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autore: Autore: R. G.

Essere mondiali

Ho incontrato Giovanni Gazzoli, medico a Goiania, mentre stava facendo le valigie dopo otto anni di lavoro in Brasile. Fra gli scatoloni mezzi imballati e le stanze semivuote dell’appartamento, in bilico tra un futuro in Italia e un passato pieno, speso per combattere le tante lebbre del Brasile, ho acceso il registratoreQuali sono le tue mansioni?
Allora… prima faccio un po’ di storia. Mi sono laureato a Bologna in Medicina e all’epoca avevo già deciso, avendo fatto una tesi di Patologia Tropicale, di lavorare nella cooperazione sanitaria internazionale. Subito dopo la laurea ho fatto una specialità in Belgio di Patologia Tropicale e da lì ho mandato il mio curriculum a varie organizzazioni non governative tra le quali ha risposto l’AIFO, che mi ha dato la possibilità di lavorare in un progetto cofinanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano nello stato di Bahia (che è uno degli stati che compongono gli Stati Uniti del Brasile) in appoggio al programma di controllo organizzato dallo stato per l’eliminazione della lebbra. Il Brasile è il secondo paese al mondo come numero di casi, dopo l’India.

C’è ancora tanta lebbra in giro?
Parecchia: ci sono circa quarantaquattromila casi nuovi in Brasile attualmente. C’è un programma a livello mondiale che prevede di arrivare a meno di un caso ogni diecimila abitanti, questa è la meta dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), attualmente in Brasile siamo sui cinque casi ogni diecimila abitanti.

Che cos’è la lebbra?
La lebbra è una malattia contagiosa dovuta ad un batterio, si chiama micobatterio lepre. E’ una malattia oggi completamente curabile. Uno dei più grandi problemi che ci sono attualmente è in relazione al preconcetto molto alto sulla lebbra, per cui è difficile arrivare a curare il paziente. Infatti la cura della lebbra non è riducibile, appunto, alla somministrazione del farmaco perché dal punto di vista sociale la situazione è ancora grave: il malato di lebbra può perdere il lavoro, ha problemi in famiglia, viene discriminato. Si può anche guarire dalla lebbra ma ci si porta dietro questo stigma. I primi sintomi della malattia sono a livello cutaneo, sono delle macchie insensibili. Non è una malattia dermatologica però, ha una predilezione per i nervi dell’apparato nervoso periferico, delle braccia, delle gambe e anche a livello oculare. Può portare delle infermità, se non ben controllata la malattia può causare delle deformità.

Quanti di questi quarantamila casi all’anno riescono ad essere curati?
Tutti sono in trattamento con polichemioterapia, è una selezione di tre farmaci, clofazimina, dapsone e rifampicina, che curano la malattia. C’è un abbandono, diversificato a seconda degli stati brasiliani, causato dal mancato accesso ai servizi, dal pregiudizio e dall’inefficienza del sistema sanitario brasiliano soprattutto in alcune aree sperdute, all’interno degli stati. C’è una media di 20/25% di abbandono della cura ma ci sono degli stati che arrivano anche al 40%.
Il servizio dovrebbe recuperarli, ma molti danno l’indirizzo sbagliato, per non far sapere dove abitano; gli spazi sono immensi e non c’è il personale per recuperare queste persone. Oggi in Brasile è in atto un processo di municipalizzazione, di decentramento: mentre prima era tutto in mano ai federali, alla Fondação National da Saude. Adesso il Sus, il Sistema Unico di Salute brasiliano, prevede il decentramento. I municipi saranno responsabili del proprio territorio ma siamo in una fase di transizione, non hanno personale adeguato, non hanno esperienza. Ancora oggi, in Brasile, è difficile stabilire il futuro del controllo dell’hanseniasi, come viene chiamata la lebbra, nonostante sia in diminuzione la prevalenza, cioè in diminuzione il numero dei casi registrati, e sia aumentato il numero di casi curati. Fino agli anni ottanta la lebbra veniva curata nei lebbrosari, che poi sono stati chiusi; adesso la lebbra è curata nei servizi normali, ma l’incidenza è ancora molto alta soprattutto per i bambini al di sotto dei quindici anni e questo indica che il batterio è ancora in atto. La trasmissione è ancora molto attiva. I farmaci sono donati dall’OMS gratis, o meglio da una organizzazione la ILEP (International Federation of Anti-Leprosy Associations) una federazione di associazioni di cui fa parte anche l’AIFO, che distribuisce la cura contro la lebbra. L’incidenza, che si costruisce considerando i nuovi casi in un anno, è molto elevata: cerchiamo di far prendere coscienza ai segretari municipali che la lebbra è un problema di salute pubblica.

Dare una informazione può aiutare molto contro il pregiudizio. Prima mi hai fatto vedere un testo di una canzone, un cordel…
Sono delle canzoni scritte dai cantastorie nordestini, che anche da noi c’erano in sud Italia, una specie di teatrino con due chitarre, per fare sensibilizzazione, comunicare; funzionava, si faceva nelle fiere e avvicina molto la popolazione.

