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autore: Autore: Pamela Franceschetto e Maria Luisa Montico

2. Una casa al sole

Di Pamela Franceschetto, assistente sociale presso l’Azienda per i servizi sanitari di Pordenone, e di Maria Luisa Montico, presidente Associazione Down di Pordenone: un contributo a due voci per raccontare la nascita, lo sviluppo e i risultati attuali dell’esperienza“Casa al Sole” ,percorsi e possibilità per l’autonomia abitativa.

Sono un’assistente sociale, lavoro presso l’Azienda per i servizi sanitari di Pordenone e sono la referente per tutto il tema della residenzialità della Provincia, non solo per l’autonomia abitativa.
È una precisazione importante perché “Casa al Sole” è un pezzettino dell’esperienza che abbiamo nel nostro territorio, nata grazie alla forte collaborazione che c’è tra l’Azienda e l’Associazione Down di Pordenone. “Casa al Sole” esiste da più di dieci anni, è un’esperienza ormai consolidata ed è partita grazie alla spinta e alla caparbietà dei genitori.
Spesso le istituzioni sono lente a recepire, e i meccanismi del pubblico spesso sono complessi, per cui partire con progettazioni nuove non è mai semplice; oltretutto il progetto di “Casa al Sole” si presentava un po’ anomalo: nella legislazione della nostra regione, che è a statuto speciale e quindi legifera da sé, le
strutture sono delineate come strutture per persone gravi, comunità alloggio e gruppi appartamento, per cui parlare di autonomia abitativa per persone con disabilità dodici anni fa era una cosa strana. Non è che non ci si credeva ma non si sapeva da che parte iniziare.
L’associazione e le famiglie ci hanno aiutato a pensare che forse bisognava impegnarsi in cose diverse e che è fondamentale che anche le persone con disabilità abbiano la possibilità di poter scegliere con chi abitare, con chi vogliono vivere: non possiamo pensare che le persone finiscano nelle strutture delineate da una legge. Da noi c’erano persone che finivano in strutture per persone con disabilità gravi perché non avevano alternative.
Insieme all’Associazione ci siamo detti che forse altri percorsi sono possibili. Alle giovani persone disabili si chiede di essere autonomi, di andare a lavorare, di terminare il ciclo scolastico, ma nel momento in cui sono loro a chiedere ai servizi la possibilità di poter scegliere, di avere un’alternativa, in realtà un futuro noi non glielo possiamo dare.
Questa è stata la spinta e l’Associazione ci ha aiutato a pensare a cose nuove, alternative, e così è nata l’esperienza di “Casa al Sole”.
Non è stato un percorso facile, è un servizio che nel tempo si è delineato come servizio nuovo e ha avuto la fortuna di avere delle persone, a livello delle istituzioni, che hanno accolto questa progettazione, che ci hanno creduto. Inizialmente non tutti capivano il senso di questo progetto perché inizialmente i costi sono stati gli stessi che ha una struttura residenziale classica, mentre bisogna anche capire qual è il valore aggiunto di un progetto di questo tipo.
Siamo partiti dodici anni fa, abbiamo un appartamento in centro dove quattro ragazzi alla volta fanno un percorso di autonomia che dura circa tre anni; una volta concluso questo percorso scelgono loro dove andare ad abitare e l’abitazione è un’abitazione comune. L’ultima, per esempio, l’abbiamo cercata tramite agenzia immobiliare, i ragazzi si sono firmati il contratto di affitto e insieme, in quattro persone, riescono a mantenersi. Nell’arco di dodici anni siamo riusciti a costruire quattro appartamenti dove questi ragazzi vivono in pianta stabile con un apporto educativo che nell’arco del tempo viene diminuendo; quindi, se inizialmente è vero che una struttura ha dei costi alti rispetto al rapporto educativo, è vero che accompagnare i ragazzi verso l’autonomia significa che a distanza di tempo si arriva a un rapporto educativo minimo, con una ricaduta di costi per l’ente pubblico assolutamente limitata e senza la prospettiva che queste persone un giorno debbano confluire in una comunità residenziale. È importante per la comunità avere in centro a Pordenone quattro appartamenti dove abitano delle persone con disabilità. A proposito dei condomini dove i nostri ragazzi vivono, noi abbiamo avuto dei ritorni bellissimi, sono integrati all’interno del condominio e della città dove abitano, passano assolutamente inosservati, come deve essere. Di fatto a questi ragazzi è stata data la possibilità di scegliere e di essere integrati nel loro territorio, e questo è sicuramente un valore aggiunto del progetto.
