di Barbiana: queste le direttrici di un percorso che faceva continuamente i conti con la realtà quotidiana, che ‘doveva’ aggiornarsi perché l’ambiente intorno (genitori, cittadini,…) era molto attento e interessato alla scuola, ritenendola un momento formativo insostituibile per i bambini e quindi pretendendo che funzionasse al meglio sia come struttura sia come mezzi.
C’era qualcosa ancora che ‘obbligava’ la scuola a ricercare continuamente le modalità più adeguate e funzionali agli obiettivi che la legge affida all’istruzione obbligatoria (quindi un diritto/dovere) e cioè la realtà dei ragazzi, rispetto alla quale formulare le ipotesi di lavoro; ed erano realtà multiformi (le differenze sono o no una risorsa?) che richiedevano risposte ‘personalizzate’ (ora si chiama insegnamento individualizzato!).
Credo che molti di noi insegnanti abbiano avuto l’opportunità di allenare la propria didattica, non so quanti l’abbiano colta e poi sfruttata altrove…
Col tempo, la ‘cultura pilastrina’ (ma è una semplificazione mistificante che generalizza manifestazioni minoritarie, ancorché eclatanti) fatta di disagi e inquietudini un po’ ribalde e aggressive e di curiosità umana profonda, è venuta sfumando in una omogeneizzazione culturale diffusa, come nel resto della città e forse dell’Italia tutta (e del mondo dei mass-media), un po’ cialtrona e arrivista, senza valori se non il danaro e il potere, l’apparire.
Adesso sì che insegnare al Pilastro potrebbe essere triste, ma esattamente come altrove, se non restasse il fatto che comunque si lavora con bambini, cioè creature vive, anzi piene di vita.
D. Parliamo del disagio: esplosivo? Sommerso? La scuola ha tentato di affrontarlo?
R. La scuola funziona all’incirca come uno specchio spugnoso che assorbe e riflette le realtà che la circonda, gli umani , i disagi, le inquietudini, i desideri…
Spesso non sa che farsene, perché non sa ‘leggere’ i messaggi e/o non sa interpretarli, non riesce a interagire: non si tratta, infatti, di assumerli acriticamente, quanto piuttosto di metterli a confronto con le mete educative e provare a creare canali comunicativi…
In molti casi è la stessa struttura della scuola (gli orari a incastri rigidi, i vincoli burocratici, la divisione di ruoli e competenze, le gerarchie…) così anchilosata e insieme così fragile, a non potersi adeguare alla realtà, rifugiandosi in progetti educativi di carta che non trasformano le parole in comportamenti quotidiani.
Ci sono anche casi (molti?) in cui è l’alibi del "non si può! come si fa? non è compito nostro!" a rivelare l’accidia degli operatori scolastici: di fronte a bambini che denunciano forme eclatanti di disagio, ovviamente, non si può non reagire, sia in modo repressivo per riportare l’ordine in classe, sia in modo positivo coinvolgendo famiglia e servizi sociali (anche loro spesso oberati da tanti problemi da non riuscire a quadrare il cerchio). Spesso ci si arrabatta, con tanta buona volontà, nel proprio orticello, con tanta fatica sprecata per carenza di sinergie. Ma quando il disagio è più contenuto, quasi sommesso (e magari più diffuso) è proprio allora che la rigida struttura-scuola dovrebbe avere la possibilità, la volontà, la capacità di riscrivere, non già le mete educative, ma le modalità per perseguirle. Tante volte la mancata (o parziale) esecuzione dei lavori, un atteggiamento rancoroso verso gli altri, una costante tendenza a sciupare o distruggere i propri prodotti, sono tutti segnali di inquietudini e disagi che hanno origine forse fuori dalla scuola: se si entra nella tana del topo bisogna accettare di uscirne da tutt’altra parte, così non serve ‘martellare’ sul comportamento scolastico (che comunque va sottolineato per dimostrare l’interessamento) mentre può essere più utile avere altre conoscenze dei momenti extrascolastici e favorire situazioni ‘lavorative’ meno strutturate (ad esempio certe forme di animazione condotte con leggerezza e fluidità): certe prese di coscienza conseguite sotto la tutela dell’insegnante rassicurano le insicurezze e le inquietudini, innescando processi virtuosi, magari senza ricadute scolastiche immediate (con un po’ di frustrazione per gli insegnanti) ma utili alla maturazione.