Oltre a queste iniziative?
L’AIFO lavora dal 1961 nel campo della eliminazione della lebbra. Nei primi anni passava fondi ai missionari che lavoravano in servizi e nei lebbrosari; dalla fine degli anni settanta sono iniziati i progetti di cooperazione vera e propria con personale espatriato come me, di collaborazione tecnica, e attualmente l’AIFO ha venti progetti nell’ambito del controllo della lebbra con segreteria di stato, ha una collaborazione diretta con il Ministero della Sanità, abbiamo cinque progetti in cooperazione con cinque segreterie statali, Distretto federale dove c’è Brasilia, Bahia, Parà, Acre e Goias, più altri progetti con istituzioni religiose, movimenti popolari brasiliani e organizzazioni non governative tipo il MORHAN – Movimento de rehentegração das pessoas com hanseniasi, che lotta contro la discriminazione, che è nato per volontà di persone che hanno sofferto di hanseniasi di persona. Il problema principale, come dicevo, è raggiungere il paziente nella vastità del territorio brasiliano: paziente che in genere non ha nemmeno i soldi per il biglietto dell’autobus per raggiungere di persona il Servizio di Salute. In alcune zone dell’Amazzonia in cui non esiste l’autobus, magari occorre un giorno in barca per arrivare al centro sanitario.

Su una rivista brasiliana ho letto che metà della popolazione è povera o molto povera. Questa fascia della popolazione è garantita dal sistema sanitario?
Purtroppo no. Ufficialmente è dichiarata coperta dal servizio sanitario ma in realtà la copertura sanitaria non esiste, non essendo una priorità la salute pubblica. Le municipalità brasiliane sono più interessate ad avere un ospedale funzionante che non a sviluppare progetti di prevenzione, che eviterebbero che le persone arrivino all’ospedale: l’ospedale ha un maggiore impatto politico sulla popolazione. Tieni conto poi che gli ospedali ricevono i pazienti ma la maggior parte delle volte con carenza di personale e senza gli adeguati farmaci. Ti faccio un esempio: qui a Goiania, una città abbastanza attrezzata che ha un milione di abitanti, capitale dello stato di Goias, non esiste acqua potabile per tutti, con i conseguenti risvolti sulla salute pubblica. All’interno del territorio, nella vasta campagna, ci sono villaggi con case in fango e paglia non solo senza acqua potabile ma senza nemmeno i servizi igienici, canalizzazioni delle fognature, ecc.
In questa realtà difficile l’AIFO finanzia attività di formazione del personale locale, attività di prevenzione delle incapacità, attività di trattamento, riabilitazione e prevenzione – sensibilizzazione sanitaria. Il pensiero di Raoul Follerau è lottare contro tutte le lebbre (contro tutte le forme di discriminazione), ed è per questo che dal 1996 l’AIFO opera su tre settori: lebbra, infanzia e riabilitazione su base comunitaria, promuovendo e finanziando corsi di formazione tenuti da personale brasiliano (tutti settori non ritenuti prioritari). Come medico mi spetta la supervisione amministrativa e tecnica di tutti i trentatré progetti e, pur viaggiando all’interno del Brasile, praticamente compio, con l’aereo, in un anno l’equivalente di due volte il giro del mondo. Poi per arrivare in certi posti sperduti ho viaggiato anche in asino!

Che cosa è per te fare riabilitazione?
Si pensa sempre alla riabilitazione guardando ad un aspetto della persona, quello fisico. Anche qui nei paesi in via di sviluppo, del cosiddetto terzo mondo, (espressione che non mi piace sia perché penso che il mondo sia uno solo, sia perché questa distinzione – primo, secondo e terzo – è stata fatta da chi ha i soldi: i paesi in via di sviluppo sono in realtà i paesi sfruttati) se noi aspettiamo che i grandi centri riabilitativi, con una visione meccanicistica, risolvano i problemi, non ci siamo. Bisogna guardare alla riabilitazione da un punto di vista della globalità della persona.

Sono arrivato che stai facendo gli scatoloni…Quale tipo di sintesi, anche a livello personale, faresti di questi otto anni di esperienza?
Sono stati anni importanti, duranti i quali ritengo di avere instaurato un tipo di cooperazione paritaria, cercando di non pensare solo ai rapporti costi benefici finali ma osservando anche, nella realtà locale, lo sviluppo quotidiano, in relazione alla globalità dei fattori esterni. Spesso si pensa solo al proprio progetto perdendo di vista la visione d’insieme, ciò che ci accade intorno. Uno dei più importanti lavori condotti è stato mettere in contatto tra loro associazioni non governative o istituzioni religiose, isolate sul territorio, con le competenti istituzioni a livello locale e, tramite le mie conoscenze del funzionamento dell’amministrazione ministeriale, si sono sviluppati rapporti di collaborazione tra istituzioni locali e federali. Questo credo che sia uno dei punti di forza del mio lavoro, anche se non era previsto negli obiettivi iniziali. Non ci limitiamo a contare il numero di malati curati o quello di personale formato, pur essendo importante, sarebbe limitativo. Aver contribuito a far crescere una nuova risposta a livello comunitario è più importante.