A me piace parlare di autonomia possibile non di autonomia tout court perché gli utenti che accedono ai nostri servizi hanno livelli di autonomia differenti, molti non sono integrati nel mondo del lavoro, fanno percorsi di inclusione sociale diversa; però è importante dare a tutti la possibilità di raggiungere la maggior autonomia possibile, è importante differenziare i percorsi e dare a tutti la stessa dignità.
All’interno del nostro servizio aziendale stiamo cercando di differenziare i percorsi tenendo conto dell’utenza che c’è nei nostri servizi.
In questo senso l’Associazione è sempre stata molto aperta, non ha mai vincolato l’accesso a “Casa al Sole” solo ai ragazzi con sindrome di Down, è stato chiaro fin dall’inizio che la collaborazione avrebbe previsto l’accesso per tutti i tipi di utenza, indipendentemente dal fatto che la co-progettazione è tra Azienda e Associazione.
L’Associazione ha tenuto aperta questa finestra e quindi, all’interno del progetto “Casa al Sole” abbiamo molti ragazzi che hanno diagnosi completamente diverse. Ci siamo anche detti che forse è importante differenziare i percorsi pensando anche a ragazzi che hanno disabilità fisiche ad esempio, oppure, perché no, a persone che stanno avanzando con l’età; bisogna pensare a percorsi di autonomia per persone che invecchiano perché i “ragazzi” che abbiamo all’interno di “Casa al Sole” e che hanno iniziato dodici anni fa non hanno più la stessa età!
In prospettiva dobbiamo immaginare progettazioni e percorsi diversi, dobbiamo differenziare i servizi tenendo conto delle varie caratteristiche che le persone hanno se vogliamo far sì che la qualità dei servizi tenga conto della persona e non semplicemente dell’etichetta che ci mettiamo sopra. Lo sforzo che la nostra Azienda sta facendo è proprio questo, differenziare i livelli anche rispetto alle strutture residenziali, non tenendo conto delle strutture classiche di una volta, ma aprendo a nuove possibilità.
Nell’arco di quest’anno, in un paese vicino a Pordenone, apriremo altri due appartamenti, sempre di percorsi di autonomia abitativa, probabilmente in uno dei due ci saranno persone con disabilità intellettiva e nell’altro persone con disabilità psichica; l’apporto della domotica ci aiuta un po’ ad abbassare il livello di presenza assistenziale e ad aumentare l’autonomia interna dei ragazzi.
Intanto stiamo ristrutturando un’altra casa che verrà adibita a percorsi di autonomia possibile per persone con disabilità fisica. Nel nostro territorio c’è un’evoluzione da questo punto di vista, abbiamo un coordinatore che crede molto in questo modo di lavorare, in questa differenziazione. Per noi è stato veramente importante, dodici anni fa ormai, pensare a elaborare percorsi diversi. Ovvio che ci deve essere un insieme di fattori che camminano insieme; da un lato per noi è stato fondamentale l’apporto dell’Associazione: come ho detto, è una co-progettazione tra Associazione e Azienda sanitaria per cui c’è il pubblico e c’è anche il privato, l’associazionismo. Ed è stato fondamentale anche trovare una cooperativa che ha avuto in concessione l’appalto per la parte educativa: è fondamentale il percorso educativo perché, senza le famiglie da un lato e la professionalità educativa dall’altro, i percorsi di autonomia non sono possibili.
