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autore: Autore: Operatori del Centro (a cura di)

5. Abitare la “giusta” distanza

Siamo un gruppo di operatori coeso e solidale. L’impegno quotidiano è rilevante e le aspettative del contesto così alte che in alcune circostanze possono arrivare a condizionare una serena disamina dei risultati conseguiti. 

La compresenza di due servizi, diurno e residenziale, rende il lavoro estremamente articolato. 

La disabilità complessa di molti ospiti inseriti nel residenziale richiede un grande impegno per l’assistenza primaria che cerchiamo di svolgere, in continuità con quella ricevuta in famiglia, attraverso una cura attenta alla personalizzazione delle relazioni. 

In tal senso vengono preparati progetti educativi individualizzati con l’obiettivo di realizzare strategie capaci di rispondere ai bisogni e alle difficoltà dei ragazzi e poterne mantenere/sviluppare le potenzialità. 

Fra gli elementi che caratterizzano la vita del Centro assume rilevanza la presenza e il ruolo dei genitori, dei familiari e più in generale dell’Associazione come risorsa che integra e sostiene il lavoro professionale.

Mancanza di fiducia? Volontà di controllo? L’intento non è questo! 

Sappiamo che i genitori vogliono poter continuare a esercitare la loro responsabilità educativa anche nel momento in cui preparano il “dopo di noi”.

Nel farlo ricorrono comprensibilmente ai propri valori e al confronto con esperienze pregresse. Oltre a un grandissimo coinvolgimento emotivo, comune a ogni genitore che si trova nella condizione di affidare ad altri il proprio figlio, hanno alle spalle una vita di cure alle quali riferirsi.

Con i genitori dialoghiamo continuamente. Questa prossimità oltre a informazioni, idee, soluzioni e punti di vista comporta inevitabilmente anche dinamiche, vissuti, ansie. 

In un servizio che prepara il “dopo di noi” l’ansia prodotta dai/nei processi di separazione è più che comprensibile ma è faticoso rinegoziare di continuo il da farsi, meglio sarebbe investire tutte le energie per progettare in modo elastico e flessibile le proposte d’intervento. 

Sarebbe altresì di grande utilità confrontare, rielaborare e monitorare i concetti di urgenza, indispensabilità e improcrastinabilità sottesi alla lettura dei bisogni evitando di finire per attuare esclusivamente ognuno la propria idea. 

Non solo noi abbiamo degli obiettivi, li hanno anche i genitori ma molte volte non riusciamo a scambiarceli perché le preoccupazioni insidiano la comunicazione. 

Noi cerchiamo di avere attenzione per tutti allo stesso modo ma non sempre è possibile: nostro malgrado, possiamo sottovalutare elementi che per un genitore sono al contrario importanti finendo per generare incomprensioni che diventano controproducenti.

Un passaggio ulteriore è riuscire a contenere l’ansia pedagogica del “fare”, retaggio di un modo riduttivo d’intendere le attività di stimolazione; capire che anche i momenti della quotidianità non esplicitamente finalizzati come attività possono essere pensati nel quadro di una ricerca di rispetto dei tempi del singolo. Infatti conciliare l’attenzione per i singoli con quella per il gruppo è una cosa sulla quale abbiamo lavorato e dovremo ancora lavorare molto per giungere a risultati soddisfacenti. 

La fiducia può incrinarsi fino a perdersi  ed è fondamentale saperla ritrovare reciprocamente senza cadere nel gioco della colpevolizzazione.

Talvolta si finisce anche per frammentare e personalizzare la relazione operatore/genitori determinando situazioni che travalicano la dimensione professionale dell’intervento.

Le visioni del Centro sono diverse: tutte comprensibili ma da rendere compatibili. 

Per i genitori il “Centro è la Casa”, “la Casa è il Centro” voluto/a per i loro figli. 

Noi ci inseriamo in questa dinamica come figure professionali con ruoli e approcci che sono diversi: per noi è un Servizio che deve saper/poter costantemente rinnovare gli elementi di continuità/rottura con la vita precedente e co-progettare il futuro.