Oltre al lavoro, a livello personale, quanto di Giovanni è diventato brasiliano e
come vedi il tuo ritorno nel vecchio mondo?
Mi considerano brasiliano, mi sono calato definitivamente nel modo di essere e di vivere, però conosco anche il mio mondo e ci ritorno abbastanza consapevole delle difficoltà che dovrò affrontare. Penso che la cosa più importante, ma anche più difficile, sia poter mettere a disposizione l’esperienza acquisita qui, in Italia e in Europa, dove sta sviluppandosi adesso una società multirazziale. Il Brasile è un mistura di razze ma c’è una fortissima distinzione di classi (non razzismo diretto alla razza, ma alla classe economica di appartenenza).

Quando approfondisti i tuoi interessi sulle malattie tropicali cosa ti aspettavi? Avevi già l’idea di fare qualcosa di simile a quello che hai fatto?
Quello che mi ha spinto a fare Medicina è stata la conoscenza di colleghi che avevano condotto, anche prima della laurea, esperienze nelle zone più povere del mondo, analoghe alla mia. La possibilità di fare qualcosa di efficace in zone difficili mi ha sempre stimolato. Lavoravo in una parrocchia che aveva connessioni con missionari…è stata facile la scelta, poi con mia moglie siamo partiti per il Brasile.

E’ interessante vedere le motivazioni…
Sì, ma se uno aspetta di avere la motivazione, che deve crescere…non lo so…è una decisione tua, personale senz’altro, ma la scelta avviene per i tuoi contatti per le tue amicizie, attraverso la tua sensibilità ai problemi internazionali, attraverso il tuo sentirti un po’ mondiale…viene dall’esperienza dagli stimoli che uno riceve, chissà… per fortuna, o chissà per sfortuna…Potrei essere stato utile anche in Italia. L’esperienza brasiliana può essere molto utile in Italia.

Parlavo con Claudio Batista docente all’Università di Porto Alegre, che il Brasile è un paese molto ricettivo, anche troppo per alcuni versi, in grado di fare molti passi in avanti. Anche tu sei ottimista in questo senso?
Il grande problema del Brasile, oltre quello sanitario, è quello dell’educazione. Oltre il 17% della popolazione è analfabeta totale (considerando anche chi sa scrivere solo il proprio nome, si arriva quasi al 25%). La gestione politica è terrificante: i sindaci non sono i gestori del territorio bensì i veri e propri padroni; affiggono ancora i manifesti con scritto “Questo l’ho fatto io”. Qui si vota ancora la persona, non un’idea politica. Durante le campagne elettorali i dentisti lavorano a più non posso: il sindaco paga i dentisti per mettere a posto i denti alle persone dicendo loro che è lui che paga. C’è una voluta mancanza della partecipazione della maggior parte delle persone alla vita politica e sociale del Paese. I ricchi (che sono ricchissimi concentrano una quantità di risorse sproporzionata, la classe media fa di tutto per sopravvivere ed i poveri sono abbandonati a se stessi.

Qual è la cosa del tuo lavoro che è riuscita meglio e quella che è riuscita peggio?
La cosa venuta meglio è avere avuto la possibilità di conoscere tutte le realtà e di poter trasmettere quello che è l’AIFO ai progetti. Per esempio un mese fa abbiamo fatto l’incontro di tutti i responsabili di progetto qui a Goiania ed è stato un momento molto importante; abbiamo avuto la possibilità di trasmettere il messaggio dell’AIFO e di uniformizzarlo. Una carenza, una cosa che non siamo ancora riusciti a fare è sviluppare una rete progettuale nuova con le istituzioni; per esempio, lavoriamo con altre ONG o con movimenti locali, radicati sul territorio, ma è una strada da sviluppare.

Il popolo brasiliano è ottimista o pessimista?
Secondo me nessuno delle due. E’ fatalista. Ci sono delle aree talmente degradate ed abbandonate che la popolazione non ha nemmeno l’idea di cosa potersi aspettare di meglio, tipo piantare qualche albero e iniziare una sorta di piantagione. Sono abbastanza fatalisti nel senso che non sanno cosa potersi aspettare di meglio e si accontentano di quello che hanno. Un famiglia nata e vissuta da sempre in una capanna di paglia, senza acqua, nell’interno del Piauì, nel mezzo del Sertão bahiano, cosa si aspetta? Quelli invece accorsi dalle campagne verso le grandi città hanno a che fare con i problemi della delinquenza, della disoccupazione e conducono una vita di rassegnazione. Arrivano in città attratti da un sogno e vanno a fine nei quartieri periferici con capanne che sono peggiori di quelle che hanno abbandonato, con l’aggravante che non sanno come “districarsi” nella vita cittadina. Tutto ciò genera violenza: i bambini di strada potrebbero anche tornare a casa se non incontrassero lì una situazione anche peggiore rispetto alle incertezze della strada.