All’inizio, la difficoltà di questi progetti stava anche nella difficoltà degli operatori a modificare il pensiero che c’era su queste persone, perché è molto semplice sostituirsi a loro, fare al posto loro; è molto più difficile invece, anche a livello professionale, insegnare loro a fare, avere la pazienza di aspettare che imparino, affinché la loro autonomia diventi un’autonomia di pensiero, non solo un’autonomia del fare. Senza autonomia di pensiero non possiamo pensare a un’autonomia educativa né possiamo pensare a un’autonomia legata al lavoro. Quindi i fattori che devono confluire sono molti, però la nostra esperienza è stata assolutamente positiva, ci sono state tante difficoltà che non vogliamo negare, anzi, ma è un’esperienza positiva ed è anche positivo che l’ente pubblico si sia messo insieme a una Associazione di famiglie senza la quale questo progetto non sarebbe partito, perché la forza delle famiglie all’interno delle scelte di un Ente pubblico è maggiore rispetto alla forza che spesso hanno gli operatori: mettere insieme gli operatori che ci credono e le famiglie è un valore aggiunto.

Questo progetto è nato dal pensiero di noi genitori che ci trovavamo in Associazione con incontri periodici e seguivamo la crescita dei nostri figli.
I nostri figli avevano frequentato la scuola di tutti, erano sempre stati inseriti nella società come tutti, frequentavano anche gruppi parrocchiali o scout, erano andati a lavorare e andando a lavorare avevano maturato una maggiore consapevolezza, avevano ben presente il ruolo che avevano nella società e ci chiedevano di più, ci chiedevano anche di avere i loro spazi, di avere le loro amicizie, di non venire sempre in vacanza con la famiglia, di poter fare anche loro delle scelte che potevano essere diverse da quelle di noi genitori.
Oltre a renderci conto dei bisogni dei nostri figli ormai grandi, avevamo anche la preoccupazione per il loro futuro. Allora ci siamo chiesti: “Perché anche loro, come tutti, non potrebbero avere una loro vita?”. Come tutti gli altri figli che a una certa età escono dalla famiglia e si fanno una loro vita, anche i nostri vanno aiutati a farsi una vita.
Consapevoli che non siamo una Associazione grande e non potevamo fare questo da soli, ci siamo rivolti agli operatori dell’Azienda sanitaria e agli operatori del SIL (Servizio Inserimento Lavorativo) che seguivano i nostri ragazzi nel percorso lavorativo e insieme pian pianino abbiamo pensato a qualcosa di diverso dalle strutture che già c’erano e che non vedevamo adeguate alle richieste e ai bisogni dei nostri figli.
Abbiamo pensato a un percorso di autonomia abitativa da fare in un appartamento in centro, dopo il quale poter vivere come tutti a casa loro, in una abitazione normale, inseriti nella città. Così siamo partiti, anche se con grosse difficoltà iniziali, perché le nuove idee fanno un po’ fatica a essere assorbite mentalmente dagli stessi operatori e anche dalle famiglie.
Siamo partiti come pionieri perché non avevamo molte esperienze da copiare, non avevamo esempi da seguire, e abbiamo creato il progetto un po’ alla volta con un grande dialogo fra gli operatori dell’Azienda sanitaria e noi famiglie. Fin da subito non abbiamo voluto limitarlo solo alle persone con sindrome di Down, ma anche a quelle persone con disabilità intellettiva che non erano adatte per centri diurni o per strutture protette, e che però non potevano vivere completamente in autonomia, avevano bisogno di un minimo di protezione.
Quali sono state le idee di base che ci hanno guidato? La prima è stata quella di cambiare l’ottica con cui si vedono le persone disabili: non dovevamo più pensare a loro come a eterni bambini o malati da curare ma a persone che, come tutti, crescono, si evolvono, hanno moltissime capacità da sfruttare e possono inserirsi nella vita di tutti.
Volevamo che i limiti fossero dovuti al proprio deficit e non tanto a relazioni dipendenti che quasi sempre si creano con persone con disabilità, quindi dovevamo guardarli come persone che crescono e chiedere loro tutto quello che potevano darci. Semplice dirlo, difficilissimo farlo.
La seconda idea fondamentale era che tipo di autonomia volevamo. Non era tanto l’autonomia del fare ma era soprattutto l’autonomia del pensare: dovevamo far emergere le loro capacità e quindi dovevamo stimolare soprattutto le funzioni del pensare, decidere e agire. Questi sono un po’ i tre capisaldi del metodo educativo messo a punto per aiutarli.