D. Come è andata con gli studenti disabili? E con quelli stranieri? Un’opportunità di rinnovamento o un’occasione persa?
R. L’occasione offerta dalla legge che apriva la scuola ai disabili, invitando (stimolando) gli insegnanti a rivedere la propria didattica, ripensandola collettivamente per adeguarla alla nuova complessa realtà, è andata dispersa sia per successivi interventi ministeriali che impoverivano e imbrigliavano le risorse, praticamente vanificandole, sia per scarsa assunzione di responsabilità degli insegnanti, dei consigli di classe, dei collegi che spesso e volentieri relegavano il ‘problema’ all’insegnante di sostegno, pur di tirare un sospiro…
Forse peggio vanno le cose, mediamente, con le nuove realtà multilinguistiche e multietniche.
Belle parole escono da qualche ufficio del Ministero, ingrigendosi e imbalsamandosi sempre più dal centro alla periferia: quando si arriva nelle scuole con le persone vere l’ingranaggio non funziona. Qualche slancio volontaristico dentro e qualche intervento di supporto fuori dall’edificio non bastano certo a sviluppare l”intercultura’: l’incontro, l’ascolto, lo scambio delle diversità non dovrebbero partire dal compagno di banco e dal collega di un’altra disciplina senza il bisogno dei precetti scaturiti da un’urgenza sociale. Senza radici profonde l’educazione alla mondialità va ad aggiungersi alla collezione di scatole vuote (o semivuote, o semipiene) della scuola italiana, moda dopo moda, con le ‘educazioni’ che proliferano e il cognitivo, l’affettivo, l’educativo a fare il gioco delle tue carte… Talvolta ci si sente giocati dalla realtà, cioè dalla furbizia di chi tende a lavorare meno, protetto e stimolato da un apparato che si preoccupa della tutela dei minori intesa più come sorveglianza che come sviluppo educativo.
E’ l’incongruenza di un apparato massiccio che partorisce topolini: le risorse degli insegnanti saranno forse malpagate, ma certamente sono mal utilizzate: sono l’unico patrimonio certo e presente nella scuola (per quanto carente, amareggiato e demotivato) e la parabola dei talenti è come se non fosse mai stata raccontata!
D. E il problema dell’abbandono scolastico come si inserisce in questo contesto?
R. Questi discorsi, in gran parte centrati sulla scuola dell’obbligo, vanno completati con qualche considerazione ulteriore: i disagi e i problemi di svantaggio raramente al Pilastro e a Bologna provocano l’abbandono scolastico: il diritto/dovere viene espletato quasi completamente.
Ma dopo? Moltissimi iniziano un percorso scolastico post-obbligo, ma pochi lo concludono: il disagio e lo svantaggio si ripresentano aggravati da una difficoltà a sostenere un aumento di sforzo e di impegno, in uno sfondo povero di figure e di strutture d’appoggio, perciò più rischioso di evoluzioni dolorose per sé e per gli altri.
D. Quali vie di uscita da queste situazioni allora?
R. Se torniamo alla scuola come ‘specchio spugnoso’, allora sarà bene spostare ogni tanto il punto di vista per cogliere, con angoli di incidenza differenti, segnali marginali, talvolta in ombra, talvolta sfocati: la ‘comunità educante’, invocata a suo tempo come l’insieme delle varie presenze adulte che si (pre)occupano della crescita dei minori, sembra dare segni di voler tornare a confrontarsi: molte famiglie si ritrovano in difficoltà nel rapporto coi figli, molte istituzioni pubbliche e/o private si scoprono doppioni inutili a fronte di vuoti angoscianti, oppure interferiscono danneggiandosi (e danneggiando), la scuola si ritrova caricata di compiti forse estranei alle proprie competenze e ai propri fini… anche da ciò nasce e si diffonde disagio.
Ma quando prevale la ricerca del senso profondo dei vari impegni, e cioè il bene dei piccoli che devono diventare grandi ‘attrezzati’ al meglio per la vita, allora si vedono lampi e bagliori illuminati.
Con pazienza e tenacia si sono ‘sbrogliati’ tanti nodi burocratici e si è cominciato a mettere accordo sia negli obiettivi sia nelle modalità delle varie componenti della ‘comunità educante’.
Il dialogo non tanto su "Come va mio figlio" quanto piuttosto su "Come dobbiamo comportarci" può diventare "Cosa significa un atteggiamento, un insegnamento, un’attività, un’iniziativa". Ciascuno interroga prima se stesso, e questo costa fatica, per poi confrontarsi, disponibile a mettersi in discussione, lentamente, faticosamente, qualcosa può cominciare a modificarsi… i minori trovano finalmente intorno a sé adulti meno schizofrenici, più rassicuranti e credibili, che sanno ascoltare, provano a vicenda: una bella lezione di ‘orientamento’!