Di che cosa ha bisogno il Brasile?Hai tre minuti di tempo per rispondere…
Beh insomma, è un po’ difficile…(ride). La questione del bisogno è una questione universale. I bisogni per arrivare alla felicità delle persone sono gli stessi in tutto il mondo; il Brasile ha bisogno di maggiori possibilità di avere una chance di ricercare la felicità, di esprimere la propria idea. Esistono però bisogni primari legati alla sopravvivenza quotidiana che portano in secondo piano altri bisogni, eppure il Brasile è l’ottava potenza industriale nel mondo anche se al 79° posto per qualità della vita (l’Italia è 18° e primo è il Canada).

Mi rendo conto sempre di più che le distanze geografiche sono immense, il Brasile è 28 volte l’Italia…
Considera però questo: non è che chi abita nel suo piccolo abbia una visione più ristretta di chi vive in città. Se prediamo un Caboclo (un ex-indigeno che vive sui fiumi dell’Amazzonia) che pesca e vive in un ambito ristretto, ha una coscienza dell’ambiente, e quindi una consapevolezza di se stesso, della Natura in cui vive, molto più forte di quella di un impiegato che abita in città. Pur senza avere conoscenza delle dimensioni del Brasile, dell’esistenza di Brasilia, pur avendo bisogni completamente differenti dall’impiegato, ha una coscienza del proprio essere maggiore. Questi indigeni, pur vivendo isolati, hanno una sensibilità maggiore e non paragonabile a quella della maggior parte della borghesia o del turista medio. Pensa all’italiano che viene in Brasile per turismo sessuale e comincia a lamentarsi del caffè sulla Varig (la compagnia aerea di bandiera). Quale sensibilità può avere? La sensibilità cioè non viene solo dalla tua partecipazione attiva alla vita sociale, dal tuo essere persona impegnata; ma viene anche dalla relazione tra te a la Natura.

Tornando al personale…
Spero in Italia di potere mettere a frutto l’esperienza acquisita qui. Spero. Un progetto di cooperazione è valido se tu porti qualcosa dove vai ma anche se riesci a riportare qualcosa di utile al mondo dal quale sei partito.

Dimmene una.
Secondo me l’idea di mondialità del Caboclo, di cui parlavamo prima, è un idea utile da riportare in Italia. Si crede che il poveretto africano o brasiliano siano più limitati, ma non è così.

Vila Esperança

Ho incontrato Pio Campo, italiano, in un caldo, invernale, pomeriggio di luglio a Goias Velho, vecchia capitale dello stato di Goias, vicino, si fa per dire, a Brasilia. Nel mio viaggio in Brasile questo è stato uno degli incontri più importantiChe cosa è Vila Esperança?
Da un punto di vista freddamente giuridico Vila Esperança è una associazione apolitica e senza fini lucrativi e religiosi. Il suo scopo è lavorare sul riscatto e sulla valorizzazione della cultura brasiliana e quindi sulle radici culturali indigene e africane, che sono i due ceppi che compongono, insieme alla razza bianca, questa mescolanza che è il popolo brasiliano. Vila Esperança già nelle costruzioni riflette l’influenza di queste culture perché volevamo che i bambini che la frequentano si abituassero ad avere stimoli visivi che ricordassero loro da dove vengono, qual è la loro storia. Questo perché in Brasile, come in tutti i paesi chiamati del “terzo mondo”, la storia che si studia a scuola è una storia ufficiale, bianca, vista come storia di conquista, di dominazione. Noi invece cerchiamo di presentare la storia con occhi latino americani, che guardano dal sud del mondo, e che quindi interpretano più criticamente la realtà, soprattutto in relazione a questi 500 anni (il Brasile è stato scoperto da Cabral nel 1500) che sono stati 500 anni di sterminio culturale in nome della cultura europea o nord americana. Il lavoro che facciamo è aiutare i bambini, ma anche gli adulti, a riscoprire il valore, la bellezza di queste culture, che sono scritti nel colore della pelle, nei tratti somatici, nelle usanze e nel modo di vivere che resiste, anche se faticosamente, a dispetto della propaganda delle telenovelas dove domina un mondo sempre bianco, europeo, uno stile di vita che non è quello di qua.

Prima di continuare ti volevo chiedere se il pavone attacca l’uomo.
Non preoccuparti: forse lo stiamo un po’ innervosendo, seduti qui vicino alla sua gabbia. Vedrai che adesso il pavone si calma perché va a dormire.

Quanti bambini ci sono?
Ci sono duecento bambini che frequentano assiduamente la Vila. Concretamente è organizzata così: c’è una scuola elementare che va dalla prima alla quarta elementare, i maestri sono del luogo. Forse lo sai già, ma le uniche scuole che funzionano in Brasile sono quelle private perché c’è una volontà chiara del governo di non investire nelle scuole pubbliche, che sono quelle frequentate dalla maggior parte della popolazione di un certo ceto sociale. Queste scuole non funzionano, è un po’ diverso dall’Italia dove le scuole private sono un po’ per chi non riesce a studiare; qui invece formano la classe dirigente. Un popolo, invece, che non ha cultura è più facile da governare e da dominare.