Per poter vivere in autonomia, poter lavorare, i giovani devono avere una percezione di sé come adulti. Come far loro percepire l’essere adulti? Attraverso il modo con cui noi ci relazioniamo con loro, la famiglia per prima, perché se la famiglia mette in atto atteggiamenti di dipendenza, di sostituzione nelle decisioni, allora che percezione di sé può avere nostro figlio? Penserà che non è capace e delegherà i genitori a fare al posto suo. Bisognava prima di tutto sgombrare questo terreno, bisognava modificare questo atteggiamento, e prima di tutto doveva farlo la famiglia: questo è stato uno dei percorsi più difficili perché modificare il nostro atteggiamento, trattare il figlio da adulto, non sostituirci a lui, non parlare al suo posto, non pensare che le nostre scelte siano le migliori per lui, è stato molto difficile.
Prima, se doveva andare dal medico eravamo noi a prendere l’appuntamento e ad accompagnarlo, lo stesso succedeva se doveva andare a qualche attività sportiva: eravamo comunque noi che facevamo da intermediari su tutto, difficilmente lo lasciavamo fare tutto da solo. Fare un passo indietro e lasciar fare è molto difficile.
In questo percorso ci sono stati molto vicini gli educatori, poi abbiamo sentito subito il bisogno di avere un sostegno psicologico che accompagnasse questo distacco, anzi, meglio, questo distanziamento. Se questo distanziamento non avviene, i giovani non riescono a costruire un pensiero autonomo, non riescono ad accendere dentro di loro quel pensiero che permette loro di prendersi cura di se stessi. Inoltre non siamo aiutati dalla tipica opposizione adolescenziale che hanno tutti, quando i figli si ribellano a quello che gli viene imposto dai genitori. La fatica che fa la famiglia è doppia, dobbiamo tagliare una seconda volta il cordone ombelicale e dire “no adesso ti arrangi, le cose che puoi fare tu le fai tu, io sono qua, se hai bisogno di un aiuto ci sono, però sei tu il protagonista della tua vita, sei tu che devi prenderti le tue responsabilità, non le ho più io”.
All’inizio è stato difficilissimo perché noi siamo partiti sull’onda dell’entusiasmo e i nostri figli sono entrati subito in questo percorso senza aver fatto un percorso di autonomia prima: anche se li avevamo sempre abituati a essere autonomi, il pensiero sulla loro vita l’avevamo in mano noi. Toglierci questo pensiero dalla testa è una cosa difficilissima, non sono più io che devo pensare a mio figlio ma è lui che deve pensare per sé.
È un salto che non tutte le famiglie sono riuscite a fare, qualcuno aveva cominciato il percorso e poi si è ritirato, non tanto per l’incapacità del giovane ma per la propria incapacità a lasciarlo andare perché nella famiglia entra l’ansia, quante notti in bianco si fanno, quante domande… Lo sto esponendo a pericoli? Se io non ci sono, riuscirà a pulirsi bene le orecchie? A tagliarsi bene le unghie? Saprà accostare la maglietta giusta ai pantaloni o mi metterà un colore con un altro? Sarà adeguato?
Vi dico proprio le cose pratiche che a noi genitori vengono in mente, e poi una cosa dobbiamo metterci bene in testa: l’autonomia implica un certo rischio. Nel momento in cui nostro figlio va via da solo che incontri farà? Cosa gli succederà? Con gli altri figli cosa facciamo? Le preoccupazioni ci sono quando uno vuole il motorino per la prima volta, vuole andare in discoteca e sta fuori fino alle tre, le quattro di mattina, ma non per questo gli si impedisce di fare le cose. Perché dobbiamo impedirlo agli altri?
Abbiamo dovuto farci un po’ di “lavaggio del cervello”: ci siamo chiesti se avevamo il diritto di tenere questi figli legati a noi a causa di tutte le nostre paure e le nostre ansie. Sono cose che si maturano lentamente e quindi un po’ alla volta ti rendi conto che tutti, anche questi figli, hanno il diritto ad avere la vita che possono e vogliono fare. Noi siamo al loro fianco, ma non davanti a camminare per loro.