Dopo tutto il lavoro che hanno fatto per giungere alla sua realizzazione, i genitori si sentono un po’ anche a casa loro e talvolta non si rendono conto che c’è bisogno di rispettare un delicato equilibrio 

organizzativo dettato non  tanto dalla regola quanto dall’intento di non aumentare la confusione e presentare il Centro come un luogo nel quale ci si muove indiscriminatamente. 

Quello che si percepisce è che il desiderio di ri-creare un’atmosfera familiare può portare a credere che stiamo insieme perché “siamo amici”. 

Senza voler mantenere distanze artificiose e/o escludere che nell’incontro possano nascere amicizia e confidenza va innanzitutto ricordato che, anche se questo non accade, in ogni caso va perseguito il principale/comune intento: collaborare per assicurare a chi “vive il Centro” una buona “Qualità della Vita”.

La formazione comune che ha preceduto l’apertura della struttura ha aiutato sia noi che i genitori. 

Fino a qualche anno fa esistevano grossi scontri su chi conosceva meglio il ragazzo, se il genitore che l’aveva a casa o l’operatore che ogni giorno stava con lui; ora abbiamo capito che queste diatribe non portano da nessuna parte e non occorre mettersi sempre in competizione.

Quando abbiamo iniziato avevamo tutti l’enorme aspettativa del centro perfetto, lo spazio/tempo “Eden” dove tutto funzionava alla perfezione, senza fatica; il mondo prima della Torre di Babele dove tutti si parlava la stessa lingua e si aveva simultaneamente la medesima meta e il medesimo percorso, con la stessa velocità.

È trascorso circa un anno dall’apertura, il clima è buono e rispetto all’inizio le cose sono migliorate anche se qualche volta manca un po’ il quadro d’insieme perché durante gli incontri di coordinamento non sempre riusciamo a esserci tutti. 

Ora condividiamo la vita quotidiana ed è fondamentale collaborare. 

Sentiamo il bisogno di riprendere la formazione: la nostra e quella comune. 

Fare formazione insieme è importante per continuare a conoscerci, poter dialogare e verificare che i diversi punti di vista sulle cose, se messi insieme, forniscono maggiori opportunità.

Bisogna continuare a lavorare per chiarire meglio qual è il ruolo di ognuno, soprattutto accettare l’idea che per umanizzare i servizi non basta riferirsi alle “buone pratiche” esistenti ma occorre “mettersi in gioco” per superare le diverse autoreferenzialità e l’incomunicabilità che s’insinuano nei contesti organizzativi e nell’agire professionale.

Dobbiamo imparare, tutti, a tenere lo sguardo aperto su “Presente” e “Possibile” fornendo possibili presenze e presenti possibili; abitare la “giusta” distanza; farci coinvolgere ma non travolgere da un contesto che per assunto  sappiamo essere psicofisicamente oneroso.

Il percorso è appena iniziato… Occorre definire, limare, dilatare i tempi… Ascoltarci!

Ci vorrà il tempo necessario ma raggiungeremo un equilibrio dinamico capace di renderci nella maggior parte del tempo “facilitatori e non barriere”.

Condividere una direzione

Chi si è interessata per far entrare Alessandro qui è stata mia moglie Ada. Siamo in associazione da 11 anni, abbiamo vissuto tutte le fasi e questo ci ha permesso di diventare sempre più affiatati.

Mia moglie non voleva inserirlo subito mentre io invece sì, penso che una cosa o si fa o non si fa. E nel marzo del 2011 è entrato, adesso siamo molto contenti di quello che sta succedendo. 

Penso che una realtà come questa sia molto rara se non unica: questo perché noi abbiamo la possibilità di condividere la direzione, siamo qui tutti i mercoledì per le attività dell’associazione e per stare insieme come una grande famiglia con la possibilità di venire non per controllare ma per mettere a disposizione anche le nostre capacità…

In tutte le cose c’è il margine di miglioramento ma noi siamo ben contenti di essere qui…

Enrico, papà di Alessandro