Quello che mi colpisce della Vila è il suo essere una scuola a cielo aperto, un labirinto di stradine e sentierini che collegano “l’aula di geometria” (una scalinata composta da figure tridimensionali) al tendone del circo, dalla sala cucina al teatro indigeno, e ad altri posti ancora, sempre immersi nella vegetazione, circondati da “totem” e da una grande varietà di animali. Mi ha colpito quando ci siamo fermati di fronte un’ aula scolastica, con i consueti banchi e io ti ho chiesto: “questa è la scuola?”. E tu: “No, è solo l’aula per imparare a scrivere. Tutto è la scuola”.
Vedi, questa scuola di Vila Esperança è rivolta alla classe povera, ai bambini che vivono nella favela. E’ una scuola che funziona bene e che ha una impronta ben specifica: abbiamo fatto un calendario scolastico che dà importanza alle date che sono fondamentali per la storia del popolo brasiliano. La programmazione culturale ha dei ritmi ben precisi: ad esempio per due mesi studiamo la cultura africana, altri due studiamo la cultura indigena, eccetera. L’anno inizia con un progetto che si chiama Ancestralità ed è dedicato alla riscoperta degli avi: si apre con attività della Vila nelle quali collaborano i nonni, che stanno qui con i loro nipoti, insegnando quello che hanno appreso nella loro vita e che son cose che si stanno perdendo. I nonni insegnano a tessere con il telaio a mano, l’arte della terracotta, insegnano i piatti di cucina che anche qui sono sempre più sostituiti da cose americane, di plastica. C’è poi un interessante progetto della medicina naturale, ricette fatte con le erbe, che hanno un potere curativo enorme.

Ho visto che la stessa medicina ufficiale (l’ho constatato ad esempio nell’ospedale di Ceres, nell’interno dello stato di Goias, che ha un vero e proprio settore di produzione) punta molto sulle medicine naturali a base di erbe e minerali.
E questo è solo un aspetto di una cultura ricchissima. Questi nonni sono discendenti diretti degli indios e dei negri, hanno un bagaglio culturale che discende dalla cultura indigena e africana, anche per quanto riguarda lo stile di vita. Lo sforzo della Vila è di lavorare per dare una coscienza del valore della tradizione: a partire da qui si può fare un anche lavoro sociale per riallacciare i legami familiari che sono abbastanza difficili…hai una nuvola di zanzare addosso, pazienza…del resto siamo in Brasile. No…cambiamo posto… meglio…
(ci spostiamo nel tendone del Circo, uno dei tanti luoghi di questa magica Vila…)
Ti dicevo, come in tutte le situazioni di miseria anche le relazioni familiari si sfibrano: uno dei nostri obiettivi è di riallacciare, di rendere più umani i legami familiari. Tutta la programmazione degli eventi si conclude con una festa che raggruppa tutte le famiglie: si lavora insieme uno-due mesi e alla fine, con danze e canti, i bambini fanno vedere ai genitori quello che hanno imparato. Da un lato si fa conoscere questa cultura alla gente e dall’altro l’obiettivo educativo e affettivo è di ricollegare quello che sta facendo il bambino ai genitori. C’è anche una ludoteca, frequentata dai 120 bambini che vengono al pomeriggio, divisi in gruppi di venti: l’obiettivo è di giocare, rendere accessibile un mondo che purtroppo loro vedono solo in televisione. Qui hanno tutti i giocattoli che vogliono, presentiamo un mondo ludico che è quello nel quale dovrebbero vivere tutti i bambini.

Da quanti anni è attiva la Vila?
Da 9 anni: da quest’anno abbiamo aperto un memoriale indigeno-africano, che illustra alcuni aspetti della loro arte. I pezzi provengono sia da questa parte del Brasile che da altre; alcuni provengono dalle zone africane, da cui sono venuti gli schiavi. Essere indio o negro, nonostante si faccia finta che non esista il razzismo, è sempre un motivo di difficoltà, forse è come essere uno del sud in Italia. E’ una cosa sedimentata dentro alle persone, ed è per questo che anche noi troviamo difficoltà nell’aiutare il recupero di queste radici. A me sembra che dopo un po’ di anni stia nascendo un certo orgoglio di far parte di queste culture, che hanno una loro ricchezza e bellezza valide tanto quanto, se non di più, della nostra europea. I bambini che frequentano la scuola, a me sembra di poter dire, assumono
una postura diversa nei confronti della vita, di orgoglio di essere quello che sono per affrontarla a testa alta. In termini affettivi potremmo dire che ricevono qua una buona dose di ottimismo nei confronti della vita umana. Le feste, ad esempio: sono manifestazioni ricche e allegre, sono momenti importanti che aumentano la loro autostima. Qui a scuola, come dappertutto, imparano a leggere, scrivere e a fare di conto, ma sempre con la nostra impostazione culturale ben specifica. Tant’è che qui non studiano inglese ma hanno le nozioni basiche di una lingua africana, lo yorubà.