All’inizio quante volte vedevamo magliette macchiate, scarpe sporche… e cosa facevamo istintivamente come genitori con il figlio? Gli dicevamo: “Guarda hai lamaglietta macchiata, cambiatela, guarda che scarpe infangate, puliscile”. Gli educatori un po’ alla volta ci hanno fatto capire che così ci sostituiamo al suo pensiero perché glielo risolviamo noi il problema, e non imparerà mai a gestirsi in questa maniera. Non è che dovevamo stare zitti se lo vedevamo inadeguato, dovevamo dirgli che la maglietta era macchiata ma non dargli la soluzione. Il fatto di dire “ho la maglietta macchiata me la cambio” doveva essere frutto di un suo pensiero.
Queste dinamiche però riescono solo se c’è una grande alleanza fra la famiglia e gli educatori. Gli educatori devono capire che sono a fianco del ragazzo, non devono sostituirsi a lui altrimenti cade dalla dipendenza dal genitore alla dipendenza dall’educatore, e non è questa l’autonomia che si vuole perseguire. Questa alleanza che deve esserci fra famiglia ed educatore porta a farlo maturare: se io
vedevo mia figlia in giro per Pordenone inadeguata, non lo dicevo a mia figlia ma chiamavo l’educatore e lo dicevo a lui. Allora l’educatore metteva in atto delle strategie educative e la faceva rendere consapevole, lavorava su questo aspetto in modo che capisse che quando la maglietta è macchiata la deve cambiare.
Questo è un aspetto banale della vita, però su questo è stato costruito proprio un metodo per rendere i nostri figli consapevoli che sono delle persone adulte, e che gli adulti hanno tutta una serie di competenze e di responsabilità che devono essere messe in atto. E così, lavorando proprio sugli aspetti della vita di tutti i giorni, pian pianino sono stati in grado di prendersi cura di sé, sono passati dall’essere curati al prendersi cura di sé, dall’affidarsi ad altri, genitori o educatori, sono passati al dire “devo pensare io alla mia vita”.
L’educatore, da lontano, con discrezione, tiene sotto controllo la situazione soprattutto dal punto di vista sanitario, della gestione dei soldi. Anche la gestione dei soldi è una cosa molto importante per l’autonomia se no è difficile pensare a un’autonomia abitativa: ognuno ha il suo conto che gestisce, la famiglia non entra più in questo, anche se è sempre informata dagli educatori, e poco alla volta si è creato un tipo di rapporto diverso.
All’inizio mia figlia veniva a casa o andavamo a prenderci il caffè insieme come avrei fatto con un altro figlio, allo stesso livello e la percepivo diversa. Ho fatto fatica all’inizio, come penso tutte le famiglie, ma una volta che si riesce a vedere i figli con altri occhi, se si vede che sono in grado, che riescono, si arriva ad avere un atteggiamento più tranquillo, più rilassato e ad avere un rapporto da pari a pari, però ci deve essere questa grande alleanza con gli educatori, altrimenti è difficile.
Ecco perché la preparazione degli educatori è molto importante, il metodo educativo che loro usano non è indifferente, devono stimolare il loro pensiero, fare emergere i loro bisogni, aiutarli a pensare, decidere e fare, ci deve essere un metodo educativo che li aiuta alla conquista di tutto questo.
Un altro aspetto riguarda la vita affettiva e sessuale: non dimentichiamoci che finora gli è stata un po’ negata, noi genitori per primi abbiamo paura di questo. I nostri figli con noi non affrontano questi argomenti, come tutti a una certa età non condividono certe cose con i genitori, ma con gli educatori sì. L’educatore è anche il punto di riferimento con cui viene a galla tutto il mondo che ha dentro il giovane, un mondo che non condivide più con la famiglia perché è ben consapevole di non essere più un bambino.