Ci sono bambini disabili?
Ci sono due bambini con difficoltà motoria, un altro è muto… Diciamo che le difficoltà spesso dipendono dalla violenza familiare. Qui alla Vila i disabili sono ben inseriti, aiutati in un senso positivo, c’èun’accettazione spontanea da parte dei loro compagni.

Come vi sovvenzionate?
Lo spazio è stato fondato da tre persone, io, Robson (brasiliano di Belo Horizonte) e Lucia, anche lei come me italiana. Quando ci siamo incontrati avevamo l’aspirazione di creare un piccolo mondo nel quale ci fossero relazioni più umane, di rispetto della diversità. Per realizzarlo abbiamo messo insieme quello che avevamo, abbiamo venduto le nostre case (chi aveva la casa) e abbiamo comperato questo terreno. Ci siamo messi a costruire piano piano tutto. Siamo anche un gruppo di teatro, e ci manteniamo facendo ogni due anni una tournée in Italia. La Rete Radiè Resch finanzia una parte del progetto, poi l’associazione Amici di Vila Esperança e infine l’AIFO, che in questi ultimi due anni ha finanziato il progetto Salute per un lavoro di prevenzione. Io, Robson e Lucia siamo gli unici volontari e ci chiamiamo Gruppo Circo.

Domanda da educatore. Avevo letto un documento interessante fatto da voi ma che mi ha lasciato perplesso: voi affermavate che Vila Esperança è la vostra vita. Non siete preoccupati di tenere distinti la vita e il lavoro? Voi come fate ad evitare il famoso “burn out”, ovvero, detto in altri termini, flippar via, cioccare?
Quello che succede è che Vila Esperança è anche la nostra casa. Proteggersi ogni tanto, isolarsi, è importante: ognuno si ritaglia il suo spazio, la sua casa. E’ un momento di ricarica, perché a volte è faticoso: nel periodo di “ferie”, quando i bambini non sono a scuola, in realtà lavoriamo il triplo. Non ci si può assentare, mai: unico strappo alla regola è ogni due anni una tournée in Italia. Stiamo via un mese e mezzo, la Rete Radiè Resch organizza per noi una serie di spettacoli che teniamo in tutta Italia. E’ vero, a volte è difficile ma non possiamo mai fermarci: la villa è quello che noi sognavamo e i sogni hanno una parte romantica e una faticosa. Quando qualcuno ha qualche problema si ritaglia spazi, per stare un po’ da solo.

Accanto alla Vila sorge un monastero che ospita Marcelo Barros, uno dei più importanti teologi della liberazione brasiliani. Avete collaborazioni col monastero?
Di buon vicinato: la teologia della liberazione, è nella stessa linea di lotta nella quale noi siamo. Come ti dicevo il nostro progetto non ha una impronta religiosa se non nel rispetto delle varie religioni. Uno dei progetti è di allestire un giorno la Casa delle religioni, attraverso stimoli visivi, odori magari, perché i bambini abbiano la possibilità di scegliere. Anche la religione cattolica è quella degli invasori si è imposta in un modo poco umano: il candomblè, la religione africana che celebra il culto degli Orixas, è stato perseguitato dalla polizia per vari anni, ha dovuto nascondersi. Il culto di molti santi della chiesa cattolica in realtà nasconde il culto di queste divinità africane. Il candomblè è estremamente presente ma ancora non ha il coraggio di uscire.

Altri progetti nel cassetto?
Completare gli spazi fisici della Vila (manca il collegamento dell’acqua potabile). Un progetto molto attraente è il Carrozzone Ambulante: arrivare, un po’ come saltimbanchi lì dove il teatro e la ludoteca non possono arrivare. Siamo riusciti a comprare un camion della seconda guerra mondiale per raggiungere i posti più sfigati, per farlo diventare della terza pacifica. Ci serve solo da metterlo a posto…

Secondo te è ripetibile una esperienza come questa?
Parli di altre Vila Esperança? Guarda, c’è una ragazza che ha lavorato da noi, che poi si è sposata, e che ha creato una ludoteca più o meno con lo stesso spirito di qui. L’importante è creare ambiti umani: poi ogni ambito ha la sua caratteristica.

Penso che la tua sia una formazione soprattutto artistica. Ho visto che nel tuo lavoro utilizzi molto la danza.
La danzaterapia è nata con Maria Fux, che vede la danza non come una serie di passi stereotipati ma come qualcosa che nasce dall’essere umanao e dal desiderio di superare i limiti che ognuno di noi si porta dentro. E’ una danza che nasce dai sentimenti e dall’emozioni che la persona ha: è importante stabilire con il proprio corpo una relazione intima, riscoprire le potenzialità che il corpo ha in una relazione creativa. Utilizzando tutto il proprio essere, testa, sesso, braccia, gambe…Questo metodo si applica a qualsiasi tipo di persona, anche a persone che hanno difficoltà a livello fisico: nella danza terapia si parte da quello che una persona è, anche se non è come Carla Fracci. Non c’è una normalità ma ognuno con le sue caratteristiche, con i suoi limiti e la sua capacità di rompere questi limiti, recuperando la capacità creativa anche al di là della sedia a rotelle. Da due anni faccio una esperienza di lavoro in un ospizio, dove ci sono persone rifiutate dalle famiglie per i più svariati motivi, persone anche molto anziane. Ero arrivato lì tutto tranquillo, con la mia cassettina di musica da far ascoltare, e la suora mi fa: “Sa, sono tutti i sordi”. In un primo momento non sapevo cosa fare. Poi mi sono accorto che lo stesso avveniva il riconoscimento, tramite la gestualità, della musica. E’ stata ed è una esperienza bellissima e che mi ha insegnato molto. I ricoverati hanno avuto una felicità enorme di capire che cosa era la musica e di vedere che erano capaci di esprimersi. Abbiamo anche realizzato uno spettacolo presso il teatro di Goias: gli “scemi del paese” hanno potuto danzare in uno spazio solitamente destinato a ben altri generi di spettacolo. E’ stato un momento molto forte. Attualmente lavoro una ora alla settimana: la danza terapia non ha un approccio massiccio, non è una danza qualsiasi.

(Ci mettiamo insieme a guardare la registrazione dello spettacolo. I sordi, anziani e ingobbiti, danzano armoniosi al suono della musica che non sentono, mentre una voce recita il verso: “il mio corpo è la mia casa e io amo la mia casa”.)

Italiani bona gente

“Mi chiamo Deolinda, sono infermiera, lavoro nella Segreteria statale della salute dello stato di Goias, attualmente sono responsabile per il settore di Statistica della Vigilanza sanitaria statale. Per cinque anni ho coordinato il programma per la lebbra. Nella mia fase iniziale ho lavorato come infermiera in un ospedale nello stato di Parà.” Intervista a Deolinda Bittencourt SantanaPerché fai questo tipo di lavoro?
Mi piace molto lavorare nella lotta alla lebbra perché conosco l’ambiente paramedico, la realtà dei pazienti. Attualmente, avendo una famiglia da curare, ho scelto di lavorare maggiormente nella vigilanza sanitaria anche perché finanziariamente è migliore. Mi piace molto lavorare nella statistica perché si ha un’idea di a che punto si è con il lavoro, maggiore consapevolezza per direzionare gli sforzi.

Parlando con Giovanni è venuta fuori la questione del fatto che molte persone malate di hanseniasi, cioè lebbrose, lasciano la cura per una questione culturale.
Realmente è un problema culturale: penso che già la situazione si è evoluta abbastanza ma che ancora da parte del personale medico e paramedico ci sia del lavoro da fare per aumentare la collaborazione in questo senso. Sebbene nel servizio di salute molti lottino contro la lebbra, in realtà non c’è un coinvolgimento di tutto l’apparato del sistema sanitario. Solo alcune aree sono coinvolte, e anche la questione del reclutamento di risorse umane è difficile… tieni presente che normalmente nelle unità di salute pubblica ci sono poche persone per un lavoro invece molto grande. Allora anche la questione della lebbra diventa di secondo piano, perché è correlata anche ad altre questioni; le persone non hanno tempo per dedicarsi totalmente a questa lotta. Il trattamento diagnostico o di cura della lebbra, la prevenzione: normalmente non c’è tempo per questo. Oltretutto c’è anche il problema del livello di formazione delle persone che lavorano nell’ambito medico: nelle unità di salute dell’interno del paese non esistono infermiere con qualifica superiore, c’è personale di livello medio di istruzione, che ha frequentato corsi di tre o sei mesi di infermeria, non ha conoscenze scientifiche, e questo è già un motivo per non essere motivati a realizzare alcuna attività. C’è anche la questione del salario, che è molto basso generalmente: aggiungi a questo la grande quantità di compiti, il sovraccaricamento di obblighi, di doveri…

Qual è per te il punto di vista dei malati?
In primo luogo i malati sono isolati, intorno a loro c’è paura perché la società non ha corrette informazioni su di loro, perfino alcuni paramedici disconoscono il problema, c’è pregiudizio anche in loro. Non esiste un lavoro di base per la lotta contro questi pregiudizi.

Può essere questo un lavoro per l’AIFO, nel futuro?
Questa è sempre stata la filosofia dell’AIFO: cercare di aiutare la persona malata nel reinserimento nella società. Nei comuni dove è presente AIFO già si fa questo tipo di reintegrazione. AIFO da sempre è centrata nel diritto dei cittadini contro il pregiudizio verso chiunque: i lebbrosi, i malati di AIDS, i vecchi, i disoccupati, eccetera. Penso che con un grande lavoro, mirato, un giorno anche in Brasile si riuscirà a raggiungere l’integrazione dei malati.