Quando, dodici anni fa, noi genitori siamo andati in cerca di un appartamento in affitto per cominciare questa esperienza, abbiamo dovuto girarne molti perché quando i proprietari sapevano che ci sarebbero andate ad abitare persone con disabilità non volevano affittarlo; solo dopo cinque o sei tentativi abbiamo trovato una persona che ce l’ha affittato. Il nome “Casa al Sole” di questo progetto è stato dato da Spartaco perché questo primo appartamento aveva una gran fila di finestre e i ragazzi, quando sono andati la prima volta e hanno visto questo sole che entrava, hanno scelto il nome pensando a tutta questa fila di finestre da cui entrava questo bel sole. Il nome è azzeccato anche perché lì venivano alla luce del sole tutti i vissuti dei giovani e gli educatori hanno saputo gestirli, guidarli, arrivando a traguardi veramente impensabili. “Casa al Sole” è il nome dell’appartamento formativo, le altre le chiamiamo case satellite. In una delle prime adesso vivono quattro ragazzi, due coppie: nel percorso di formazione erano partiti in sette poi si sono scelti, si sono innamorati e lì vivono veramente una vita piena, e per loro è stato importante vivere anche questo aspetto della vita che ha un potenziale di maturazione grandissimo.
L’esperienza poi ci ha fatto capire anche che questo percorso va preparato prima, soprattutto per le famiglie, perché i ragazzi imparano subito, non hanno difficoltà, anzi non vedono l’ora! Le famiglie vanno preparate prima e infatti noi abbiamo attivato da diversi anni un corso di autonomia, preparatorio poi per chi vuole accede a “Casa al Sole”. Gli stessi educatori che seguono i ragazzi in “Casa al Sole” seguono anche dei giovani che stanno ancora in famiglia, però due volte la settimana questi giovani vanno a fare lì delle attività, sempre sull’autonomia, mentre viene preparata la famiglia a staccarsi gradualmente dai figli, a fidarsi, a dar loro dei compiti, perché se i ragazzi non hanno la percezione di aver un ruolo sia in famiglia che nella società non maturano neanche l’idea di essere delle persone adulte.
Abbiamo capito anche che questo percorso va preparato fin da quando nascono i nostri figli, per cui c’è un mettere le famiglie, la società tutta, la scuola, in un atteggiamento diverso. Come Associazione abbiamo attivato una consulenza pedagogica, abbiamo due tutor che aiutano le famiglie fin da quando i bambini nascono e nel percorso scolastico, in modo che quando arrivano all’età adulta già hanno una famiglia alle spalle che ha come obiettivo l’autonomia abitativa.
Mia figlia ha 40 anni, l’idea che io avevo in testa quando è nata è che sarebbe stata sempre attaccata a noi. Chi ha figli che hanno oltre trent’anni viene da esperienze di questo genere e se anche ci siamo un po’ ribellati e ci siamo detti “mettiamoli alla prova” avevamo sempre l’idea che sarebbero stati attaccati a noi. Se l’autonomia non è nei nostri pensieri non la realizzeranno mai. Nei pensieri prima di noi genitori poi della scuola perché se l’insegnante di sostegno sta attaccata al banco del bambino e non è un sostegno alla classe, che idea può farsi di sé quel bambino? Non è che le autonomie improvvisamente vengano fuori a 25-30 anni, bisogna cominciare da quando si è piccoli e questa esperienza ci ha dato questa visione. I genitori che hanno i bambini piccoli adesso sanno che possono arrivare all’autonomia abitativa, anche se forse non per tutti. Non esiste la sindrome di Down ma esiste quella persona con quelle caratteristiche, con quell’ambiente familiare e quelle possibilità. Ognuno svilupperà quello che può, io come genitore devo preparare il figlio fin da piccolo, devo chiedergli cosa vuol fare da grande anche quando ha cinque anni. Perché ai nostri figli non chiediamo cosa vorrebbero diventare da grandi? Tante volte i nostri figli non si fanno certe domande, perché nel nostro pensiero c’è già un limite e allora bisogna che le famiglie fin da quando son piccoli si tolgano questa idea del limite. Io non so mio figlio cosa sarà, però vedo che potrebbe anche arrivare “là”. Questo modo di ragionare, di pensare, deve essere impostato fin da piccoli. Questo progetto ci ha obbligati a molte di queste riflessioni e abbiamo messo in atto anche degli strumenti per le famiglie e gli operatori perché si cambi proprio l’ottica con cui si guardano queste persone.

Per contatti:
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