Secondo te c’è una relazione tra deficienza e povertà?
La questione della deficienza non è relazionata con la povertà. La malattia sì, perché i poveri vivono in condizioni igieniche precarie: una stanza può ospitare dieci persone, le persone non hanno molto accesso alle unità di salute pubblica, per la distanza ma anche perché non hanno corrette informazioni e molti sono gli analfabeti. Ho lavorato per circa dieci anni nell’ambito della lebbra e devo dire che la questione dell’incapacità o della disabilità dipendeva molto dal vecchio trattamento della lebbra che non portava grandi risultati. Le persone rimanevano mutilate, non esisteva una cura, non c’era attenzione nella prevenzione: questo era la causa di un grande numero di deficientes (persone con deficit). Bisognerebbe lanciare una campagna di chiarimento ed informazione, lanciare una campagna nella televisione per esempio in un orario di punta per l’ascolto.

Tu pensi quindi che coinvolgere i mass-media è utile?
Certamente, ma per la questione della lebbra purtroppo non si riesce a trovare uno spazio nella televisione, la gente pensa che la lebbra non dia voti politici, mentre per esempio c’è massiccia una campagna per le vaccinazioni: “portate vostro figlio alla vaccinazione”, ma per la lebbra questo non si fa. Si pensa che la lebbra sia una malattia cronica, nella quale il governo non vede un ritorno immediato. E’ sicuramente una questione politica che questa campagna che informi le persone, le orienti, non venga realizzata.

Il popolo brasiliano è ottimista o pessimista?
Quello che penso è che il popolo brasiliano è un popolo che soffre molto e che vive di speranza. Quando la gente incontra un’idea politica nuova, che si pensa possa migliorare la situazione familiare, sociale, che si pensa dia una condizione di vita migliore per la famiglia, una migliore alimentazione, educazione, allora il popolo è ottimista. Ma quando vediamo che normalmente il denaro viene rubato dai politici, allora la tendenza è di non avere molta fiducia, di screditare la classe dirigente. C’è sicuramente la volontà di dare ai nostri figli una condizione migliore di quella che abbiamo vissuto noi, il popolo vive di speranza. Sono 110 anni che il popolo è uscito dal sistema schiavistico ma ancora manca una cultura politica, perché il popolo è stato sempre molto dominato. La gente reclama, ma reclamo io con te e tu con me e poi non c’è un effetto politico. Far capire ai politici che il paese non è loro, il paese è nostro, questo è importante: spero che la mia discendenza abbia un paese migliore, più eguale. Quello che viene stabilito la gente lo accetta: il nostro è un paese democratico, c’è un diritto per organizzare le rivendicazioni, ma culturalmente la gente sta indietro.

Tu sei originaria dell’Amazzonia, del Nordest che è la zona più povera rispetto a San Paolo ad altri stati. Com’è la situazione delle persone con deficienza in questi stati più poveri?
Non so esattamente, sono ormai 25 anni che manco da lì. Parà è una regione molto difficile e molti luoghi si raggiungono solo attraverso corsi d’acqua; tra l’altro la situazione politica è difficile anche lì. Ci sono molti casi di bambini che hanno contratto la lebbra e che già hanno arti mutilati a causa di questo male, io ne ho visti tanti e mi sono molto emozionata quando ho conosciuto questa situazione perché queste cose possono essere curate. Nello stato di Goias invece io non ho visto tanti bambini in questo stato, è migliore la situazione, qui le strade sono buone, la gente fa abbastanza formazione.

Tu sei in parte discendente di un francese, Bittencourt, e dall’altra di indigeni. Questa integrazione che c’è tra i brasiliani, che è molto positiva, può aiutare nell’integrazione di persone deficienti?
Da un punto di vista culturale è possibile, se tieni conto anche del senso di ospitalità molto presente da noi. Penso che però l’integrazione sia una questione personale, dipende anche dal carattere.

Una volta uno di Rio de Janeiro, un carioca, mi ha detto che quelli del nord non hanno voglia di lavorare. Che ne pensi?
(ride) Al nord la natura è molto magnanima, tutti i fiumi hanno pesci, un chilo di pesce costa un real e cinquanta, non come qui 12 reais. La gente è stanca per il caldo umido tutto il tempo, tutti i giorni e tutte le stagioni…

Sì, ho sentito che in Brasile ci sono due stagioni: il caldo freddo e il caldo caldo.
Esatto. Il Brasile è un paese naturalmente ricco ma purtroppo povero politicamente, un paese che dovrebbe esser più giusto, non dico uguale, ma giusto.

Diventerai responsabile dei progetti AIFO al posto di Giovanni..
Per me sarà una questione nuova, non ho paura, per me è una sfida, come tutta la mia vita. Conosco molto bene la situazione politica e lavorativa e sarà anche un po’ un lavoro diplomatico.

Che cosa può fare il popolo italiano per aiutare il popolo brasiliano?
Guarda, la mia esperienza di lavoro con italiani è stata sempre molto positiva. Senza AIFO il lavoro sarebbe stato difficile: se non fossi aiutata finanziariamente da AIFO io non avrei potuto realizzare i progetti nei quali abbiamo lavorato. Vorrei ringraziare il popolo italiano per il suo contributo: penso sia un popolo sensibile, che ha capacità di dividere un poco con gli altri quello che ha. Gli italiani che ho conosciuto hanno dimostrato una grande sensibilità, riescono a capire le problematiche del nostro paese. Come si dice qui: “italiani tutta bona gente”.